venerdì 17 giugno 2011

Commenti al Pater: Standaert




Gesù ha insegnato ai discepoli a rivolgersi a Dio come al Padre, e la Chiesa a sua volta ci ha trasmesso il Padre Nostro, preghiera che ci fa entrare nella preghiera stessa di Gesù. In essa è raccolta tutta la ricchezza liturgica della Chiesa, l'intero suo patrimonio ascetico e spirituale, segno del nostro incontro con Cristo e della nostra vita in Lui.
Continuo la pubblicazione di qualche commento a questa grande e per tanti versi sconosciuta preghiera. Di seguito il contributo sul Pater di Benoit Standaert e, nel post successivo, quello di Olivier Clement.
Benoit Standaert, monaco benedettino di St. André di Bruges, è uno dei più preparati esegeti di Nuovo Testamento. A una profonda conoscenza delle lingue e degli ambienti biblici unisce un acume spirituale e una fede nel Cristo risorto che trasformano i suoi commenti esegetici in eco fedeli dell'unica Parola di vita.
Olivier Clément, scomparso di recente,  è nato in un ambiente scristianizzato del Sud della Francia e ha ricevuto il battesimo in età adulta nella Chiesa Ortodossa dopo una lunga ricerca attraverso l'ateismo. È autore di numerose opere consacrate alla storia e al pensiero della Chiesa Ortodossa, alle fonti della Chiesa indivisa, e alla testimonianza dell'Evangelo nella cultura contemporanea.
* * * 

Il Padre Nostro è la preghiera
che Gesù ha trasmesso ai suoi discepoli,
e che la chiesa, a sua volta, ci trasmette.
Abbiamo così accesso alla preghiera di Gesù,
che ne costituiva l'essere stesso.
Bisogna infatti rendersi conto
che tutta la ricchezza liturgica della chiesa,
l'intero suo patrimonio ascetico e spirituale,
non sono altro che il simbolo
del nostro incontro con Cristo
e della nostra vita in Cristo.
La chiesa non ci trattiene per sé,
ci conduce a Cristo.
E Cristo non ci trattiene per sé,
ci conduce al Padre.

(Benoit Standaert)

LA PREGHIERA AL PADRE 
INTRODUZIONE
Prima di sottoporre a un' analisi critica il testo più antico conservatoci per il Padre Nostro, è bene presentare brevemente un modello di lettura giudaico. Il modello è stato elaborato nel medioevo ma è molto probabilmente di stampo ancora più antico (1). Nella lettura vengono distinti quattro livelli, seguendo le quattro consonanti della parola PaRaDiSo - in ebraico: PaRDeS -. "Pardes" è un antico termine persiano che significa "giardino" (cf. Qo 2.5). Chi oltrepassa i quattro livelli arriva in paradiso! Si trova nel giardino dove fiorisce "l'albero della conoscenza"! Riceve quindi la vera conoscenza, quella dei primordio I quattro livelli si strutturano pertanto come una scala che dà accesso a una comprensione più alta, più profonda, più vasta, tanto del senso delle Scritture quanto del senso dell'esistenza e dell'intera creazione.

Pshat: è il livello del senso letterale, chiamato anche il senso storico. Qui si cercano i referenti fattuali del testo. La loro verità è situata all' esterno del testo ed è questa che si cerca di cogliere: come un fatto oggettivo, un dato. O c'è o non c'è. Vero o falso, sì o no; o anche, nel linguaggio estremamente ridotto di un computer: 0 o 1.

Remez: significa accenno, allusione, rimando. Un testo ne evoca un altro, una parola un' altra citazione. La memoria si arricchisce, le associazioni hanno libero corso, e il campo evocato da un testo viene in tal modo a formare un tutto coerente. Qui hanno il loro posto le letture strutturaliste. Figure, strutture, patterns e il gioco di relazioni reciproche appartengono a questo livello di lettura.

Darash: significa letteralmente: cercare. Qui compare per la prima volta un soggetto, un cercante che interrogando incalza il testo, e si lascia interrogare dal testo. Il vero livello di questo tipo di cercare - chiamato anche midrash - è etico. L'interrogare è in funzione del corretto agire all'interno della reciproca relazione tra i due.

Sod è poi il quarto e ultimo livello: il mistero. Qui entriamo in un rovesciamento di prospettive: il cercante riconosce di essere un cercato; un altro Soggetto sembra essere già prima il soggetto cercante. Il conoscere è un essere conosciuto nel profondo.

Pshat, Remez, Darash e Sod sono quattro diverse forme di libertà e un massimo di controllo. Nel Sod il rapporto è inverso: un massimo di libertà senza il minimo controllo. Si narra di Rabbi Akiba che tre dei suoi scolari riuscirono ad arrivare fin dentro il Sod: il primo però - rapito in estasi vi perse la vita; il secondo divenne pazzo - perse la ragione -; il terzo diventò un eretico - perse la retta fede -. Il primo uscì dalla comunità dei vivi; il secondo lasciò la compagnia della sana ragione e il terzo oltrepassò i limiti della comunità dell'ortodossia. Questo per illustrare che il Sod è un livello particolare, dove il pericolo di perdere ogni controllo è reale! Solo R. Akiba entrò nel Pardes e ne tornò indietro vivo, con le sue facoltà intellettuali e in conformità con la retta fede! Resta la domanda: come gli riuscì?
Nello Pshat ci si trova per lo più dinanzi a un'alternativa: ciò che è così non può essere diversamente: bianco o nero. Si deve essere rigorosi e alla fine arrivare a un "tutto o niente". Una cosa è accaduta o non è accaduta. Nel Sod non c'è nulla che sia solo ciò che è. C'è sempre molto di più di tutto ciò che si possa pensare o immaginare (cf. Ef 3.20).
Luca è il maestro del Remez. Benché in lui si trovino anche gli altri tre livelli, egli brilla soprattutto là dove comunica allusivamente il suo messaggio. Il discorso di Stefano in Atti 7 raggiunge forse una vetta in questo genere: egli non dice nulla di suo, le sue parole sono tutte prese a prestito. Chi ha orecchi, intenda! Matteo esercita come nessun altro il livello del Darash. Ciò è evidente in particolare nel racconto dell'infanzia; ma soprattutto dove egli unisce al suo racconto citazioni scritturistiche c'è spazio per un midrash penetrante. In Giovanni tutto è guidato da un Sod comunicato nel prologo: "La Parola è divenuta carne" . Senza questa chiave, molto di ciò che Giovanni ha da dire suona in qualche modo vuoto, estraneo, astratto. Illuminato dall'interno da questa unica intuizione, ogni mezzo versetto è un intero annunzio. E Marco? il rabbino che ci propose queste prime tre identificazioni esitò un attimo. Marco sembra essere puro Pshat e a prima vista unicamente fattualità storica, ma la diretta percezione di un grande mistero - Sod - attraversa il suo racconto e precede ogni comunicazione. In ogni tratto l'evangelista ci annunzia la pienezza dell'irruzione messianica.
Questo modello ebraico di lettura è prezioso ogniqualvolta si legge un testo o ci si pone un problema. Ora che vogliamo studiare criticamente il Padre Nostro, ed eserciteremo piuttosto largamente lo Pshat, non dobbiamo perdere d'occhio la ricca sensibilità per gli altri livelli. C'è verità a ogni livello, però in maniera ogni volta diversa!
I CINQUE PADRE NOSTRO
Intendiamo innanzitutto risalire, nella misura del possibile, all' origine di questa preghiera. Per continuare a dire questa preghiera, dobbiamo avere un'idea precisa della funzione che aveva quando fu composta e delle modifiche nelle funzioni cui ha potuto andare soggetta nella sua trasmissione. La ricerca dell' origine è qui rivolta in primo luogo all' atto stesso del pregare. Come dobbiamo pregare queste parole: come un salmo? come un inno? come una preghiera liturgica introduttiva? come una giaculatoria per uso privato? La questione della situazione linguistica iniziale e del relativo genere letterario è d'importanza capitale per poter continuare a pronunziare oggi questa preghiera con autenticità e fedeltà.

Matteo e Luca





Padre nostro che sei nei cieli
sia santificato il tuo Nome
venga il tuo Regno
sia fatta la tua volontà come
in cielo così anche in terra
il nostro pane, l'epiousion,
da' a noi oggi
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo
ai nostri debitori
e non farci entrare nella Prova
ma liberaci dal Maligno.
Padre
sia santificato il tuo Nome
venga il tuo Regno
il nostro pane, l'epiousion,
continua a darci
ogni giorno di nuovo
e rimetti a noi i nostri peccati
anche noi infatti sempre li
rimettiamo a chiunque
ci è debitore
e non farci entrare nella Prova.

