mercoledì 15 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 1. - In stato di conversione



Ci sono degli autori che davvero ci aiutano tanto nel cammino di questa vita, si tratta di profeti, di uomini alla lettera "pneumatofori", che cioè trasmettono lo Spirito Santo, quello stesso che fa vivere la Chiesa, come ci ha ricordato il Papa nella omelia della Messa di pentecoste (v. post dal titolo "Del Tuo Spirito, Signore, è piena la Terra", del 12 giugno). Tra di essi senza dubbio c'è Andrè Louf, abate di Mont-des-Cats, recentemente scomparso, di cui riporto un suo preziosissimo testo dal titolo: "Sotto la guida dello Spirito" - Qiqajon, Bose, 2005. A puntate. Decisamente da leggere e meditare nella preghiera...

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SOTTO LA GUIDA DELLO SPIRITO


IN STATO DI CONVERSIONE

Tra l’ira e la grazia


Quando la grazia invade una persona per la prima volta si parla di conversione: si considera quella persona convertita o in cam­mino di conversione. Per il linguaggio corrente si tratta di un evento importantissimo, anche se momentaneo, che deve anco­ra accadere o che si è già prodotto da tempo. Ma nessuno sem­bra ritenere che la conversione sia ancora necessaria, salvo in caso di apostasia. Di conseguenza il termine derivato, converti­to, riguarda solo una categoria ben precisa di credenti: quelli che hanno ricevuto la fede in età adulta. Perciò il neonato battezza­to, che ha ricevuto la fede in tenerissima età - ed è la condizio­ne della maggior parte dei cristiani - non sarà mai chiamato con­vertito: apparentemente non avrà mai nulla a che fare con la con­versione. Solo quelli che vivono al di fuori della fede, oppure che non vivono secondo la loro fede bensì nel peccato, dovrebbero preoc­cuparsi della conversione: non così il credente di tutti i giorni e soprattutto non il cristiano fervente. Eppure bisogna ricordare che la Bibbia parla spesso, e in mo­do molto esplicito, di conversione, e della conversione di cia­scuno. Il primo annuncio della buona novella, proclamato da Gio­vanni Battista, si riassume proprio in questo invito pressante: "Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!" (Mt 3,2). E’ questa vicinanza a rendere così necessaria la conversione: infat­ti, dice Giovanni ai farisei e ai sadducei che vengono da lui per farsi battezzare, l'ira e la vendetta di Dio incombono: "Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all'ira imminente? Fa­te dunque un frutto degno di conversione (...). Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con ac­qua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più po­tente di me (...) e vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibi­le" (Mt 3,1-12). Giovanni Battista collega la conversione con la presenza di Gesù, con il giudizio imminente e con il fuoco improvviso acce­so dall'ira di Dio, dalla quale dobbiamo essere liberati. Ira e ven­detta, attribuite a Dio, non sono nozioni facili da accettare, e lo è ancor meno la scure alla radice degli alberi: sono concetti che, in modo più o meno cosciente, abbiamo relegato all'Antico Testamento, come se potessero scomparire dall'orizzonte e aves­sero perso la loro ragione di esistere con la venuta di Gesù. Ma alle soglie del Nuovo Testamento la venuta di Gesù è an­nunciata proprio da questa antica immagine: nella persona di Gesù, Dio ha impugnato il ventilabro ed è pronto a pulire la sua aia. Questo è il battesimo portato da Gesù: battesimo per la conversione, ma anche battesimo in Spirito santo e fuoco. Quanto detto sembra perciò indicare che dobbiamo ancora far fronte, in un modo o in un altro, all'ira di Dio e che questo può avvenire solo in Gesù. Ho già incontrato l'ira di Dio nella mia vita? In caso negativo, ho ancora bisogno della grazia? Questa infatti non è forse legata all'ira da cui mi libera in ogni momen­to? In Gesù non sono forse incessantemente esposto all'ira e al­la grazia, preso in mezzo, nel luogo in cui potrebbe situarsi la conversione? Molto tempo dopo la morte e la resurrezione di Gesù, Paolo - all'inizio della sua grande sintesi teologica sulla grazia - scriverà ai cristiani di Roma: "L'ira di Dio si rivela" (Rm 1,18). E’ pur