giovedì 16 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 6. - La contrizione o il cuore spezzato





LA CONTRIZIONE O IL CUORE SPEZZATO

Il titolo di questo capitolo può apparire strano e un po' de­sueto: il sinonimo moderno e più usato, pentimento, sarebbe parso preferibile ad alcuni. E vero che termini come contrizione o com­punzione sono praticamente scomparsi dal nostro vocabolario, mentre non sono altro che la traduzione letterale delle espres­sioni latine contritio cordis e compunctio cordis tanto familiari ai padri. Il vantaggio di questi due termini antichi è duplice: innanzi­tutto non sono logori come pentimento, inoltre descrivono quel­lo che succede nell'esperienza spirituale di cui stiamo parlando con estrema precisione, molto meglio di qualsiasi definizione astratta. Contritio deriva da conterere: frantumare, schiacciare, ridurre a pezzi. E’ il nostro cuore di pietra, di cui parla la Bibbia, che si spezza. Compunctio deriva da compungere: pungere. A un determina­to momento il nostro cuore è definitivamente ferito, per così dire trafitto. Da questa ferita al cuore sgorgherà dell'acqua: le lacrime del pentimento. Penso sia meglio utilizzare queste due immagini antiche per parlare del pentimento: ai giorni nostri infatti affrontare l'argo­mento del pentimento, come del resto quello dell'umiltà, è dif­ficile. Sono termini che provocano opposizione e diffidenza. Di quale pentimento e di quale umiltà si tratta? Ecco una do­manda acuta alla quale non è facile rispondere. La difficoltà non nasce solamente dal fatto che è sempre delicato parlare di un e­sperienza spirituale, come quella del pentimento, e di affron­tarla intellettualmente e dall'esterno: questa difficoltà permane sempre la stessa. Ma oggi si complica per due motivi: da un la­to, fino a un po' più di vent'anni orsono, i sensi di colpa e di paura, a volte accompagnati da gravi frustrazioni, avevano un ruolo preponderante in qualsiasi sforzo morale, compresi quelli legati all'esperienza spirituale. D'altro lato, ai nostri giorni ci si è apertamente ribellati contro ogni tipo di costrizione, sia in­teriore che esteriore. Questo sentimento ha portato l'uomo mo­derno a reagire con un completo voltafaccia, nella speranza di recuperare a qualunque costo la propria libertà, anche se la per­missività nel campo della morale avrebbe rischiato di svuotare qualsiasi concetto di peccato. Come un adolescente sconvolto dalla paura, che si precipita su qualsiasi apparenza di libertà senza aver avuto il tempo di pagarne il prezzo e senza aver saputo at­tendere il momento della maturità, così l'uomo moderno, com­preso il cristiano o il religioso, si trova piuttosto impreparato a lasciar sbocciare nel proprio cuore il fiore delicato dell'auten­tico pentimento evangelico. E se per caso, o per grazia, questo riuscisse comunque a fiorire, farebbe molta fatica a produrre il suo frutto. La diakrisis o discernimento risulta allora particolarmente dif­ficile: può essere operato solo con l'aiuto dello Spirito santo, dato che la nostra psicologia è piena di scogli che rischiano di far fal­lire il pentimento. Gli scrittori spirituali di tutti i tempi hanno segnalato il pericolo della falsa umiltà, quell'ansiosa ricerca del­l'abbassamento che Fénelon diceva non essere altro, sovente, che orgoglio mascherato. La falsa umiltà è l'espressione malde­stra di un vago senso di colpa che non lascia alcuna possibilità per l'autentica umiltà: incatena il cuore e lo paralizza, grazie agli artifici di cui dispone per schivare il momento della verità, l'u­nico che permetterebbe la presa di coscienza del vero peccato. Oggi, in reazione contro il senso di colpa, una falsa libertà vor­rebbe eliminare, in modo altrettanto maldestro, qualsiasi con­fronto con il peccato. In entrambi i casi si mira inconsciamente a sfuggire al senso di sconfitta e al riconoscimento del peccato. L'alternativa tra falsa colpevolezza e falsa libertà può essere superata solo dall'autentico pentimento evangelico, cioè dal cuore spezzato e contrito, che è pura grazia dello Spirito santo. Solo così l'uomo raggiunge la propria verità davanti a Dio e scopre l'amore autentico: solo l'amore infatti è fonte di autentica libertà.