Ogni analisi storico-critica del Padre Nostro comincia con la comparazione delle due versioni: quella di Matteo (6.9-13) e quella di Luca (11.2-4).
* Dove Matteo scrive: "Padre nostro che sei nei cieli", Luca ha solo: "Padre".
* La prima e la seconda richiesta si presentano in entrambi rigorosamente identiche: "Sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno (2).
* La terza richiesta: "Sia fatta la tua volontà, come in cielo così anche in terra" non ha parallelo in Luca.
* La quarta e quinta richiesta matteana presentano alcune leggere differenze tra i due. "Il pane nostro, 1'epiousion, dacci oggi", scrive Matteo, dove il verbo ("da' "), all' aoristo, esprime in certo qual modo un pressante appello: dacci immediatamente, "oggi". In Luca la stessa parola si trova nella forma greca del presente ("continua a darci"), il che esprime una sfumatura di estensione nel tempo; e qui Luca non reca "oggi", ma "ogni giorno di nuovo". La forma del presente conviene bene a questa espressione temporale distributiva (cf. Lc 19.47; At 17.11). Per il resto entrambe le versioni hanno gli stessi termini, tra cui anche il misterioso "epiousion" che provvisoriamente non tentiamo ancora di tradurre.
Nella preghiera successiva Matteo parla di "debiti", laddove Luca reca "peccati". "Debito" è una metafora; "peccato" è un termine puramente religioso. Il secondo membro di questa preghiera viene elaborato sintatticamente dalle due versioni in maniera abbastanza diversa. In Matteo la costruzione sintattica è più spedita: "come anche noi li rimettiamo...". In Luca questa diventa una frase subordinata, causale: "perché anche noi li rimettiamo...". L'idea di debito fa la sua comparsa anche in Luca in questa parte di frase, ma in una forma stilistica alquanto diversa: "a chiunque ci è debitore (di qualcosa)", laddove Matteo più semplicemente scrive: "ai nostri debitori".
* La sesta richiesta è rigorosamente parallela nelle due tradizioni: "e non farci entrare nella Prova"
* La settima invece è attestata solo in Matteo: "ma liberaci dal Maligno".
* In molti, ma recenti manoscritti del vangelo di Matteo si trova a conclusione del Padre Nostro la nota dossologia: "perché Tuo è il Regno e la potenza e la gloria nei secoli. Amen" (cf. 1Cr 29.11-12; Sal 22.28-29) (3).
Ciò che più colpisce nella comparazione è certo il fatto che tre elementi compaiono nell'uno e non nell' altro: "sia fatta la tua volontà come in cielo così anche in terra"; "e liberaci dal Maligno"; e nell'invocazione: "(Padre) nostro che sei nei cieli". La differenza fa del Padre Nostro una preghiera costituita nell'uno da sette invocazioni, mentre l'altro ne conta solo cinque. In entrambi i casi il numero forma una cifra "tonda": cinque come le cinque dita di una mano (i cinque libri della T 0rah; le cinque parti del salterio; i cinque rotoli delle feste (più tardivi); ecc.); sette come i sette giorni della settimana (i sette doni dello Spirito in Is 11.1 ss.; i sette spiriti dell'Apocalisse, Ap 4.5; 5.6; il candelabro a sette bracci per la preghiera nel T empio, ecc.).
D'altra parte la struttura e il movimento del tutto non vengono fondamentalmente modificati dalle omissioni o dalle aggiunte. Tanto in Matteo che in Luca incontriamo quattro elementi:
a. l'invocazione
b. richieste nella forma di desideri che concernono in primo luogo la natura e l'azione proprie di Dio (tre in Matteo; due in Luca)
c. richieste nella forma di una preghiera di domanda che stanno direttamente in connessione con la vita degli oranti stessi (due in Matteo; due in Luca)
d. appello finale come un grido di estrema miseria (in forma doppia in Matteo; semplice in Luca).
Le relativamente numerose piccole differenze tra le due versioni e la struttura fondamentale comune permettono di concludere che entrambi i testi attuali in uno stadio anteriore devono essere derivati da una formula comune. Della versione matteana possediamo un parallelo da non trascurare nel Padre Nostro quale lo ha trasmesso la Didachè (cf. n. 3). Con la dossologia conclusiva questa versione costituisce un formulario costruito in maniera equilibrata e matura, adatto per una preghiera delle ore, tre volte al giorno. La versione di Luca non sembra essere una forma consapevolmente abbreviata di una composizione più lunga come quella trasmessa da Matteo. Con le sue cinque richieste si presenta anch'essa come un tutto equilibrato, ma sorprendentemente conciso e diretto. Dal punto di vista del contenuto, trovano indubbiamente espressione alcuni dei tratti più essenziali della predicazione di Gesù e dell'identità cristiana: il nome Padre, il Regno, il pane e il perdono, la liberazione escatologica. L'ultima richiesta resta in qualche modo sorprendente: la preghiera non viene conclusa da una lode o da un ringraziamento, ma resta sospesa in un pressante grido di miseria.
A questo punto dell'analisi - un'impresa orientata essenzialmente allo Pshat! - si può porre la domanda: chi ha composto il testo originario che sta alla base delle due versioni? Abbiamo qui a che fare con una ben ponderata composizione di alcune richieste essenziali, realizzata dai primi cristiani stessi, mediante la quale cercavano appoggio in Gesù per la predicazione e la preghiera? O è veramente una formula di preghiera consegnata da Gesù ai suoi discepoli, organicamente composta da lui stesso?
Rileviamo ancora tre punti.
1. La libertà con cui la tradizione rappresentata dal vangelo di Matteo tratta il modello originario fa riflettere. La formula tramandata appariva suscettibile di completamento e miglioramento, il che lascia intravedere che la sua riconosciuta autorità non dev'essere stata assoluta.
2. La parola epiousion che le due versioni hanno in comune è in greco un termine estremamente ricercato. Viste le molte differenze tra i due testi, è difficile supporre che Luca abbia conosciuto Matteo o viceversa. Se si suppone che le due versioni fossero reciprocamente indipendenti, allora il testo base comune dev'essere stato anch'esso in greco. Il testo è solo una traduzione di una preghiera ebraico-aramaica? Oppure una comunità di lingua greca è responsabile di questo antichissimo formulario per la preghiera in cinque richieste?
3. Le dichiarazioni introduttive al Padre Nostro tanto in Luca che in Matteo (e così pure nella Didachè!) indicano che la formula di preghiera che viene trasmessa deve distinguere i discepoli da altri raggruppamenti religiosi. In Matteo la contrapposizione riguarda in particolare i pagani e il giudaismo farisaico. Nel contesto siriaco per il quale è stato scritto il vangelo di Matteo, questa duplice distinzione è oltremodo pertinente. In Luca si accenna all'ambiente dei discepoli di Giovanni Battista. In entrambi i casi, alla formula presa in sé viene pertanto riconosciuta una funzione sociologica. Quando è diventato d'importanza vitale questo bisogno di distinguersi da altri gruppi giudaici? Già al tempo di Gesù, oppure nelle prime generazioni in cui si formarono le comunità cristiane? Gesù, preoccupato di riunire tutte le tribù d'Israele - ne è testimone l'istituzione dei Dodici durante la sua vita non pare raffigurarsi i suoi discepoli come un nuovo gruppo all'interno d'Israele. Anche nel primo gruppo giudeo-cristiano una tendenza del genere non è riconoscibile. Questa non orienta nella direzione dei primi credenti "ellenisti" e della loro organizzazione in qualche modo appartata (cf. soprattutto At 6.1 ss.)?
Su questa questione di Pshat vogliamo ora fare dei passi avanti esercitando un po' di Remez. Il confronto con una serie di passi paralleli in Marco e Giovanni e l'analisi dell'invocazione "Abba" nell'epistolario di Paolo possono aiutarci a mettere ulteriormente a fuoco la questione.

Marco

In nessun passo del vangelo di Marco Gesù dà ai discepoli qualcosa di simile a una formula esemplare di preghiera. Tuttavia il noto Padre Nostro di Matteo e Luca echeggia anche nel testo di Marco. Oppure l'eco che dobbiamo percepire va proprio nel senso contrario? Comunque sia, almeno due passi sono qui degni di nota:
a. Nell'orto degli Olivi - il podere che porta il nome di Gethsemani (Mc 14.32) - Gesù esorta espressamente i discepoli alla preghiera, così come pure annunzia di andare anche lui a pregare (v. 32; vv. 34,38,39). Questa comune veglia di preghiera corrisponde alla tradizionale veglia notturna dei giudei, la haburah con alcuni amici nella notte di Pasqua, la veglia che racchiude in sé tutte le altre veglie. In Marco questa evocazione svolge un ruolo tutto particolare, come testimonia tra l'altro il grande c. 13, le cui ultime parole costituiscono pure un'esortazione a vegliare (vv. 33-37). Vegliando, il credente vede da vicino l'evento liberatore escatologico: il ritorno trionfale del Figlio dell'uomo (13.24-27; cf. 8.38-9.1; 14.61 s.). Questa ora di liberazione è immediatamente preceduta da un'opprimente ora di "dolori del parto" (13.8), di paura e tremore, di terrore mortale (14.34,35). In questo contesto udiamo Gesù "pregare che, se possibile, quest'Ora passasse via da lui" (v. 35):
"Abba, Padre,
tutto è possibile per Te
allontana da me questo calice
ma non ciò che io voglio
ma ciò che (vuoi) Tu"
(Mc 14.36).
Inoltre vediamo Gesù visitare ripetutamente i suoi discepoli ed esortarli alla veglia e alla preghiera: "Vegliate e pregate, per non entrare nella Prova" (v. 38).
Diversi elementi di questa pagina colpiscono per la loro coincidenza con il Padre Nostro tradizionale.
1. Innanzitutto l'invocazione: "Abba, Padre" (cf. Lc 11.2). Molto verosimilmente la più antica tradizione aramaica aveva trasmesso l'invocazione ripetuta - "abba, abba" - e i primi cristiani ellenisti hanno tramandato l'espressione in parte in aramaico, in parte in greco (4).
2. Il terzo desiderio nella versione matteana "sia fatta la tua volontà come in cielo così anche in terra" - coincide con le parole di Gesù al Gethsemani: "non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) Tu". In Matteo la coincidenza diviene ancor più notevole per il fatto che nel ripetere la preghiera nell' orto degli Olivi l'evangelista usa la stessa formulazione del Padre Nostro: "sia fatta la tua volontà" (Mt 26.42).
3. Alla fine viene poi l'esortazione: "... pregate per non entrare nella Prova". Queste parole ci portano immediatamente dentro la richiesta finale del Padre Nostro: "e non farci entrare nella Prova". La metafora è identica nei due casi: la tentazione è rappresentata come uno spazio dinanzi al quale si arretra con la paura di dovervi entrare.
4. Si può inoltre notare che l'invocazione in Marco viene immediatamente arricchita da una professione dell'onnipotenza del Padre (cf. in Mc: 10.27; anche 9.23 e 11.23; inoltre nella Scrittura: Gen 18.14; Gb 42.2; Zc 8.6 (LXX)). Qualcosa di simile è presente anche nel Padre Nostro, in parte nell'espressione" che sei nei cieli" , in parte nei primi tre desideri concernenti il Nome, il Regno e la Volontà.
5. Un'ultima coincidenza tra il testo di Marco e l'elaborato Padre Nostro secondo Matteo si trova nella struttura. Gli elementi che si corrispondono si trovano nella stessa successione e compiono un movimento analogo.
Tutto questo fa pensare. Questa antichissima presentazione esemplare del Gesù orante nella sua agonia costituisce la remota origine del Padre Nostro nella sua forma in cinque parti, oppure viceversa il Padre Nostro esistente ha influenzato questa scena in modo che i cristiani, pregando con questa formula, si ricordassero come Gesù pregò nella sua Pasqua ed esortò gli apostoli a pregare con Lui? Da questa analisi risulta in ogni caso una reciproca forza di attrazione, e questo arricchisce l'orizzonte entro il quale i primi cristiani solevano pregare le parole del Padre Nostro.
b. Un secondo passo nel vangelo di Marco che presenta un contatto inequivocabile con il Padre Nostro tramandato è il versetto 11.25:
"E quando state in preghiera,
perdonate se avete qualcosa contro qualcuno,
affinché anche il Padre vostro che è nei cieli
perdoni a voi le vostre trasgressioni".
Ciò che nel Padre Nostro viene espresso direttamente in forma di preghiera, lo ritroviamo qui nella forma di una catechesi sulla preghiera. L'intuizione del legame indissolubile tra l'essere perdonati da Dio e il donare il perdono ad altri è comune a entrambi i testi (cf. anche Mt 18.23-34; Lc 6.36-38; Sir 28.2; ecc.). Le "trasgressioni" non sono né i "debiti" di Mt 6.12, né i "peccati" di Lc 11.4, ma compaiono come tali anche in Matteo, proprio nel passo argomentativo che segue il Padre Nostro: Mt 6.14-15! Anche l'espressione "il Padre vostro che è nei cieli" ci porta in prossimità del discorso della montagna matteano. La questione rimane: è questa dottrina sul perdono e la catechesi sulla preghiera, che la segue, ad aver dato forma alle cinque richieste del Padre Nostro, oppure la formula di preghiera sta all' origine di questi logia catechetici? La questione dovrà essere risolta in un contesto più ampio.
 