vero che altrove Paolo annuncia che anche la gloria di Dio deve rivelarsi (cf. Rm 8,18), ma questa gloria è sempre precedu­ta dall'ira. "Per natura - dirà ancora Paolo - eravamo meritevoli d'ira" (Ef 2,3). L'amore e la grazia sono eccezioni in rapporto all'ira e suppongono che noi siamo stati scelti in modo speciale per esserne liberati. Lo stato di grazia è eccezionale rispetto al­lo stato di ira che, infatti, è la nostra condizione primaria: ecce­zione colma di amore, a motivo di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Altri passaggi del Nuovo Testamento ci illuminano maggior­mente su questa ira di Dio, dicendoci in particolare che non si situa nel passato ma che deve ancora venire e ci attende nel fu­turo. Paolo utilizza spesso l'espressione "l'ira che viene" (Ef 5,6; Col 3,6), mentre Giovanni preferisce parlare dell'ira già venuta ma che non cessa di incombere sull'uomo (cf. Gv 3,36). L'Apo­calisse parla del "gran giorno dell'ira", il giorno in cui Dio "da­rà da bere la coppa di vino della sua ira ardente" (Ap 16,19). L'immagine della coppa dell'ira che Dio ci fa bere è molto vicina a un'altra coppa di cui ci parla la Scrittura: il calice della passione di Gesù. Nelle mani di Gesù la coppa dell'ira diventa il calice della salvezza, la bevanda mortale dell'ira diventa una bevanda d'amore. Come Gesù, anche noi riceviamo questo cali­ce dalla mano di Dio, per berlo a nostra volta; e anche per noi questo calice è una coppa di vendetta oppure di tenerezza. Noi siamo ebbri: o dell'ira di Dio o dell'amore di Dio, ma il passag­gio dall'una all'altro può avvenire solo con Gesù e grazie a lui. Per questo il nostro calice di sofferenza non sarà diverso da quello di Gesù: lui solo infatti, avendo bevuto la coppa fino alla fec­cia, può liberarci dall'ira di Dio, lui solo può fare in modo che la coppa dell'ira diventi anche per noi il calice della salvezza. Questo passaggio richiede molto tempo e nulla è assicurato, anche se Paolo ci esorta a guardare con fiducia verso l'ira ven­tura: "Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, men­tre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A mag­gior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dal­l'ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita" (Rm 5,8-10). In un altro passaggio Paolo afferma an­cora che è Gesù "che ci libera dall'ira ventura" (1Ts 1,10). Sia­mo quindi stati liberati una prima volta dall'ira quando i nostri peccati sono stati cancellati dal battesimo, ma eccoci nuovamente confrontati a questa stessa ira di Dio che è ancora davanti a noi. Da questo deriva la grande importanza del momento presente: è il kairos, il tempo della salvezza nel quale viviamo e nel quale ci è concesso di operare la scelta decisiva, nella potenza della morte e della resurrezione di Gesù. Ciò che sarà domani infatti è già offerto oggi, pur se ancora nella speranza, una speranza che cresce sempre fino al compimento alla fine dei tempi. Questa scelta decisiva tra l'ira e la grazia - che è la scelta di domani ma è già la scelta di oggi, è la scelta di oggi per domani - è proprio quello che chiamiamo la conversione. Questa parola è la traduzione del termine neotestamentario metanoein, che a sua volta cerca di rendere l'espressione ebraica shub. Questa ra­dice semitica significa semplicemente voltarsi, tornare sui propri passi e, solo di conseguenza, convertirsi: l'accento è quindi posto sul rovesciamento che si produce. Il termine greco metanoein pre­cisa questo rovesciamento: contiene due radici di cui la prima, come l'ebraico, sottolinea il capovolgimento, mentre la seconda ci rivela cosa viene sconvolto da un tale rivolgimento: il nous, cioè il fondo spirituale, il nostro cuore più profondo. Si tratta quindi di una rivoluzione all'interno di noi stessi, che il termine conversione, ormai impoverito da un uso eccessivo, non rende con forza sufficiente. Altrove, in un contesto identico, la Bib­bia parla di metanoen kai epistréphein (At 3,19): lasciarsi scon­volgere, rivoluzionare completamente per voltarsi verso qualco­sa o qualcuno. Si tratta di un cambiamento radicale con il quale una persona torna sui suoi passi per imboccare una nuova di­rezione.


