venerdì 28 gennaio 2011

Adoro Te devote 3

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Con questa predica concludo 25 anni come predicatore della Casa Pontificia e desidero ringraziare Lei, Beatissimo Padre, e tutti loro Venerabili Padri, fratelli e sorelle per la pazienza quasi eroica di ascoltare una persona per tanto tempo.

Una laude di Jacopone da Todi, composta intorno all’anno 1300, contiene una chiara allusione alla seconda strofa dell’Adoro te devote che abbiamo commentato la volta scorsa: “Visus, tactus gustus…”. In essa Jacopone immagina una specie di contesa tra i diversi sensi umani a proposito dell’Eucaristia: tre di essi (la vista, il tatto e il gusto) dicono che è solo pane, “solo l’udito” si oppone, proclamando che “sotto queste visibili forme c’è nascosto Cristo” [1] .

Se ciò non basta ad affermare che l’inno è di san Tommaso d’Aquino, mostra però che esso è più antico di quanto si pensava finora e, almeno per la data, non è incompatibile con una attribuzione al Dottore angelico. Se Jacopone può alludere ad esso come a testo noto doveva essere stato composto almeno una ventina d’anni prima e godere già una certa popolarità.

2. Contemporanei del buon ladrone

Veniamo ora alla terza strofa dell’inno che ci accompagnerà in questa meditazione:

In cruce latébat sola déitas;
at hic latet simul et humánitas.
Ambo tamen credens atque cónfitens
peto quod petívit latro poénitens.


Celata sulla croce fu la divinità
qui però si cela pur l’umanità.
Entrambe io credendo professo fermamente
e chiedo ciò che chiese il ladro penitente.

Si avvicina ormai il Natale. Una certa tendenza romantica ha finito per fare del Natale una festa tutta umana della maternità e dell’infanzia, dei doni e dei buoni sentimenti. Nella galleria Tetriakov di Mosca il quadro della Vergine della Tenerezza di Vladimir che stringe a sé Gesú Bambino, durante il regime comunista portava la didascalia: “Maternità”. Ma gli esperti sanno cosa significa in quell’immagine lo sguardo preoccupato e venato di tristezza della Madre che sembra quasi voler proteggere il bambino da un pericolo incombente. Nelle intenzioni dell’iconografo esso annuncia la passione del Figlio che Simeone le ha fatto intravedere nella presentazione al tempio.

L’arte cristiana ha espresso in mille modi questo legame tra la nascita e la morte di Cristo. In alcuni quadri di pittori celebri Gesú bambino dorme sulle ginocchia della Madre o disteso su un drappo, nella posizione esatta in cui viene di solito rappresentato nelle deposizioni dalla croce; l’agnello legato che spesso si vede nelle rappresentazioni della Natività allude all’agnello immolato. In un dipinto del ‘400, uno dei Magi offre in dono al Bambino un calice con dentro delle monete, segno del prezzo del riscatto che egli è venuto a pagare per i peccati. (Il Bambino è in atto di prendere una delle monete e porgerla a colui che gliele offre, segno che morirà anche per lui!) [2] .

Gli artisti hanno espresso in tal modo una profonda verità teologica. “Il Verbo si è fatto carne, scrive sant’Agostino, per poter morire per noi” [3] . Nasce per poter morire. Nei Vangeli stessi i racconti dell’infanzia sono stati scritti in un secondo tempo, come premessa ai racconti della passione.

Non ci distacchiamo dunque dal significato del Natale se, sulla scia di questa strofa dell’inno, meditiamo sul rapporto tra l’Eucaristia e la croce. L’anno dell’Eucaristia ci aiuta a cogliere l’aspetto più profondo del Natale. “L'Eucaristia, scrive il papa nella Ecclesia de Eucharistia, mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l'Incarnazione. Maria concepì nell'Annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue, anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore” [4] .