Giovanni

Come in Marco, così anche in Giovanni non troviamo nulla che assomigli a una formula di preghiera trasmessa da Gesù ai suoi discepoli. Tuttavia il Padre Nostro sembra avere lasciato tracce addirittura più profonde che in Marco. Non c'è nessuno, del resto, che si sia occupato del concetto di "Padre" e del rapporto tra "cielo" e "terra" quanto Giovanni.
* "Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro" (20.17). Sono le parole del Risorto a Maria Maddalena, che ella deve trasmettere ai discepoli. Grazie alla resurrezione, ci dice l'evangelista, d'ora in poi possiamo pregare all'unisono con il Gesù risorto: "Padre nostro", e in Lui siamo anzi "fratelli" l'uno dell' altro: "va' a dire ai miei fratelli..." (Gv 20.17; cf. Mt 28.10, dove pure ricorre il termine "fratelli". Giovanni ha reinterpretato il passo a modo suo).
* "Dacci oggi il nostro pane 'quotidiano' o 'necessario per vivere' ", così preghiamo con le comunità di Matteo e Luca. Anche Giovanni medita sul pane - "il vero", che viene "dal cielo", che è stato "dato" non da Mosè ma dal Padre. "Dacci sempre di questo pane" (6.34) è l'invocazione degli ascoltatori di Gesù durante la sua spiegazione. Giovanni conosce dunque apparentemente la quarta richiesta e radicalizza a suo modo la domanda di pane (o anche della manna - il modello biblico per eccellenza del pane donato quotidianamente!). Fa dire a Gesù in tutta immediatezza: "lo sono il pane della vita" (6.35).
* Ma soprattutto nel c. 12 il Gesù orante arriva vicinissimo a ciò che abbiamo trovato sia in Marco che negli altri due sinottici.

L'autentica agonia o lotta mortale di Gesù, quale i sinottici ce la narrano nel Gethsemani, in Giovanni è trasferita nel c. 12 e combinata con ricordi della Trasfigurazione (cf. Mc 9.2 ss.). Gesù parla dell'Ora che adesso è finalmente giunta (Gv 12.23; cf. Mc 14.35,41). Ammette il suo turbamento (cf. Mc 14.34!) e prega:
"Ora però la mia anima è agitata,
e che cosa dirò?
Padre, risparmiami quest'ora?
ma proprio per questo sono giunto a quest'ora.
Padre, glorifica il tuo Nome".
Allora venne una voce dal cielo:
"L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò"
(12.27 s.).
I rapporti tanto con la scena del Gethsemani in Marco quanto con il Padre Nostro sono molteplici. La situazione è analoga: la preghiera ci è trasmessa al momento della Pasqua di Gesù - "l'Ora di tornare da questo mondo al Padre" (cf. 13.1 ss.). Egli invoca Dio due volte con l'espressione "Padre". Conosce anche la paura del dover entrare nella Prova - qui raffigurata come "l'Ora" - e prega: "risparmiami quest'Ora", ciò che equivale alla formulazione sinottica: "non farmi entrare nella Prova" (cf. anche Mc 14.35: "pregava che quell'Ora passasse via da lui"). Ma questo momento viene superato, ed Egli prega ora apertamente: "Padre, glorifica il tuo Nome". Qui siamo inequivocabilmente richiamati alla prima richiesta del Padre Nostro. Così in questa breve scena di Gv 12 ritroviamo la prima e l'ultima richiesta del Padre Nostro in cinque parti, con l'invocazione lucana "Padre".
Almeno altri tre passi dello stesso vangelo vengono evocati da questi versetti di Gv 12.27-28.
a. In primo luogo il confronto con Lazzaro sepolto da quattro giorni in 11.32-44. Vi ritroviamo il turbamento, seguito da una preghiera liberatrice. Gesù "volge intorno gli occhi e dice":

"Padre,
Ti ringrazio perché mi hai ascoltato.
Sapevo che sempre mi ascolti, ma l'ho detto per via del popolo presente, affinché possano credere che Tu mi hai mandato"
(vv. 41-42).
Si confronti con Mc 14.36: "Tutto è possibile a ,Te", e Mc 11.24.
b. Nel giardino, sull' altra riva del torrente Cedron (Gv 18.1), Gesù dice a Pietro al momento dell' arresto:

"Il calice che il Padre mi ha dato,
non lo berrò?"
(18.11).
Qui siamo di nuovo vicinissimi a Marco (" Allontana da me questo calice, ma non ciò che io voglio ma ciò che (vuoi) Tu"), e anche alle parole di 12.27 s.: "Risparmiami quest'Ora, ma proprio per questo sono giunto a quest'Ora".
c. Infine c'è ancora la grande preghiera di Gv 17. Qui Giovanni riprende l'ultima espressione della preghiera del c. 12 e la sviluppa in una grande intercessione con cinque strofi elaborate. "Padre, glorifica il tuo Nome" diviene ora: "Padre, glorifica il tuo Figlio affinché il Figlio ti glorifichi" (17.1 ss.). La glorificazione del Nome del Padre ha luogo nella e attraverso la glorificazione del Figlio. Del resto il nome stesso di "padre" implica la relazione essenziale con un "figlio". Il Figlio stesso glorifica il Nome del Padre nella e attraverso la sua estrema dedizione d'amore fino al legno della croce. La strofe centrale di questa grande preghiera approfondisce ancora la tradizionale espressione "santificare il Nome":
"Santificali nella verità. (...)
Per loro io santifico me stesso
affinché siano anch'essi santificati nella verità"
(17.17-19).
Nella stessa strofe si parla inoltre anche del Maligno:
"Non ti chiedo che Tu li tolga dal mondo,
ma che li custodisca dal Maligno"
(17.15).
In base a tutto ciò possiamo supporre che le richieste tradizionali del Padre Nostro non siano ignote a Giovanni, e che egli le rispecchi e interpreti a suo modo. Il contesto in cui egli per eccellenza fa pregare Gesù è lo stesso che in Marco: la Pasqua, l'ora del passaggio da questo mondo al Padre.

La lettera agli Ebrei

Che nel ricordo dei primi cristiani la Pasqua di Gesù e in particolare l'ultima veglia debba essere stata un particolare momento di preghiera, appare anche da un breve passo della lettera agli Ebrei.
"Egli che nei giorni della sua esistenza mortale (lett.: della sua carne) con alte grida e con lacrime ha rivolto preghiere e suppliche a Colui che aveva potere di salvarlo dalla morte, e che per la sua devozione è stato esaudito, egli ha - benché fosse il Figlio - imparato a ubbidire alla scuola della sofferenza..." (Eb 5.7-8).
L'agonia di Gesù, quale ce l'hanno tramandata tanto Marco (c. 14) che Giovanni (c. 12), sembra da questo testo essere stata innanzitutto una lotta di preghiera, indirizzata a Colui "che tutto può" e in particolare può "salvare dalla morte" (cf. Mc 14.36; Gv 12.27), un processo di sofferenza in cui è stata determinante la resa della volontà, la libertà nell' obbedienza. La lettera agli Ebrei sottolinea qui inoltre che la qualità di Figlio propria di Gesù mai forse è stata messa tanto alla prova come in quest'Ora, ma anche mai si è espressa con tanta purezza come nella libera invocazione: "Abba, Padre" .

Paolo

Nel suo epistolario Paolo menziona due volte di passaggio l'invocazione di Dio come Padre "Abba" .
Nella lettera ai Galati l'apostolo si sofferma sulla fili azione che con la venuta di Gesù è entrata nella storia, per liberare tutti coloro che stanno sotto la schiavitù della Legge. Egli argomenta: "E la dimostrazione che siete figli, è che Dio ha inviato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre. Così non siete più schiavi, ma figli" (GaI 4.6-7).
Nella lettera ai Romani Paolo analizza la nuova esistenza nello Spirito - un' esistenza di giustizia e pace, di riconciliazione e libertà. "Quanti sono condotti dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. Non avete infatti ricevuto di nuovo uno spirito di schiavitù che vi infonde timore, ma avete ricevuto lo spirito della filiazione, nel quale gridiamo: Abba, Padre. Lo Spirito stesso testimonia insieme con il nostro spirito - cioè conferma nella nostra propria coscienza - che siamo figli di Dio" (8.14-16).
Colpisce in questi due testi che Paolo abbia conservato l'antica espressione aramaica: "Abba", raddoppiata mediante la traduzione greca. Qualcosa di simile abbiamo incontrato anche in Marco nel racconto della Passione. Qui ci troviamo chiaramente in presenza di una tradizione la quale consapevolmente vuol trasmettere, senza segnalarlo, una parola di Gesù. Che prima di essa venga usato ogni volta il forte verbo krazo ("gridare"), è molto notevole. Anche Gesù ha più volte ripetuto il nome di suo Padre durante la sua agonia "con alte grida e lacrime" (cf. Eb 5.7 e Mc 14.35 ss.).
L'invocazione del Nome viene presentata in en
trambi i testi come il frutto dell' attività dello Spirito. "Abba" non è dunque solamente un termine cifrato trasmesso di generazione in generazione , ma il grido d'invocazione comunicatoci dallo Spirito riversato nei nostri cuori. Al ricevimento dello Spirito viene donato anche di pronunziare l'invocazione "Abba", e questo implica la coscienza e la consapevolezza che partecipiamo alla filiazione di Gesù. Dall' ampio contesto dell' epistolario di Paolo appare che in noi questo Spirito costantemente prega, supplica, "geme", vale a dire perora e parla in nostro favore (cf. soprattutto Rm 8.26-27; cf. anche 2Cor 3.18).
Ciò che Paolo interpreta così concisamente corrisponde indiscutibilmente a un' esperienza quan
to mai precisa. Per via del termine "ricevere" (Rm 8.15), possiamo situare questa esperienza nell'iniziazione o rito battesimale. Dal punto di vista catechetico, il battesimo consisteva nel fatto che nella e attraverso l'acqua si compiva insieme con Gesù la sua Pasqua e il suo passaggio dalla morte alla vita. Così facendo si riceveva anche, sull' altra riva del processo della morte, lo Spirito della Figliolanza. In questo momento viene anche trasmessa la preghiera "Abba" di Gesù, con la spiegazione che d'ora in poi lo Spirito che ha animato Gesù e lo ha fatto risuscitare dai morti ha preso dimora in noi (cf. Rm 8.9-11!).
Ciò che troviamo attestato in Paolo in maniera netta ma estremamente concisa rimarrà custodito per secoli nella pratica dei primi cristiani. Il Padre Nostro appartiene alla chiesa battesimale. Può essere pregato solo da chi, grazie al rito battesimale, ha ricevuto lo Spirito della Figliolanza. È significativo che già la Didachè collochi il Padre Nostro proprio dopo le norme sull' amministrazione del battesimo e prima delle osservazioni sulla prassi della preghiera nell' eucaristia.
Per quanto breve, la testimonianza di Paolo ci fornisce l'accesso al livello del Sod nel Padre N 0stro. Lo Spirito che in noi prega e bramoso grida: "Abba, Padre" raggiunge il livello più profondo di ciò che può verificarsi recitando la preghiera tramandata.