Continuamente in conversione

Qui riaffiora la domanda posta all'inizio di questo capitolo: in che senso abbiamo ancora oggi bisogno di conversione? Non l'abbiamo ricevuta una volta per tutte nel battesimo? Dovreb­be essere una questione già chiusa e adesso dovremmo essere in cammino - naturalmente con alti e bassi, con cadute e riprese - verso la perfezione e la santità. Questa è effettivamente l'im­magine che ci facciamo del cammino sul quale procedono tutti i cristiani. In pratica questo cammino sarebbe diviso in tre tappe: all'i­nizio l'incredulità e il peccato, poi il passo decisivo della con­versione e infine la ricerca della perfezione. E ciascuno di noi si colloca spontaneamente - e non senza un certo candore - in un punto imprecisato della terza tappa, a un livello più o meno avanzato. La realtà non è né così semplice né così complicata: la grazia infatti è la semplicità stessa. La difficoltà sta nel fatto che la vita nello Spirito santo non è facile da discernere. Linee di for­za diverse si incrociano incessantemente e perciò la confusione, così come l'illusione, è sempre possibile: non è sempre facile di­stinguere queste linee le une dalle altre. In realtà il peccato, la conversione e la grazia non sono semplicemente tre tappe in suc­cessione; nella vita quotidiana a volte sono inestricabili, cresco­no insieme, in una reciproca dipendenza. Non mi trovo mai to­talmente nell'una o nell'altra, sono incessantemente in tutte e tre nel contempo: il peccato, la conversione e la grazia sono il mio pane e la mia porzione quotidiana. Anche nel regno dei cie­li, per quanto vissuto già quaggiù, avviene la stessa cosa, stando alle parole di Gesù; neanche là i peccatori sono assenti: anzi, i pubblicani e le prostitute vi entrano per primi e precedono tutti gli altri (cf. Mt 21,28-32). Queste tre tappe non rappresentano tre gradini di una scala di valori, non passiamo dall'una all'altra come se salissimo le scale, non sono tre galloni che cuciamo l'uno dopo l'altro sulla mani­ca. No! Prima della morte non diciamo mai addio del tutto al­l'una o all'altra delle tre. Restiamo sempre peccatori, siamo con­tinuamente in conversione e in questo siamo costantemente san­tificati dallo Spirito di Dio. Non possiamo mai appartenere a quella categoria di persone di cui Gesù ha detto "che non han­no bisogno di conversione" (Lc 15,7) perché si credono giusti: in tal caso non avremmo più bisogno di Gesù. Forse saremmo ancora in cammino verso Dio, ma soli, nel senso più "solitario" del termine, irrimediabilmente soli, continuamente in preda a noi stessi, sotto un'apparenza di santità che cercheremmo inva­no di realizzare; ci sentiremmo sempre più profondamente fru­strati perché non incontreremmo mai l'amore autentico. E’ sempre illusorio credersi convertiti una volta per tutte. No, non siamo mai dei semplici peccatori, ma dei peccatori perdo­nati, dei peccatori-in-perdono, dei peccatori-in-conversione. Non è data un'altra santità quaggiù perché la grazia non può agire diversamente. Convertirsi significa ricominciare sempre questo rivolgimento interiore, per mezzo del quale la nostra povertà uma­na - quella che Paolo chiama la carne - si volta verso la grazia di Dio. Dalla legge della lettera, passa alla legge dello Spirito e della libertà, dall'ira alla grazia. Questo ribaltamento non è mai concluso, perché non fa altro che ricominciare sempre. An­tonio il Grande, patriarca e padre di tutti i monaci, lo diceva in modo lapidario: "Ogni mattina mi dico: oggi comincio. E abba Poemen, il più famoso dei padri del deserto dopo Anto­nio, quando in punto di morte veniva lodato per aver vissuto una vita beata e virtuosa che lo metteva in condizione di pre­sentarsi a Dio con estrema tranquillità, rispose: "Devo ancora cominciare, stavo appena iniziando a convertirmi" e pianse. La conversione infatti