Nella terza strofa dell’Adoro te devote l’autore si porta spiritualmente sul Calvario. In una strofa successiva, quella che inizia con le parole “O memoriale mortis Domini”, egli contemplerà il rapporto intrinseco e oggettivo tra l’Eucaristia e la croce, il rapporto, cioè, che esiste tra evento e sacramento. Qui è espresso piuttosto il rapporto soggettivo tra quello che avvenne in coloro che assistettero alla morte del Signore e quello che deve avvenire in chi assiste all’Eucaristia; il rapporto tra chi visse l’evento e chi celebra il sacramento.

È un invito a farsi “contemporanei” dell’evento commemorato. Farsi contemporanei, nel senso forte ed esistenziale del termine, significa non considerare la morte di Cristo alla luce del poi, vuole dire prescindere, almeno per un momento, dall’alone di gloria che la risurrezione le ha conferito e immedesimarsi con coloro che vissero in tutta la sua crudezza lo “scandalo” della croce

Tra tutti i personaggi presenti sul Calvario l’autore ne sceglie uno in particolare con cui identificarsi, il buon ladrone. Un profondo e schietto sentimento di umiltà e contrizione pervade tutta la strofa che chi canta è invitato a fare suo. Nello stile allusivo dell’inno l’intero episodio del buon ladrone e tutte le parole da lui pronunciate sulla croce sono evocate dall’autore, non solo la preghiera finale: “Gesú, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”.

Egli anzitutto rimprovera il compagno che insulta Gesú: “Neanche tu hai timore di Dio che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male” (Lc 23, 40 s.). Il buon ladrone fa una completa confessione di peccato. Il suo pentimento è della più pura qualità biblica. La vera contrizione consiste nell’accusare se stessi e scagionare Dio, attribuire a sé la responsabilità del male e proclamare che “Dio è innocente”. La formula costante del pentimento nella Bibbia è: “Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto, rette le tue vie e giusti i tuoi giudizi, noi abbiamo peccato” (cfr. Dn 3, 28 ss; cf Dt 32, 4 ss).

“Egli non ha fatto alcun male”: il buon ladrone (o, in ogni caso, lo Spirito Santo che ha ispirato queste parole) si mostra qui un eccellente teologo. Solo Dio infatti, se soffre, soffre assolutamente da innocente; ogni altro essere che soffre deve dire: “Io soffro giustamente”, perché, anche se non è responsabile dell’azione che gli viene imputata, non è mai del tutto senza colpa. Solo il dolore dei bambini innocenti somiglia a quello di Dio e per questo esso è così misterioso e così sacro.

Quello del buon ladrone fu l’atto penitenziale della prima Messa della storia, quella celebrata non in sacramento, ma in realtà, sulla croce. La liturgia invita a imitarlo, facendo anche noi la nostra confessione di peccato all’inizio di ogni celebrazione eucaristica. Una delle invocazioni previste nel Messale per l’atto penitenziale dice: “Signore che al buon ladrone pentito hai promesso il paradiso, abbi pietà di noi”. Questo spirito di contrizione in alcune liturgie accompagna tutta la celebrazione. Chi ha assistito a una liturgia russa ricorderà l’esclamazione “Gòspodi pomilui, Gòspodi pomilui”, “Signore, pietà, Signore, pietà” che ritorna incessantemente durante lo svolgimento del rito. La stessa cosa avveniva, in passato, nella liturgia Ambrosiana con la ripetizione del Kyrie eleison in vari momenti della Messa.

Tuttavia anche in questo occorre mantenere il giusto equilibrio. La liturgia romana è, in ciò, un modello. Il sentimento del proprio peccato e della propria indegnità non ricopre tutta la celebrazione; viene premesso all’inizio e richiamato al momento della comunione con le parole Domine non sum dignus, “Signore, io non sono degno…”. Sappiamo l’inconveniente che ha creato in passato un senso troppo esclusivo della propria indegnità inculcato ai fedeli. Esso ha finito per tenerli dalla comunione. Non dobbiamo dimenticare mai ciò che Gesú rispondeva a chi gli rimproverava il fatto di sedere a tavola con i peccatori: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Mt 9, 12).

