martedì 19 aprile 2011

Meditazioni sulla Pasqua 2 (Cantalamessa) - Il senso spirituale

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1. La lettura spirituale della Bibbia

Dopo l’approccio storico al mistero pasquale della prima meditazione passiamo a occuparci del senso spirituale racchiuso nella “lettera” dei racconti pasquali. Seguiamo l’invito di S. Agostino che diceva: “Factum audivimus, mysterium requiramus” [1] : abbiamo conosciuto il fatto, ora ricerchiamo il mistero.

La lettura spirituale della Scrittura è iniziata con Gesù. Cos’altro faceva Gesù quando spiegava ai due discepoli di Emmaus “tutto ciò che nelle Scritture si riferiva a lui”? (Lc 24, 27). La stessa è proseguita con gli apostoli e ha improntato tutta la vita successiva della Chiesa nelle sue varie espressioni: esegesi, teologia, liturgia, arte, spiritualità. Essa continua ad alimentare anche oggi la vita cristiana, attraverso il metodo della lectio divina che è un suo derivato, attraverso la liturgia e l’esperienza dei santi.

Nella Lettera apostolica con cui Giovanni Paolo II ha dichiarato S. Teresa di Gesù Bambino Dottore della Chiesa, si legge: “Malgrado la preparazione inadeguata e la mancanza di strumenti per lo studio e l'interpretazione dei libri sacri, Teresa si è immersa nella meditazione della Parola di Dio con una fede ed una immediatezza singolari. Sotto l'influsso dello Spirito ha raggiunto per sé e per gli altri una profonda conoscenza della rivelazione. Con la sua concentrazione amorosa sulla Scrittura - avrebbe perfino voluto conoscere l'ebraico ed il greco per meglio capire lo spirito e la lettera dei libri sacri -, ha fatto vedere l'importanza che le sorgenti bibliche hanno nella vita spirituale, ha messo in risalto l'originalità e la freschezza del Vangelo, ha coltivato con sobrietà l'esegesi spirituale della Parola di Dio, tanto dell'Antico come del Nuovo Testamento” [2] .

S. Teresa non ha avuto mai a disposizione un testo integrale della Bibbia, né alcuno degli strumenti di consultazione oggi in uso. In fatto di conoscenze “scientifiche” l’ultimo degli iscritti all’Istituto Biblico ne sa più di lei; ma chi oserebbe dire che costui conosce la Bibbia meglio di lei?

L’esempio della Santa di Lisieux illustra bene l’atteggiamento con cui questo modo spirituale di leggere la Bibbia si pone di fronte ai metodi scientifici: nessuna riserva o disprezzo; al contrario, stima immensa, desiderio di trarne tutto il profitto possibile e gratitudine verso chi ce li mette a disposizione, ma sempre come sussidio e mezzo per accedere a una comprensione di tipo diverso. Non come l’ultima parola sulla Bibbia, ma come la prima. De Lubac, che ha scritto l’opera classica su questa esegesi patristica e medievale della Bibbia, mette bene in risalto tutto ciò [3] .
Del senso spirituale si può evidenzare ora la dimensione teologica o di fede, ora la dimensione morale e ora la dimensione escatologica. Ricordiamo il famoso distico: Littera gesta docet, quid credas allegoria. Moralis quid agas, quo tendas anagogia: La lettera t'insegna l'accaduto; ciò che devi credere, l'allegoria. / La morale, cosa fare; dove tendere, l'anagogia. Oggi ci occupiamo del senso allegorico della Pasqua, cioè delle cose da credere.

Il termine “allegoria” non gode oggi tra gli esegeti molto favore; esso anzi suscita riserve a non finire a causa dell’uso e dell’abuso che si è fatto di essa in passato. Ma nella migliore esegesi dei Padri, il concetto di allegoria ha un significato tutto diverso che negli autori pagani e nell’uso moderno del termine. Non indica una certa cosa materiale o storica assunta a simbolo di un’idea spirituale ed eterna; indica piuttosto un fatto reale, o una verità parziale che tende a un suo compimento futuro. Il rapporto non è verticale come è il rapporto tra la cosa sensibile e la sua idea eterna nel sistema di Platone; è orizzontale e situato nel tempo, come tra due eventi di cui uno annuncia e prepara l’altro.

