martedì 17 maggio 2011

Meditatio mortis: la Scala di Giovanni Climaco - 7.

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La purezza e la castità.


Nel discorso XV - dedicato alla virtù della purezza e della castità - sono almeno quattro i riferimenti espliciti al pensiero della morte. Due di questi passi li ho già presentati nei post precedenti: qui prendiamo in considerazione gli ultimi due.
Il primo di essi si trova nella riflessione iniziale che Climaco dedica alla vita degli uomini inclini al piacere sensuale:

“Negli uomini inclini ai piaceri - come mi raccontava uno di loro che ne aveva fatto esperienza, dopo essere rientrato in sé -, c’è un forte sentimento di amore dei corpi e uno spirito impudente e disumano che s’installa sfacciatamente nel senso stesso del cuore e procura a colui che ne è combattuto una sensazione di dolore fisico nel cuore, facendolo ardere come una fornace infuocata: tale spirito non teme Dio, disprezza il ricordo del castigo come cosa di nessun conto. Prova disgusto per la preghiera e quando è sul punto di passare all’azione, se vede dei cadaveri, li considera come pietre inanimate (…)” (XV,23).





Dopo aver parlato delle polluzioni notturne, Climaco accenna poi alla ‘disgrazia’ che può capitare al monaco quando si trova ad essere completamente solo, dopo aver presunto delle sue forze. In questi momenti di forte tentazione il dimorare tra le tombe viene proposto come arma di difesa contro il nemico:

“(..) Qual è questa disgrazia? Quella che avviene nel nostro corpo e nella nostra anima quando siamo nella completa solitudine: chi ne ha fatto esperienza lo sa, e chi invece non ne ha fatto esperienza, non c’è bisogno che lo sappia. In quel momento possono esserci di grande aiuto il cilicio, la cenere, o stare in piedi tutta la notte, il restare senza pane e con la lingua riarsa o appena un po’ inumidita, il dimorare tra le tombe, e soprattutto l’umiltà del cuore” (XV,56).