Fa riflettere il richiamo del poeta Péguy a questo riguardo. Quando, dopo aver camminato a lungo nel fango delle strade, arriviamo sulla porta della chiesa è giusto pulirci accuratamente i piedi, scuotere per bene il fango dalle scarpe. Ma una volta entrati, non è il caso di passare tutto il tempo a guardarsi i piedi se sono puliti o no. Cuore, occhi, voce tutto deve ormai essere proteso verso “quell’altare in cui il corpo di Gesú e il ricordo e l’attesa di Gesú brilla eternamente”. Trasportare nel tempio la memoria stessa e il pensiero del fango sarebbe portare ancora fango nel tempio [5] .

3. Corpo, sangue, anima e divinità

C’è una profonda analogia tra il buon ladrone e colui che si accosta con fede all’Eucaristia. Il buon ladrone sulla croce vide un uomo, per giunta condannato a morte, e credette che era Dio, riconoscendogli il potere di ricordarsi di lui nel suo Regno. Il cristiano è chiamato a fare un atto di fede, da un certo punto di vista, ancora più difficile. “In cruce latébat sola déitas; at hic latet simul et humánitas“ : Sulla croce si celava la divinità, qui però si cela pur l’umanità.

L’orante però non esita un istante; si eleva all’altezza della fede del buon ladrone e proclama di credere sia la divinità che l’umanità di Cristo: “Ambo tamen credens atque cónfitens”. Due verbi: credo, confiteor, credo e professo. Non si tratta di una ripetizione. San Paolo ha illustrato la differenza tra le due cose: “Con il cuore, scrive, si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rom 10,10).

Non basta credere nel segreto del cuore, bisogna anche professare pubblicamente la propria fede. Al tempo in cui fu scritto il nostro inno la Chiesa aveva da poco istituito la festa del Corpus Domini proprio con questo scopo. In fondo esisteva già il ricordo dell’istituzione dell’Eucaristia nel Giovedì Santo; se viene istituita questa nuova festa non è tanto per commemorare l’evento quanto per proclamare pubblicamente la propria fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. E difatti, con la solennità straordinaria che essa ha assunto e le manifestazioni che l’hanno caratterizzata nella pietà cristiana (processione, infiorate…), la festa ha assolto proprio questo compito [6] .

La verità teologica centrale in questa strofa (ogni strofa, abbiamo notato, ne ha una) è dunque che nell’Eucaristia è realmente presente Cristo con la sua divinità e umanità, “in corpo, sangue, anima e divinità”, secondo la formula tradizionale. Vale la pena soffermarsi un poco su questa formula e i suoi presupposti, perché, a questo riguardo, la teologia biblica ha portato qualche novità di cui non si può non tener conto.

La teologia scolastica affermava che, per le parole “Questo è il mio corpo”, sull’altare si fa presente in forza del sacramento (vi sacramenti) soltanto il corpo di Cristo -cioè la sua carne, composta di ossa, nervi, eccetera -, mentre il suo sangue e la sua anima si fanno presenti solo in forza del principio della “naturale concomitanza”, per cui dove c’è un corpo vivo lì c’è anche necessariamente il suo sangue e la sua anima. Parallelamente, per le parole: “Questo è il mio sangue”, in forza del sacramento si fa presente solo il sangue, mentre il corpo e l’anima ci sono per naturale concomitanza [7] .

Tutta questa problematica è dovuta al fatto che si prende “corpo” nel significato che ha nell’antropologia greca, e cioè come quella parte dell’uomo che, unita all’anima e all’intelligenza, forma l’uomo completo (tricotomismo). Il progresso delle scienze bibliche ci ha, però, resi avvertiti che nel linguaggio biblico, che è quello di Gesú e di Paolo, “corpo” non indica, come per noi oggi, una terza parte dell’uomo, ma l’uomo intero in quanto vive in una dimensione corporea.

