venerdì 17 giugno 2011

Commenti al Pater: Clèment.


Olivier Clément

IL PADRE NOSTRO


La prima parola della. preghiera che Gesù ci insegna e che noi diciamo - in un certo senso - con lui, in lui, nel suo Spirito, è Padre: Pater hemon, "Padre di noi".
Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: "Padre". E una parola che per l'uomo odierno ha una strana risonanza: l'uo
mo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla.
Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".
Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.
Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.
Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .
Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.
E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.
Questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell'amore del Padre

Quindi: Padre. Cosa significa per la nostra vita quotidiana? Significa che non siamo mai, assolutamente mai orfani, smarriti, abbandonati alle forze e ai condizionamenti di questo mondo. Abbiamo una risorsa, abbiamo un'origine fuori dello spazio-tempo. Questo universo apparentemente illimitato - ma il tempo ha avuto inizio con il "big bang", ma lo spazio è ricurvo, contenuto, afferma Einstein - questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell'amore del Padre. Le nebulose e gli atomi - anch'essi nebulose - amano il Padre in modo impersonale, con la loro stessa esistenza, ma noi, gli uomini, possiamo amarlo personalmente, rispondergli coscientemente, esprimere la sua parola cosmica: ciascuno di noi quindi, in virtù di questo legame personale con il Padre, è più nobile e più grande del mondo intero.
I volti si imprimono al di là delle stelle, nell'amore del Padre. I momenti apparentemente effimeri della nostra vita, ognuno di quegli istanti in cui, come dice il poeta, "abbiamo avuto le vene colme di esistenza", si imprimono per sempre nella memoria amante del Padre.
Allora il nichilismo della nostra epoca è sconfitto, l'angoscia che abita il nostro profondo può trasformarsi in fiducia, l'odio in adesione. Ecco cosa bisogna avvertire con forza ogni giorno - e lo dico in modo particolare ai giovani: è bello vivere, vivere è grazia, vivere è gloria, ogni esistenza è benedizione.
Mi pare che nella letteratura dei popoli segnati dall' ortodossia, anche in scrittori non pienamente credenti - come il primo Tolstoj, o i grandi romanzieri siberiani contemporanei, o quel Vassili Grossman autore del mirabile Vita e destino - si ritrovi questo senso della bontà e della bellezza profonda degli esseri e delle cose, la grazia alla radice di ogni cosa, una paternità infinitamente misericordiosa che tutto ama. Ne deriva la capacità meravigliosa, che questi scrittori possiedono, di parlare dei bambini, dell'affetto tra genitori e figli, pregio così raro nella letteratura occidentale contemporanea. ..
La nostra teologia e la nostra spiritualità sanno bene che è impossibile imprigionare in parole e in concetti questo mistero dell'origine. Ma Gesù ci svela che questo abisso - di cui parla anche l'India - è un abisso di amore, un abisso paterno. Con Gesù, in lui, nel suo soffio, noi osiamo balbettare: "Abba, Padre", parola di infinita tenerezza infantile: ecco tutto il paradosso cristiano.
E Gesù ci rivela che questo paradosso, questa relazione paradossale, non esiste solo nel rapporto del Padre con la creazione, ma in Dio stesso, nel più assoluto dell'assoluto. In Dio stesso c'è l'origine senza origine, e l'Altro filiale, e il soffio di vita e di amore che riposa sull'Altro e lo riconduce all'origine, e noi in lui. In Dio stesso c'è il respiro dell'amore, questo grande mito di unità e di diversità. E noi, a immagine di Dio, siamo trascinati in questo ritmo.
Solo che, in Dio, tra l'Origine e il suo Altro filiale, nel Soffio unificante, la risposta d'amore è immediata, la reciprocità d'amore è assoluta. Noi invece abbiamo bisogno del tempo, dello spazio, di una sorta di oscurità per andare verso la Luce e gli uni verso gli altri nello stesso tempo. Spesso noi siamo il figlio prodigo che dissipa i suoi averi con le prostitute, pascola i porci e brama nutrirsi di carrube. Tuttavia anche allora noi sappiamo che il Padre non solo ci attende, ma ci viene incontro. Il mondo non è una prigione bensì un passaggio oscuro - passaggio da attraversare, passaggio da decifrare in un contesto più ampio -, e in questo testo, un testo che redigiamo con Dio, tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario.
Se tutto è benedetto dal Padre, dobbiamo, a nostra volta, benedirlo in ogni cosa. Dovremmo cercare di riscoprire, di rinnovare, di vivere interiormente tutte quelle formule di benedizione che la chiesa ci insegna e che associamo alle benedizioni. "E Dio vide che era cosa buona", tob, che significa "buono e bello"; d'altronde la Settanta traduce con kalon, "bello". Massimo il Confessore ci insegna a fare, in ogni sguardo attento, contemplativo sulle cose, una sorta di esperienza trinitaria: il fatto stesso che una cosa esista, riposi nell'essere, ci rimanda al Padre, "creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili..." (così, del resto, ogni cosa diventa il visibile del!'invisibile); il fatto che possiamo comprenderla, discernere in essa e ricostruire a partire da essa una struttura prodigiosamente "intelligente", ci rimanda al Figlio, Verbo, Sapienza e Ragione del Padre; il fatto che la cosa sia bella, si inserisca dinamicamente in un ordine, tenda verso una pienezza, ci rimanda allo Spirito, al Soffio vivificante, di cui Sergej Bulgakov diceva che è la personificazione della bellezza. Impariamo così a discernere nelle cose la Paternità di Dio, il Padre "con le due sante mani", il Verbo e lo Spirito - come diceva Ireneo di Lione - il Padre con la sua Sapienza e la sua Bellezza.
Tuttavia l'esperienza trinitaria più fondamentale si inscrive nell'hemon che segue il Pater, nella seconda parola del Padre Nostro: "Padre - di noi".
Di questo "noi" vorrei sottolineare due cose.
La prima è che dobbiamo imparare a discernere il mistero di Dio sul volto del prossimo. L'orrore della storia, soprattutto in questo secolo, è che l'uomo, qui o là, si arroga un potere assoluto sull'uomo. Le ideologie pretendono di spiegare l'uomo, di ridurlo alla razza, alla classe, alla religione, alla cultura. E gli ideologi, "quelli che sanno", si sentono autorizzati, per il bene dell'umanità - così affermano -, a manipolare, condizionare, imprigionare, torturare e uccidere gli uomini. Sbocco, forse, di tutto un pensiero moderno inteso come volontà di carpire (è proprio il significato del termine Begriff, che significa "concetto" in tedesco) .
In opposizione a questo dobbiamo capire che l'altro, chiunque sia, fosse pure un pubblicano, una prostituta, un samaritano (per usare i termini di Gesù, per nulla difficili da trasporre), l'altro, qualunque altro, è l'immagine di Dio, il figlio del Padre, altrettanto inspiegabile, altrettanto "inconcettualizzabile" che Dio stesso: la sua migliore definizione è di essere indefinibile.
Impariamo a non più maledire, impariamo a non più disprezzare: "non esiste altra virtù che il non disprezzare", affermava un padre del deserto. L'altro è volto, interamente volto. E di fronte a un volto non ho alcun potere: posso soltanto, poiché questo volto è anche parola, cercare di rispondere, diventare re-sponsabile. Questo vale per i rapporti di amore, di amicizia, di collaborazione, vale nella famiglia come nella società, nei rapporti con gli altri cristiani come nella vita politica. Ricordati: non disprezzare!
L'altra cosa che vorrei sottolineare, e che d'altronde è inseparabile dalla prima, è il rapporto tra la chiesa e l'umanità. "Padre - di noi": questo "noi" è soltanto la chiesa in cui siamo tutti "membra gli uni degli altri", secondo la struttura mirabilmente delineata da Vladimir Losskij: un solo corpo, un solo essere in Cristo, e ciascuno che incontra personalmente Gesù, ciascuno illuminato da una fiamma unica della Pentecoste - struttura trinitaria? Non credo. Il Verbo, afferma il prologo di Giovanni, "è la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo". Si può tradurre anche: "...che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo". Il Verbo, incarnandosi, ha assunto in sé tutta l'umanità, tutti gli uomini, di ogni luogo e di tutti i tempi. Risuscitando, ha risuscitato tutti gli
uomini.