Colpevolezza e pentimento

"Chi conosce il proprio peccato è più grande di chi risuscita un morto. Chi piange un'ora su se stesso è più grande di chi am­maestra il mondo intero. Chi conosce la propria debolezza è più grande di chi vede un angelo. Chi segue Cristo in segreto e nel pentimento è più grande di chi gode di molta fama nelle chiese" (Logos 34): con questi paradossi Isacco il Siro sottolinea il ca­rattere specifico del pentimento cristiano. Questo va detto con chiarezza: in nessun'altra religione troviamo il pentimento nel senso in cui lo intende la tradizione cristiana. Lo si trova esclu­sivamente nell'evangelo. Il pentimento cristiano non può essere paragonato a nessun'altra esperienza religiosa naturale. Qualun­que sforzo per "fare come se" diventerebbe subito assolutamente ridicolo: il pentimento è un frutto dello Spirito santo e l'impronta più sicura della sua azione in un anima. Nessuno può conoscere il proprio peccato senza contemporaneamente conoscere Dio: non prima o dopo, ma nel medesimo istante, in una sola e identica intuizione di grazia. Chi crede di essere in grado di conoscere il proprio peccato al di fuori di questo incontro con Dio è un illuso. Confonde il pentimento con un senso di colpa, più o meno felicemente svi­luppato, con il quale ogni persona normale ha a che fare; oppu­re misura ancora la propria condotta sul metro di una lista di obblighi e di divieti, con la preoccupazione di essere sempre in regola. Ma non ha la minima idea del suo vero peccato, perché non conosce ancora Dio. Nel medesimo istante in cui il peccatore è perdonato, affer­rato da Dio e restaurato nella grazia, il peccato - meraviglia del­le meraviglie! - diventa il luogo in cui Dio entra in contatto con l'uomo. Dobbiamo spingerci oltre e affermare che non esiste altro luogo in cui incontrare Dio in verità e conoscerlo, al di fuori della conversione. Prima Dio era solo una parola, un concetto analogico, un presentimento o un vago desiderio, il Dio dei fi­losofi e dei poeti, ma non ancora il Dio che si rivela in un amore senza limiti. Il Signore infatti è "venuto per chiamare i pecca­tori , per stare e mangiare " con loro, "non con i giusti", per cercare ciò che era perduto" (Mt 9,13; 18,11). Così Dio si fa conoscere perdonando, e il peccatore, scrutando l'abisso del pro­prio peccato, scopre da parte sua l'infinito della misericordia, nel medesimo istante in cui i due abissi si compenetrano e l'ulti­mo inghiotte il primo. Questa è l'esperienza assolutamente primaria e fondamenta­le di qualsiasi vita che vuole essere secondo l'evangelo. È quella dei piccoli e dei poveri in spirito, dei peccatori soprattutto, del­le prostitute e dei pubblicani che precedono tutti gli altri nel regno di Dio (cf. Mt 21,31). E in loro e in quanti sono simili a loro che Dio ha deciso di incontrare l'uomo e di salvarlo: non esiste altra situazione umana in cui Dio si presenta in modo così personale e accorda la salvezza. In questo momento di grazia, il peccato e il perdono si rivela­no contemporaneamente al cuore dell'uomo. Al di fuori di que­sto ci può essere solo una conoscenza frammentaria su Dio e sul­l'uomo: allora noi perveniamo solo a mezze verità, a valori par­ziali che, come alternative, sembrano escludersi. Riguardo all'uomo, ci urtiamo a infedeltà che si moltiplicano e finiscono per avere gravi conseguenze, oppure a un'apparenza di virtù gra­zie alla quale l'uomo sembra migliore di quello che è in realtà; un uomo simile è peccatore o giusto? Riguardo a Dio, esitiamo tra la sua potenza e la sua tenerezza, tra la collera e l'amore. Si dimostra Dio della potenza o della tenerezza? Della collera o dell'amore? Entrambe queste definizioni di Dio sono presenti nella Bibbia: sembrano contraddittorie solo alla nostra intelli­genza, e questa contraddizione non può essere superata da chi rimane al livello razionale. Solo chi sperimenta in modo concre­to ed esistenziale la tenerezza di Dio finisce per cogliere che que­ste due realtà si fondono l'una nell'altra. Senza poterne dare una spiegazione, costui ormai intuitivamente sa che Dio è nel contempo collera e amore, verità e misericordia. Nessuno può esse­re oggetto della collera di Dio senza avvertire nel contempo che questa è un'esigenza del suo amore. Nessuno potrà mai riposar­si nell'amore di Dio senza ricordarsi a ogni istante che la gelosia di Dio può accendersi di collera. Dio non è un despota capric­cioso, né tantomeno un nonno inoffensivo: è, molto semplice­mente, Altro, e non può essere rinchiuso nelle nostre categorie e nelle nostre immagini; mistero e contraddizione che superano la nostra comprensione superficiale! Mistero che può essere col­to, e solo progressivamente, unicamente da colui al quale è sta­to concesso di incontrare Dio nella conversione e nell'amore. La conversione - come abbiamo già visto - è un capovolgimento, uno sconvolgimento del cuore: innesca nel nostro intimo un pro­cesso spirituale grazie al quale il cuore si libera da ogni durezza e rigidità, lascia cadere ogni egoismo e ambizione, si libera di sé e si abbandona a Dio, accetta di essere nel contempo oggetto della sua collera e del suo amore. Quando un cuore si offre così a Dio, la scintilla della collera di Dio si trasforma immediata­mente in un braciere d'amore e di tenerezza. Dio diventa allo­ra, in piena verità, "fuoco divorante" (Dt 4,24). Solo chi dimora così nella conversione acquisisce l'autentica conoscenza di Dio. Conosce infatti innanzitutto il proprio pec­cato, e messo di fronte alla collera di Dio ma, nello stesso istan­te, scopre la grandezza e la portata dell'amore di Dio. Non ces­serà mai più di conoscere il proprio peccato, per essere in grado di annunciare la misericordia di Dio: questa confessione non èsolo ammissione di una colpa, ma anche azione di grazie, euca­ristia. Le sue lacrime non sono più lacrime di rincrescimento, ma di amore senza limiti; il suo pentimento è la sua gioia, e la sua unica gioia è ormai il pentimento. Ha creduto all'amore, si è affidato all'amore (cf. lGv 4,16), a quel Gesù la cui prima mis­sione è "liberarci dalla collera ventura" (lTs 1,10).