Al posto del termine corpo, Giovanni usa la parola carne per designare il dono che Cristo fa di se stesso nell’Eucaristia e sappiamo cosa significa per Giovanni carne riferita a Cristo. “Il Verbo si è fatto carne”, non significa si è fatto “carne, ossa, nervi”, ma si è fatto uomo. La conclusione liberante è che l’anima di Cristo non è presente nell’Eucaristia solo per la naturale concomitanza con il corpo, quasi indirettamente, ma anch’essa direttamente, in forza del sacramento, essendo inclusa in quello che Gesú intendeva parlando del suo corpo.

Se si intende “corpo” alla maniera filosofica greca, diventa difficile, tra l’altro, confutare l’obbiezione: che bisogno c’era di consacrare a parte il sangue, dal momento che esso non è che una parte del corpo, al pari delle ossa, dei nervi e degli altri organi? La risposta che si dava un tempo a questa obbiezione era la seguente: “Perché nella passione di Cristo, di cui il sacramento è memoriale, nessun’altra componente fu separata dal suo corpo se non il sangue” [8] .

La spiegazione, assai più semplice, è che il sangue, nella Bibbia, è la sede della vita e l’effusione del sangue è perciò il segno eloquente della morte. La consacrazione del sangue si spiega tenendo conto che i sacramenti sono segni sacri e Gesú ha scelto tale segno per lasciarci un vivo “memoriale della sua passione”. Corpo, sangue e anima, tutto dunque, per nostra consolazione, è presente nell’Eucaristia in forza delle stesse parole di Cristo, non per qualche loro effetto collaterale.
4. Con il cuore si crede

Nel nostro inno tutta questa problematica è tenuta fortunatamente fuori e tutto si riduce sobriamente alla presenza di umanità e divinità di Cristo nell’Eucaristia. La presenza della divinità, sia nel corpo che nel sangue di Cristo, è assicurata dall’unione indissolubile (ipostatica, in linguaggio teologico) realizzatasi tra il Verbo e l’umanità nell’incarnazione. Ne risulta che l’Eucaristia non si spiega se non alla luce dell’incarnazione; ne è, per così dire, il prolungamento in chiave sacramentale [9] .

Questo ci spinge a passare dall’affermazione teologica all’applicazione orante, un movimento presente in ogni strofa dell’Adoro te devote. Il risvolto esistenziale in questo caso è l’invito a un rinnovato atto di fede nella piena umanità e divinità di Cristo. Anche la prima strofa conteneva una professione di fede: “Credo quidquid dixit Dei Filius, credo tutto ciò che ha detto il Figlio di Dio. Ma lì si trattava solo di fede nella presenza reale di Cristo nel sacramento; qui il problema è un altro; si tratta di sapere chi è colui che si fa presente sull’altare; l’oggetto della fede è qui la persona di Cristo, non l’azione sacramentale.

Credens atque confitens: credo e professo. Abbiamo detto che non basta credere, occorre anche professare. Dobbiamo subito aggiungere: non basta professare, bisogna anche credere! Il difetto più frequente nei laici è di credere senza professare, nascondendo la propria fede per rispetto umano (i famosi credenti non praticanti); il difetto più frequente in noi uomini di Chiesa può essere quello di professare senza credere. È possibile infatti che la fede divenga a poco a poco un “credo” che si ripete con le labbra, come una dichiarazione di appartenenza e una specie di bandiera, senza mai chiedersi se si crede davvero a quello che si dice. Corde creditur, ci ha ricordato Paolo, una frase che sant’Agostino traduce: “È dalle radici del cuore che sale la fede” [10] .

Bisogna tuttavia distinguere la mancanza di fede dal buio della fede e dalle tentazioni contro di essa. In questa terza settimana di Avvento ci accompagna ancora la figura di Giovanni Battista, ma in una veste nuova e inedita. È il Battista che nel vangelo di Domenica scorsa manda dei discepoli a chiedere a Gesú: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11, 3).