Non esiste un solo uomo
che non abbia una relazione misteriosa con Dio
La chiesa sono coloro, numerosi o scarsi poco importa, che scoprono tutto questo, entrano lucidamente in questa luce e ringraziano. A nome di tutti. La chiesa è il "sacerdozio regale", la "nazione santa" messa a parte per pregare, testimoniare, lavorare per la salvezza di tutti gli uomini. Sappiamo dov'è il cuore della chiesa: nell' evangelo, nell' eucaristia. Ma ignoriamo i limiti del suo irradiamento, perché l'eucaristia è offerta "per la vita del mondo".
Non esiste filo d'erba che non cresca nella chiesa, non una costellazione che non graviti attorno ad essa, attorno all'albero della croce, nuovo albero di vita, asse del mondo. Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con il Padre che l'ha creato, con il Figlio, "uomo-estremo", con il Soffio che anima ogni vita. Non esiste un solo uomo che non abbia un'aspirazione alla bontà, un sussulto davanti alla bellezza, un presentimento del mistero davanti all'amore e alla morte.
Molti, inondati di gioia, esclameranno nel giorno del giudizio: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare... straniero e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a trovarti?". E si sentiranno rispondere:
"In verità vi dico, ogni volta che l'avete fatto a uno di questi piccoli, che sono miei fratelli, l'avete fatto a me!". E noi, lo facciamo?
Nella nostra vita quotidiana allora non facciamo della chiesa una setta o un ghetto. Impariamo a scoprire ovunque i germi di vita. Sappiamo accoglierli nella nostra intelligenza e nel nostro amore, sappiamo immagazzinarli come in granai nella preghiera della chiesa.
Pater hemôn ho en toîs ouranoîs
Padre nostro quello nei cieli
I "cieli" qui evocano il carattere inaccessibile, abissale del Padre, un Dio al di là di Dio, hypertheos dice Dionigi Areopagita. Ci si accosta a lui sondandone l'assenza, è la teologia negativa di cui parlavo prima; l'intelligenza misura i propri limiti sentendo rumoreggiare, sempre più lontano, l'oceano divino.
Saper guardare l'azzurro,
lasciarci invadere, pulire
Poi viene il momento in cui cessa ogni attività mentale, quando l'uomo si raccoglie e tace, diventando pura attesa. Nella nostra vita quotidiana è necessario che ci siano attimi di profonda emozione silenziosa. I padri parlano per esempio della sensazione che si impadronisce dell'uomo quando arriva sul bordo di un'alta scogliera, con il mare che si apre vertiginosamente davanti a lui.
A volte bisogna sapersi fermare e ascoltare il silenzio, assaporare il silenzio, meravigliarsi, diventare come un calice pronto a essere colmato. Può essere un momento di calma in casa, una stanza in cui si è soli, una chiesa aperta in piena città, una passeggiata nel bosco. Può essere, nell'evangelo che si cerca di leggere ogni giorno, in un salmo, in un testo spirituale, una parola che tocca il cuore, che ci trafigge: allora non si prosegue, ci si ferma in un'attesa silenziosa, a volte colmata...
Ma perché è proprio il cielo a fungere da simbolo alla trascendenza? Indubbiamente perché l'azzurro profondo - specialmente nei paesi mediterranei - è contemporaneamente fuori della nostra portata e presente ovunque: tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Nelle lingue arcaiche il termine corrispondente - "cielo brillante" - indica la divinità.
Dobbiamo saper guardare l'azzurro, lasciarcene invadere, lasciarci pulire, fino alle giunture delle nostre ossa. Perché mai molti giovani, che non vanno mai in chiesa, scalano le montagne, questi luoghi elevati, se non per entrare, in qualche modo, nell'azzurro? Perché vanno verso i mari del sud, dove l'acqua e il cielo si confondono in una sfera di pienezza, in una sfera d'azzurro?
"È ritrovata.
Cosa? L'eternità.
È il mare unito al sole"
Eppure la sconvolgente rivoluzione dei tempi moderni fu la scoperta del cielo vuoto e illimitato, in cui né Dio né l'uomo sembrano più aver posto. Il cielo esultante dei salmi e del libro di Giobbe è diventato un'assenza nera. L'insensato di Nietzsche cerca invano Dio in un mondo in cui la terra va irrisoriamente alla deriva, in cui non c'è più né alto né basso, in cui fa sempre più freddo. Allora l'emozione suscitata dall'azzurro brillante rischia di ridursi a uno svago estivo. Il cielo divino va ritrovato altrove.
Altrove? Nel "cuore" affermano i nostri asceti. In quel centro più centrale, in quella profondità più profonda in cui tutto il nostro essere si raccoglie e si apre su un abisso di luce: l'azzurro interiore, colore dello zaffiro, come osservava Evagrio Pontico.
Uno dei nostri compiti quotidiani è proprio quello di destare in noi le forze del cuore profondo. Siamo soliti vivere nella testa e nel sesso, con il cuore spento. Ma lui solo può essere il crogiuolo in cui si trasfigurano l'intelligenza e il desiderio e, anche se non arriviamo fino all'abisso di luce, ne possono comunque scaturire delle scintille: un sussulto immenso e dolce infiamma il nostro cuore. Dobbiamo ritrovare il senso di questa emozione non emotiva, di questo sentimento non sentimentale, di questa vibrazione pacificante e sconvolgente di tutto l'essere, quando gli occhi si riempiono di lacrime di stupore e di gratitudine, tenerezza ontologica, silenzio colmato. Non riguarda solo i monaci, riguarda umilmente, parzialmente ogni uomo; arriverei a dire che è anche un problema di cultura.