Il

monaco e il pubblicano

Si potrebbe obiettare che un'esperienza di questo tipo è ri­servata al vero peccatore, cioè a qualcuno che, prima di incon­trare Gesù, aveva la coscienza particolarmente sporca; ma cosa succede ai cristiani impegnati che hanno solo qualche peccatuc­cio da rimproverarsi e che per il resto si comportano in modo esemplare? Una simile obiezione tradisce un presupposto incon­scio: dividiamo ancora gli uomini in peccatori e giusti e collochiamo spontaneamente noi stessi dalla parte dei giusti. ci. Questo è proprio l'atteggiamento da cui Dio cerca di guarire il peccato che deve essere rivelato a ciascuno di noi, con­temporaneamente alla misericordia: nessuno può sfuggire a questa necessità, tantomeno chi vuole seguire più da vicino Gesù, o il cristiano impegnato e militante, o il monaco. Nell'antica tradi­zione monastica siriaca, il monaco è chiamato abila, che signifi­ca piagnone, che piange il proprio peccato. Anche nella regola di Benedetto, che finirà per imporsi a tut­to il monachesimo occidentale, il monaco è definito dal penti­mento e dalla compunzione del cuore: soffermiamoci un attimo su questo testo. Nel prologo della sua regola, Benedetto colloca il suo discepolo tra la collera e l'amore, tra l'iratus Pater e il pius Pater: alternativa che il monaco può superare solo mantenendo­si nell'umiltà della conversione che lo apre al perdono del Pa­dre. Per operare questo prodigio, Dio si fa infinitamente paziente e indulgente: ci accorda il tempo della nostra vita come una pro­roga. Il tempo allora non è altro che un'astuzia dell'amore di Dio: egli ha bisogno dello scorrere del tempo terreno per per­mettere alla sua misericordia di dilatarsi. La misericordia può dispiegarsi in tutta la sua ampiezza solo grazie alla pazienza e alla benevolenza di Dio - quia pius est - che ci accorda ogni giorno una nuova proroga e che vigila silen­ziosamente affinché troviamo il cammino della conversione. La risposta del monaco si trova nell'umiltà con tutte le sue sfuma­ture. Già l'attenzione interiore, considerata da Benedetto co­me il primo gradino dell'umiltà, definisce il modo in cui cerchiamo di rispondere a questa apparente debolezza di Dio. Dio accorda una proroga e offre una possibilità che il monaco metterà a frutto: si cura di non dimenticare Dio, resta attento, vigila interiormente su tutte le proprie inclinazioni e sui desideri. Questa attenzione ai pensieri costituisce già un preludio alla purezza di cuore, ulti­mo tocco conferito all'immagine dell'operaio di Dio quando il monaco avrà raggiunto l'ultimo gradino della scala dell'umiltà secondo Benedetto e godrà ormai di tutta la benevolenza divi­na: zam mundus a vitiis et peccatis, in quanto ormai purificato da vizi e peccati. L'evoluzione del monaco segue esattamente l'esperienza del pentimento del cristiano come l'abbiamo descritta. Anche per il monaco l'umiltà cristiana si trova all'origine e al cuore di tut­to ciò che è vissuto interiormente. Già all'inizio della sua vita monastica, costituisce la pietra di paragone della sua vocazione: prima ancora di entrare in monastero non gli verranno rispar­miate umiliazioni per mettere alla prova il suo zelo (RB 58). In seguito diventerà la totalità della sua vita e della sua esperien­za: la stessa obbedienza, il labor per eccellenza del monaco, me­diante la quale va a Dio (RB 71), è proposta come uno stato di umiltà, il primus humilitatis gradus, primo gradino dell'umiltà me­diante il quale la relazione tra Dio e l'uomo peccatore viene cor­rettamente situata. Ogni differenziazione o gerarchia all'inter­no della vita monastica sarà rapportata al metro di questa gra­zia fondamentale. La preferenza dell'abate andrà ai più umili (RB 2), e anche i presbiteri nel monastero dovranno precedere i fratelli innanzitutto con l'esempio di una più grande umiltà (RB 60). Infine, per descrivere il punto culminante dell'espe­rienza monastica, Benedetto farà ricorso all'immagine classica del pubblicano, forse la più evangelica che esista. L'umile e fi­ducioso riconoscimento del peccato non è solo come una pre­ghiera che sgorga da una sorgente inesauribile: ben presto si espri­me anche mediante l'atteggiamento esteriore e lo stile di vita. Il monaco perfetto sarà il più nascosto, sia agli occhi degli altri che ai propri, un uomo che non dispera mai della misericordia di Dio (RB 7). Se si trova, umanamente parlando, al gradino più basso e non vi è per lui più alcuna speranza - incurvatus et humiliatus usquequaque - è proprio allora che si trova più vicino a Dio, proiettato in avanti da un inesprimibile desiderio di te­nerezza e di amore. Verifichiamo così, ancora una volta, che non esiste altra via per cercare e raggiungere Dio se non l'umiltà, grazie alla quale il cuore, liberato da ogni rigidità di amor pro­prio, è stato un giorno orientato incondizionatamente verso la grazia e si è visto confermato in una conversione che non avrà mai fine.



E allora l'ascesi?