Non ci dovrebbe sfuggire il dramma che si cela dietro questo episodio della vita del Precursore. Egli è in carcere, tagliato fuori da tutto; sa che la sua vita è appesa a un filo; ma il buio esterno è nulla in confronto al buio che si è fatto nel suo cuore. Non sa più se tutto quello per cui ha vissuto è vero o falso. Ha additato il Rabbi di Nazareth come il Messia, come l’Agnello di Dio, ha spinto il popolo e perfino i suoi discepoli a seguirlo, e ora il dubbio lancinante che tutto questo possa essere stato un errore, che non sia lui l’atteso. Come è diverso questo Giovanni Battista da quello delle domeniche precedenti in cui tuonava sulle rive del Giordano!

Ma come mai Gesú che si mostra così severo di fronte alla mancanza di fede della gente e rimprovera i suoi discepoli di essere “uomini di poca fede”, si mostra, in questa circostanza, così comprensivo nei confronti del suo Precursore? Egli non rifiuta di fornire i “segni” richiesti, come fa in altri casi: “Andate riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete…”; usciti gli inviati, fa del Battista il più grande elogio mai uscito dalla sua bocca: “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista”. Aggiunge solo: “Beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11, 6). Sapeva quanto fosse facile “scandalizzarsi” di lui, della sua apparente impotenza, dell’apparente smentita dei fatti.

Quella del Battista è una prova che si rinnova a ogni epoca. Vi sono state anime grandi che hanno vissuto solo di fede e che, in una fase della vita, spesso proprio quella finale, sono piombati nel buio più fitto, tormentati dal dubbio di aver fallito tutto e vissuto di inganno. Da un vescovo suo amico ho appreso che un momento del genere attraversò, prima di morire, anche Don Tonino Bello, l’indimenticato vescovo di Molfetta.

In questi casi la fede c’è, e più robusta che mai, ma nascosta in un angolo remoto dell’anima, dove solo Dio arriva a leggere. Se Dio ha tanto glorificato Giovanni Battista vuol dire che nel buio egli non ha smesso mai di credere nell’Agnello di Dio che un giorno aveva additato al mondo. Il testamento dell’apostolo Paolo è stato alla fine anche il suo: “Ho consumato la corsa, ho conservato la fede” (2 Tm 4,7).

La fede è l’anello nuziale che unisce in alleanza Dio e l’uomo (non per nulla l’anello nuziale, almeno in italiano, si chiama proprio così, la fede). Essa, dice la Prima Lettera di Pietro, al pari dell’oro, deve purificarsi nel crogiolo (cf. 1 Pt 1, 7) e il crogiolo della fede è la sofferenza, soprattutto la sofferenza causata dal dubbio e da quella che san Giovanni della Croce chiama la notte oscura dello spirito. Stando alla dottrina cattolica del Purgatorio, tutto si può continuare a purificare dopo morte - la speranza, la carità, l’umiltà…- , ma non la fede. Essa può purificarsi solo in questa vita, prima che dalla fede si passi alla visione, per questo la prova così spesso si concentra quaggiù proprio su di essa.

Non si tratta solo di alcune anime eccezionali. La stessa difficoltà che spinse il Battista a inviare messi a Gesù è quella che impedisce ancora al popolo ebraico di riconoscere in Gesú di Nazaret il Messia atteso. E non solo loro. La Seconda Lettera di Pietro ci riferisce la domanda che serpeggiava a suo tempo tra i cristiani: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2 Pt 3, 4). Anche oggi è la ragione che trattiene più gente dal credere nell’avvenuta redenzione: “Tutto continua come prima!”.

Pietro suggerisce una spiegazione: Dio “usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3, 9). Ma più che da ragioni speculative bisogna attingere dal proprio cuore la forza che fa trionfare la fede sul dubbio e sullo scetticismo. È nel cuore che lo Spirito Santo fa sentire al credente che Gesù è vivo e reale, in un modo che non si può tradurre in ragionamenti, ma che nessun ragionamento è in grado di sopraffare.