è sempre una questione di tempo: l'uomo ha bisogno di tempo e anche Dio vuole avere bisogno di tempo con noi. Ci faremmo un'immagine dell'uomo assolutamente er­rata se pensassimo che le cose importanti nella vita di un uomo possono realizzarsi immediatamente e una volta per tutte. L'uomo è fatto in modo tale che ha bisogno di tempo per crescere, ma­turare e sviluppare tutte le proprie capacità: Dio lo sa meglio di noi e per questo aspetta, non desiste, è indulgente, longani­me. Dio ci aspetta come un pescatore paziente, per usare l'e­spressione di un poeta. To chreston tou theou eis metdnoian se agei, scrive Paolo (Rm 2,4): "La bontà di Dio ti spinge alla con­versione". Non la collera ma, al contrario, tò chrestén, il suo af­fetto, la sua bontà, la sua pazienza. Nel prologo della sua rego­la, Benedetto ne fa un commento pregnante: Dio è ogni giorno alla ricerca del suo operaio e il tempo che ci dà è ad inducias, è una dilazione, un dono, un tempo di grazia che ci viene accor­dato gratuitamente. E’ un tempo che possiamo utilizzare per in­contrare Dio ancora una volta, per incontrarlo sempre meglio nella sua stupenda misericordia. Sarà solo più tardi, dopo la no­stra morte, che potremo vivere fuori del tempo, e per sempre. Oggi il tempo ci è concesso per conoscere sempre meglio Dio: è sempre un tempo di conversione e di grazia, dono della sua misericordia.


Anche il peccatore incallito

Dio si occupa di noi ogni giorno, ci chiama alla conversione: "Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il cuore" (Sal 95,8). Dio ci parla in molti modi: attraverso la sua Parola, per mezzo delle persone con le quali viviamo, con le circostanze più svaria­te, felici o dolorose. E’ sono queste ultime le maggiormente temute: sappiamo fin troppo bene che Dio ha qualcosa da dirci tramite la prova, la malattia, la morte, la contraddizione. Se que­sto timore pervade ancora il nostro cuore, significa che solo la collera di Dio è presente al nostro spirito, che non siamo ancora in grado di discernere, dietro il segno apparente della collera, l'amore infinito di Dio. L'abbiamo già visto prima: in Gesù, la collera di Dio si è trasformata in amore o, per meglio dire, la collera non è altro che un tentativo provvisorio di farci capire il suo amore. Se temiamo ancora gli interventi di Dio, se li interpretiamo spontaneamente come un'espressione della sua collera, significa che, in un modo o nell'altro, siamo ancora fissati a questo prov­visorio, non abbiamo ancora sperimentato l'amore di Dio, la sua sconvolgente tenerezza. Qualcuno potrebbe dire che questa paura è proprio il segno che siamo colpevoli, la testimonianza dei rimproveri che la no­stra coscienza ci muove e della meritata punizione di Dio: solo i peccatori dovrebbero temere la collera di Dio e chi la teme mo­stra così di essere peccatore. Un simile ragionamento non è poi così evidente, anche se ri­flette bene la reazione abituale del credente medio di oggi. In realtà, se percorriamo l'evangelo, non è assolutamente evidente che il peccatore debba temere Gesù, anzi. Gesù non ha forse risposto a più riprese di non essere venuto per i giusti ma pro­prio per i peccatori (cf. Mt 9,13)? D'altra parte non è affatto dimostrato che solo i peccatori te­mono Dio: in realtà si incontrano numerosi credenti, numerosi "giusti" - per usare un termine biblico - che considerano con pari incertezza e timore il loro eventuale incontro con Dio. Fanno del loro meglio per scongiurare questa disgrazia a colpi di gene­rosità e di virtù; più vi riescono - e una riuscita di tal genere è sempre relativa - più pensano di avere possibilità di evitare la collera di Dio e di meritare il suo amore. In realtà ci sono due categorie di persone che, per il momen­to, devono temere la collera di Dio: da un lato i peccatori incal­liti e dall'altro i giusti incalliti. Il