La storia qui non è annullata a vantaggio dello spirito, ma le serve da supporto. In questo senso, parlando della prima alleanza, rappresentata da Agar, Paolo dice che ciò era una “allegoria” della nuova alleanza rappresentata da Sara (cf. Gal 4, 24). Gli abusi del metodo allegorico si sono avuti quando ci si è dimenticati di questo ben preciso significato biblico per lanciarsi in ogni sorta di speculazione astrusa sui numeri o sulle parole.

Quando si tratta di testi o fatti dell’Antico Testamento l’allegoria cristiana consiste nel mettere in luce il loro riferimento a Cristo; quando si tratta di parole o fatti del Nuovo Testamento, consiste nel mettere in luce il loro significato misterico per la Chiesa. Questo è chiarissimo nelle formule del kerygma. “Morì per i nostri peccati; risorse per la nostra giustificazione”. “Morì”, “risorse” indicano dei fatti, sono delle affermazioni storiche; “per i nostri peccati”, “per la nostra giustificazione” non sono delle affermazioni storiche ma di fede, indicano il senso mistico, o per noi, dei fatti.

A pensarci bene, è proprio questo significato di fede che, in altro senso, fa della morte e della risurrezione di Cristo degli eventi “storici”, se per fatto “storico” non intendiamo solo il nudo e crudo fatto di cronaca, ma il fatto più il significato di esso. Ci sono infiniti fatti realmente accaduti che, tuttavia, non sono “storici”, perché non hanno lasciato alcuna traccia nella storia, non hanno destato alcun interesse, né fatto nascere alcunché di nuovo. “Un evento, ha scritto un illustre studioso del Nuovo Testamento, è storico quando assomma in sé due requisiti: è ‘accaduto’ e in più ha assunto un rilievo significativo determinante per le persone che ne furono coinvolte e ne fissarono la narrazione” [4] .

In questo senso la morte di Cristo è il fatto più “storico” della storia del mondo perché è quello che più ha inciso sul destino dell’umanità. Stiamo vedendo anche in questi tempi come tutto ciò che riguarda questo evento abbia il potere di scuotere le coscienze e suscitare reazioni opposte.

2. Ora invece…

Colui che per primo e in modo insuperato ha esplorato il significato per la fede dell’evento pasquale di Cristo è l’apostolo Paolo. La Lettera ai Romani rappresenta, da questo punto di vista, l’apice della sua riflessione. Dopo avere presentato, nei due precedenti capitoli della Lettera, l’umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione (“Giusei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato…Non c’è distinzione tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”) (Rom 3, 9.22 s), l’Apostolo ha l’incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata per sempre e per tutti “in virtù della redenzione realizzata da Cristo” (Rom 3, 24). “Ora invece…”, così inizia la sezione che descrive la nuova situazione. Inizia un’era nuova nella storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Un cambiamento veramente epocale.

Nella salvezza operata da Cristo Paolo mette in luce due elementi distinti, anche se inseparabili come due facce di una stessa medaglia: una componente negativa consistente nella rimozione del peccato, o giustificazione dell’empio (capp. 3-7) e una componente positiva consistente nel dono dello Spirito e della vita nuova (cap.8).

Questa è una costante che si osserva ogni volta che si descrive sinteticamente la salvezza, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. “Io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli…; toglierò da voi il cuore di pietra” (elemento negativo). “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo” (elemento positivo) (Ez 36, 25-26). Si parla di un togliere e di un mettere. Nel presentare Gesù al mondo Giovanni Battista dice: “Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (elemento negativo), ma aggiunge subito: ecco colui “che battezza in Spirito Santo” (Gv 2.29.33). Lo stesso fa Pietro giorno di Pentecoste: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Dopo riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2, 38).

In seguito alla Rigorma, le polemiche teologiche hanno fatto sì che, di questi due elementi, nel commentare la Lettera ai Romani, in passato si sia messo in rilievo quasi esclusivamente quello negativo della rimozione del peccato. Ma in realtà, dei due aspetti della salvezza – la giustificazione dell’empio e il dono dello Spirito - è il secondo, per Paolo, il più rilevante. Di esso parla in tutte le sue lettere, mentre della giustificazione per fede parla solo nelle lettere in cui deve difendere la propria missione ai gentili. È interessante che a dire questo sia uno dei più qualificati esegeti protestanti del momento [5] .

Quando, dopo aver trattato della liberazione dal peccato e dalla legge, all’inizio del capitolo ottavo della Lettera ai Romani Paolo arriva a parlare del dono dello Spirito da l’impressione di uno che è giunto finalmente là dove desiderava e può abbandonarsi a un libero canto. Viene da pensare alle parole con cui Beethoven introduce la seconda parte della Nona sinfonia, la parte corale con l’inno alla gioia: “O amici, basta con queste note. Intoniamo un canto più allegro e più pieno di gioia" [6] . Seguono le frasi note:

“La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte...Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito…Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene…Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio…Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza…!