Forze del cuore, amore della bellezza

In Reparto C di Solzenicyn, una giovane donna, responsabile di un servizio in un ospedale, chiede al suo superiore, il "vecchio dottore", da dove gli vengano la capacità di simpatia e, indissociabilmente, la sicurezza della diagnosi. Questi le risponde di essere stato a lungo scavato, illuminato dall'amore di una donna; 1'amore infatti, se è la grazia così rara di sapere che un altro esiste, può fendere il "cuore di pietra" e trasformarlo in "cuore di carne".
Ma, aggiunge il "vecchio dottore", sono ormai anni che quella donna è morta. Adesso ha bisogno, in determinati momenti, di ritirarsi, di chiudersi, di fare silenzio in se stesso, di lasciare che il cuore si rappacifichi fino a diventare come un lago immobile sul quale si riflettono la luna e le stelle. Il silenzio e la pace rendono possibile la visita del Padre "che è nei cieli", e sullo specchio del cuore così visitato si inscrive la verità degli esseri e delle cose.
Ed è anche una questione di cultura. Abbiamo bisogno di musica, di poesia, di romanzi, di canzoni, di tutta un'arte capace di essere anche arte popolare, in grado di destare le forze del cuore.
A volte nel métro, a Parigi, mi raggiunge una canzone degli altipiani latino-americani: segue il confine sinuoso della morte e dell'amore, della rivolta e della celebrazione.
È come la grande storia d'amore della letteratura araba: quella di Majnùn e di Laila. Majnùn, il folle, ama Laila, la notte. Laila ama Majnùn ma non gli rivela il proprio mistero e, sotto la forma di una gazzella, scompare nel deserto. Majnùn è ormai destinato all'erranza, e al canto (Queste osservazioni mi sono suggerite dal bel libro di Bernard Feillet, La nuit et le fou, Parigi 1983.). Abbiamo bisogno del canto di Majnùn, abbiamo bisogno di una bellezza che non sia bellezza di possesso, com'è così spesso il caso di oggi, ma proprio di spossesso, e forse di comunione, "la bellezza che crea la comunione", come afferma Dionigi Areopagita.
E Giovanni Climaco parla di "quelle musiche profane che conducono alla gioia interiore, all'amore divino, alle sante lacrime". Il genio del cristianesimo è segretamente "filocalico" e "filocalia" significa" amore della bellezza": questa bellezza non dev'essere confinata nella liturgia, nel1'ascesi, ma deve risplendere anche nella cultura.

"Sia santificato il tuo Nome"

Il Padre, fin dall'eternità, prende nome nel suo Verbo, nella sua Parola. E il Verbo si è fatto carne per rivelarci il Nome e santificarlo fino alla fine, poiché il Nome è la presenza, "separata" e radiosa a un tempo, cioè santa. La "santificazione del Nome", al tempo di Cristo, non significava solo 1'onore e la lode resi a Dio, ma la testimonianza fino all'effusione del sangue, fino al dono della vita, fino al martirio. Gesù ha santificato il Nome fino alla croce, e il Nome ha santificato lui fino alla resurrezione. Gesù crocifisso è "Uno della santa Trinità" crocifisso, come canta la liturgia bizantina. Gesù crocifisso è Dio crocifisso.
Là, nella spoliazione totale della croce si rivela il Nome proprio di Dio. E questo Nome è amore: "Dio è amore", afferma Giovanni. Per amore verso di noi, Dio ci raggiunge nella nostra sofferenza, nella nostra rivolta, nella nostra disperazione, nella nostra agonia: "Padre, se è possibile, allontana da me questo calice". "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". In tal modo ormai tra la nostra sofferenza e il nulla, tra la nostra rivolta, la nostra disperazione, la nostra agonia e il nulla si frappone il Dio incarnato e crocifisso, il quale, risuscitando, ci apre sbocchi inconsueti verso la luce.
Per "santificare il Nome" noi dobbiamo unicamente rifugiarci nella croce di Cristo. Il martirio cristiano è un'esperienza mistica in cui un uomo, una donna - spesso persone normalissime - si abbandona con umile fiducia a Cristo, nel momento dell'estrema sofferenza. Allora avviene l'irruzione della gioia della resurrezione.
Ci sono diversi modi di essere martiri: "beati i perseguitati per la giustizia... beati voi quando vi insulteranno...". Oppure, molto più banalmente, la malattia, il declino, la scomparsa dei propri cari, il tradimento e la solitudine, la morte. Nei confronti del prossimo, così come verso se stessi, bisogna innanzitutto combattere la sofferenza con una sollecitudine vigilante.

Il Nome non ha presa sulla Presenza,
ma ci offre a Lei

L'Occidente moderno ha fatto molto in questa direzione, ed è cosa buona. La sofferenza infatti può essere oscura, insensata, infernale: troppo spesso allora essa separa, ossessiona, diventa una morte prima della morte. Moderata e vissuta nella fede, può trasformare il corpo in una cella monastica, operando in noi il distacco e l'apertura.
Ma soprattutto devo pregare per vivere la mia sofferenza estrema e morire la mia morte identificando misteriosamente il mio corpo al corpo torturato di Cristo, affinché venga in me la "santificazione del Nome" e anche, se così piace a Dio, da me si irradi, come se completassi un po' di ciò che manca alle sofferenze di Cristo, per riprendere l'espressione di Paolo. Forse allora, attraverso l'angoscia e l'orrore, filtrerà una luce e potrò esclamare, con Gesù e in lui, non solo: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", ma anche: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito".
Parlo di tutto questo alla prima persona. Quanto agli altri, non so: esistono solo dei casi particolari. Il cristianesimo non significa sapere tutto, vuol forse dire non sapere nulla eppure avere ugualmente fiducia.
A proposito della "santificazione del Nome", vorrei aggiungere ancora due cose.
La prima è che il Nome invoca ed evoca la Presenza. Non ha presa su di lei - come pretendono di averla le magie -, ci offre a lei. Due persone che iniziano ad amarsi ripetono l'una il nome dell'altra e spesso vi ritornano con il pensiero. Avviene la stessa cosa, e in modo estremamente più intenso, nel nostro rapporto con Cristo.
Tutti conoscono la cosiddetta "preghiera di Gesù", l'invocazione "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore" ripetuta al ritmo del respiro. Nel monachesimo più antico si trova una gran quantità di brevi formule: "Kyrie eleison", "Ti prego, Signore, ti prego", "Signore, vieni in mio aiuto, affrettati a soccorrermi", "Come sai e come vuoi, aiutami", "Gloria a te, Signore, gloria a te"...
Possiamo inventarne altre. È un modo molto semplice, nella vita quotidiana, per "santificare il Nome" e per tutto santificare attraverso il Nome, per porre il Nome come sigillo d'eternità sugli esseri e sulle cose, per interpretare alla sua luce una determinata situazione. Dio infatti ci parla incessantemente attraverso le persone, le cose, gli eventi... Il Nome si rivela così inesauribile, un diamante dalle mille sfaccettature, ciascuna delle quali corrisponde a una cosa, a un volto, a una situazione...
Non si tratta, certo, per la maggior parte di noi, di "custodire" in continuazione l'invocazione del Nome, ma di far sgorgare, di tanto in tanto, un grido di aiuto, una celebrazione. Si tratta di non dimenticare Dio. L'oblio infatti, secondo tutti gli uomini spirituali, è il più grave dei peccati. L'oblio, il sonnambulismo, l'insensibilità dell'anima, la durezza del cuore: in queste circostanze allora ricordarsi di Dio, non fosse che per affrontarlo, come Giacobbe, per insorgere contro di lui, come Giobbe. Gridare a lui, al Dio vivente, e non tacere di fronte al muro di bronzo del destino, del nulla, dell'inevitabile disastro.
Signore, perché? "Mi hai preso come bersaglio", "Cesserai di guardarmi e mi lascerai almeno il tempo di ingoiare la saliva?" (sto citando Giobbe). Signore, vieni in mio aiuto. Guidami, illuminami. Non la mia ma la tua volontà. E nella gioia o, semplicemente, nell'umile piacere di esistere: Gloria a te, o Dio, gloria a te! Ci accorgiamo allora di avere molto più tempo per pregare di quanto non ci saremmo immaginati... L'invocazione del Nome: preghiera di quelli che non hanno il tempo di pregare.

