venerdì 17 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 7. - La paternità spirituale




LA PATERNITÀ SPIRITUALE

La conclusione del capitolo precedente segnalava la necessità di essere aiutati o accompagnati per imparare a vivere in con­tatto e in armonia con la grazia. Questo capitolo vorrebbe ap­punto trattare delle relazioni tra due persone, una delle quali si sforza di insegnare all'altra come cercare Dio e vivere con lui. Si tratta di quella che una volta si chiamava la direzione spiri­tuale. Oggi, con un'espressione che sembra meno autoritaria e più rispettosa di colui che chiede, la si chiama accompagnamen­to spirituale. Lo spostamento dall'una all'altra espressione tradi­sce subito uno dei paradossi della nostra epoca nei confronti dell'esperienza spirituale. Da un lato si constata una certa reticenza verso nozioni come "padre spirituale" e "direzione spirituale", di solito accurata­mente evitate, soprattutto da coloro che per lungo tempo sono stati obbligati a sottomettervisi. Non parlarne più non solleva alcuna obiezione, mentre alcune scoperte moderne, la cui im­portanza non può essere ignorata, sembrano invitarci a questo prudente silenzio. Ogni credente non deve essere personalmen­te responsabile della propria avventura spirituale? Perché con­tinuare a dipendere dal giudizio di un altro? Un altro che, nel migliore dei casi, sarà sempre un estraneo che parla dall'ester­no, e che invece, nel peggiore dei casi - rischio sempre possibile - fa violenza alla coscienza del suo interlocutore invece di pro­muovere uno spazio in cui la libertà dello Spirito possa dispiegarsi. Dal lato opposto, mai come oggi la domanda di aiuto spiri­tuale da parte di giovani e meno giovani è stata così grande e così urgente. Numerosi, dentro e fuori la chiesa, sono coloro che si sentono attirati da qualche avventura spirituale e cercano una guida o un maestro. Importunano i responsabili delle chiese con le loro domande: presbiteri, religiosi, genitori, laici esperti han­no dovuto ascoltare simili interrogativi da parte di quanti, e so­no numerosi, vanno alla ricerca di una parola - un rhéma, come dicevano i padri del deserto - nel senso più forte del termine. Molti di noi non hanno saputo rispondere a queste domande: abbiamo molta familiarità con alcuni principi che ci sono stati insegnati nel passato, o con qualche ricetta a buon mercato spe­rimentata da noi stessi con maggiore o minore risultato. Siamo capaci di dare qualche pacca incoraggiante sulle spalle e di evi­tare con una battuta di rispondere a una domanda un po' pro­fonda. Ma in profondità non sappiamo fornire una vera rispo­sta, non per mancanza di conoscenza o di sapere, ma molto sem­plicemente per mancanza di esperienza personale: come possiamo parlare della grazia di Dio se non l'abbiamo sperimentata in noi stessi? Che simili domande rimangano senza risposte o ricevano solo una mezza risposta: ecco indubbiamente un punto delicato del­la nostra chiesa odierna. Come stupirsi allora se alcuni si rivol­gono ad altre chiese cristiane, per esempio, nonostante il loro patrimonio al riguardo non sia diverso dal nostro, o addirittura verso le tradizioni non cristiane dell'oriente che mai mettereb­bero in dubbio che l'esperienza interiore non possa essere de­stata e trasmessa senza l'intervento di un maestro? Un apoftegma attribuito ad Antonio il Grande, unanimemente riconosciuto come il padre dei monaci, circolava tra gli anacore­ti del IV secolo: "Ho visto monaci dopo molta ascesi cadere e uscir di senno perché avevano confidato nella loro opera e tra­scurato quel precetto che dice: 'Interroga tuo padre ed egli ti insegnerà' (Dt 32,7)". Antonio si appella alla Parola di Dio per giustificare la necessità della direzione spirituale e insinuare che un'esperienza spirituale senza guida non è mai priva di rischi.



