martedì 22 febbraio 2011

Luigi Giussani, ovvero la fede che domanda

Oggi 22 febbraio 2011 ricorre il sesto anniversario della morte di don Luigi Giussani. Ricordandolo con gratitudine e speranza, pubblico alcune sue frasi sulla preghiera. Si potrebbero tutte riassumere nell’espressione di sant’Agostino: «Quello che la legge comanda la fede lo domanda»















Al grido disperato del pastore Brand nell’omonimo dramma di Ibsen («Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?») risponde l’umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: «Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me».
Tutto ciò significa che la libertà dell’uomo, sempre implicata dal Mistero, ha come suprema, inattaccabile forma espressiva, la preghiera. Per questo la libertà si pone, secondo tutta la sua vera natura, come domanda di adesione all’Essere, perciò a Cristo.

Parole pronunciate davanti a Giovanni Paolo II, Roma, piazza San Pietro, 30 maggio 1998


È Cristo [la] presenza che salva. Allora a noi tocca domandarlo: la «domanda della presenza di Cristo dentro ogni situazione e occasione della vita»: si può riassumere in questa parola del Papa tutta l’ascesi.

L’opera del movimento. La fraternità di Comunione e liberazione,
San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2002, p. 177


E l’ascesi è proprio questo: che diventi in noi familiare, nonostante tutto, la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione della vita: a Cristo, presenza che salva. A noi tocca camminare senza smettere di domandare.

Alla ricerca del volto umano. Contributo ad una antropologia, Rizzoli, Milano 1995, p. 92


«La domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita» – è una frase del Papa –, questo è l’ascesi.
Che diventi familiare in noi la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita, questo è l’ascesi.

L’opera del movimento. La fraternità di Comunione e liberazione,
San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2002, p. 176


«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». È stato uno dei primi titoli dei nostri raggi il primo anno al Berchet: «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Invece c’è un’altra formula, che è quasi uguale – quasi uguale a parole –: «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il domandare».

Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 1996, p. 377


Allora la forza della domanda è l’altro che è presente, non tu. È questa la differenza tra tutta la grandezza d’animo dell’uomo – sia epicureo che stoico, secondo le varie versioni – e il cristiano. Per l’uomo normale quello che è importante è ciò che è capace di fare, capace di superare lui (stoico o epicureo). E per il cristiano… è come un bambino: è tutto teso alla presenza della madre, del padre, dell’altro. È la forza di Dio.

Una presenza che cambia, Bur, Milano 2004, p. 122


È questo il lavoro?
Certo; dove si capisce che il lavoro ultimamente è preghiera, cioè è una domanda: la domanda a Dio che ti rimetta in sesto, che ti rimetta in equilibrio, che ti renda di nuovo gli occhi lucidi, che ti dia forza al cuore. Allora tu capisci che leggere i salmi di Lodi, dell’Ora Media, di Vesperi e di Compieta, leggere i salmi con attenzione ti rinnova tutto, serve a rinnovarti tutto.

Una presenza che cambia, Bur, Milano 2004, p. 115


Lui [Gesù] è il destino, perché è Dio, che passa attraverso la proposta e l’indicazione che dà alla tua libertà, è il destino che si sottopone alla tua libertà, che ti ama talmente da condizionarsi alla tua libertà. E non alla tua libertà come avvenimento eroico, perché di fronte alla scelta del destino il tema è tale che ingiungerebbe all’immaginazione un gesto eroico: la libertà, la scelta della libertà (e tutti, infatti, pompano questa cosa qui!). Invece no: Gesù è il destino che indica e si propone alla tua libertà nel suo aspetto più infantile, più ingenuo e buono, più elementare, che è il pianto o la domanda.

L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, p. 290


Dobbiamo chiedere la forza del Padre, la forza di Dio. La forza di Dio è un uomo, la misericordia di Dio ha nella storia un nome: Gesù Cristo, dice il Papa nell’enciclica che ho citato. Noi dobbiamo chiedere Gesù! «Vieni, Signore Gesù. Vieni, Signore» è il grido che sintetizza tutta la storia umana, la storia del rapporto tra l’uomo e Dio nella Bibbia. Andate a prendere la Bibbia, all’ultima pagina, le ultime parole sono queste: «Vieni, Signore». Dobbiamo pregare. È una mendicanza, non è una forza, ma l’estrema debolezza, l’espressione estrema della consapevolezza della debolezza che è in noi. La coscienza della nostra debolezza diventa mendicanza. La mendicanza è l’ultima possibilità di forza adeguata al nostro destino, rende l’uomo adeguato al destino. Si chiama normalmente preghiera.