A questo punto sorge la domanda sul significato dell'ascesi e dello sforzo umano. Se dobbiamo contare solo sulla misericor­dia di Dio, cosa possiamo ancora fare per noi stessi? Ogni sfor­zo non proviene dal maligno? A questa domanda possiamo ri­spondere immediatamente che ogni ascesi che non sfocia nella contrizione del cuore è priva di valore; peggio ancora: invece di indirizzarci sulla via che porta alla grazia di Dio, ce ne allon­tana tragicamente. Il tema dell'ascesi è sempre stato macchiato da alcune ambi­guità e richiede di essere trattato con circospezione: è indispen­sabile un ritorno alle fonti dell'evangelo. Non si tratta di rinun­ciare a qualsiasi sforzo spirituale o ascesi, ma di imparare a pra­ticare l'ascesi nell'unica maniera in cui può veramente metterci in contatto con la grazia. La nostra sensibilità moderna può aiutarci in questo. Oggi ci poniamo volentieri problemi riguardo a un'ascesi che si limitas­se a una generosità puramente naturale. Un'ascesi simile sfocia in un comportamento di tipo spartano o nietzschiano, in cui tutte le energie disponibili sono messe al servizio di un certo ideale, espressione più o meno riuscita di un raffinato umanesimo. Se così fosse, l'ascesi sarebbe il terreno preparato per un orgoglio più o meno mascherato, i successi sarebbero solo momentanei. Infatti lo sforzo richiesto all'asceta è in contraddizione con il suo essere profondo: logora in breve tempo la psiche più solida e può portare molto rapidamente alla depressione. Nessuno può presumere impunemente di possedere la grazia che pur gli viene offerta costantemente; nessuno può andare al di là della grazia e giocare all'ascesi con le proprie forze. Un'altra illusione sarebbe il desiderio morboso di compensa­re, con il pretesto dell'ascesi, un senso di colpa eccessivo. Una simile ascesi può procurare un sollievo artificiale e passeggero della pressione inconscia avvertita dalla personalità, ma l'equi­librio così raggiunto rimane altrettanto precario. E, cosa ancor più grave, il problema non per questo è superato, anzi, conti­nua a mascherare l'autentico fondo della personalità. Questa asce­si toglie a chi la pratica l'occasione di abbandonarsi interamen­te a Dio e al suo amore misericordioso. Dove trovare allora l'autentica ascesi, quella che può realmente mettere in contatto con la grazia? Diciamo subito che è norma­le che il corpo partecipi all' avventura spirituale alla quale siamo chiamati: non ci può essere impegno spirituale senza partecipa­zione del corpo perché, fino a quando sono sulla terra, ho biso­gno di un corpo per esprimere quello che succede nel mio essere più profondo. Si può addirittura dire che, per entrare in contat­to con la mia vita interiore, ho bisogno del corpo tanto quanto delle facoltà spirituali e, analogamente, lo sviluppo di questa vi­ta interiore sarà tributario del mio corpo. Questo è vero per qualunque sforzo spirituale, anche senza riferimento alla fede. Ecco perché le forme normali di vita asce­tica sono più o meno identiche in tutte le religioni: povertà, si­lenzio, digiuni, veglie. Questa partecipazione del corpo allo sforzo spirituale sarà ancor più necessaria in ambito cristiano. Sottoli­neiamo innanzitutto che non solo lo spirito ma anche il corpo è segnato da quella debolezza innata dell'uomo che la Bibbia chia­ma peccato. Indubbiamente il battesimo ci ha santificati fin nelle radici, ma non ha completamente annullato le conseguenze del peccato, né nel nostro spirito né nel nostro corpo. Entrambi han­no conservato tracce del peccato: come una discesa pericolosa, lungo la quale scivoliamo facilmente verso il peccato. Anche il corpo fa dunque parte del terreno sul quale la grazia deve af­frontare il peccato. Deve essere ripreso in mano poco alla volta dalla grazia e rimesso a disposizione della nostra libertà profon­da. E’ sul terreno del corpo che la grazia viene, a dare "il colpo di grazia" al peccato, cioè che mette a morte il peccato nel no­stro corpo affinché questo diventi disponibile a una trasfigura­zione, che sarà nel contempo trasformazione e glorificazione. Ogni mortificazione - ecco il termine biblico per ascesi - deve infatti sfociare in una trasfigurazione: proprio come la morte di un credente non è altro che il preludio, il primo atto seguito na­turalmente e necessariamente dalla resurrezione e dalla vita nuova in Gesù Cristo. In realtà, parlando dell'ascesi, non possiamo dimenticare Pa­squa: la morte e la resurrezione di Gesù. In fondo l'ascesi non è altro che una partecipazione al mistero della Pasqua di Gesù, partecipazione provvisoria e parziale, in attesa della morte che ci aggregherà pienamente ad essa. Ogni sforzo di ascesi ci met­te così sul cammino del mistero della Pasqua di Gesù e deve, in un modo o nell'altro, aprire una strada alla grazia pasquale, e questo attraverso il nostro corpo che un giorno sarà trasfor­mato a immagine e somiglianza di Gesù. Anche Gesù possedeva un corpo, che aveva assunto proprio per essere in grado di realizzare la nostra salvezza. Prese carne, una carne che era veramente la nostra, per lì scontrarsi con la potenza del peccato e vincerlo mediante la propria vita e la pro­pria morte. Secondo Paolo, è proprio nella carne che Gesù ha vinto il peccato (cf. Ef 2,15). A nostra volta è proprio nella no­stra carne, al seguito di Gesù, che possiamo mettere a morte il peccato e offrire così alla vita ricevuta nel battesimo tutte le pos­sibilità di ottenere la vittoria finale. Ogni pratica o tecnica di ascesi