Esplorare la vita

Qual è la natura di questa avventura spirituale che non è as­solutamente propria dei monaci ma che interessa ogni battezza­to che voglia prendere sul serio il germe di vita deposto dalla grazia in fondo al suo essere? Si tratta, per l'appunto, di un ger­me, di un seme: di una vita, quindi, cioè di qualcosa che, di per sé, deve muoversi, crescere, svilupparsi se non vuole languire e morire. La vita non è mai statica: si evolve sempre, in un sen­so o nell'altro; di conseguenza, prendere sul serio la vita signifi­ca coltivarla, ascoltarla, circondarla di premure, liberarla dagli ostacoli, nutrirla e lasciare che sbocci e fiorisca in pienezza. Sarebbe estremamente più semplice per tutti se la vita cri­stiana si riducesse a una catechesi, all'insegnamento di alcune verità elementari e assolute: in tal caso basterebbe memorizzar­le con assiduità per tirarne le logiche conseguenze a tempo op­portuno. Lo stesso avverrebbe se la fede fosse costituita essen­zialmente da un codice di precetti e di divieti o se si esaurisse in un grandioso progetto di azione o di conquista: sarebbe suf­ficiente conformarvi il nostro comportamento quotidiano. In realtà si tratta di qualcosa di molto più vasto, anche se la fede si esprime necessariamente in un corpo di dottrine, anche se genera un determinato comportamento morale e spinge il cre­dente a un impegno effettivo e concreto a servizio del Regno già da ora. Ma prima e ben più in profondità di tutto questo, la fede è una vita - la vita di Dio in noi - che può essere soffoca­ta dalle nostre membra carnali, cioè dall'orgoglio del cuore e da un corpo ribelle: è una vita che deve aprirsi un cammino per progredire. D'altronde non è innanzitutto a un insegnante, né a un catechista, né a un professore di morale e nemmeno a un manager di grandi imprese spirituali e apostoliche che pensa co­lui che cerca un aiuto spirituale. Pensa innanzitutto a qualcuno che conosca per esperienza diretta questa vita e sia capace di trasmetterla. Ebbene, la stessa trasmissione della vita è un affa­re di vita: non c'è nulla di più naturale e di meno sofisticato per la vita che sciamare e diffondersi. La vita diventa sponta­neamente trasparenza e agisce per osmosi. Tra i primi monaci del IV e V secolo, dove la paternità spiri­tuale costituiva la pedagogia fondamentale, un apoftegma cir­colava in diverse versioni. Eccone una, attribuita ad abba Poe­men, uno dei più famosi padri del deserto: "Un fratello chiese ad abba Poemen: 'Dei fratelli vivono con me; vuoi che dia loro ordini?'. 'No - gli dice l'anziano - fa' il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono vivere penseranno a se stessi'. Il fratello gli dice: 'Ma sono proprio loro, abba, a volere che io dia loro ordi­ni'. Dice a lui l'anziano: 'No! Diventa per loro un modello, non un legislatore"'. Questo aspetto della tradizione monastica cri­stiana richiama singolarmente un altro detto - appartenente, que­sto, alla tradizione chassidica del giudaismo - in cui un discepo­lo spiega come gli sia bastato guardare il proprio maestro che si allacciava un sandalo per restare edificato: un semplice gesto e il messaggio è trasmesso! La guida infatti è molto più di un maestro: è lui stesso l'insegnamento, l'intera sua vita costitui­sce il messaggio. La vita desta la vita. E l'anziano o l'accompa­gnatore si presta a questo mistero di vita non con quello che sa e ancor meno con quello che può dire, ma molto semplicemente in forza di ciò che è e che di conseguenza può trasmettere, nel senso più forte di questo termine, in virtù della qualità del suo essere che irradia senza neanche che lui lo sappia e che delle pa­role debbano nascere. Risulta subito chiaro che la paternità spirituale raggiunge una notevole profondità di quelle che si è soliti chiamare relazioni umane e ne costituisce un caso privilegiato. Si tratta infatti di due esseri che si trovano di fronte, che sono chiamati a fare un pezzo di strada insieme e tra i quali deve accadere un evento importante. Una scintilla di vita sprizzerà dall'uno verso l'altro: non una vita qualsiasi, ma la vita stessa di Dio, la luce e la forza del suo Spirito. Evento spirituale, senza dubbio, ma che in nessun momento potrà essere separato dall'intensità della relazione che unisce que­sti due individui. Questa stessa intensità si trova al servizio del mistero della Parola di Dio che ancora una volta è destinata a compiersi ma, come sempre, incarnandosi negli uomini che siamo noi. Ne consegue l'importanza capitale, in materia di pater­nità spirituale, della qualità stessa di questa relazione: è proprio la qualità dell'esperienza vissuta in comune e non la quantità - cioè la frequenza dei contatti, il numero o la lunghezza delle lettere o dei colloqui - a permettere all'evento di sbocciare; an­zi, la quantità in alcuni casi rischierebbe di impedire che qual­cosa avvenga e manterrebbe i due protagonisti in una stasi che presto si rivelerebbe futile e in ogni caso inefficace. Si può arrivare a dire che l'accompagnamento spirituale è una delle forme più alte della relazione umana? Secondo il filosofo danese Kierkegaard, il padre spirituale è più di un amico, men­tre Dante, parlando di Virgilio, sua guida spirituale, confessa che per lui è più di un padre. L'antico termine celtico ananchara significa "padre della mia anima", e il linguaggio buddista usa l'espressione lama, "madre incomparabile"; possiamo ricordare anche il termine greco-ortodosso che indica