La giustificazione dell’empio e la remissione dei peccati non è, per Paolo, che la condizione per ricevere il dono più bello e più completo della Pasqua di Cristo, e cioè il suo Spirito. Molti sono convinti che la nascita e il travolgente sviluppo del movimento pentecostale e carismatico all’interno delle varie Chiese cristiane si spieghi anche come reazione a un’insistenza troppo unilaterale sul problema della giustificazione per fede che ha lasciato nell’ombra la dottrina e l’esperienza dello Spirito. Questa “terza forza”, come viene chiamata, ha assunto in poco più di un secolo proporzioni imprevedibili e costituisce oggi, secondo le statistiche, la componente in più rapida crescita all’interno del cristianesimo” (“the fastest growing segment of Christianity”).

Essa potrebbe aiutare a trovare finalmente la soluzione a problemi che si trascinano da secoli e sui quali neppure il documento congiunto della Chiesa cattolica e della federazione luterana delle Chiese è arrivata a trovare un pieno accordo. Nella teologia e spiritualità del movimento pentecostale la giustificazione per fede non è vista solo come una imputazione esterna di giustizia che lascia il credente come era prima (simul iustus et peccator); si è convinti, come da parte cattolica, che lo Spirito Santo trasforma davvero la persona, dandogli un cuore nuovo e dimorando in essa.

Quando Paolo parla dello Spirito Santo –anche gli esegeti più rigorosi sono su ciò d’accordo- ne parla come di una esperienza che tutti fanno nella Chiesa, non semplicemente come di una dottrina: esperienza di unzione nell’annuncio, di figliolanza divina nella preghiera, di forza carismatica nell’esercizio del proprio ministero, di conforto nelle persecuzioni. È su questo che si misura se lo Spirito Santo ha ritrovato il suo vero posto nella vita della Chiesa, oltre che nella sua teologia.

Sarebbe ben triste se tutto questo rimanesse confinato all’interno di un solo movimento ecclesiale e non contagiasse, di riflesso, nella sostanza se non nelle forme, tutta la Chiesa, come una benefica “corrente di grazia” che si disperde in essa. Non sono alcuni soltanto che hanno bisogno di una novella Pentecoste nella Chiesa, ma tutti i battezzati.

3. Un risveglio di fede

L’allegoria, dice il distico antico, indica “cosa credere”, quid credas. Ma non basta aver determinato l’oggetto della fede pasquale, la “fede creduta”, o fides quae, e cioè la liberazione dal peccato e il dono dello Spirito; occorre preoccuparsi anche dell’intensità con cui si crede, della “fede credente” o fides qua, come si dice in teologia.

Anche in questo ci è di modello l’apostolo Paolo. Dalle sue parole si capisce come il mistero pasquale può diventare la ragione stessa del vivere del cristiano: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

Parliamo ormai di questa fede esistenziale. Che possiamo fare per ridestarla, accrescerla, se essa è fondamentalmente un dono di Dio e non frutto del nostro volere? Dobbiamo cominciare col ridestare lo stupore di fronte ad essa. In un canto negro spiritual c’è uno che dice: “Ma io sto pregando, io posso pregare!”, come chi si accorge con stupore che sta facendo una cosa che credeva impossibile, come dicesse: “Io sto volando”. Dobbiamo fare lo stesso con la fede: prendere coscienza del dono immenso, del privilegio incredibile che è il poter credere, meravigliarcene e non smettere di ringraziare Dio Padre per esso. Esclamare, pieni di meraviglia, come il cieco nato guarito da Gesù: “Ci vedo, ci vedo!”.

Quello che avviene nel mondo esteriore, al mattino, al levarsi del sole dovrebbe avvenire ogni giorno dentro di noi, al levarsi del Sole che è Cristo. “Ridesta in noi la fede, la speranza e l’amore”, ci fa dire un inno delle Lodi mattutine. Guai a dare per scontato il dono della fede, quasi che avendo creduto una volta si stia a posto per sempre. Bisogna custodire il dono “con timore e tremore”. La parabola delle dieci vergini ci ricorda che si può continuare a reggere in mano la lampada per tutta la vita, senza accorgersi che è spenta.