ci introduce quindi in modo concreto nel mistero pasquale di Gesù e ci permette di progre­dire in esso in modo ben preciso. In questo senso si può dire che ogni forma di ascesi possiede in sé un'efficacia propria. Esi­ste d'altronde un'ascesi naturale che, per la sua stessa struttura, può avere un preciso effetto sull'uomo. Per esempio, è evidente che il silenzio, sia interiore che esterno, unito a una certa soli­tudine, favorisce in modo naturale il raccoglimento il quale, a sua volta, ridesta l'uomo all'interiorità. Similmente, le ore della notte favoriscono una tranquilla meditazione, il digiuno suscita una fame di nutrimento spirituale, il celibato provoca un vuoto affettivo che richiede un compimento a un livello più profondo e universale. A volte si parla addirittura di una mistica natura­le, le cui tecniche non sono completamente estranee a quelle della mistica cristiana, e i cui adepti dimostrano di trovarvi una pie­nezza spirituale che non è sempre, o non abbastanza, patrimo­nio del normale cristiano odierno. Si può anche pensare che, in fatto di tecniche di meditazione e di concentrazione mentale, i cristiani hanno spesso qualcosa da imparare dalle tradizioni non cristiane. Eppure bisogna sapere, e dirlo chiaramente, che un'ascesi di questo tipo, nonostante certi risultati effettivamente raggiunti, non è ancora l'ascesi che Cristo chiede ai suoi discepoli, cioè un'a­scesi che mette in contatto con la grazia e lascia sbocciare la vi­ta dello Spirito nel nostro cuore. Infatti resterà sempre uno scarto incolmabile tra qualunque sforzo umano, per quanto generoso e perfetto, e il dono della grazia che ci viene accordato solo in Cristo e per Cristo e in modo assolutamente gratuito. Questo è il dato fondamentale di ogni esperienza di fede, al quale l'a­scesi non può sottrarsi: se lo facesse, non sarebbe più ascesi cri­stiana, ma uno squallido miscuglio di morale e mistica pagane. Dio non si lascia vincere in base ai nostri tentativi di piegarlo con i nostri sforzi. Ricordiamoci che Gesù non è venuto "a chia­mare i giusti, ma i peccatori" (Lc 5,32): non sa cosa farsene del­la virtù che crediamo di possedere, cerca invece il nostro punto debole, l'unico ambito in cui la sua potenza può dispiegarsi illi­mitatamente (cf. 2Cor 12,9). L'ascesi quindi può essere praticata solo in Gesù Cristo, il che significa innanzitutto questo: praticata nella sequela e secondo l'esempio che Gesù ci ha lasciato. Non è un caso che la maggior parte delle forme di ascesi cristiana praticate nei secoli risalgano a quelle praticate da Gesù quand'era sulla terra. Fu obbe­diente fino alla morte - l'autore della lettera agli Ebrei arriva addirittura a dire che il corpo fu dato a Gesù per permettergli questa obbedienza (cf. Eb 10,5-9)-; viveva casto; non possede­va neppure una pietra su cui posare il capo (cf. Lc 9,58); digiu­nò severamente per quaranta giorni (cf. Lc 4,2); si ritirava rego­larmente di notte nella solitudine per pregare fino all'alba (cf. Mc 1,35; Lc 6,12). Ancor oggi la via ascetica del cristiano trae la propria forza e le proprie possibilità dalla forza che Gesù le ha conferito mediante la pratica dell'ascesi durante la sua vita terrena. Il cristiano cerca di imitare Gesù, fissando lo sguardo su di lui: i segni concreti dell'ascesi sono oggi ancora gli stessi di quelli dell'ascesi di Gesù, e la forza con la quale il cristiano può viverli è la stessa che sosteneva Gesù, soprattutto quando si trasformarono in prove e tentazioni dalle quali uscì vincitore, il primo di tutti noi. Ma pretendere che l'ascesi si possa praticare solo in Gesù Cri­sto significa anche un'altra cosa: ogni ascesi può diventare asce­si in Gesù solo nella misura in cui, esaurite tutte le possibilità umane, sfocia inevitabilmente in una specie di fallimento. È pro­prio lì, al cuore di questo esaurimento e di questo scacco, che potrà essere assunta e sostituita dalla forza di Gesù. L'unica ascesi che può fare appello all'evangelo è l'ascesi di povertà e di de­bolezza.



L'ascesi di debolezza

Precisiamo innanzitutto cosa intendiamo per ascesi di debo­lezza. Ogni sforzo naturale è, per così dire, destinato fin dall'i­nizio a staccarsi da se stesso e a esaurirsi, per raggiungere un punto zero da cui l'uomo non può più avanzare né fare un solo passo ulteriore sulla via verso Dio. Anzi, in questo punto zero lo sforzo dovrà morire a se stesso per esser reso capace di aprirsi e di abbandonarsi alla potenza della grazia di Dio. Lo sforzo del­l'asceta cristiano è quindi, per sua natura, destinato all'esauri­mento e alla morte, senza mai poter raggiungere il suo scopo. Ma è proprio in questo punto zero, là dove fallisce ogni sforzo umano, che la potenza di Dio lo rimpiazza e lo porta a un risul­tato che l'uomo non avrebbe mai sperato di raggiungere con le proprie forze. L'esaurimento di cui si parla qui non ha evidentemente nien­te a che fare con un esaurimento fisico, come se l'ascesi dovesse essere perseguita fino al limite estremo delle forze fisiche. Si tratta invece di un esaurimento morale o spirituale che si impone a noi ogni volta che constatiamo come lo sforzo ascetico superi la nostra generosità e le nostre forze; o anche ogni volta che l'at­tesa risposta di Dio non ci giunge automaticamente né confor­memente ai nostri sforzi. Questo esaurimento morale può arrivare molto lontano: ne­gli scritti monastici antichi è indicato con il termine akedia, pa­rola difficile da tradurre in una lingua moderna. L'acedia indica la tentazione ultima