Alcune considerazioni

Dallo Pshat al Remez siamo infine giunti nel Sodo Partendo dalla comparazione di Matteo e Luca, attraverso Marco e Giovanni siamo finiti a Paolo. Il campo si è allargato in tutte le direzioni.
Qua e là, soprattutto in Giovanni, si è affacciato anche il livello Darash, come nell'analisi del purissimo abbandono nella preghiera: "Padre, glorifica il tuo Nome". Ora dobbiamo anche poter tornare indietro al livello Pshat e alle questioni storico-critiche dell'inizio.
Partendo da ciò che siamo riusciti a scoprire al termine della via percorsa, possiamo supporre che tra i primi cristiani esistesse una tradizione relativa al pregare Dio come Padre la quale si riallacciava direttamente al ricordo dell'ultima veglia di Gesù e della sua agonia nel Gethsemani. L'invocazione "Abba" da parte dei cristiani è, secondo questa tradizione, una diretta partecipazione al suo Spirito -lo Spirito di Colui che ha compiuto la Pasqua ed è risorto dai morti. Questo Spirito ci viene accordato nel e mediante il rito battesimale e ci autorizza a essere figli in Cristo, così che noi, liberati in Lui, possiamo indirizzare a Dio in maniera pienamente degna la sua preghiera ancora conservata in aramaico: "Abba! Padre!" Paolo e Marco, ma anche Giovanni e la lettera agli Ebrei, e perfino Matteo e Luca nel loro racconto parallelo su Gesù nell' orto degli Olivi, testimoniano tutti di questo esemplare momento di preghiera nella vita di Gesù. Fin nell' esordio della forma lucana del Padre Nostro è riconoscibile questa tradizione. In Luca si trova semplicemente: "Padre" (11.2). Tutto il vangelo di Giovanni è a sua volta una testimonianza che l'invocazione di Dio come Padre per Gesù non fu mai così esplicita come nell'evento di Pasqua, e per noi, grazie a Pasqua, è diventata realtà.
Accanto a questa linea di sviluppo se ne può distinguere un' altra che si è accresciuta fino a produrre una formula ben definita di cui il Padre Nostro di Matteo e quello di Luca costituiscono due differenti versioni. La situazione linguistica e il relativo genere letterario di questa formula possono essere abbozzati solo per approssimazione. Il materiale disponibile non consente una chiara soluzione Pshat, che noi per così dire possiamo toccare con mano. Possiamo al massimo, sulla base del Remez esercitato in tutte le direzioni, delineare un quadro il più possibile coerente.
La formazione del più antico Padre Nostro sembra corrispondere a uno stadio ben definito della comunità protocristiana. Si può congetturare la ricerca di una preghiera concisa ma specificamente cristiana, che, accanto a tutte le tradizionali preghiere bibliche e sinagogali, esprima l'identità dei cristiani nel loro rapporto con Dio. La formula trasmessa da Luca è sicuramente, in lunghezza e contenuto, la più prossima alla versione originaria. Questa sembra consistere di espressioni che si ricollegano tutte direttamente alla preghiera propria di Gesù o alla sua catechesi sulla preghiera. È sorprendente che troviamo già cinque sostanziali corrispondenze tra le parole di Gesù nel Gethsemani e il Padre Nostro matteano. Si deve sempre tenere conto di un' azione reciproca, nelle due direzioni, tra la formula tramandata e le preghiere che la tradizione evangelica mette in bocca a Gesù. Gli esempi che abbiamo potuto studiare nel vangelo di Giovanni illustrano perfettamente la reciproca influenza. Perciò rimane difficile pronunziarsi chiaramente sulla forma più originaria del Padre Nostro: le cinque richieste che si sviluppano l'una dall'altra risalgono a Gesù stesso? o sono una formula accuratamente composta da una comunità che nelle sue nuove sofferenze voleva imparare a pregare come pregava Gesù? Al livello Pshat la questione dovrebbe essere decisa in un "bianco o nero", sì o no, Gesù o la comunità cristiana. Al livello Remez notiamo che l'alternativa non ha tanto peso: anche se la preghiera come formula non provenisse da Gesù, tutto ciò che essa contiene o è attinto alla sua propria preghiera o è la trasmissione, in forma di preghiera, del suo insegnamento. Al livello Darash la questione perde molta della sua urgenza: comunque ci atteggiamo nel pregare, preghiamo però sempre nello spazio che queste parole aprono, perfino nel caso che scegliamo, alloro posto, tutt' altre parole, per esempio salmi... E per quanto concerne il Sod, nessuna singola formula, per quanto fedelmente tramandata, surroga le ispirazioni dello Spirito, che ammette benissimo tutte le parole ma ci conduce molto più in là, "in gemiti inesprimibili" (Rm 8.26).
Tuttavia fa certo qualche differenza - al livello Pshat! - se la preghiera è stata consegnata da Gesù ai suoi discepoli come formula conclusa, o se è stata composta da cristiani.
Sembra che siano stati i cristiani, più che il Gesù storico, a preoccuparsi di costituirsi in gruppo separato con una propria preghiera in contrapposizione con altri gruppi esistenti. Possiamo anzi dire che non tutti i primi cristiani erano preoccupati di costituirsi in comunità separata. Vediamo gli apostoli a Gerusalemme dopo la resurrezione e ascensione di Gesù recarsi a pregare al tempio alle ore consuete della preghiera. Si può porre la questione se non siano stati i cristiani ellenisti all' origine della formula, che allora di fatto sin dall'inizio sarebbe stata composta e trasmessa in greco. Tutti gli sforzi infruttuosi di tradurre il Padre Nostro in ebraico o in aramaico e in particolare di ritrovare un substrato semitico per la singolare parola epiousion, sono allora - da un punto di vista rigorosamente
Pshat - superflui. Possiamo immaginarci benissimo questo dinamico gruppo di primi cristiani comunicare ai loro seguaci di lingua greca, tanto giudei che proseliti, una breve formula in cui ritrovare, sotto forma di preghiera, tutti i più importanti temi della predicazione e del modo di vita di Gesù. La preghiera ha allora anche la funzione di symbolon, un piccolo "Credo", una sintesi di ciò che è importante nella "via" cristiana. Recitare il Padre Nostro ha allora anche la funzione di consolidare l'identità del gruppo. Così come è composto, viene pregato con una sorprendente attesa escatologica. Quasi ogni richiesta implica una tensione piena della speranza che il compimento escatologico giunga in fretta. Così la particolare spiritualità della notte pasquale percorre anche questa antichissima formula:

"Padre,
sia santificato il tuo Nome,
venga il tuo Regno,
il pane, quello essenziale,
daccelo oggi!
Rimetti a noi il nostro debito
come anche noi rimettiamo ai nostri debitori
e non farei entrare nella Prova".

L'ultima richiesta, così tipica della lotta mortale di Gesù nel Gethsemani, difficilmente può aver fatto parte di ciò che Egli stesso avrebbe insegnato in precedenza ai suoi discepoli... Al livello Pshat si deve scegliere, e, per quanto possiamo vedere, la formula più antica sembra essere il frutto di una situazione didattico-catechetica nella comunità cristiana di lingua greca in Palestina, probabilmente proprio in Gerusalemme, dove furono composte e conservate anche le più antiche tradizioni sulla storia della Passione. .
Questo antichissimo formulario è andato svilup
pandosi già nel N.T. e soprattutto Matteo ne è testimone. Il suo testo è più ricco, anche più completo, ma soprattutto più pieno dal punto di vista poetico-liturgico e quindi più adatto per la preghiera. Nel discutere a parte il suo Padre Nostro ne analizzeremo la struttura e il movimento di preghiera che sostiene il tutto. Qui si può constatare un leggero slittamento rispetto al Padre Nostro in cinque parti delle origini. In Matteo il Padre Nostro è un po' più preghiera che symbolon, benché i due aspetti siano presenti sin dall'inizio della tradizione. Il carattere liturgico del Padre Nostro trova un' espressione ancora un po' più forte nella versione conservataci dalla Didachè. Qui il Padre Nostro è concluso da una dossologia, e concepito come una preghiera che si recita tre volte al giorno, come la preghiera delle ore giudaica. L'integrazione del Padre Nostro nella preghiera eucaristica, un fatto attestato chiaramente solo a partire dal quarto secolo, prosegue ulteriormente questa linea.
Così ci troviamo in presenza di una doppia linea di sviluppo che corre più o meno parallelamente dallo Pshat al Sod e dal Sod allo Pshat! Le forme che la preghiera ha assunto possono essere descritte come un movimento pendolare tra due estremi: dalla più marcata esteriorità alla più intima interiorità. Da un lato il Padre Nostro si riduce a una formula che si pronunzia per affermare pubblicamente la propria identità in quanto distinta da altri gruppi; dall' altro lato si è afferrati dallo Spirito che ci spinge a gridare dall'interno, dove l'abbandono di Gesù al Padre viene compiuto insieme con lui, al di là di tutte le parole e formule. Tra i due estremi si trovano forme miste di ogni genere, ora più liturgico-ufficiali, ora intime e personali. Proprio al centro del movimento pendolare si può situare la tradizione che nel corso del secondo secolo era diffusa dovunque, cioè l'uso di battezzare i nuovi discepoli nella notte di Pasqua e di consegnare loro e far loro proclamare il Padre Nostro, quando uscivano dall'acqua. Il mistico e l'istituzionale si compenetrano qui nel medesimo atto. Il rapporto con il Padre (il mistico) e il rapporto con la Madre (l'istituzione) vengono pienamente realizzati insieme. Possiamo benissimo appoggiarci una volta a un polo e un'altra all'altro, a condizione di compiere il movimento in entrambe le direzioni e di non perdere mai d'occhio il centro.