Riflettendo sulla fede dicevo tra me: “Peccato che non esista un inno alla fede, paragonabile a quello di Paolo alla carità!”, ma subito mi è venuto in mente che un tale inno esiste già, e scritto da uno più grande ancora di Paolo:

“Se aveste fede quanto un granello di senape…”
“Se puoi? Tu è possibile a chi crede!”
“Ti sia fatto secondo la tua fede”
“Se credi tu vedrai la gloria di Dio”
“Chi crede in me anche se muore vivrà”.
“Convertitevi e credete al Vangelo”
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo”.

Tutto il Vangelo è un inno alla fede. Voglio condividere con voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, un momento di questa fede “esplosiva” da me vissuto, dal momento che non c’è nulla in esso di mio di cui possa vantarmi. Nel Natale del 2002 assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta dal Papa in S. Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda:

“Molti secoli dalla creazione del mondo…
Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
Nel quarantaduesimo anno
dell’impero di Cesare Augusto,

Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.

Giunti a queste ultime parole ho provato quella che viene chiamata “l’unzione della fede”: una improvvisa chiarezza interiore per cui dici a te stesso: “È vero! È tutto vero! Non sono parole. Le parole anzi non dicono che una minima parte della realtà. Dio è venuto veramente tra noi”. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Padre! Grazie, Gesù! Grazie anche a te, Madre di Dio!”.

Io credo che un’esperienza del genere possiamo farla tutti nella notte di Pasqua, ascoltando le parole dell’Exultet: “Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte risorge vincitore dal sepolcro…”. Il primo passo è aprire bene gli orecchi, ascoltare quelle parole come se le udissimo per la prima volta. Ricordiamoci: “Fides ex auditu”, la fede sboccia dall’ascolto (cf. Rom 10,17).

Vale a un titolo speciale, per i ministri della Chiesa, il detto della Scrittura: “Il mio giusto vivrà di fede” (cf Ab 2, 4; Rm 1, 17). Il peso specifico di un ministro di Dio è dato dalla sua fede. Ciò che i fedeli colgono immedia tamente in lui, o in lei, è se “ci crede”: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.

Un tema molto caro ai Padri della Chiesa era quello della Pasqua come risveglio di tutte le cose. Essi vedevano un’analogia tra ciò che avviene in natura a primavera e ciò che avviene nell’anima a Pasqua. S. Zeno di Verona esclama: “In questo giorno, allontanata la melanconia del passato inverno, sotto il soffiare mite del carezzevole vento Favonio, i prati germogliano ovunque, profumando di fiori…Chi non capisce che tutto questo è un simbolo dei misteri celesti?” [7] . A primavera, gli fa eco il poeta Venanzio Fortunato, un misterioso risveglio attraversa la natura; un fremito di vita è in ogni cosa vivente, tornano a cantare gli uccelli rimasti muti durante l’inverno e la “gemma turgida prepara il seno al parto” [8] .

Come sarebbe bello se un analogo movimento di risveglio attraversasse la Chiesa a Pasqua; se nella veglia pasquale, alle domande del celebrante: “Credete in Dio Padre onnipotente? Credete in Gesù Cristo? Credete nello Spirito Santo?”, potessimo rispondere con gioioso trasporto e con l’unzione della fede: “Credo!”.

“Tramite la passione, scrive S. Agostino, il Signore passò dalla morte alla vita, aprendo la via a noi, se crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita” [9] . La fede, come si vede, è il segreto per fare una vera Pasqua, per passare dalla morte alla vita. È il mezzo per fare nostra la Pasqua di Cristo. Con l’uomo del Vangelo diciamo anche noi: “Signore, aumenta la nostra fede”.


[1] S. Agostino, In Ioh. 50, 6 (PL 35, 1760).

[2] Lettera apostolica “Divini amoris scientia” (19 ottobre 1997).

[3] H. de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Ecriture, I/1, Parigi 1959, p. 127 s.

[4] D.H. Dodd, Storia ed Evangelo, Brescia 1976, p.23.

[5] Cf. J. D.G. Dunn, La teologia dell’Apostolo Paolo, Brescia 1999, p. 421.

[6] “O Freunde, nicht diese Töne! Sondern laßt uns angenehmere anstimmen und freudenvollere!“

[7] S. Zeno di Verona, Tractatus I, 33 (CCL, 22, p.84).

[8] Venanzio Fortunato, Carmina, III, 9 (PL 88, 131).

[9] S. Agostino., De cat. rud., 23, 41, 3 (PL 40, 340).