che viene ad attaccare la persona fin nelle sue radici e nelle sue fondamenta. E’ d'altronde il patrimonio dei monaci più esperti, soprattutto degli eremiti che si sono ri­tirati nel deserto e hanno rinunciato a ogni consolazione uma­na. Evagrio il Pontico ha analizzato questa crisi con grande per­spicacia: descrive l'akedia come uno stato di smarrimento totale in cui la vita monastica stessa può essere messa in discussione. Può abbattere ogni cosa, può perfino accecare gli occhi del cuo­re (Praktikos 36) e "lacerare l'anima come un cane lacera un cer­biatto" (ivi 23). "Contiene in sé quasi tutte le prove" (Commen­to al salmo 139,3), non si attacca al corpo ma all'anima, e non solo a una parte dell'anima, come farebbe per esempio l'invi­dia, ma "imprigiona l'anima intera e soffoca lo spirito" (Prakti­kos 36). In questo senso l'acedia non è una ferita localizzata o una crisi passeggera: è una malattia cronica del cuore o, se si vuole, una condizione di spirito che minaccia tutto ciò in cui penetra e con cui viene a contatto. E’ pericolosa perché più a lungo si protrae, più diventa sottile fino a che, in uno stadio avanzato, si sottrae completamente allo sguardo di chi ne è af­fetto: "l'akedia ottenebra la luce divina negli occhi" (Antirrheti­kos VI,16). Questo smarrimento assume forme sempre più gra­vi: ossessionato dai suoi mormorii, il monaco dimentica la pre­ghiera di lode e spreca la propria orazione; durante le veglie, la fonte delle lacrime si inaridisce; la regola perde il suo signifi­cato e appare disumana; il futuro è ermeticamente chiuso. "A cosa mi può servire questa vita senza futuro? - pensa il monaco - Ho forse lasciato il mondo per debolezza o per paura? I miei motivi erano sani e onesti? Vivendo nel mondo potrei essere più utile a genitori e amici. Dio chiede davvero una purezza di cuo­re così esigente come è stata fatta balenare davanti ai miei oc­chi ingenui di novizio? Dio non si accontenta forse della fede semplice dei laici?". D'altro canto, non trova risposta a queste domande: anche gli angeli lo hanno abbandonato per lasciarlo preda del demonio. Più nulla sembra in grado di tirarlo fuori da questo vicolo cieco. "La pazienza potrà ancora convincere Dio ad aver pietà di me?" (ivi VI,18). L'akedia riduce così l'asceta agli estremi: "L'anima deperisce e soffre, soccombe all'amarezza dell'akedia. Le sue forze cedo­no alla sofferenza, la sua perseveranza vacilla davanti alla vio­lenza di un demone così potente. L'anima si trova disorientata e si comporta come un bambino che piange disperatamente e brama essere consolato, senza speranza" (ivi VI,38). Questo ac­cenno a un ritorno alla condizione infantile è significativo: sin­tomi del genere, inattesi in un grande asceta, indicano il perico­lo di regressione psicologica, permettono di cogliere fino a che punto la vita spirituale può essere lacerata dall'akedia. Il mona­co è imprigionato nei suoi limiti di uomo. Presto o tardi, ogni asceta si viene a trovare in questo vicolo cieco: l'akedia non è altro che la sensazione di vertigine provata di fronte al vuoto tra Dio e l'anima e l'incapacità di superarlo o, semplicemente, di sopportarlo. Una simile descrizione sem­bra addirittura suggerire che l'asceta sfiori la follia, il che non deve sorprendere: è normale che una simile prova, mettendo in questione i nostri atteggiamenti nei confronti di Dio - solitamente così rassicuranti - ci aggredisca e ci colpisca nel punto più inti­mo e più vulnerabile della nostra debolezza. Quale atteggiamento adottare al cuore di questa crisi? I padri ai quali allude Evagrio danno tutti il medesimo consiglio: perse­verare, non cedere, non abbandonare la propria cella, a nessun costo. Più. d'uno senz'altro si chiederà con che diritto si possa insistere sulla perseveranza, contro ogni logica, di fronte a una crisi così profonda. La risposta, sempre secondo Evagrio, è sem­plice: lo svolgimento successivo è assodato. Quando l'angoscia raggiunge l'estremo, la grazia di Dio viene a prendere dimora nell'uomo che, non sapendo più a che santo votarsi, purtuttavia non dispera: "Non temere e non cercare di evitare questo pe­riodo di lotta, così vedrai le grandi opere di Dio: il suo aiuto, la sua cura per te e ogni pienezza in vista della tua salvezza" (Hypotyposis VI). Chi persevera nella solitudine, per amore di Gesù, vedrà che "uno stato di pace e di gioia inesprimibile su­bentrerà nell'anima al demonio dell'akedia" (Praktikos 12). Ba­sta "credere in Dio", "affidarsi a lui", "contare su di lui", "per­severare nella fiducia in Dio", "restare tranquillo, solo e silen­zioso" per non perdere Dio (Antirrhetikos VI,12,12,40,41). Proprio come Giobbe, la cui figura umile e paziente si intrave­de in numerosi brani di Evagrio: "Dio fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana" (Gb 5,18 citato in Antirrhetikos VI,31). Evagrio probabilmente è debitore di questa descrizione così concreta dell'akedia al suo padre spirituale e maestro nel deser­to d'Egitto, il celebre Macario il Grande. Pare essere stato lui il primo a usare il termine contritio cordis, contrizione del cuo­re, nella Lettera ai suoi discepoli di cui riportiamo alcuni passi. Macario spiega che l'ascesi sembra facile solo agli inizi, ma mol­to presto il monaco ha l'impressione che essa vada al di là delle sue forze: "Il monaco arriva a un punto tale che non gli sembra più possibile digiunare, vinto com'è dalla stanchezza del corpo e dalla lunghezza del tempo. I suoi pensieri gli sussurrano all'o­recchio: 