Basta, a volte, una semplice parola della Scrittura ha rinfocolare questa fede e rinnovare la certezza. Per me, questa settimana, ha assolto tale compito l’oracolo di Balaam proclamato nella prima lettura di lunedì scorso: “Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino. Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Nm 24,17). Un lampo di luce, come per un corto circuito tra profezia e realizzazione. Noi conosciamo quella stella, sappiamo a chi appartiene quello scettro. Non per astratta deduzione, ma perché da duemila anni la realizzazione della profezia è sotto i nostri occhi.

Gli esegeti dicono che l’oracolo si riferisce a David, ma sappiamo che in un testo ci può essere più di quello che il suo autore ha visto e inteso al momento di scriverlo e spesso lui stesso è costretto a riconoscerlo quando glielo si fa notare. Ma se questo è vero per le opere degli uomini, quanto più è possibile in un’opera che non è solo degli uomini? Io continuo a credere che non ci inganniamo nel riferire a Gesù questo e altri oracoli dell’Antico Testamento che la liturgia ci fa ascoltare in Avvento. Lo credo perché vedo che cosa produce in me l’ascolto di una loro parola, quando misteriosamente essa si illumina e diventa attiva. Si rinnova ogni volta qualcosa di quello che avvenne nel profeta nel pronunciare quelle parole: “…cade ed è tolto il velo dai suoi occhi” (Nm 24, 16).

Ci apprestiamo a celebrare, come ogni anno, l’apparizione di quella stella. L’Eucaristia è il vero presepio in cui è possibile adorare il Verbo incarnato non in immagine, ma in realtà. Il segno più chiaro della continuità tra il mistero dell’incarnazione e il mistero eucaristico è che con le stesse parole con cui, nell’Adoro te devote, salutiamo il Dio nascosto sotto le apparenze del pane e del vino, possiamo, a Natale, salutare il Dio nascosto sotto le apparenze di un bambino. Poniamoci dunque in spirito davanti a Gesú nel presepio, o guardiamo il Bambino in braccio a Maria nel mosaico che abbiamo davanti in questa cappella, e cantiamo insieme la prima strofa del nostro inno, come se fosse stata scritta per lui:

Adóro te devóte, latens Déitas,
quae sub his figuris vere látitas:
tibi se cor meum totum súbicit,
quia te contémplans totum déficit.



[1] Jacopone da Todi, Laude XLVI: “Li quattro sensi dicono: / Questo si è vero pane. /Solo audito resistelo, / Ciascun de lor fuor remane. / So’ queste visibil forme / Cristo occultato ce stane”. Cf. F.J.E. Raby, The Date and Authorship of the Poem Adoro te devote, in “Speculum”, 20, 1945, pp. 236-238. Il testo confermerebbe la lezione “quae sub his formis”, al posto di “quae sub his figuris”, nella prima strofa.

[2] I dipinti con questo tema hanno costituito una sezione della mostra intitolata “ La salvezza in immagini” (“Seeing Salvation”) tenuta a Londra nell’anno 2000 e riprodotta in parte nel catalogo della mostra: cfr. The Images of Christ, Londra 2000, pp. 62-73.

[3] S. Agostino, Sermo 23°, 3 (CCL 41, 322); lo stesso afferma Gregorio di Nissa, Or. cat., 32 (PG 45, 80).

[4] Ecclesia de Eucharistia, 55

[5] Ch. Péguy, Le mystère des Saints Innocents, Oeuvres poétiques complètes, Gallimard, Paris 1975, pp. 689 s.

[6] Cfr. M. Righetti, Storia liturgica, II, Milano 1969, pp.329-339

[7] Cfr. S.Th. III, q. 76, a. 1. Il principio della naturale concomitanza è ripreso dal concilio di Trento (Denzinger - Sch`nmetzer, 1640) che però in questo punto non fa che citare san Tommaso, senza dare a questa spiegazione valore dommatico.

[8] S. Th. III, q.76. a.2,ad 2.

[9] È il punto su cui basa tutta la sua trattazione dell’Eucaristia M.J. Scheeben, I misteri del cristianesimo, cap. 6, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 458- 526.

[10] S. Agostino, In Ioh., 26, 2 (PL 35, 1077).