"Respirare, o invisibile poesia"

L'altra cosa che vorrei dire a proposito della "santificazione del Nome" è che per Gesù non esiste una separazione statica tra il sacro e il profano, non ci sono regole che separano il puro dall'impuro. La nostra vita quotidiana si muove tra il Kiddush hashem, la "santificazione del Nome", e l' Hillul hashem, la "profanazione del Nome", e il confine tra i due è in costante movimento: passa per il nostro cuore, sulla nostra bocca che dice ciò che viene dal cuore, nel nostro sguardo.
Tutto può essere santificato, dato che, come afferma Zaccaria, "ogni pentola sarà consacrata al Signore" e che, secondo l'Apocalisse, "l'onore e la gloria" delle genti entreranno nella Gerusalemme celeste. Nessuno è definitivamente "buono" o "cattivo": per un pedagogo, per un giudice, per chiunque abbia delle responsabilità è questa la chiave per il rapporto con gli altri.
E se la tecnica ci affida e ci affiderà sempre più dei compiti fisicamente schiaccianti o intellettualmente meccanici, bisognerà che questo avvenga - ma sarebbe indispensabile una rivoluzione culturale - per permetterci di ritrovare la possibilità di santificare il Nome nel contatto con la materia, nell' esercizio di un' arte, nella padronanza serena dell'intelligenza incorporata nelle macchine.

" Venga il tuo Regno"

Dopo il Padre e il Verbo nel quale prende Nome, ecco lo Spirito santo. Un' antichissima variante dell' evangelo di Luca riporta infatti "venga il tuo Spirito santo" anziché "venga il tuo Regno". Venga il tuo Spirito santo e ci comunichi il tuo Regno: la tua gloria, la tua shekinah, le tue energie, la tua grazia, la tua luce, la tua vita, la tua forza, la tua gioia... tutto questo indica la stessa realtà.
Il Regno, i cieli e la terra nuovi sono il cielo e la terra rinnovati in Cristo, penetrati dalla grazia dello Spirito che è vita pura, vita liberata dalla morte. Il mondo in Cristo costituisce l'autentico "roveto ardente", afferma Massimo il Confessore. Ma questo fuoco è coperto di scorie e di cenere, la ganga della nostra separazione, della nostra opacità, del nostro odio, di ogni nostra complicità con le potenze del caos e delle tenebre.
"Venga il tuo Regno": significa preparare, anticipare il ritorno di Cristo, eliminando le scorie e la cenere. Infatti il Regno di cui invochiamo la venuta è già segretamente presente, ogni celebrazione eucaristica abbozza la parusia, così come ci sono nella vita di ciascuno attimi eucaristici, scintille di parusia.
Non bisogna aver paura di questi attimi, di questa pienezza, la "pleroforia" di cui parlano gli spirituali. Attimi di preghiera silenziosa, di preghiera al di là della preghiera, quando il cuore si infiamma, attimi di tensione creatrice o di fiducia rappacificante, quando la luce dell'Ottavo Giorno spunta in una intuizione di verità, di bellezza, o in un autentico incontro in cui si scopre "l'oceano interiore di uno sguardo" e l'altro come un miracolo - come amava ripetere il patriarca Athenagoras. Attimi in cui ci si unisce, come in primavera - sono ancora espressioni di Athenagoras -, alla dossologia del primo mandorlo in fiore. Oppure attimi come quelli in cui, dopo i tormenti dell'agonia, il volto di un morente si rappacifica e "l'individuo - come fa notare Rosenzweig - rinuncia alle ultime vestigia della sua individualità per ritornare alla propria origine e il Sé si desta all' estrema singolarizzazione e all'ultima solitudine...".
In tutti questi momenti - e ciascuno di voi ne conosce numerosi altri - il Regno affiora misteriosamente. Allora tutto diventa estremamente leggero: non c'è più morte, nel senso in cui questa parola si appesantisce del nulla, esistono solo pasque, passaggi; non c'è più esteriorità separante: l'amore è talmente grande che lo stesso desiderio scompare, restano soltanto dei volti, e il volto è fatto interamente sguardo - come dice un' omelia di Macario - e la terra è sacra, sacramento, mentre le stelle, la notte sono i segnali di fuoco che i mondi angelici ci comunicano...
Capitemi bene: esiste un approccio narcisistico, grottescamente o tragicamente avido, al piacere, al godimento di esistere. Vi si combinano le due passioni "madri": l'ingordigia carnale e l'orgoglio spirituale... L'uomo rischia allora di decomporsi, come diceva Kierkegaard, in "piccole eternità di godimento". Degli esseri e delle cose non scorge altro che "ciò che cade sotto i sensi", ciò che - e lo stesso linguaggio è qui estremamente significativo - si può "mettere sotto i denti".
Ma il piacere, il godimento di esistere, provati con un certo distacco interiore, con gratitudine, nel rispetto degli esseri e delle cose e nella "santificazione del Nome", questo piacere e questo godimento possono diventare una gioia non passionale, nel senso ascetico del termine "passione", cioè non idolatrica. Sono allora ricordi del Paradiso, caparre del Regno. La danza, il ritmo del respiro - "respirare, o invisibile poesia!" dice Rilke -, il profumo della terra dopo il temporale, incenso cosmico, l'incessante, esicastico avvilupparsi e srotolarsi delle onde e delle nuvole, il "Cantico dei Cantici" di un grande e nobile amore in cui i corpi sono il sapore delle anime: tutto questo può diventare ricordo del Paradiso e caparra del Regno.

Ti basta capire che Dio ti ama
e il tuo cuore si desterà

L'atto creatore che suscita bellezza, irradia la vita e l'amore, il sorriso di un neonato che scopre la propria esistenza nel profumo, nello sguardo e nella voce della madre: tutto questo può diventare ricordo del Paradiso e caparra del Regno.
Nello Spirito, nel grande soffio del Dio vivente, i comandamenti di Cristo (che si riassumono nell' amore per Dio e nell' amore per l'altro e per se stessi: è così difficile accettar si, eppure... "amerai il prossimo tuo come te stesso") appaiono come i sentieri della responsabilità e della comunione.
La rivelazione del Regno infatti è che non esiste nulla di superiore alle persone e alla comunione delle persone. Giustizia, verità, bellezza cessano di essere leggi per diventare energie vitali o, meglio ancora, la nostra partecipazione, mediante l'umanità di Cristo, alle energie divine corrispondenti.
E se non riesci a "osservare i comandamenti", non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c'è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi.
Non devi nemmeno cercare innanzitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama. Se l'amore risponde
all'amore, se il cuore profondo si desta, allora la vita stessa di Cristo, cioè il soffio dello Spirito si leverà in te. Ti basterà soltanto - ma ormai tu stesso ne avrai voglia - eliminare gli ostacoli, le incrostazioni, la ghiaia e il fango che nel tuo profondo ostruiscono la sorgente.
Dovrai una buona volta respirare qualcosa di più profondo che non l'aria di questo mondo, "respirare lo Spirito", come diceva Gregorio Sinaita: questo soffio in te raggiungerà, libererà, esprimerà il gemito della creazione, l'attesa del cosmo di cui tutta la bibbia ci dice che è in gestazione, in genesi: cosmogenesi e, dopo l'incarnazione, cristogenesi (perché non riprendere, al di fuori di una sistematizzazione discutibile, questi bei termini forgiati da Teilhard?), cristogenesi in cui l'uomo deve comportarsi da re, sacerdote e profeta...

"Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra"

La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l'esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce. La volontà di Dio è innanzitutto la creazione stessa, l'universo intero sostenuto dalle idee-volontà, i logoi, le parole efficaci del Dio-profeta. E poi la storia di salvezza, il drammatico dialogo d'amore tra Dio e l'umanità affinché "tutti gli uomini siano salvati", sottolinea Paolo. E questo il motivo per cui dobbiamo pregare ogni giorno affinché davvero tutti siano salvati, pregare per tutti quelli che "non sanno, non vogliono o non possono pregare",  come chiedeva ai suoi monaci il patriarca Giustino di Romania.
 