'Per quanto tempo riuscirai ancora a sopportare questa fatica?'; oppure: 'Può forse Dio perdonare così tanti peccati?'; gli ispirano desideri impuri; l'anima si sente di una debolezza estrema e il cuore deperisce, al punto che il monaco giunge alla convinzione che il peso del celibato non è per lui. Le tentazioni gli parlano della vita che appare di una durata infinitamente lun­ga, della virtù così difficile e della fatica così pesante e infine insopportabile; gli parlano anche del suo corpo, così debole e fragile di natura... Possiamo paragonare questo monaco a una nave senza timoniere che va costantemente a finire contro gli scogli. Il suo cuore è come seccato, a ogni tentazione sembra venir meno... Perché Dio permette alla crisi di scuoterci in maniera così impietosa? E forse l'unico modo che ha per aprirci alla grazia? Ma­cario prosegue: "Infine il Dio benevolo gli apre gli occhi del cuore affinché capisca che è lui che gli dà la forza. Allora quell'uomo è capace di lodare Dio in piena verità e umiltà; come diceva Da­vid: Mio sacrificio è uno spirito contrito, la bontà e la mitezza (cf. Sal 51,19). Da questa dura lotta derivano l'umiltà, il cuore contrito, la bontà e la mitezza". Questo è uno dei testi più antichi della spiritualità monasti­ca. Sovente si è detto che quest'ultima avrebbe contribuito in misura notevole alla formazione di una spiritualità di prestazio­ni volontaristiche, ma basta il nostro testo per confutare una simile interpretazione. Non ci può essere ascesi cristiana, né sfor­zo o impegno cristiano, che non sfoci inesorabilmente nella con­trizione del cuore, in quel punto zero in cui la potenza pasquale di Gesù prevarrà su tutto, utilizzerà tutte le sue potenzialità e opererà meraviglie nell'abbassamento e nell'umiltà dell'asceta, meraviglie che sorpasseranno gli sforzi più generosi. Nell'ambi­to dell'ascesi non ha senso parlare di eroismo o di prestazioni grandiose: ci sono solo meraviglie, autentici miracoli. Questo vale per qualsiasi forma di ascesi cristiana: per il celibato e il digiuno come per l'obbedienza e la dedizione nel servizio agli altri. E’ Dio che opera tutto questo in noi, spesso quando meno ce lo aspettiamo e quando l'esperienza ci ha insegnato che qualcosa oltrepassa completamente la nostre capacità. Basta allora pre­starsi al miracolo, offrendosi alla sua potenza, nella gioia ine­sprimibile del cuore spezzato e contrito che osa porre la fiducia nell'amore di Dio, fino alla follia. Torniamo un attimo al significato del termine "ascesi", nel­l'uso cristiano ed evangelico. Nel greco classico la parola signi­fica esercizio, allenamento. A cosa ci si allena nell'ascesi? Vuol forse dire che mettiamo alla prova le nostre forze per conoscer­ne i limiti sul percorso dell'ascesi? No di certo. L'ascesi cristia­na non attribuisce alcuna importanza al fatto di sapere fin dove arriva la nostra resistenza; si tratta, al contrario, di sperimentare fin nella nostra carne quanto siamo deboli. Allora, a cosa ci si esercita nell'ascesi? Non alle nostre forze, ma alla grazia di Dio, al piacere della sua grazia. Nell'ascesi infatti l'elemento più importante è di percepire qua­le grazia mi è effettivamente donata in ogni istante. Se posso avvertire questa grazia e, per così dire, toccarla, allora posso im­pegnarmi senza esitazioni: celibato, digiuni, veglie... La presenza della grazia è il segno che Dio a questo mi chiama e che la sua grazia non mi verrà mai meno. Ma se non sono certo di questa grazia, con che diritto posso obbligare Dio a intervenire con un miracolo? Sarebbe follia e temerarietà: nessuno può praticare l'ascesi di propria iniziativa, appoggiandosi solo sul fervore e sulla generosità personali, senza essere interiormente certo che Dio l'ha veramente destinato a questa grazia. D'altronde ciascuno di noi riceve una grazia personale ben precisa, la cui misura può essere molto diversa. La grazia dell'u­no non ci insegna ancora niente sulla grazia di un altro: ciò che uno riceve non deve necessariamente essere imitato da un altro, se a questo non è destinato. Non serve a nulla voler oltrepassa­re la misura ricevuta, così come sarebbe deplorevole restare al di qua di questa misura - il che capita molto più spesso. Dio pe­rò non cessa di distribuirci la sua grazia in modo suntuoso e re­gale, poiché il suo braccio non è mai troppo corto (cf. Is 59,1) quando viene a rinnovare le sue meraviglie in favore del suo popolo. Qui nasce inevitabilmente una domanda: "Come discernere la misura della mia grazia?". Questa domanda pone il problema capitale della didkrìsis, del discernimento degli spiriti. E chiaro che chi è alle prime armi nell'esperienza spirituale è a malapena capace di praticarlo, nella maggior parte dei casi gli è perfino impossibile. Per questo motivo la tradizione subordina le prati­che ascetiche a condizioni ben precise: innanzitutto sottolinea la necessità di un direttore spirituale che sia capace di percepire qualche traccia della grazia in noi e che ci aiuti a vivere e a dia­logare con essa. Nulla infatti è più facile che sbagliarsi sulla qualità delle aspirazioni o ispirazioni interiori e, per esempio, attribui­re alla grazia ciò che è solo illusione del nostro orgoglio o del nostro egoismo. Voler seguire la via dell'ascesi a qualsiasi costo, senza esservi stati invitati da segni inequivocabili della grazia, significherebbe esporci a passi falsi e tentare Dio. Più avanti avre­mo comunque modo di ritornare sul tema dell'accompagnamen­to spirituale.