Avvenimento di libertà. Conversazioni con giovani universitari, Marietti, Genova 2002, p. 56


Quindi anche la domanda è un miracolo?
Certo, nessuno può dire «Signore Gesù» se non nello Spirito. È come se uno pretendesse di essere – almeno in tre capelli – da solo. Neanche in un capello! Non puoi aggiungere neanche un capello al tuo capo (sì, puoi usare Pantène, ma non serve a niente!).
Il problema vero è che la domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà. Il pregare è un miracolo e bisogna accettare il miracolo.

L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, p. 216

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Di seguito una riflessione di don Giussani a proposito della richiesta di perdono per i peccati dei cristiani compiuta da Giovanni Paolo II il 12 maggio 2000.


Vedere il Papa, percosso come Cristo profeta e umiliato per tutta la Chiesa, domandare perdono per le colpe commesse dai cristiani, mi commuove profondamente, come ha colpito tanti in questi tempi. Questa richiesta di perdono mi pare la cosa più sfavillante e più documentativa della novità del cristianesimo, segnando con ciò la diversità irrimediabile tra il cristiano e il non cristiano.
Per noi è difficile comprendere l'importanza del gesto papale, che potrebbe facilmente essere ridotto dentro gli schemi del revisionismo storico. Non è uno scopo politico o propagandistico a muovere papa Wojtyla; credo, invece, che Giovanni Paolo II, provocato da una circostanza favorevole - la festa per i duemila anni dell'Incarnazione -, abbia voluto dimostrare la verità di Cristo e della Chiesa. Questa verità è portata da uomini in carne e ossa, perché questo è il metodo che Dio ha scelto per farsi conoscere nella storia. Infatti il Mistero altrimenti ignoto si comunica utilizzando il fattore umano: Dio è venuto al mondo come un bambino nel grembo di una giovane ebrea, nascendo nella carne esattamente come ciascuno di noi.
Per cui nessuna sproporzione, inadeguatezza, errore degli uomini può essere obiezione al cristianesimo. Il limite esistenziale - che la Bibbia chiama "peccato" - di cui l'uomo fa esperienza non è obiezione al tramandarsi e al tradursi del cristianesimo nella storia, perché nessuna miseria potrà eliminare la paradossalità dello strumento, cioè il fattore umano, scelto da Dio per farsi conoscere.
La Chiesa è una realtà umana in cui si possono trovare persone indegne, gente rozza e di poco conto, talvolta violenta, uomini fragili o presuntuosi, genitori sprovveduti e figli ribelli. Ma la Chiesa non sta da un'altra parte, cioè da quella dei farisei e dei senza peccato. Così il cristiano sa di essere peccatore e proprio la coscienza di esserlo è il primo e più onesto passo che si possa fare nei confronti di se stessi e degli altri, se non si vuole diventare presuntuosamente intolleranti e violenti. Per questo la richiesta di perdono degli uomini a Dio è l'atto più puro dell'uomo che crede in Lui e che grida a Dio, come tutti i Salmi di Israele ci rendono ogni giorno evidente.
È, dunque, per affermare una positività, la positività di Cristo presente nella storia e vincitore, che l'uomo chiede perdono. Ed è perché questa positività sia per tutto il mondo che il Papa si mette in ginocchio, addossandosi le colpe di tutti e di ciascuno. Appunto, non giudicandole in nome di una morale astratta o di leggi imposte dagli uomini, ma rinnovando la dinamica della conversione e del perdono, che non è un cedimento, bensì forza che ricrea l'umano di fronte alla grande Presenza. Qui sta la differenza.
A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato. Tutte le ideologie hanno un aspetto per cui l'uomo è sicuro almeno in una cosa che lui stesso fa ed è quella a cui non vorrà mai rinunciare né mai mettere in discussione. Ma il cristiano sa che i suoi tentativi e tutto ciò che possiede o fa sempre debbono cedere alla verità. Perciò egli è l'unico vero lottatore per la purificazione del mondo e per la giustizia. Perché la giustizia è il rapporto con Dio, è il disegno di Dio; perciò chi ha incontrato Cristo non aspetta un istante per aiutare il mondo a essere migliore o, almeno, più sopportabile. Ma egli è anche profondamente persuaso che il mondo sempre lo perseguiterà, accusandolo di ogni male.
Il Papa in ginocchio non mi suggerisce un'immagine di debolezza. Mi ricorda piuttosto lo Spartaco antico, che si erge in tutta la statura della sua umanità in un gesto supremo di libertà, come esempio offerto per la sempre desiderata felicità di tutti e di ciascuno. Questo Papa rinnova in me e nei miei amici il coraggio necessario per sostenere la speranza degli uomini.