"Sia fatta la tua volontà..."
La storia, diceva Bulgakov, non è un corridoio vuoto

La volontà di Dio non è fatta. Il mondo, bello-e-buono secondo la Genesi, si trova immerso nell'orrore. C'è la luce, leggiamo nel prologo di Giovanni, ma ci sono anche le tenebre. L'onnipotenza di Dio è quella dell'amore. E come l'amore non può imporsi senza negarsi, così questa onnipotenza - capace di creare esseri che la rifiutano! - questa onnipotenza è anche un' onnidebolezza. Può agire solo attraverso cuori umani che, liberamente, si fanno trasparenti alla sua luce.
Dio rispetta la libertà dell'uomo, come ha rispettato quella dell' angelo. Ma affinché questa libertà non soccomba alle tenebre, egli si incarna e scende nella morte, nell'inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui la volontà dell'uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre. Nel Risorto assiso alla destra del Padre la volontà di Dio è fatta come in cielo così in terra.
Anche qui ci basta aderire con tutto il nostro essere a Cristo. "Venite a me, voi che siete stanchi e affaticati e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è soave e il mio carico leggero." (Mt 11.28-30).
Il Regno, in cui la volontà di Dio è fatta come in cielo così in terra, "non è di questo mondo", e non si realizzerà nella storia. La preghiera perché si faccia la volontà di Dio ci offre così un uso disincantato, realistico e paziente della politica, laicizza l'esercizio del potere, relativizza le ideologie e gli entusiasmi della storia - la storia delle forze collettive, in senso marxista.
In un primo approccio non sogniamo di trasformare la società in paradiso, lottiamo perché non diventi un inferno, vi manteniamo gli equilibri necessari, che si tratti della "separazione dei poteri" di Montesquieu, o dei checks and balances della concezione anglosassone - e protestante - dello stato.
L'uomo di preghiera e di speranza evita come può da un lato il cinismo dei conservatori, la buona gestione dei mali cosiddetti inevitabili (per gli altri!), d'altro lato l'amarezza dei rivoluzionari, forzatamente delusi dalle rivoluzioni mai fatte e dalle rivoluzioni fatte troppo bene. Egli sa bene che la stupidità e l'odio non cesseranno mai, ma che questo non è un motivo per arrendersi!
Nello stesso tempo dobbiamo affermare, con Sergej Bulgakov, che "la storia non è un corridoio vuoto". Questa immensa forza di vita, di autentica vita, che la resurrezione ha immesso nel mondo e che deborda dal calice eucaristico e dalla preghiera dei santi, non può esprimersi solo in destini individuali. La società e la cultura sono dimensioni della persona e del rapporto tra persone.

L'humus segreto
dal quale si innalzeranno le foreste

La chiesa ortodossa ha insistito molto sulla santificazione della cultura, sull'impero come crisalide del Regno. Questo le ha permesso di sfuggire alle nostalgie, alla mentalità di fortezza assediata, per pensare l'universo e diventare o ridiventare l'humus segreto dal quale si innalzeranno le foreste del futuro. Non da sola, d'altronde, ma in collaborazione con tutte le ricerche convergenti - e in primo luogo cristiane -, con tutte le attese e le intuizioni della cultura contemporanea: che si tratti della rinnovata riflessione sui diritti dell'uomo o della metanoia abbozzata da una filosofia in cui ciò che non è oreficeria del nulla concerne la relazione e il volto, delle aperture della scienza o della critica all'economismo, sia marxista che liberale.
Con il crollo delle ideologie e l'ascesa del nichilismo, è giunto il momento per un cristianesimo creatore. Anche pensa tori non cristiani, come Gramsci e Foucault, ci hanno suggerito che l'autentica infrastruttura della storia è la cultura. E noi, da parte nostra, siamo perfettamente coscienti che la cultura, a meno che non diventi una falsificazione, ,si nutre di ciò che è spirituale. È come nei movimenti tettonici: basta che le placche più profonde della scorza terrestre si spostino anche di pochi millimetri perché in superficie avvengano dei terremoti. Le vere rivoluzioni sono quelle dello spirito, ricordava Berdjaev; la "rivoluzione delle coscienze", invoca oggi il vescovo Ireneo di Creta. I filosofi religiosi russi della prima metà del secolo, i grandi dissidenti che sono venuti da oltre cortina o che là continuano a lavorare "sotto le macerie", hanno aperto delle piste, offerto un'ispirazione.
Negli anni a venire saranno necessarie iniziative e proposte cristiane pienamente immerse nella pasta della società civile e della cultura. Ci sarà bisogno di cristiani che, possibilmente in gruppo e spalleggiati da comunità ecclesiali, propongano nuovi atteggiamenti, inventino nuove forme di vita nelle loro professioni, a scuola, nei tribunali, negli ospedali, nei quartieri abitati da squallore e disperazione in cui germina la violenza...
Non ci sarà mai, se non come ideale e come
fermento, una "civiltà dell'amore". Ci sarà sempre, nella vita delle collettività, un sottofondo di pulsioni irrazionali che bisogna saper gestire, utilizzare, contenere (e in questo i machiavellici moderati e lucidi sono più preziosi degli ingenui imbrattati di sentimentalismo).
Solo la santità può sanare in radice il male. Ma la santità, l'evangelo devono introdurre nella società una tensione, un fermento, oppure una ferita, tali da costituire il luogo stesso della libertà dello Spirito. E se non può esserci una completa e definitiva "civiltà della comunione", dobbiamo instancabilmente aprire quelle che in linguaggio tecnico vengono chiamate 'vie di comunicazione secondarie" !

"Il pane nostro, quello venturo, dacci oggi"

Il pane nostro, il pane per noi, il pane che ci è necessario, noi lo chiediamo a Dio. Noi facciamo e dobbiamo fare quanto è necessario per ottenerlo, e per ottenerlo onestamente, attraverso il nostro lavoro, in una civiltà per quanto possibile onesta (è un punto sul quale tornerò). Tuttavia lo chiediamo a Dio come un dono, come una grazia. Il pane rappresenta tutto ciò che mi fa vivere: ebbene, il fatto che io oggi sono tuttora in vita suppone un incredibile intrecciarsi di circostanze favorevoli accumulate si durante decine di anni! Molte volte avrei potuto, avrei dovuto morire: guerre, incidenti, infarti, tumore, tentazione del suicidio, chi può dire? Questa o quella persona, il cui volto, la cui voce, la cui preghiera per me fanno parte del mio pane quotidiano, può morire da un momento all' altro. Quell'altra, magari un bimbo di cui vorrei proteggere o guidare il destino, mi sfugge completamente.
Esistono solo due vie d'uscita: l'angoscia, con tutti i diversi modi per fuggirla, senza grandi risultati, come ben sappiamo. Oppure la preghiera: il nostro pane, questo pane costituito da cibo, vestito, casa, sicurezza, civiltà, questo pane procuratoci da un fragile equilibrio biologico o psicologico, questo pane fatto anche di tanti affetti e sentimenti di cui si nutre il nostro animo, questo pane noi riconosciamo di riceverlo da Te: daccelo oggi. O semplicemente: dacci l'oggi. Altrimenti, se vuoi togliercelo, toglilo pure. Se così vuoi, io morrò oggi stesso: sono un servo inutile, liberami da questo gioco strano, in fondo estraneo a me... "Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo, e caduto a terra, prostrato disse: 'Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore ha dato e il Signore ha tolto: sia benedetto il Nome del Signore' " (Gb 1.20-21).