L'uomo restaurato

Abbiamo appena letto sotto la penna di Evagrio che l'akedia deve trasformarsi in uno stato di pace e in una gioia inesprimi­bile". E la condizione della pienezza umana e spirituale verso la quale non cessiamo mai di crescere, la misura dell'uomo per­fetto in Gesù Cristo (cf. Ef 4,13). Evagrio e tutta la tradizione dei padri greci la chiamano apdtheia, Cassiano usa il termine in­tegritas, integrità. Quest'ultima espressione è forse preferibile. Non si tratta infatti di uno stato dove le passioni dell'uomo so­no annientate, bensì, al contrario, dove ritrovano la loro inte­grità delle origini: è la condizione primitiva in cui l'anima non era ancora ferita dalle passioni che la lacerano in tutte le dire­zioni. Le potenze e i desideri dell'anima, che all'origine sono state stornate dal peccato e che rischiavano di disintegrarsi sot­to la violenta tempesta dell'akedia, ritrovano la loro unità. L'uomo può nuovamente essere tutto di Dio. Non bisogna però mai dimenticare che questa grazia viene ac­cordata nell'abisso dell'akedia e della disperazione, in un mo­mento in cui la preghiera sale de profundis, dalle profondità di un insondabile sconforto. Non fa altro che aprire questo scon­forto: invoca aiuto e implora perdono. A mano a mano che il cuore è purificato dalla preghiera, raggiunge il riposo e si ricon­cilia con la debolezza e il peccato. Ancora meglio: finisce per distogliere gli occhi dalla propria miseria per contemplare uni­camente il volto della misericordia di Dio. La contrizione allora si trasforma impercettibilmente in gioia umile e serena, in amo­re e in azione di grazie. Nessuna colpa, nessun peccato viene negato o scusato, ma vengono annegati e inghiottiti nella mise­ricordia. Dove abbondava il peccato, la grazia non cessa di so­vrabbondare (cf. Rm 5,20). Tutto ciò che il peccato aveva in­franto viene restaurato in meglio, molto meglio di prima, dalla grazia. La preghiera porta ancora le tracce del peccato e della miseria - e senza dubbio le porta per sempre - ma la colpa è da quel momento beata, una felix culpa, come cantiamo a ogni ve­glia pasquale, una colpevolezza che viene inghiottita nell'amore. Tra la contrizione e l'azione di grazie non c e quasi più dif­ferenza: le due si compenetrano e le lacrime del pentimento so­no anche lacrime d'amore. Poco alla volta questo sentimento gioioso di contrizione fini­sce per prevalere nell'esperienza spirituale. Da questa ascesi di povertà - patientia pauperum - si leva ogni giorno un uomo nuo­vo che è interamente pace, gioia, bontà, mitezza. Un uomo se­gnato per sempre dal pentimento, ma un pentimento pieno di gioia e di amore che affiora sempre e ovunque e che rimane co­me sottofondo della sua ricerca di Dio. Un simile uomo ha or­mai raggiunto una pace profonda perché è stato spezzato e rie­dificato in tutto il proprio essere, per pura grazia. Stenta a rico­noscersi, è diventato diverso: ha toccato da vicino l'abisso profondo del peccato, ma nello stesso istante è stato fatto preci­pitare nell'abisso della misericordia. Ha finalmente imparato a deporre le armi davanti a Dio, a non più difendersi da lui: resta là, disarmato e indifeso, ha rinunciato a ogni giustizia personale e non ha più progetti di santità. Le sue mani sono vuote, anzi: non contengono altro che la sua miseria, ma ora osa esporla da­vanti alla misericordia. Dio è finalmente diventato vero Dio per lui, e nient'altro che Dio. Il che significa Salvator, Salvatore dal peccato. L'uomo è addirittura quasi riconciliato con il proprio peccato, come Dio si è riconciliato con esso. E’ felice e ricono­scente di essere debole, non è più alla ricerca della propria per­fezione: "Eravamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia" (Is 64,5). La propria giustizia la possiede in Dio solo: a lui restano solo le sue ferite, ma curate e guarite dalla misericordia, e che si so­no sviluppate in meraviglie. Non sa far altro che rendere grazie e lodare Dio, che è sempre all'opera in lui per compiere mera­viglie. Per i fratelli e i familiari è diventato un amico, buono e mite, che capisce le loro debolezze. Non ha più fiducia in se stesso, ma in Dio solo. Vive interamente afferrato dall'amore di Dio e dalla sua onnipotenza. Perciò è anche povero, veramente po­vero - un povero in spirito - e vicino a tutti i poveri e a tutte le forme di povertà, spirituale e materiale. E’ il primo di tutti i peccatori - pensa tra sé - ma un peccatore perdonato: ecco per­ché sa stare insieme, come uno di loro, un fratello, con tutti i peccatori del mondo. Si sente vicino a loro perché non si sente migliore degli altri; la sua preghiera preferita è quella del pub­blicano, diventata come il suo respiro e come il battito del cuo­re del mondo, il suo desiderio più profondo di salvezza e di gua­rigione: "Signore Gesù, abbi pietà di me, povero peccatore!". Gli resta un solo desiderio: che Dio lo metta ancora una volta alla prova per scoprire sempre meglio la sua vicinanza, per ab­bracciare ancora una volta l'umile pazienza con ancor più amo­re: quella pazienza e quell'umiltà che lo rendono così simile a Gesù e permettono a Dio di rinnovare in lui le sue meraviglie.