peccatore incallito, cioè chi non vuole assolutamente sentir parlare di rovesciamento, dovrà alla fine affrontare la collera di Dio, anche se riesce a eluderla abilmente nella vita quotidiana. Ma è lecito pensare che in real­tà esistono pochissimi peccatori incalliti. Invece i giusti incalliti sono indubbiamente molto più nume­rosi: persone che - se è lecito esprimersi in questi termini - non conoscono la misericordia di Dio e cercano di fare sempre me­glio per il semplice motivo che hanno paura della collera di Dio. Si sentiranno più o meno liberate da questa paura nella misura in cui sono capaci di realizzare il loro ideale nella vita quotidia­na. A lungo andare questo può anche diventare sopportabile, purtuttavia costoro vivono con una ben magra consolazione: e il motivo per cui sono raramente convincenti e ancor meno con­tagiosi. Sono persone che non conoscono ancora l'amore e quel po' di vita che li abita deriva piuttosto da un certo autocompia­cimento che rischia di isolani ancor di più dagli altri. Hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2) e siccome non hanno sentito parlare della grazia, non sperano nulla di più. La loro vita sarebbe senza prospettiva e priva di sbocchi se il termine "incallito", usato sia per i peccatori che per i giusti, lasciasse supporre una condizione definitiva. Invece tutto è provvisorio nella vita dell'uomo, tutto è legato al tempo: in questo senso i peccatori come i giusti vivono nel tempo, un tempo che è do­no di Dio per loro, un tempo di grazia e quindi un tempo aperto alla conversione. Né il peccatore incallito né il giusto incallito resteranno tali per sempre, tutti sono chiamati a diventare "pec­catori in conversione". È quanto cerchiamo di sviluppare in que­sto libro: non è una verità immediatamente evidente, né facile da spiegare. Non è qualcosa che si può fissare in una definizio­ne: si può solo cercare di descriverla, a partire dall'esperienza personale, forzatamente limitata, e dall'esperienza di coloro con i quali si è potuto entrare in contatto. In fin dei conti è più faci­le dire ciò che questa realtà non è: infatti è molto più conforte­vole vivere da peccatore o da giusto incallito che da peccatore in conversione. Eppure la grazia ci spinge giorno dopo giorno proprio a questo rovesciamento interiore: Dio viene a toccarci in infiniti modi per renderci docili a questo stato di conversio­ne; da parte nostra possiamo solo prepararci a essere toccati da Dio. Dovranno accadere molte cose, assolutamente al di fuori del­la nostra buona volontà e della nostra generosità naturale. Que­sto rovesciamento non implica una semplice ferita interiore, ma una vera e propria lacerazione che colpisce le nostre fondamen­ta; implica una probabile rottura e dei frantumi, uno sgretolamento inarrestabile: come un edificio in cemento armato, al quale possiamo aver lavorato per anni con estrema cura e che, a un certo punto, si è messo a funzionare solo come uno scudo con­tro il nostro io più profondo e contro gli altri, finendo col ri­schiare di proteggerci anche contro la grazia di Dio. Questo crollo è solo un inizio, ma è già gravido di speranza: bisognerà evitare soprattutto il tentativo di ricostruire ciò che la grazia ha demolito. Anche questo non è facile da imparare: la tentazione di montare qualche impalcatura davanti alla fac­ciata pericolante e di rimettersi all'opera è infatti sempre molto grande. Dobbiamo imparare a dimorare accanto alle nostre ro­vine, a sederci in mezzo ai detriti senza amarezza, senza rim­proverare noi stessi né accusare Dio. Dovremo appoggiarci a que­sti muri in rovina, pieni di speranza e di abbandono, con la fi­ducia del bambino che sogna che suo padre aggiusterà tutto; perché lui, il padre, sa come tutto può essere ricostruito diver­samente, molto meglio di prima. Proprio come il figlio prodigo, per