Scintille della Presenza

Si tratta insomma di accogliere ogni giorno come un giorno di grazia. Non solo: questo pane, questa possibilità di sussistere, li chiediamo oggi, come "il pane che viene", cioè il pane del Regno. Ma il pane del Regno è l'eucaristia. Ebbene, noi chiediamo a Dio proprio questo: di ricevere oggi ogni pane, ogni sussistenza come se fosse l'eucaristia, cioè la comunione al suo corpo, alla sua presenza. Nella mistica ebraica si dice che la presenza, la shekinah, è esiliata - a causa del nostro accecamento - nel segreto degli esseri e delle cose.
Il compito quotidiano del credente è quello di discernere e di liberare queste scintille della Presenza, affinché possano raggiungere il braciere cui sono destinate, senza abbandonare la materia, ma trasfigurandola. Nella Venticinquesima ora, di Virgil Gheorghiu, si vede un contadino rumeno che mangia con serietà, attenzione e gratitudine, come se stesse ricevendo la comunione. Quando il pasto è festa dell'incontro, l'aspetto eucaristico aumenta ancor di più. "In ogni cosa fate eucaristia", invita Paolo.
C'è un modo di lavarsi, di vestirsi, di nutrirsi - sia di cibo che di bellezza -, un modo di accogliere l'altro che è eucaristico. C'è anche, ne sono convinto, un modo eucaristico di svolgere i doveri quotidiani, banali, pesanti, ripetitivi (dopo tutto il testo del Padre Nostro parla del pane, non del vino, e il pane comporta un'idea di necessità): è indispensabile una dose di sano distacco e, semplicemente, il ricordo di Dio, anche se gli si può offrire solo la propria fatica, il proprio sfinimento, al limite la propria incapacità di offrire.
Permettici di discernere negli esseri, nelle cose, nelle situazioni di oggi il volto e la parola del Cristo che viene.

Tutto il profumo del Regno

È cosa buona l'usanza ortodossa di invocare lo Spirito santo all'inizio di ogni attività di una certa importanza e di lodare la Madre di Dio alla fine: è la Madre che non abbiamo più o che non abbiamo avuto, è la consolazione che abbiamo atteso dalla donna - invano, naturalmente, dal momento che anche la donna ha bisogno di essere consolata. La Madre di Dio è già in pienezza nel Regno e ci aiuta a passare all' altra sponda; è la sintesi assoluta, in una persona creata, di ogni tenerezza e di ogni bellezza. La richiesta del pane prefigura quello che dovrebbe essere il nostro rapporto con la terra: il pane infatti è la terra lavorata dall'uomo. L'uomo distruggerà la terra oppure ne farà un'eucaristia.
La terra non è una dea, la tecnica finisce di strappare una persona dal ventre della terra stessa.
Ma non è nemmeno un insieme di energie da utilizzare ciecamente, con il rischio, così evidente oggi, di snaturare la natura. I cristiani devono proporre, per quanto riguarda i rapporti dell'umanità con la terra, non l'atteggiamento di un economicismo o di un ecologismo miopi, ma quello di una responsabilità amante e, poco alla volta, trasfigurante. "Nostra sorella la terra-madre", esclamava magnificamente Francesco d'Assisi. Nostra sorella, la nostra fidanzata che dobbiamo sposare con infinito rispetto affinché generi non solo il nostro pane quotidiano, ma il pane impregnato di tutto il profumo del Regno...

Dall'altare alla condivisione

La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un' altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il "sacramento del fratello" è inseparabile da quello" dell'altare", diceva Giovanni Crisostomo. Il socialismo ateo, il comunismo con le sue persecuzioni sono sopraggiunti anche perché il mondo cristiano non ha saputo condividere, perché ha conservato il "sacramento del1'altare" dimenticando quello "del fratello". D'altronde ci è noto che questo dramma continua oggi e si aggrava a livello planetario.
La condivisione va praticata innanzitutto da uomo a uomo, da famiglia a famiglia, magari nel quadro delle nostre parrocchie, che sarebbe auspicabile diventassero delle autentiche comunità. La condivisione va avviata nel nostro ambiente, favorita con le nostre prese di posizione civiche, su scala nazionale, nel rispetto e nell' accoglienza dello straniero, dell'immigrato, non per assimilarlo ma per salvaguardare, se lo desidera, la sua cultura. La condivisione va perseguita anche - lo ripeto a livello dell'intera umanità. Possiamo sognare, proporre, delineare un ordine economico mondiale. Abbiamo bisogno di economisti rigorosi e realisti, ma capaci anche di mettere la loro scienza a servizio della preghiera: dacci, a noi, gli uomini tutti, il pane necessario e che sia anche il pane del Regno, il pane della custodia fraterna e della bellezza. Ma siccome parliamo della vita quotidiana, allora dobbiamo pazientemente moltiplicare delle realizzazioni minime, nelle società ricche come in quelle povere, mettendole così in dialogo. È soprattutto opportuno elaborare un nuovo stile di vita, mediante il quale possiamo dare l'esempio, uno stile fondato sulla limitazione volontaria tesa a una condivisione planetaria...

"E rimetti a noi i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori"

"Rimetti a noi i nostri debiti": siamo debitori a Dio di tutto. Esistiamo unicamente grazie alla sua volontà creatrice, in virtù della sua Incarnazione che ci schiude la strada per la nostra piena realizzazione, che ci riconcilia con lui e ci dona la sua grazia. "Le creature sono poste sulla parola creatrice di Dio come su un ponte di diamante teso tra 1'abisso dell'infinità divina e 1'abisso del loro nulla", diceva Filarete di Mosca.
Rinchiuderci in noi stessi, rifiutare questa relazione che ci dona l'esistenza significa votarsi alla distruzione e alla morte: è il nichilismo, soprattutto se si attribuisce al termine latino nihil - "nulla" - l'etimologia proposta da Pierre Boutang: nehile, la rottura dell'ilo, di questo filo esile ma vivificante che collega il seme al peduncolo... E anche là, forse soprattutto là, nel nihil, il Dio incarnato, crocifisso, disceso all'inferno, ci attende per rimetterci i nostri debiti...
Bisognerebbe citare qui i testi sconvolgenti di Cabasilas sulla salvezza mediante 1'amore: di Cristo egli scrive che viene a noi di sua iniziativa, "e ci dichiara il suo amore, e supplica che il nostro amore risponda al suo. Di fronte a un rifiuto non si ritira, non si indigna per l'ingiuria. Respinto, aspetta sulla porta. Come un vero amante sopporta i soprusi e muore", per risuscitare e risuscitarci,
per poco che lo accettiamo. "In cambio di tutto il bene che ci ha fatto Dio non chiede altro che il nostro amore; in cambio del postro amore ci rimette ogni nostro debito".
E Cabasilas, che era un laico, raccomanda a quanti non vivono in monastero di far ricorso a brevi meditazioni, a una sorta di richiami. Ricordarsi, mentre per strada si fa un passo dietro l'altro, che Dio esiste e che ci ama. Io esisto solo grazie a te, o Dio, esisto solo in te, perdonami di dimenticarlo così spesso, aiutami ad accettarmi come una tua creatura, come il primo dei peccatori, un peccatore perdonato, come un membro oscuro e doloroso del tuo corpo, della tua chiesa. Aiutami ad accettarmi con questi limiti voluti da te, nella certezza che tu, e solo tu, oltrepassi ogni limite...
"Signore, tutto è in te, anch'io sono in te, accettami", esclama un personaggio di Dostoevskij. Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell'inferno.
"Rimetti a noi i nostri debiti": perché tu ci hai predestinati tutti, sì tutti noi uomini, a diventare figli nel tuo Figlio. "Rimetti a noi i nostri debiti": solo questo richiamo può liberarci sia dal narcisismo che dallo scoraggiamento, questa fatica di tutto 1'essere che oggi costituisce indubbiamente la forma più grave di peccato...
Ma c'è una condizione fondamentale perché possiamo vivere liberi e distaccati, nella grazia del nostro Signore: che anche noi rimettiamo i debiti a coloro che ci sono debitori. Come non evocare qui la parabola del debitore insolvente (cf. Mt 18.23-35)? E siamo tutti debitori insolventi! Un uomo doveva al re una somma di denaro colossale, ed era assolutamente incapace di estinguere il debito. Avrebbe quindi dovuto essere venduto come schiavo, assieme a tutta la sua famiglia. Ma il re, mossosi a pietà, gli perdona e gli rimette il debito.

"Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come anch'io ho avuto pietà di te?"

Non appena uscito, questo servitore incontra uno dei suoi compagni, che gli doveva una somma irrisoria. Lo afferra alla gola con ferocia spietata e lo fa gettare in prigione. Il re, avvisato, lo consegna alla rude giustizia dell' epoca, dicendogli: "Servo malvagio, ti avevo condonato tutto quel debito perché mi avevi supplicato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come anch'io ho avuto pietà di te?".
Bisogna capire a fondo il movimento della parabola. Non è perché io rimetto i debiti ai miei debitori che Dio rimette i miei: io non condiziono il perdono di Dio. È perché Dio mi perdona, mi riconduce a lui, mi permette di esistere, libero, nella sua grazia, è perché sono invaso dalla gratitudine che estraggo gli altri dalle sabbie mobili del mio egocentrismo e permetto anche a loro di esistere nella libertà della grazia...
Noi continuiamo ad attenderci qualche cosa dagli altri. Ci devono il loro amore, la loro attenzione, la loro ammirazione. Non è l'altro che mi interessa, bensì la gratificazione che mi procura. La stoffa di cui sono fatto è vanità, suscettibilità. E siccome gli altri mi deludono costantemente, perché non possono rimborsarmi i loro debiti, allora li perseguito con il mio rancore, nutro verso di loro oscure passioni mortifere, mi perdo in una foresta di inestricabili vendette. Oppure, dall'alto della mia dignità offesa, mi ritiro per mio conto, mi avvolgo di indifferenza altezzosa e mi pago da solo i debiti degli altri, con moneta falsa.
Psicologicamente, in questo mondo contrassegnato dalla morte, non esiste via d'uscita. Ma se ci rendiamo conto che questo mondo è una tomba vuota riempita da una luce venuta da altrove, se percepiamo che Dio, in Cristo, ci rimette il nostro debito fondamentale, la morte - quella fisica e soprattutto quella spirituale - allora non abbiamo più bisogno né di schiavi né di nemici: né di schiavi che ci facciano credere che siamo dèi, né di nemici sui quali proiettare la nostra angoscia segreta.

Tentare, senza astio né masochismo,
di rispettare il segreto degli altri,
il loro rapporto con il mistero

Ci rendiamo conto che gli altri non ci devono nulla. Gli altri non mi appartengono. Ognuno di loro, come Dio di cui è immagine, è un soggetto libero, inaccessibile. Posso appropriarmene solo privandolo della sua libertà, cioè negandolo, al limite uccidendolo. E ci sono tanti modi di uccidere! Ma, come il Dio inaccessibile si rivela a me nella sua grazia, così anche l'altro, inaccessibile, può rivelarsi a me, ed è anche questa una grazia. Allora arrivo a capire che 'tutto è grazia", come scriveva Bernanos alla fine del suo Diario .di un curato di campagna.
È vero che gli uomini hanno tra di loro dei rapporti normati dal diritto, che la legge li strappa - almeno esteriormente - agli impulsi mortiferi e regola esteriormente i loro rapporti, proteggendoli dall'arbitrio. Ma al di là c'è solo il perdono, l'accoglienza e, a volte, lo stupore.
Il santo - scriveva Simeone Nuovo Teologo - è "il povero che ama i fratelli". Povero perché riceve incessantemente se stesso dalle mani di Dio. Capace, di conseguenza, di essere il prossimo di tutti... Non siamo dei santi, pur tuttavia nella vita quotidiana dobbiamo tentare, senza astio né masochismo, di rispettare il segreto degli altri, la loro solitudine, il loro rapporto con il mistero.
In questa prospettiva, più conosco gli altri, più mi diventano degli sconosciuti. Anche con loro mi muovo "di principio in principio, attraverso principi con non hanno mai fine". Quando la promiscuità, l'usura della vita, o la brama - medica, pedagogica o, semplicemente, gelosa - di capire troppe cose attenuano l'alterità, basta essere un po' attenti: sopraggiunge un dettaglio incongruo, che sfugge ai miei schemi: allora viene ristabilita la distanza tra l'altro e me, distanza dolorosa e salutare, la distanza della rivelazione.
A volte dobbiamo saper diventare, nella preghiera silenziosa, quel "punto zero" in cui non ci apparteniamo più, non esistiamo più da noi stessi, riceviamo la grazia di sapere che gli altri esistono, al di fuori di noi altrettanto interiormente di noi: ciascuno diventa, come diceva Evagrio Pontico, "separato da tutti e unito a tutti".

"E non farci entrare nella tentazione,
ma liberaci dal Male (dal Maligno)..."

"Non farci entrare...": non è Dio che tenta, "Dio non tenta nessuno", afferma Giacomo (Gc 1.13). Siamo di fronte a un semitismo che significa: non lasciarci entrare, fa' che non entriamo nella tentazione, che non abbia il sopravvento su di noi. Quale "tentazione"? Certamente il mistero dell' apostasia finale. È un mistero che affiora in tutte le epoche del cristianesimo, dato che - dopo l'Incarnazione e la Pentecoste - siamo negli "ultimi tempi": "Avete udito che l'anticristo deve venire, e ora molti anticristi sono già sopraggiunti" (1Gv 2.18). Forse questo mistero sta assumendo contorni più precisi nel nostro tempo che è veramente un' apocalisse nella storia e che fa affiorare così tante cose terribili. Forse ci sembra così semplicemente perché è la nostra epoca, non più "apocalittica" di tante altre, come possiamo percepire studiando le crisi del passato.

