lunedì 11 aprile 2011

Senza Grazia non c'è neppure Fede...

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"In che cosa credo? In Dio, se esiste". (Stanislaw Lec)


Continuando con la presentazione della dottrina cattolica della Grazia (cfr. ultimo post a riguardo: "Grazia e Libertà" del 4 aprile), senza risalire troppo indietro nel tempo e senza pretendere di dipanare in poche righe la storia assai complessa dei cosiddetti canoni di Orange, cominciamo col dire che nel sud-est della Francia odierna si sviluppò nel primo quarto del secolo VI una polemica in cui tanto gli scritti di sant’Agostino, quanto soprattutto la dottrina della grazia – che faceva da sempre parte del deposito apostolico e a grandi linee era già stata definita nel secolo precedente proprio grazie ad Agostino –, dettero luogo a prese di posizione in cui riemergeva l’antica impronta pelagiana.
Tale polemica, che coinvolse numerosi monaci e vescovi, non solo della Gallia ma anche africani rifugiatisi oltremare per la persecuzione dei Vandali, determinò la convocazione di un concilio a Valence di cui ci restano diciannove capitoli che in qualche modo recano una certa impronta pelagiana.
Siano essi precedenti o meno ai canoni di Orange, a san Cesario, l’autorevole vescovo di Arles che sulla polemica aveva fatto appello a Roma, giunge da qui, dove regnava all’epoca papa Felice III (526-530), un florilegio di testi agostiniani che sarà presentato da san Cesario al concilio di Orange del 3 luglio 529 per essere sottoscritto da tredici vescovi della sua provincia ecclesiastica. È il cosiddetto Arausicanum II, dal nome latino della città di Orange – non lontana da Avignone – che aveva già visto una prima riunione conciliare quasi un secolo prima (441) sotto la presidenza di sant’Ilario di Arles.
Il testo si compone di una introduzione, seguita da otto veri e propri canoni e da altre sedici sentenze agostiniane, raccolte da san Prospero di Aquitania (390-463) forse al tempo della sua permanenza a Roma presso papa san Leone Magno. La conclusione è costituita da uno scritto riepilogativo, al termine del quale trovano mirabilmente posto le figure evangeliche del buon ladrone, del centurione Cornelio e di Zaccheo, a testimonianza che «quella fede così mirabile non proviene dalla natura ma è dono della bontà divina».
Nel gennaio 531, un anno e mezzo dopo il II concilio di Orange, papa Bonifacio II (530-532), il successore di Felice III che aveva potuto prendere possesso della cattedra romana non senza difficoltà, approverà con una sua lettera quanto là stabilito. Bonifacio II, già arcidiacono del papa Felice III, in essa ricorda di aver fatto personalmente da intermediario quando le decisioni del II concilio di Orange arrivarono a Roma. Si rallegra poi del sensus fidei cattolico di Cesario e dei vescovi suoi suffraganei, perché hanno confessato che la fede, con cui crediamo a Gesù Cristo, ci è donata in forza di una grazia preveniente e che non esiste alcun bene che possiamo volere, cominciare a realizzare e portare a compimento senza l’aiuto della grazia, come si legge nel Vangelo di Giovanni 15, 5 citato al numero 24 di Orange: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla».

Pubblico l’introduzione del testo di Orange e l’inizio della lettera con cui Bonifacio II confermò le decisioni di quella piccola assemblea di vescovi quale espressione della fede della Chiesa.

Concilio di Orange del 529

"A noi è sembrato giusto e ragionevole secondo l'ammonimento e l'autorità della Sede Apostolica..."

Introduzione
(...) Ci è giunta notizia che ci sono alcuni che sostengono, per ingenuità, opinioni incaute sulla grazia e sul libero arbitrio, e non conformi alla regola della fede cattolica. Quindi a noi è sembrato giusto e ragionevole, secondo l’ammonimento e l’autorità della Sede apostolica, dover qui presentare, da noi sottoscritti, questi pochi capitoli trasmessici dalla stessa Sede apostolica, raccolti per opera degli antichi Padri dai libri delle sante Scritture, principalmente al fine di istruire coloro che giudicano in maniera diversa da quel che è necessario, e perché siano osservati da tutti. (...)

Bonifacio al dilettissimo fratello Cesario.
( ...) Ci fai sapere che alcuni vescovi della Gallia, mentre accettano che il resto dei beni provenga dalla grazia di Dio, pretendono che proprio la fede per cui crediamo in Cristo appartenga alla natura e non alla grazia; e, cosa insostenibile, che essa sia rimasta nella disposizione del libero arbitrio degli uomini così come discendono da Adamo, e non che venga concessa nel presente ai singoli in forza della larghezza della divina misericordia. E ci chiedi, per cancellare ogni ambiguità, di confermare con l’autorità della Sede apostolica la vostra professione di fede con cui, al contrario, voi ritenete, secondo il dogma cattolico, che la retta fede in Cristo e il sorgere della buona volontà viene ispirata, per grazia preveniente di Dio, alle facoltà proprie dei singoli individui.
E perciò, visto che è risaputo che molti Padri, e su tutti il vescovo Agostino di beata memoria, ma anche i nostri predecessori sulla Sede apostolica, si sono ampiamente espressi su questa questione, tanto che nessuno può continuare a dubitare che anche la fede viene a noi per grazia, abbiamo ritenuto di non procedere a una risposta articolata, soprattutto perché – secondo quelle parole tratte dall’Apostolo che ci hai indirizzato: “ho ottenuto misericordia perché fossi fedele”, e “a voi è dato riguardo a Cristo non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui” – è evidente che la fede per cui crediamo in Cristo, così come ogni bene, proviene ai singoli uomini dal dono della grazia divina, non dal potere della natura umana. (...)