il quale molte cose erano in brandelli: il denaro, l'onore, il cuore; aveva perso tutto ciò che poteva attendersi dalle creatu­re e purtuttavia, pieno di fiducia, decise di tornare da suo pa­dre. Istintivamente presentiva che oltre al servitore che spera­va di diventare, aveva ancora la possibilità di restare il figlio: chi è stato figlio una volta, lo resta per sempre. Nel momento stesso in cui il figlio perduto si riconcilia con i propri detriti è già a casa propria, al sicuro accanto al padre. Chi al contrario lotta contro i propri detriti, continua a lottare contro il padre e contro Dio, resta ancora e sempre esposto alla collera, non è ancora capace di riconoscere l'amore. Ma chi si abbandona al punto di rallegrarsi e di convivere con la propria miseria, questi si è già arreso all'amore liberatore. "Dimorare nella conversione" ci e possibile solo grazie a Ge­sù, instradati e fortificati dallo Spirito di Dio. Si realizza in noi quello che è accaduto a Gesù nel mistero della sua morte e re­surrezione: la fiducia e l'abbandono di Gesù al Padre, attraver­so la morte, hanno reso inefficace per sempre la collera di Dio e ci rendono capaci - se uniti a lui - di riconoscere l'amore del Padre al di là di ogni morte e di ogni rinuncia, perfino nella no­stra più profonda debolezza. Essere in conversione significa pas­sare incessantemente al mistero del peccato e della grazia - at­tenzione: non "passare dal peccato alla grazia", ma proprio "pas­sare al mistero del peccato e della grazia" -; significa l'abbandono di qualsiasi autogiustificazione, di qualsiasi giustizia provenien­te da noi e l'ammissione del nostro peccato per aprirci alla gra­zia di Dio. Ecco la meraviglia del peccatore-che-si-converte, che Gesù stes­so proclama essere la gioia più grande per il Padre nei cieli: "In verità vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione" (Lc 15,7). Il meraviglioso uomo-pasquale, che incessantemente muore in Gesù e risuscita con lui, è la gioia e la fierezza del Padre: è una meraviglia che si rinnova ogni gior­no e che non conosce fine perché, finché siamo in questa vita, Dio è sempre all'opera. Il tempo e la durata della nostra vita, infatti, rappresentano anche una forma della grazia venuta nel­la nostra carne: l'amore illimitato e indefettibile di Dio. Così potremo ogni giorno stabilirci nella conversione, con il cuore col­mo di rendimento di grazie. Un passo al di fuori di questo stato di conversione sarebbe un passo al di fuori di Dio e del suo amore, e questo anche se continuassimo a pensare a Dio, a parlare di lui, ad annunciarlo: la preghiera stessa rivolta a Dio diventereb­be impossibile, perché non esiste preghiera autentica al di fuori di una continua conversione. Estranei alla conversione siamo estranei all'amore. In questo caso rimarrebbero all'uomo due sole alternative: o l'autosoddi­sfazione e la giustizia propria, oppure una profonda insoddisfa­zione e la disperazione. Al di fuori della conversione non possiamo stare in presenza del vero Dio: non saremmo davanti a Dio bensì davanti a uno dei nostri numerosi idoli. D'altro lato, senza Dio non possiamo dimorare nella conversione perché questa non è mai il frutto di buoni propositi o di qualche sforzo sostenuto: è il primo passo dell'amore, dell'amore di Dio molto più che del nostro. Con­vertirsi significa cedere all'azione insistente di Dio, abbando­narsi al primo segnale d'amore che percepiamo come proveniente da lui. Abbandono dunque, nell'accezione forte di "capitolazio­ne": se capitoliamo davanti a Dio, ci offriamo a lui. Allora tutte le nostre resistenze fondono davanti al fuoco divorante della sua Parola e davanti al suo sguardo; non ci resta altro che la pre­ghiera del profeta Geremia: "Sconvolgici (lett.: rovesciaci), Si­gnore, e noi saremo convertiti (lett.: rovesciati)" (Lam 5,21; cf. Ger 31,18).