Conseguenze pratiche

Da tutto ciò impariamo almeno tre preziosi insegnamenti per la nostra concreta vita di preghiera.
1. Recitare il Padre Nostro aveva nel cristianesimo primitivo una dimensione che noi da molto tempo abbiamo perduto. Nel modo più profondo, pronunziare il nome di Dio come Padre è un'ispirazione dello Spirito. L'esordio di questa preghiera è, secondo la più antica tradizione, possibile solo in un' apertura ricettiva allo Spirito che agisce in noi. Questo Spirito è lo Spirito del Cristo risorto, lo Spirito trionfante di Pasqua, ricevuto al battesimo. Questo linguaggio sorprendentemente forte, rappresentato nel N.T. da Paolo ma confermato dai primi commenti patristici al Padre Nostro, abbraccia un' esperienza molto specifica di cui è stato fatto tesoro anche per noi, cristiani del ventesimo secolo, nella misura appunto della nostra fede. Nulla oggi può rinnovare tanto la nostra preghiera quanto proprio la continua attenzione a questo Spirito di Dio che si comunica in noi. Ogni catechesi per bambini sulla preghiera non dovrebbe mai perdere completamente d'occhio questa esperienza.
2. Nel N.T. incontriamo almeno cinque Padre Nostro. Questo può stupirci, ma non deve creare turbamento in nessuno. Le analisi ci mostrano quanto è aperto il Padre Nostro. Aperto verso il più e verso il meno.
a. La preghiera più breve è quella di Paolo: "Abba, Padre". E anche la più essenziale. Comprende il grido dello Spirito nel e attraverso il nostro cuore: "Abba"!
b. In Marco troviamo la stessa espressione, però arricchita in un' esemplare preghiera tripla. Partecipiamo all'intima preghiera pasquale di Gesù e impariamo a vegliare con Lui nella notte che abbraccia tutte le notti.
c. La versione lucana comprende ancor sempre lo stesso esordio che in Paolo e Marco, però senza l'espressione aramaica. Per brevi che siano, le cinque richieste comprendono tutti i desideri e le aspirazioni essenziali che un seguace di Gesù nutre in sé.
d. In Matteo (cf. anche la Didachè) ci troviamo in presenza di una preghiera matura e sintetica, molto adatta, nella sua ricchezza e completezza, per tutte le celebrazioni comunitarie, le preghiere familiari, o anche come preghiera del mattino e della sera.
e. Infine c'è ancora Giovanni. La preghiera sacerdotale del c. 17 approfondisce e allarga la formula nota e introduce la comunità orante nella sublime intercessione del Figlio.
3. N ella preghiera personale si può sulla base di questa differenziazione di formule, pregare ora ampiamente (con Matteo e Giovanni), ora con la semplicità e profondità di Paolo o di Marco. Benché il tradizionale Padre Nostro sia relativamente breve, il suo contenuto è così ricco che nella preghiera personale spesso ci si può accontentare di una o due richieste sulle quali soffermarsi a lungo. Perciò è bene imparare a memoria anche le versioni più brevi di Luca, Marco o Paolo. La cosa più importante è indubbiamente rispettare la dinamica pasquale che sostiene dall'interno ogni preghiera a Dio come Padre, e soprattutto preoccuparsi di lasciar pregare in noi lo Spirito di Dio attraverso le parole di cui si è fatto tesoro.
IL PADRE NOSTRO MATTEANO


Struttura

Contesto

Matteo include il Padre Nostro nel suo primo grande discorso, il cosiddetto "discorso della montagna" (Mt 5-7). Il Padre Nostro occupa esattamente il centro della composizione complessiva. Il discorso della montagna consiste infatti di cinque parti: un'introduzione con un prologo e una frase conclusiva con un epilogo delimitano il corpo vero e proprio, che è ripartito in tre grandi unità.

1. introduzione + prologo 5.3-16 + 17-20
2. parte I: contro la giustizia degli scribi 5.21-48
3. parte II: contro la giustizia dei fari sei 6.1-18
4. parte III: la superiore giustizia del Regno 6.19-7.11
5. frase conclusiva + epilogo 7.12 + 13-27

Il Padre Nostro è incluso nella parte centrale (6.1-18) che a sua volta è tripartita. Gesù vi tratta tre diverse pratiche: fare 1'elemosina, pregare e digiunare (6.2,5,16). Nella discussione centrale è inserito come ampliamento il Padre Nostro. Strutturalmente quindi in Matteo il Padre Nostro occupa il cuore del discorso della montagna. Questo è, in confronto con le altre grandi allocuzioni di Gesù nel vangelo di Matteo, il discorso programmatico per eccellenza. A un livello più profondo è la giustizia del "Padre che è nei cieli" e "che vede nel segreto" il vero fulcro dell'intera argomentazione. Non a caso dunque questa catechesi sulla preghiera e questa preghiera esemplare stanno al centro dell'intera trattazione. Quando Tertulliano (verso il 200) chiama il Padre Nostro breviarium totius evangelii (compendio di tutto il vangelo), ciò è sicuramente vero alla luce della forma matteana.

Struttura interna

Il Padre Nostro in Matteo consiste in un'invocazione (v. 9a) e sette richieste, concluse nella tradizione posteriore da una dossologia (cf. già in Didachè 8.2: "perché tua è la potenza e la gloria nei secoli") .
L'esordio chiarisce immediatamente che abbiamo a che fare con una preghiera della comunità: "Padre Nostro...". Le quattro ultime richieste lo sottolineano ancora una volta: nostro pane, nostri peccati", "non farci entrare", "liberaci". "Chi professa Dio come Padre, professa anche il Figlio. Ma chi professa il Padre e il Figlio, annuncia anche la Madre, la Chiesa. Senza di essa non vi è Figlio e non vi è Padre. In questa parola 'Padre' adoriamo Lui con tutti i suoi, obbediamo alla sua Parola e ci distinguiamo da chiunque non vuole riconoscer Lo" (Tertulliano, seguito in ciò dalla maggior parte dei padri latini).
Le sette richieste si possono ripartire in due gruppi. Le prime tre concernono Dio stesso. Solo alla quarta 1'attenzione viene rivolta alla comunità e alle sue necessità. L'attenzione rivolta prima al Donatore di tutti i beni, e le suppliche collocate solo al secondo posto, costituiscono una struttura riconosciuta di ogni pregare, tanto presso i rabbi che presso i padri della chiesa.
I rabbi spiegano questa struttura nei loro commenti alle tradizionali preghiere giudaiche, in particolare alla grande preghiera delle Diciotto benedizioni, che veniva pronunziata nella sinagoga già al tempo di Gesù e degli apostoli. La struttura fondamentale delle Diciotto benedizioni prevede le suppliche al centro, dopo tre lodi, mentre le ultime tre vengono intese come ringraziamenti. Le dodici benedizioni centrali possono del resto essere abbreviate o sostituite in occasione di determinate solennità. Nel Talmud babilonese si legge:

Rabbi Simlai spiegava:
Sempre si deve prima lodare il Santo, benedetto Egli sia, e solo dopo pregare (vale a dire chiedere ciò di cui si ha bisogno). Come lo sappiamo? Da Mosè. Sta scritto infatti (che Mosè disse): "E allora Lo supplicai" (Dt 3.23). E sta scritto (vale a dire Mosè introduce così la sua preghiera): "Signore Dio, tu hai cominciato a far vedere al Tuo servo la Tua grandezza e la Tua forte mano: quale Dio vi è in cielo che compia tali potenti atti?" (Dt 3.24). E solo allora sta scritto (Dt 3.25): "Permettimi però di passare all' altra riva per vedere la buona terra" (b.Berachot 32a).

Inoltre leggiamo:

Rav Jehuda diceva:
Uno non deve mai chiedere cose personali nelle prime tre (delle diciotto benedizioni) e neppure nelle ultime tre, ma in quelle centrali.
R.Chanina diceva:
le prime fanno pensare a un servo che proclama la lode del suo padrone; quelle di mezzo a un servo che chiede favori al suo padrone; le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende nuovamente commiato (b.Berachot 34a).

Agostino, con altri padri della chiesa, ha chiaramente riconosciuto questa struttura nella preghiera del Signore:
"Ogniqualvolta chiediamo qualche cosa, dobbiamo prima cercare di guadagnare la benevolenza di colui al quale ci rivolgiamo (ad captandam benevolentiam, dicevano i manuali di retorica!). Poi gli si presenta l'oggetto della propria richiesta. Ora, la benevolenza di qualcuno si ottiene lodandolo, e questa lode si pone normalmente all'inizio della supplica. Perciò il Signore ci prescrive di dire semplicemente: Padre nostro che sei nei cieli" (Sermo 2,4; PL 34, 1275).

La preghiera biblica, e in particolare la salmodia, ci nutre per aiutarci a raggiungere una preghiera che sia così pienamente degna. Come hanno mostrato Cl. Westermann e altri esegeti moderni, la preghiera biblica di lamentazione è sempre preceduta dalla preghiera di lode ed è intrinsecamente orientata alla preghiera di lode e di ringraziamento. lo mi lamento per poter tornare presto a lodare Dio; e posso lamentarmi solo perché ho potuto lodare Dio una volta, ma ora non posso più (cf. in particolare Sal 22.2a,4-6,23-32). Un cuore formato dalla preghiera dei salmi biblici mira nel modo più profondo a lodare Dio in tutto e proprio per questo a indirizzargli tanto più liberamente il proprio lamento. L'uomo moderno spesso non sa più lamentarsi perché non ha mai imparato a lodare né a ringraziare. Il ritmo di lode, lamento o supplica e ringraziamento è proprio di chi ha imparato a stare nel Patto con il Dio vivente.
Il numero sette ha affascinato molti commentatori. In una ricca pagina del suo commento al discorso della montagna, Agostino ha sviluppato largamente il rapporto con i sette doni dello Spirito e con le sette beatitudini (5). Pubblicazioni recenti fanno delle sette richieste del Padre Nostro una metafora, per via del candelabro a sette bracci del T empio (presente anche nel T empio celeste, secondo Ap 4.5). Il numero non è certamente casuale in un evangelista come Matteo, sviluppatosi alla scuola rabbinica: vi sentiamo l'idea di completezza - come, alle origini, la settimana completa della creazione. Per il nostro cuore orante, ciò non è privo d'importanza: il Padre Nostro
è una preghiera completa che recitiamo di quando in quando nella sua completezza, come un piccolo "Credo", e che altre volte dobbiamo meditare nel nostro cuore in una forma più limitata, costituita da una o due richieste. Solo chi impara a pregare alternativamente secondo queste due misure non viene mai schiacciato dalla corrente troppo densa di richieste ricche di contenuto e neppure distolto, in un biascicare meccanico, dal profondo significato.
Un'ultima osservazione. Le due ultime richieste hanno comunque qualcosa di strano. Il Padre Nostro non finisce con un ringraziamento, e neppure con ciò che è molto tradizionale nella struttura della preghiera ebraica ufficiale, cioè una richiesta di pace. Tanto la versione lucana che quella matteana del Padre Nostro hanno conservato l'insolita forma in cui la preghiera finisce con un grido di miseria. La tradizione liturgica ha composto molto presto un' aggiunta (il cosiddetto "embolismo") in cui l'ultima parola viene ripresa e ulteriormente sviluppata in una preghiera per la pace, e conclusa con la nota dossologia: "Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen" .
Come movimento, il Padre Nostro sfocia quindi in un pressante grido di miseria. Qui possiamo ancora percepire qualcosa del rapporto originario tra il Padre Nostro e la preghiera di Gesù nel Gethsemani. Pregare il Padre Nostro orienta nel modo più profondo verso l'agonia messianica attraverso la quale è passato Gesù. Sull' altra riva della Prova e della lotta con il Maligno c'è la vittoria della Resurrezione, del Risorto in persona che dice: "lo ho vinto il mondo" (Gv 16.33). La dossologia che noi Roi siamo soliti proclamare, annunzia la vittoria. È bene tornare a pregare ogni tanto il Padre Nostro con questa finalità. Ciò dà alla nostra preghiera una maggiore intensità messianica, completa con un' autentica speranza messianica lo spessore di ciò che noi individualmente e collettivamente contribuiamo a realizzare nella storia e affretta di fatto il tempo prossimo del compimento. Così pregava anche Paolo, quando accoglieva appieno nel suo corpo mortale lo Spirito anelante alla libertà dei figli di Dio (Rm 8.18-30). In una delle più antiche catechesi sulla preghiera tramandateci dai padri del deserto (IV-V sec.), vediamo quanto liberamente un padre - uno dei più grandi che il deserto abbia prodotto - fornisse risposta a una domanda classica:

"Una volta vennero alcune persone dall' abba Macario e chiesero: 'Come dobbiamo pregare?' L'anziano disse loro: 'Non c'è bisogno di molte chiacchiere (cf. Mt 6.7), ma stendete le mani e dite: Signore, come Tu vuoi, e come Tu sai, abbi pietà di me! E quando la tentazione infuria: Signore, aiutami! Egli sa che cosa ci è necessario (cf. Mt 6.8) e perciò ci dimostra misericordia' "

È ben sorprendente che abba Macario non proponga il Padre Nostro come formula per pregare! Più ancora, si richiama proprio all'introduzione evangelica al Padre Nostro per pregare diversamente! Nel fare ciò, rimanda inequivocabilmente a Gesù nella sua agonia, non solo nel Gethsemani ("come Tu vuoi", cf. Mc 14.36), ma anche sulla croce ("stendete le mani"). Nel "come Tu sai" l'abbandono si apre la via fino al livello percepibile della preghiera, il che qui non è irrilevante, perché la preghiera stessa era di tipo percepibile. Inoltre, questo tratto viene ancora rinforzato alla fine dalle parole: "Egli sa bene che cosa ci è necessario ancor prima che gliela chiediamo" (di nuovo Mt 6.8, l'introduzione al Padre Nostro)! Qui impariamo come la preghiera, ogni preghiera, dunque anche il Padre Nostro, a poco a poco si semplifica finché si compie in una parola, in un grido (cf. Gv 19.28,30). La struttura del Padre Nostro, e soprattutto il modo in cui termina con questo doppio grido di miseria, corrisponde allo stesso movimento e resta in ciò un forte modello di come dobbiamo pregare.
Come nella storia del Padre Nostro abbiamo potuto tracciare una linea di sviluppo da una parola a una preghiera liturgica completa, così vediamo qui una tendenza nella direzione opposta, da molte parole a una sola e infine a un grido. Il nostro cuore arante ha bisogno alternativamente di entrambe le cose.

Parola per parola

"Padre nostro che sei nei cieli"

Questa invocazione contiene un paradosso innegabile. Simone Weil, ebrea, vi percepiva una certa ironia. In quanto "Padre", egli è Vicinanza. Con le parole "che sei nei cieli" Egli ci sovrasta in una sublimità inavvicinabile. Dal punto di vista ebraico, "padre nostro" senza l'aggiunta "nei cieli" rimanderebbe semplicemente ad Abramo (cf. Is 51.2; 63.16; Gv 8.390. Un'antica preghiera ebraica, che risale almeno a R. Akiba (+ 135), invoca Dio come "nostro Padre, nostro Re" (avinu malkenu). In Giovanni si trova l'espressione "Padre santo" (17.11). Il Te Deum romano formula lo stesso paradosso con queste parole: Pater immensae majestatis.
In Gesù, l'invocazione di Dio come Padre implica una reciprocità unica ed esclusiva. "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11.27). Grazie allo Spirito, anche noi possiamo partecipare a questa reciprocità. Ciò che Gesù dice qui si compie in ciascuno di noi nella misura del nostro abbandono allo Spirito. Questa reciprocità non è mai perfetta, non è mai conseguita e raggiunta una volta per tutte. Chi, guidato dallo Spirito di Dio, entra nello spazio libero dell' abbandono e dello scambio con Dio improntati all' amore (' 'tutto ciò che è mio è tuo"), non conosce più pausa. Se la reciprocità è perfetta, come Gesù testimonia per se stesso, allora la metafora Padre-Figlio è naturalmente e intrinsecamente superata. E anche per questo che ad alcuni oranti può bastare la sola invocazione.

Chiunque dice: "Padre Nostro", si lega a Gesù (il Padre suo è d'ora in poi anche il nostro) e alla vasta comunità di tutti coloro che, alla sua sequela, hanno in qualunque tempo pregato Dio così. A ragione i padri della chiesa vedono qui tematizzata al tempo stesso anche la chiesa come "madre".

"Sia santificato il tuo Nome"

Nulla è così biblico come questa prima richiesta. Maria la grida nel suo Magnificat - "perché santo è il suo Nome", e in ciò si accorda con le parole del primo salmo dell'Hallel: "Benedetto il Nome del Signore" (Sal 113.1-3, per tre volte!). Così anche Daniele benedice il Dio del cielo (Dn 2.20, inizio del suo ringraziamento). Questo versetto di Daniele e del salmo 113 è considerato dalla tradizione rabbinica come "uno dei pilastri sui quali si regge il mondo" (Sotah 49a). L'antica preghiera del Kaddish - conosciuta già al tempo di Gesù - ruota intorno a quell'unico riconoscimento: santo è il suo Nome (cf. anche l'esordio del salmo 103: "Voglio chiamarlo con il suo Nome il Dio santo, com'è vero che vivo", secondo la suggestiva traduzione di Oosterhuis e altri).
In questa preghiera si chiede che Dio stesso santifichi il suo Nome. Possa Egli manifestare il suo Nome, cioè la sua Persona che si comunica, con tutti i suoi attributi. Vieni in mezzo a noi, santifica te stesso e facci partecipi della tua santità fino in fondo al nostro essere (cf. Ezechiele, il sacerdote e profeta della santità di Dio, soprattutto in 36.20-38). Ciò implica anche che chi prega così si lascia afferrare fino all'estremo da questo Nome santificante. Nulla è tanto aperto al livello
Darash quanto questa richiesta. Perché noi non possiamo santificare il Nome se non lasciandolo entrare nella nostra vita con la sua azione santificante. Il Nome santifica ed è santificato in un medesimo processo.
Nel N.T. ciò non è mai formulato con tanta forza come nel vangelo di Giovanni. "Padre, glorifica il tuo Nome" diviene nella preghiera sacerdotale: "Padre, glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te". Il Nome del Padre implica il Figlio. La glorificazione del Nome paterno contiene in sé la glorificazione effettiva del Figlio stesso. Gesù, secondo Giovanni, glorifica il Nome nella morte, come il Padre ha glorificato il Figlio suo nell' esaltazione, al di là della morte in croce, nella gloria divina. Per Giovanni, questo processo di glorificazione reciproca è semplicemente amore. I martiri ebrei vengono designati ancora oggi con l'espressione "santificare il Nome". Il caso più alto di una tale morte impregnata d'amore si conserva nella memoria di tutti: il martirio dello straordinario Rabbi Akiba. Torturato dai Romani, recita ciononostante, alla sera, la preghiera prescritta. Così si collega con il sacrificio serale nel Tempio di Gerusalemme. I suoi discepoli vogliono risparmiargli quell'ultimo sforzo: "Maestro, ora però sei dispensato!". Ma egli risponde: "Tutta la vita ho bramato di poter davvero recitare lo Shema ("Ascolta...", prima parola di Dt 6.4 che introduce la preghiera) con il mio ultimo respiro (Dt 6.5, "Amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua anima" = respiro). Mi chiedevo: Quando verrà quell'ora? E ora che è venuta, come non dovrei compiere ciò che ho sempre desiderato?" E riprende la preghiera: "Shema Israel, Adonai Elohenu Adonai Ehad. Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è Uno". E proprio nel dire il Nome "Uno" esala l'ultimo respiro.

"Venga il tuo Regno"

Con questo Regno atteso s'intende nientemeno che il Re in persona, Dio in quanto sovrano del nostro mondo (cf. Is 52.7: "la buona notizia: il nostro Dio è Re!"). Con questa richiesta traduciamo in forma di preghiera il cuore della predicazione di Gesù. Egli stesso era - come si esprime Origene - "il Regno in persona" (autobasileia). La sua comparsa rendeva il Regno immediatamente presente. La giustizia, la pace, la riconciliazione e il perdono dei peccati che la sua venuta nel mondo portava, vengono nuovamente attualizzati in una sola parola mediante questa richiesta.
I padri della chiesa conoscevano una variante di questa seconda richiesta: "il tuo santo Spirito venga su di noi e ci purifichi". Vieni dunque con il tuo Spirito, soffia sulla tua creazione, "soffia dai quattro venti su queste nostre ossa" (Ez 37.9). Rinnova la faccia della terra (Sal 104.30). Lo Spirito è sempre il più immediato inizio del Regno che viene nella storia.
Massimo il Confessore (VII secolo) comprendeva la sequenza di "Padre" ,"Nome" e "Regno" come un movimento trinitario: il Padre santifica il suo Nome nella glorificazione del Figlio e fa venire il suo Regno effondendo lo Spirito nei nostri cuori.

"Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra"

La volontà di Dio viene fatta in cielo e là è compiuta dagli angeli. Lo ricordano sia i rabbi che i padri della chiesa (cf. tra l'altro Sal 103.21). Possa ora questa volontà essere compiuta anche sulla terra da noi uomini. Ciò corrisponde a una visione tipicamente matteana della chiesa e della storia. La chiesa è, d'ora in poi, il luogo dove cielo e terra sono una sola cosa nel Cristo risorto (cf. 28.18: "Mi è stato dato ogni potere nel cielo e sulla terra"; 9.6,8; 16.19; 18.18). Gli attributi divini relativi al portare perdono, misericordia, pace sono d'ora in avanti i segni distintivi della comunità cristiana (cf. tra l'altro le beatitudini e la successiva pericope sulla luce del mondo e il sale della terra, 5.3-16). Il versetto finale della preghiera del Kaddish sopra menzionata può benissimo avere influenzato qui la formulazione matteana: "Colui che crea la pace nel suo alto cielo, crei pace per noi e per tutto Israele. E di': Amen!".
Che cosa è la volontà di Dio? Il suo misterioso decreto, il suo beneplacito, il suo impenetrabile piano di creazione e rigenerazione? Il N. T. e in particolare anche il vangelo di Matteo esplicitano regolarmente questa "volontà". Nel contesto della preghiera, si deve citare innanzitutto il grande testo catechetico sulla preghiera di 1 Tm 2.1-8, dove è detto espressamente: "E la volontà di Dio nostro Salvatore che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità" (vv. 3-4). Tutti i padri della chiesa si richiamano spontaneamente a questa testimonianza (6). Altrettanto importante come formula circoscritta è il rinvio alla preghiera di Gesù nel Gethsemani (Mt 26.39,42). In tal modo, la richiesta finale della prima sezione del Padre Nostro si avvicina moltissimo alla fine della seconda e ultima sezione: "e non farci entrare nella Prova".
Le prime tre richieste formano un'unità. I grandi concetti di Nome, Regno e Volontà coincidono e si completano (7). La preghiera può ripeterli e recitarli, in libera associazione, in senso inverso. Il movimento si compie però certamente in un moto discendente continuo, dal cielo verso la terra, o anche dal Padre verso il Figlio, dallo Spirito ("il Regno") verso gli angeli ("nel cielo") e gli uomini ("sulla terra"), e anche dalla gloria verso il momento della lotta, evocato nell'ultima espressione che coincide con le parole di Gesù nell' orto degli Olivi. A.Hamman vi ha ravvisato una sequenza storico-salvifica: forse che il Nome non è stato fatto conoscere a Mosè, il Regno dato con David, che diviene il modello del Messia venturo, e la volontà a Esdra e ai pii conoscitori della Torah (8)?
È significativo che non meno della metà del Padre Nostro si soffermi su Dio. Ma così fa anche Gesù quando riconduce tutti i precetti della T 0rah a due cose: il primo comandamento concerne parimenti ed espressamente l'onore di Dio; l'amore del prossimo viene, anche là, al secondo posto. I due sono simili tra loro, precisa Gesù nel vangelo di Matteo (22.39). Sembra che questo sia il caso anche nella preghiera. Comunque, pregare che il Nome sia santificato, il Regno venga o la volontà sia fatta è cosa che non può essere realizzata senza che già si partecipi effettivamente, con il cuore e con l'anima, a questo Regno di giustizia e amore, alla volontà di Pace. Senza conversione e impegno per il prossimo neanche una delle richieste può essere pronunziata correttamente (cf. Mt 18.14).

"Dacci oggi il nostro pane 'quotidiano' "

Alla quarta richiesta, ogni traduttore inciampa nell' aggettivo che viene a qualificare il pane richiesto. In greco c'è epiousion. Questo termine quasi mai attestato altrove ha costituito un bel rompicapo per tutte le generazioni di esegeti. Non per questo la preghiera diviene totalmente incomprensibile! Un primo dettaglio che merita attenzione concerne la struttura sintattica e in particolare la ripetizione dell'articolo determinativo. Letteralmente, si ha: "il pane di noi, l'epiousion, dacci..." . Formulando così la preghiera, si chiede chiaramente un pane ben determinato, che si distingue da un altro pane. Qualunque significato possiamo dare al misterioso epiousion, si dovrà riconoscere una contrapposizione a un altro "pane". Ora, ci sembra che la migliore spiegazione di questo ricercato aggettivo consista nel considerarlo derivato dal sostantivo ousia (in greco il prefisso epi è necessario per la formazione di un aggettivo, senza avere per questo una grande valenza semantica). Ora, ousia significa: natura, essenza, realtà, anche potere e possesso. Tradotto, l'aggettivo significa allora: essenziale. Se lo ricollochiamo nel contesto, il senso suona allora: "il nostro pane, l'essenziale, il sostanziale, il necessario alla vita, daccelo oggi" (9).
Che cosa intendevano, ora, i primi cristiani quando insegnavano ai loro discepoli a pregare per il pane "sostanziale", "essenziale"? Secondo lo
Pshat, essenziale o necessario alla vita significa tanto ciò di cui abbiamo bisogno per restare in vita quanto ciò che realmente ci nutre nel tempo e nell'eternità. Al riguardo possiamo pensare alla preghiera del saggio Agur il quale non chiede né piùné meno che la sua razione quotidiana: "non darmi povertà né ricchezza; fammi godere del pane che è la mia razione" (Pr 30.8). Nell'orizzonte biblico (Remez!) un pane del genere evoca in primo luogo l'episodio della manna nel deserto (cf. Es 16). Là viene donato a ciascuno, precisamente "ogni giorno", il necessario secondo i suoi bisogni. Vista l'importanza dell'atto dello "spezzare il pane" nelle prime comunità, non è da escludere che questo pane qualificato come epiousion alludesse sin dall'inizio al rito della comunione. In questo spezzare si viveva tanto la comunione reciproca quanto l'intimo legame con il Signore risorto. Luca formula questa richiesta in un modo che fa pensare ancor più fortemente al gesto della comunione ripetuto quotidianamente: "continua a darcelo ogni giorno di nuovo". Quest'ultima espressione (to kath'hemeran) ritorna precisamente due volte in At 2.46 e 47, dove si riferiscono le abitudini quotidiane dei primi fratelli (e tra l'altro "lo spezzare il pane"). In questo contesto, lo scelto e ricercato termine epiousion può avere, entro la cerchia dei primi cristiani di lingua greca, la funzione di una parola in codice: per gli estranei, il significato è vago fino all'incomprensibile; per i membri della comunità rinvia inequivocabilmente a tutto ciò che viene esperito con l'intensa presenza allo "spezzare il pane" in Nome di Gesù.
Non è da escludere che anche al tempo di Gesù circolasse tra i discepoli un analogo modello di preghiera. Ogni giorno, Gesù e i suoi dipendevano, per il loro nutrimento, dall' ospitalità altrui. In Palestina, questa ospitalità fraterna era considerata un dovere (d'altronde, non sempre spontaneamente offerta: cf. Lc 11.5!). Questa preghiera, soprattutto nella versione di Matteo ("da' ", "oggi"), insegna ai discepoli ad accogliere con gratitudine, come dalle mani di Dio, l'ospitalità offerta o ricevuta, senza preoccuparsi ulteriormente del domani (Mt 6.34; anche 6.25-32) (10). È tipico del modo ebraico di trattare tutta la creazione, e in particolare il cibo quotidiano, il benedire sempre il Nome prima di fruirne. Nella struttura di questa preghiera si esprime una preziosa percezione, tipicamente ebraica: anche ciò che ci si è procacciato con le proprie mani è un dono. Nel momento in cui si sta per appropriarsene, s'impari a riconoscerlo per quello che realmente è, a riceverlo in gratitudine e a condividerlo in fraternità (11) .
I padri della chiesa hanno riferito spontaneamente questa richiesta al dono per eccellenza, "il vero cibo" , come Gesù spiega nel vangelo di Giovanni (cf. Gv 6.34). Per loro, questo pane è Cristo stesso (cf. Mc 8.14, dove l'enfaticamente sottolineato "solo un pane" non è senza significato cristologico). O ancora: la Parola di cui vogliono nutrirsi quotidianamente (cf. Dt 8.3 e Mt 4.4: "l'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio"). Solo in terzo luogo essi interpretano questo pane "quotidiano" o "soprasostanziale" come quello consumato nell' eucaristia.
Un padre ha anche questa osservazione riguardo al pane:

"Il povero ti chiede un pezzo di pane, e tu chiedi a Dio la vita eterna. Da' al povero, per diventare degno di partecipare a Cristo. Ascolta come dice: Da' e ti sarà dato (Lc 6.38). lo non riesco a capire come puoi pretendere di ricevere ciò che rifiuti di dare" (Cesario di Arles, VI sec.).

Il termine stesso "pane quotidiano" su di un pianeta dove milioni di persone soffrono la fame quotidiana è qualcosa che oggigiorno colpisce al cuore. Chi oggi prega il Padre Nostro, ha per lo più la tavola apparecchiata, e chi nel nostro mondo soffre la fame non ha ancora udito nulla delle parole di Gesù... Non si tratta allora solo di benedire Dio con cuore grato prima di fruire dei cibi. "Ho fame", così grida "uno di questi piccoli, mio fratello" proprio in questo giorno di oggi. Colui nel cui nome gridiamo: "Padre Nostro" è lo stesso che dall' altra parte del pianeta invoca pane. Non si deve ascoltare Dio prima che Egli possa ascoltarci?

"E rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori"

Il perdono sta al cuore del lieto annunzio di Gesù e non c'è testo del N.T. che non annunzi a chiare lettere il "perdono dei peccati"!
La seconda parte della frase, introdotta da "come anche noi..." ha meravigliato molti commentatori, sia dal punto di vista letterario che da quello teologico-spirituale. La preghiera a Dio non viene condizionata da una promessa dell'uomo? E non viene qui in qualche modo interrotto il movimento che attraversa il tutto? In Luca di fatto ciò si avverte in modo particolare. Una vera argomentazione (' 'infatti") viene qui a sostenere la supplica: "Infatti anche noi perdoniamo a chi ci deve qualcosa". Certi esegeti hanno poi anche sostenuto il carattere secondario di questa seconda metà del versetto.
Se si guarda al contesto più ampio della predicazione di Gesù (Remez!), la formulazione di questa preghiera per il perdono non è così sorprendente. Gesù precisa regolarmente la correlazione tra perdono di Dio e perdono fraterno. Indubbiamente l'iniziativa è sua: Dio ti ha perdonato tutto: com'è possibile allora che anche tu non condoni gli insignificanti" debiti" di tuo fratello? Si veda soprattutto la grande parabola dei due debitori in Mt 18.23-34; o in senso inverso, circa il pronunziare sentenze, Mt 7.1 ss. Che viceversa Dio non possa perdonarci se noi a nostra volta non vogliamo condonare spontaneamente i debiti di altri, è una conclusione che pure si segnala qua e là nel vangelo, tra l'altro alla luce del Giudizio finale (cf. soprattutto Mt 18.35; 6.14-15 proprio dopo il Padre Nostro; 5.25; cf. anche Mc 11.25 e Lc 6.37-38; nell'A.T. cf. Sir 28.2).
La preghiera è quindi formulata in rigoroso accordo con una tradizione dottrinale sul perdono. Qui l'elemento etico resta la norma intima dell' elemento cultuale (cf. Mt 5.24: "quando vai all'altare... va' prima a riconciliarti..."). La reciprocità (Darash!) dell'essere perdonato e del perdonare non può essere eliminata dalla preghiera. La serietà dell' esigenza etica imprime il suo marchio fin nella franchezza della preghiera. Quanto mai sintomatico è ciò che apprendiamo sul modo in cui gli abitanti dell' Africa settentrionale al tempo di Agostino reagivano a questa esigente richiesta. In una delle sue prediche, Agostino fa chiaramente risultare che i suoi contemporanei alla prima metà di questa quinta richiesta si battevano rumorosamente il petto, mentre preferivano tacere completamente le ultime parole! Il vescovo deve ammonirli a pronunziare insieme tutta la preghiera a voce alta e di conseguenza a perdonarsi scambievolmente di cuore!
Da' e perdona. La quarta e la quinta richiesta sono strettamente connesse. Il dono di Dio per eccellenza, che noi riceviamo anche nel pane comune, è lo Spirito di santità, la Parola che libera e riconcilia, il Consolatore nel quale ci sappiamo
perdonati. In questa grazia ricevuta non siamo solo riempiti o saziati, ma anche e soprattutto resi liberi per la solidarietà e la responsabilità fraterna in una comunità senza confini.

"E non farci entrare nella Prova, ma libera ci dal Maligno"

Anche queste ultime due richieste sono connesse: la seconda viene a completare la prima, ad aggiungerle forza e ad arrotondare l'insieme di sette richieste.
La tentazione o prova è vista come uno spazio nel quale si teme di dover entrare. La preghiera è allora un pressante appello: non condurci dentro la fornace di fuoco! Questa preghiera e la sua formulazione ricordano la preghiera notturna di Gesù nel Gethsemani (Mc 14.34-37 par.). Dietro questa espressione sta l'idea che l'era messianica non può giungere a compimento senza doglie, grandi sofferenze, violenti conflitti e una prova estrema. La preghiera cristiana, imitando l'agonia di Gesù, discende fin dentro questa fornace di fuoco e continua a gridare: "Signore, salvaci!". A certi santi è dato di dovere esperire la loro esistenza come "nell'inferno", mentre ottengono come unica parola da udire: "Sta' saldo e non disperare!". Il nostro mondo continua a durare grazie ad alcuni che partecipano direttamente alla grande sofferenza messianica (cf. Paolo in Col 1.24) e senza disperare perseverano nella preghiera.

"Perché tuo è il Regno,
la potenza e la gloria nei secoli. Amen."

Prestissimo, nella tradizione cristiana del Padre Nostro, si è avvertita la difficoltà di una preghiera che termina con "il Maligno". La tradizionale preghiera ebraica è particolarmente istruttiva da questo punto di vista: "tutte le preghiere hanno come scopo la Pace, e non c'è preghiera che non si concluda con una richiesta di pace". Perciò già nella versione della Didachè, e anche in alcuni antichi manoscritti di Matteo, ma soprattutto nei libri liturgici si è concluso il Padre Nostro con una dossologia.
In questa dossologia - che non è priva di paralleli nella bibbia e nelle liturgie ebraiche - la preghiera sfocia in lode e compie in tal modo il movimento: da lode a lode, da Regno a Regno, da speranza e attesa a vittoria e gloria.

CONCLUSIONE

In che modo Rabbi Akiba è riuscito a entrare nel PaRDeS, nel PaRaDiSo, attraverso Pshat, Remez, Darash e infine Sod, e a tornarne sano e salvo, con il suo intelletto e senza rinnegare la fede ortodossa? La questione resta aperta! Il maestro ebreo che mi raccontò questa storia "paradisiaca", Armand Abécassis, vive ora a Strasburgo, ma è di origine marocchina. È dunque ciò che si chiama un Sepharad o ebreo "occidentale". Il suo maestro, completamente immerso nell' ebraismo marocchino, risolveva l'enigma nel modo seguente. "Rabbi Akiba è tornato illeso dal PaRaDiSo perché era un SePaRaD!" Un Sepharad, come puoi ben notare, è qualcuno che prima dello Pshat mette un Sod! Legge quindi dal Sod allo Pshat e finisce con il Darash! SPRD!
Abbiamo analizzato il Padre Nostro, tendendo l'orecchio, su tutti e quattro i livelli. Forse alla fine di questa ricerca Rabbi Akiba, il SePaRaD ante litteram, può prestarci ancora un ultimo servizio. Se vogliamo pregare in modo nuovo il Padre Nostro, l'approccio che situa il Sod - il mistero - prima dello Pshat - Remez - Darash può essere estremamente fecondo. Al livello del Sod è infatti in primo luogo lo Spirito che prega in noi. Se gli concediamo la priorità nel nostro cercare con la preghiera, le antiche parole diventano di nuovo fuoco sulle nostre labbra e Dio si ritrova sulla nostra terra, così come noi sperimentiamo qui e ora il suo cielo.
Benedetto (VI secolo) prescrive nella sua Regola che l'abate preghi il Padre Nostro a voce alta due volte al giorno, nella preghiera del mattino e in quella della sera. Inoltre, si prega il Padre Nostro alla fine delle ore minori, ma allora in silenzio. Chi presiede dice semplicemente: "Padre Nostro" e ciascuno continua a pregare nel suo cuore, finché chi presiede riprende a voce alta: "E non ci indurre in tentazione", al che tutti rispondono: "Ma liberaci dal male".
Non vi è qui, in questa doppia maniera di pregare il Padre Nostro, un pratico specchio per la nostra prassi di preghiera, ai nostri giorni? Il Padre Nostro è una preghiera della comunità che dev'essere regolarmente recitata in forma pubblica. Contiene il nucleo della nostra fede cristiana, della nostra speranza e del nostro amore fraterno. Riunisce i temi più essenziali della predicazione di Gesù ed esprime con forza e concisione la nostra identità come suoi seguaci. Ogni commento al Padre Nostro non è anche una catechesi su ciò che è specificamente cristiano?
Ma il Padre Nostro è anche l'intima preghiera del cuore, ispirataci dallo Spirito. Questa preghiera non conosce confini; divampa con molte parole o con una parola soltanto. Penetra più a fondo di tutte le formule prese insieme e in un ardore senza parole divampa pura davanti a Dio in Dio. Quotidianamente e anche più volte al giorno possiamo riprendere le antiche parole, e in un' espressione, in una sola supplica, effondere tutto il nostro cuore davanti a Dio. Forse dobbiamo per un certo tempo imparare di nuovo a regolare il ritmo del nostro sussurro interiore con questa ben nota preghiera orale che muove dalle ispirazioni comunicateci dallo Spirito, e soprattutto a fare attenzione alla sua azione, inabitazione, vicinanza, piuttosto che alla ripetizione esteriore di formule imposte. Quanto più grande è la nostra fede in Colui che lasciamo entrare in noi attraverso queste poche parole, tanto più semplice e spontanea può scorrere la preghiera. "Lo Spirito stesso viene a confermarci nel cuore che siamo figli di Dio. E lo siamo realmente, insieme con Cristo. Ma ciò che saremo non è ancora manifesto. Ora viviamo nella Speranza" (Rm 8; 1Gv 3.1 ss.).


NOTE

1) Cf. A.Van Der Heide, "Pardes", in Amsterdamse Cahiers 3 (1982) pp. 118-165 e A. Abécassis, "L'aventure des quatre rabbis dans le Pardès" in Cahiers de l'Université de Saint-Jean de Jérusalem n 10 (1984) pp. 11-30.
2) In certi antichi manoscritti e in alcuni Padri greci (per es. Gregorio di Nissa, IV secolo) si trova per la versione di Luca (11.2c) al posto di Venga il tuo Regno la seguente espressione: Venga il tuo santo Spirito su di noi e ci purifichi. Tertulliano, nel suo commento al Padre Nostro matteano, situa la terza richiesta (sulla volontà) prima di quella sul Regno. L'ordine delle prime tre richieste non sembra dunque essere dappertutto lo stesso verso il 200.
3) La Didachè, che ricevette forma definitiva verso la fine del primo secolo o l'inizio del secondo, ma che raccoglie tradizioni antichissime, comprende anch'essa un Padre Nostro dal tenore strettamente parallelo a quello di Matteo, con l'aggiunta di una dossologia finale. Qua e là si possono notare anche alcune piccole divergenze.
"Padre nostro che sei nel cielo (sing.!)
sia santificato il tuo Nome,
venga il tuo Regno (eltheto invece di elthato di Matteo e Luca),
sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
Il nostro pane, l'epiousion,
dacci oggi
e rimetti a noi il nostro debito (sing.!)
come anche noi rimettiamo (aphiemen invece di aphekamen di Matteo e aphiomen di Luca) ai nostri debitori,
e non farci entrare nella Prova
ma liberaci dal Maligno,
perché Tua è la potenza e la gloria (niente "Regno"!) nei secoli.
(Didachè 8.2, senza Amen alla fine; la stessa dossologia ricorre al" tre due volte: 9.4 e 10.5). L'introduzione al Padre Nostro ricorda direttamente il contesto matteano nel discorso della montagna ("pregare come Gesù ha insegnato nel suo Vangelo", "non come gli ipocriti"). Il Padre Nostro viene poi visto come una preghiera regolare che si recita tre volte al giorno. Proprio come i giudei osservano il digiuno due volte la settimana, così i discepoli di Gesù in questo documento fanno lo stesso ma in giorni diversi (il mercoledì e il venerdì, in contrapposizione all'uso farisaico del lunedì e del giovedì!). La stessa cosa è dunque sottintesa per la preghiera: entrambi pregano tre volte al giorno.
4) S.Dockx, "La genèse du Notre Père" in Chronologies 19842, p. 301.
5) Cf. A.Hamman, Le Pater expliqué par les Pères, Paris 1962, pp. 168-170.
6) Altre definizioni dell'unica volontà di Dio si trovano tra l'altro
in Paolo: 1Ts 4.3,7; 5.16-18; Rm 12.1-2; Ef 1-3;
in Matteo: 11.25; 16.17 ss.; 18.10,14; 26.39,42;
in Giovanni: 4.34; 5.30; 6.39; 17.4; 19.30.
7) Si veda la strofe d'apertura del Kaddish: "Magnificato e santificato sia il suo Nome nel mondo che Egli creò secondo la sua Volontà ed Egli stabilisca il suo Regno nella nostra vita e nei nostri giorni e nella vita della santa casa d'Israele, presto e in fretta".
8) Op. cit., pp. 15-16.
9) Origene nel suo commento sviluppò spontaneamente, meno da filologo ma tuttavia con una conoscenza del greco superiore alla media, la sua interpretazione sulla base del sostantivo ousia. Girolamo tradusse sulle orme del suo predecessore greco: supersubstantialis (il più essenziale); la traduzione che la Vulgata dà dello stesso termine in Lc 11.3 è però (come l'antica Itala), panem quotidianum - il pane quotidiano.
10) In questo contesto si cita spesso un detto di R. Eleazar di Modiim (ca. 90 d.C.): "Chi ha pane nel suo cesto e dice: 'Che cosa mangerò domani?', appartiene agli uomini di poca fede" (b.Sotah 48b).
11) Esemplare è analoga alla nostra quarta richiesta nel Padre Nostro è la preghiera per la guarigione nella Amida delle Diciotto benedizioni. Si benedice Dio per il fatto che ci guarisce. Anche se non siamo malati, tuttavia lo benediciamo. Perché la nostra salute attuale è già un segno che Egli ci guarisce: sia che ci abbia salvato in passato, sia che ci protegga ora contro tutti i mali possibili. Inoltre il pio ebreo prega le Diciotto benedizioni al plurale: prega quindi con i malati d'Israele e a loro nome. Del resto, "se un membro è malato, tutto il corpo ne è affetto.,," (1Cor 12).