"Abbiamo inventato la felicità,
dicono gli ultimi uomini,
e ammiccano"

La grande apostasia non è necessariamente l'ateismo. Il ribelle, perfino il bestemmiatore cerca Dio a modo suo. Di fronte al dolore del mondo c'è anche un ateismo di compassione, che si colloca senza dubbio nell' "Eli, Eli, lema sabactani" del Golgota. La grande apostasia sarebbe piuttosto di sentirsi guariti dalla malattia di Dio, guariti dall'interrogativo, alleggeriti del mistero, senza angoscia né stupore.
Non semplice assenza di Dio, ignoranza tranquilla di Dio, ma circonvenzione del desiderio di assoluto insito nell'uomo attraverso parodie atroci o seducenti: magie, droghe, parossismi; tortura ed erotismo - strettamente collegati, del resto; ebbrezze totalitarie di ieri (parlo dell'Europa); trasformazione odierna delle religioni in ideologie; sostituzione della comunione con la fusione, con il possesso, in tante forme dell' arte contemporanea, in tanti ambienti settari; invasione della parapsicologia e dell' occultismo che renderanno possibile un giorno l'incantamento delle masse ad opera di autori di pseudo-miracoli, di prodigi in cui si manifestano "poteri" e che trasmettono potenza, come quelli che Gesù ha rifiutato nel deserto.
Penso al Racconto sull'Anticristo di Vladimir Solov'ev, in cui si vede l'Anticristo, grande riformatore sociale e spiritualista qualificato, associarsi a un mago che offre all'umanità "prodigi e meraviglie". Penso all' "ultimo uomo" di Nietzsche, nel prologo di Zarathustra: "Guardate, io vi mostro l'ultimo uomo. 'Che cos'è l'amore? Che cos'è il creare? Che cos'è la nostalgia? la stella?' ecco ciò che si chiede l'ultimo uomo, ammiccando (...) 'Noi abbiamo inventato la felicità ', dicono gli ultimi uomini, e ammiccano (...) Un po' di veleno di tanto in tanto: questo procura piacevoli sogni. E poi molto veleno alla fine, per una piacevole morte (...) Ci sono piccoli svaghi per il giorno, e quelli per la notte: ma si tiene in gran conto la salute. 'Noi abbiamo inventato la felicità ', dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.

Senza domande?

Alcuni anni or sono ho avuto il piacere di incontrare Andrej Tarkovskij, il regista recentemente scomparso. Mi diceva che il rischio oggi è che gli uomini smettano di porsi la domanda; e che lui si era dedicato a ridestarli, a far capire loro che l'uomo è domanda. Mi confessava anche quanto si sentisse solo.
Dobbiamo restare uomini di angoscia e di stupore, uomini che non si accontentano di parole e di idoli, dobbiamo restare uomini che pongono la domanda, fosse anche al prezzo di una certa follia. Perché le chiese non hanno potuto accogliere un Nietzsche, un Artaud, un Kahlil Gibran, un Kazantzaki? Non è forse giunto il tempo in cui la chiesa dovrebbe offrire un luogo a quanti pongono la domanda?
"Non farci entrare nella tentazione": nella tentazione di dimenticarti, di crederci guariti dalla malattia di te, di parodiarti finemente o grottescamente, sempre grottescamente, tutto sommato.
" . . . ma liberaci dal male...". Il mondo giace nel male. E il male non è soltanto caos, assenza di essere: testimonia un'intelligenza perversa che, a forza di orrori sistematicamente assurdi, vuole farci dubitare di Dio e della sua bontà. Si tratta in realtà non della semplice "privazione del bene" - come dicevano i padri -, né di quella "mancanza di essere" con cui Lacan definiva l'uomo, bensì del Maligno, il Malvagio, non la materia, né il corpo, ma la più sublime intelligenza rinchiusa nella propria luce...

Dio non ha creato il male

Adorno ha scritto che dopo Auschwitz - e io aggiungerei dopo Hiroshima e i Gulag - non si dovrebbero più comporre poesie. Credo che si possa, che si debba sempre comporne; credo che si possa, che si debba sempre parlare di Dio, ma forse in altro modo. Bisogna affermare che Dio non ha creato il male e che non lo ha nemmeno permesso. "Il volto di Dio gronda sangue nell'ombra", diceva Léon Bloy con un'espressione spesso citata da Berdjaev.
Il male, Dio lo riceve in pieno volto, come Gesù ricevette degli schiaffi quando aveva gli occhi bendati. Il grido di Giobbe non cessa di risuonare e Rachele piange i suoi figli. Ma la risposta a Giobbe è stata e rimane data: è la Croce. È Dio crocifisso su tutto il male del mondo, ma capace di far scoppiare nelle tenebre un'immensa forza di risurrezione. Pasqua è la Trasfigurazione nell'abisso. "Liberaci dal male" significa 'Vieni, Signore Gesù", vieni, tu che sei già venuto per vincere l'inferno e la morte, tu che hai detto di aver visto "Satana cadere dal cielo come folgore" (Lc 10.18).
Questa vittoria è presente nella profondità della chiesa. Ne riceviamo la forza e la gioia ogni volta che ci comunichiamo. E se Cristo la tiene nascosta è perché vuole associarsi ad essa. "Liberaci dal male" è una preghiera attiva, una preghiera che ci impegna.
La chiesa intera è impegnata in questo combattimento finale, che non è per la vittoria ma per lo svelamento della vittoria: dai monaci che cercano il corpo a corpo con le potenze delle tenebre - facendo sì che i monasteri e gli eremi diventino come dei parafulmini per il mondo intero -, fino ai più umili tra di noi, timorosamente rannicchiati attorno alla croce di Cristo, che cercano pazientemente, giorno dopo giorno, di lottare contro tutte le forme del male, in noi, attorno a noi, nella cultura e nella società. Umili persone che rattoppano incessantemente il tessuto della vita, costantemente lacerato da colui che la Scrittura chiama "il Signore della morte".

Le scorie che uccidono

Ogni gesto di bene puro, non ideologico, non costrittivo; ogni azione di giustizia e di compassione; ogni scintilla di bellezza, ogni parola di verità consuma le scorie che ancora ricoprono la vittoria di Cristo sul divisore. Senza dimenticare che, quando si parla di Maligno, non bisogna guardare al prossimo bensì innanzitutto a se stessi. Senza dimenticare nemmeno che i grandi santi - come Isacco il Siro o il folle in Cristo de Le mie missioni in Siberia -, gli uomini più realisti, quanti hanno veramente visto l'inferno hanno pregato non solo: "Liberaci dal male" o "dal Maligno", ma anche: "se è possibile, libera dal male il Maligno, perché è anche lui una tua creatura...".
"E libera dal male" noi che abbiamo vergogna di essere cristiani o che, al contrario, facciamo del cristianesimo, della nostra confessione, la bandiera della superiorità e del disprezzo.
"E libera dal male" noi che parliamo di "deificazione" e siamo troppo spesso così poco umani.
"E libera dal male" noi che facciamo così in fretta a parlare d'amore e non sappiamo nemmeno rispettarci reciprocamente.
"E libera dal male" me, uomo di angoscia e di tormento, così spesso diviso, così poco sicuro di esistere, uomo che osa parlare - assieme alla chiesa: è la mia unica scusa - del Regno e della sua gioia.
"O Unico, non togliermi il ricordo di queste sofferenze il giorno in cui mi laverai dal mio male e anche dal mio bene, il giorno in cui mi farai vestire di sole dai tuoi, dai sorridenti" (O.V.de L.Milosz, La Confession de Lémuel).
Francesco di Sales ha predetto che in un momento decisivo della storia si produrrà la
decatenatio sanctorum, lo "scioglimento" e lo "scatenarsi" dei santi. Oggi è la nostra preghiera e la nostra attesa. L'unione ora possibile, in Cristo vero Dio e vero uomo, delle contemplazioni immemorabili e dell'avventura moderna, l'incontro anche tra l'Occidente e l'Oriente cristiani, costituiscono indubbiamente altrettante condizioni favorevoli a questa decatenatio. Ecco ora il sabato santo, in cui la discesa agli inferi diventa vittoria sull'inferno, in cui si prepara il ritorno di Cristo o piuttosto il ritorno dell'universo e dell'umanità, attraverso Cristo, al Padre, affinché possa finalmente "asciugare ogni lacrima dai nostri occhi" (Ap 21.4).
"Perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria" - cioè la croce, l'amore, la vita finalmente vittoriosa - "Padre, Figlio e Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen".