giovedì 24 febbraio 2011

Tra l'ira e la Grazia

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Francisco Goya - "Cronos"


Gli antichi Greci, maestri ineguagliati del pensiero e della parola, distinguevano fra “chrónos”, il tempo fisico che scorre inesorabilmente (e che assai significativa- mente, nella personificazione mitica, divora i suoi figli), e “kairós”, il tempo propizio, il tempo che ci viene accordato perché possiamo crescere in umanità, e fare della nostra esistenza un capolavoro. In un’epoca in cui il tempo è “tiranno”, in cui tutti siamo quotidianamente incalzati da un tempo che non basta mai, è importantissimo riscoprire che il tempo-kairós va non solo protetto dalle tante dispersioni con cui a volte lo sperperiamo, ma anche coltivato con amore e gratitudine nella ritrovata consapevolezza che ogni ora, ogni istante, ha un valore unico e insostituibile. Il "kairòs" è esattamente il momento presente, il tempo che sto vivendo oggi come opportunità che Dio mi regala per operare la scelta decisiva, nella potenza della morte e della resurrezione di Gesù. Questa scelta decisiva tra l'ira e la grazia - che è scelta di oggi, perchè il domani non mi appartiene - è quello che la Chiesa chiama "conversione". Introduco questo argomento cruciale nella vita del cristiano (argomento sul quale evidentemente ritornerò più volte nel corso della imminente Quaresima) con una riflessione di Andrè Louf, (1) che traggo dal suo "Sotto la guida dello Spirito" - Edizioni Qiqajon - Monastero di Bose, 1990.


"In che senso abbiamo ancora oggi bisogno di conversione? Non l’abbiamo ricevuta una volta per tutte nel battesimo? Dovrebbe essere una questione già chiusa e adesso dovremmo essere in cammino – naturalmente con alti e bassi, con cadute e riprese – verso a perfezione e la santità. Questa è effettivamente l’immagine che ci facciamo del cammino sul quale procedono tutti i cristiani. In pratica questo cammino sarebbe diviso in tre tappe: all’inizio l’incredulità e il peccato, poi il passo decisivo della conversione e infine la ricerca della perfezione. E ciascuno di noi si colloca spontaneamente – e non senza un certo candore – in un punto imprecisato della terza tappa, a un livello più o meno avanzato.
La realtà non è né così semplice né così complicata: la grazia infatti è la semplicità stessa. La difficoltà sta nel fatto che la vita nello Spirito santo non è facile da discernere. Linee di forza diverse si incrociano incessantemente e perciò la confusione, così come l’illusione, è sempre possibile: non è sempre facile distinguere queste linee le une dalle altre. In realtà il peccato, la conversione e la grazia non sono semplicemente tre tappe in successione; nella vita quotidiana a volte sono inestricabili, crescono insieme, in una reciproca dipendenza. Non mi trovo mai totalmente nell’una o nell’altra, sono incessantemente in tutte e tre nel contempo: il peccato, la conversione e la grazia sono il mio pane e la mia porzione quotidiana...
Queste tre tappe non rappresentano tre gradini di una scala di valori, non passiamo dall’una all’altra come se salissimo le scale, non sono tre galloni che cuciamo l’uno dopo l’altro sulla manica. No! Prima della morte non diciamo mai addio del tutto all’una o all’altra delle tre. Restiamo sempre peccatori, siamo continuamente in conversione e in questo siamo costantemente santificati dallo Spirito di Dio. Non possiamo mai appartenere a quella categoria di persone di cui Gesù ha detto “che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7) perché si credono giusti: in tal caso non avremmo più bisogno di Gesù. Forse saremmo ancora in cammino verso Dio, ma soli, nel senso più “solitario” del termine, irrimediabilmente soli, continuamente in preda a noi stessi, sotto un’apparenza di santità che cercheremmo invano di realizzare; ci sentiremmo sempre più profondamente frustrati perché non incontreremmo mai l’amore autentico.
È sempre illusorio credersi convertiti una volta per tutte. No, non siamo mai dei semplici peccatori, ma dei peccatori perdonati, dei peccatori-in-perdono, dei peccatori-in-conversione. Non è data un’altra santità quaggiù perché la grazia non può agire diversamente. Convertirsi significa ricominciare sempre questo rivolgimento interiore, per mezzo del quale la nostra povertà umana – quella che Paolo chiama la carne – si volta verso la grazia di Dio. Dalla legge della lettera, passa alla legge dello Spirito e della libertà, dall’ira alla grazia. Questo ribaltamento non è mai concluso, perché non fa altro che ricominciare sempre. Antonio il Grande, patriarca e padre di tutti i monaci, lo diceva in modo lapidario: “Ogni mattina mi dico: oggi comincio”. E abba Poemen, il più famoso dei padri del deserto dopo Antonio, quando in punto di morte veniva lodato per aver vissuto una vita beata e virtuosa che lo metteva in condizione di presentarsi a Dio con estrema tranquillità, rispose: “Devo ancora cominciare, stavo appena iniziando a convertirmi”, e pianse.
La conversione infatti è sempre una questione di tempo: l’uomo ha bisogno di tempo e anche Dio vuole avere bisogno di tempo con noi. Ci faremmo un’immagine dell’uomo assolutamente errata se pensassimo che le cose importanti nella vita di un uomo possono realizzarsi immediatamente e una volta per tutte. L’uomo è fatto in modo tale che ha bisogno di tempo per crescere, maturare e sviluppare tutte le proprie capacità: Dio lo sa meglio di noi e per questo aspetta, non desiste, è indulgente, longanime. Dio ci aspetta come un pescatore paziente, per usare l’espressione di un poeta. “Tò chrestòn toû theoû eis metánoián se ághei”, scrive Paolo (Rm 2,4): “La bontà di Dio ti spinge alla conversione”. Non la collera ma, al contrario, “tò chrestón”, il suo affetto, la sua bontà, la sua pazienza. Nel prologo della sua regola, Benedetto ne fa un commento pregnante: Dio è ogni giorno alla ricerca del suo operaio, e il tempo che ci dà è “ad inducias”, è una dilazione, un dono, un tempo di grazia che ci viene accordato gratuitamente. E’ un tempo che possiamo utilizzare per incontrare Dio ancora una volta, per incontrarlo sempre meglio nella sua stupenda misericordia. Sarà solo più tardi, dopo la nostra morte, che potremo vivere fuori del tempo, e per sempre".
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(1): Jacques Louf nasce a Lovanio (Belgio) nel 1929, terzo e ultimo figlio di una famiglia molto religiosa. Studia al collegio cattolico “Saint Louis” di Bruges e aderisce all’Azione Cattolica Studentesca.
Nel maggio del 1945, subito dopo la fine della guerra, visita per caso il monastero trappista di Notre-Dame di Mont-des-Cats, nelle Fiandre francesi. Ne resta affascinato, e quattro anni dopo vi entrerà come novizio. Assunto il nome di fr. André e divenuto professo solenne, è inviato a Roma per compiere gli studi biblici. Tornato in monastero, viene ordinato presbitero e successivamente, a soli trentaquattro anni, è eletto abate, un incarico che sosterrà per trentacinque anni.
Nel 1967, insieme con Dom Jean-Baptiste Porion, procuratore generale dei Certosini, e il suo confratello trappista Thomas Merton, invia al Sinodo dei Vescovi a Roma un messaggio su “I contemplativi e la crisi di fede” (pubblicato integralmente in Thomas Merton, Un vivere alternativo, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 1994, p. 185-189).
Con la sua profonda conoscenza della spiritualità biblica e monastica, e delle scienze umane, diviene uno dei protagonisti dell’aggiornamento dell’ordine trappista, e una delle figure di maggiore autorevolezza nella Chiesa dei nostri giorni. I suoi testi, tradotti anche in italiano e in gran parte pubblicati dalle Edizioni Qiqajon del Monastero di Bose, abbracciano tematiche essenziali per i cristiani di oggi: vita spirituale (Sotto la guida dello Spirito), preghiera (Lo Spirito prega in noi), paternità spirituale (Generati dallo Spirito), vita di comunione (La vita spirituale), umiltà (L’umiltà).
André Louf è morto il 12 luglio del 2010 nel monastero do Mont-des-Cats.