il monaco come ka­légeros, "bel vecchio", immagine che suggerisce sapienza e calo­re al contempo. Qual è questa qualità dell'essere al cui contatto la vita scatu­risce? Ha un nome solo: agépe, amore, perché è interamente a immagine di Dio e del Figlio suo tra di noi, di cui chi accompa­gna un fratello tende a diventare l'icona. Sul volto di un uomo e attraverso il suo modo di agire finiamo per percepire l'amore di Dio e tutte le sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Ne veniamo sconvolti, trasformati: è come se una profondità sconosciuta venisse scavata in noi. A volte abbiamo l'impres­sione di sapere finalmente chi siamo e perché esistiamo, ci vie­ne svelato un nuovo nome, il nostro, quello vero: è come una rinascita, un essere generati alla vera vita. La forza di un simile sconvolgimento spiega come mai, fin dalle prime generazioni cri­stiane, si utilizzano per descriverlo i termini di paternità e ma­ternità. Eppure Gesù sembra aver chiesto il contrario: "Non fa­tevi chiamare padre, né maestro... uno solo è il vostro Padre, uno solo il vostro Maestro". Ma già Paolo, in diversi passi delle sue lettere, descrive la propria attività di apostolo come quella di un padre o addirittura come quella di una madre. E’ padre, come sostiene, perché attraverso l'evangelo ha generato dei fi­gli in Cristo Gesù (cf. iCor 4,14-15). Ma è anche madre, dato che altrove confessa di soffrire nel proprio corpo i dolori del parto finché Cristo non sia formato nei suoi discepoli (cf. Gal 4,19). Padre e madre nel contempo, a immagine di Dio che è Padre al di là di ogni paternità e anche Madre al di là di ogni materni­tà terrena. D'altronde Gesù ha chiesto solo di non farsi chiamare padre: questa ingiunzione corrisponde a una delle condizioni essenzia­li per un accompagnamento spirituale fruttuoso. Nessuno si ar­roga da sé una paternità, non ci si può erigere a guida di un al­tro. Anzi, avviene il contrario: non è il padre che sceglie il di­scepolo, è invece il discepolo che discerne il proprio padre, a volte dopo averlo cercato a lungo. In un certo senso possiamo addirittura dire che spetta al figlio far sbocciare una paternità, spetta al discepolo consentire al maestro di rivelarsi. Ci sarà quin­di un atteggiamento del discepolo assolutamente indispensabile affinché l'avvenimento possa prodursi: sarà un atteggiamento di completa disponibilità, di apertura, di attesa che riuscirà a ridestare in un altro la guida e il maestro che ancora sonnecchia. Un detto dei monaci del deserto lo diceva un po' bruscamente: "Perché i monaci di oggi non hanno più parole da offrire? - chie­deva un anziano - Perché i figli non sanno più ascoltare". Detto cristiano che ricorda un proverbio indù: "Quando il discepolo è pronto, appare il maestro". Esiste infatti una certa correlazione, una sottilissima recipro­cità precedente tra il discepolo e il maestro. La chiave del no­stro essere profondo la portiamo indubbiamente in noi stessi, ma siamo incapaci di farla emergere da soli: ci vuole una parola proveniente dall'esterno che si ripercuota in noi e desti un'ar­monia, un accordo profondo. Ciò che il discepolo attende dal maestro lo porta già inconsciamente in se stesso: aspetta solo di vedere il proprio mistero svelato da un altro. Egli indovina, intuisce questa capacità di svelamento in colui che sta per sce­gliersi come guida, perché è qualcosa che coincide con la pro­pria profondità più segreta, con quel meglio di se stesso che per ora conosce solo in modo confuso. Per questo siamo sempre de­stinati ad avere quel maestro piuttosto che quell'altro. Infatti quello che il maestro dirà, magari senza neanche esprimerlo, quel­lo che farà provare, affiorare nello spirito del discepolo, sgor­gherà in realtà dal cuore stesso di quest'ultimo. Da quel momento le parole o i gesti del maestro non verranno pesati dal loro con­tenuto oggettivo, potranno addirittura essere solo simbolici; l'es­senziale è la chiave interiore di ciascuno, il maestro interiore, destato nel cuore del discepolo, grazie al quale il suo essere pro­fondo riceve vita e forma. Dobbiamo anche spingerci oltre, dato che parliamo di un'e­sperienza della vita di fede, quindi retta dai principi dinamici di questa fede. La chiave o il maestro interiore di cui si parla, in un credente non è altro che lo Spirito santo in persona, infal­libilmente presente come realtà anteriore a qualsiasi velleità spi­rituale, e che prende in mano progressivamente il cammino in­teriore e l'orienta secondo il disegno di Dio. L'azione dello Spi­rito però non dispensa dal testimone esterno che è là per attestarla e per aiutare a discernerla correttamente. La ragion d'essere della paternità spirituale è di favorire la venuta al mondo di questa vita nuova, della nuova creatura nel­lo Spirito santo. Si tratta di accompagnare attentamente il pas­saggio progressivo da quello che il Nuovo Testamento chiama l'uomo vecchio all'uomo nuovo. La psicologia ha messo in luce come un processo analogo avvenga anche a livello psicologico: divenire o essere adulto suppone un passaggio continuo dall'"io" superficiale all'"io" profondo, come pure un'integrazione del­l'inconscio nella vita quotidiana cosciente. In ogni uomo si cela un tesoro segreto di cui deve prendere coscienza, che deve esse­re purificato e assunto affinché possa dare frutto. In questo modo la vita cresce in noi, come un albero che ogni anno porta molti fiori e nuovi frutti. Viene liberata in noi una verità più profon­da, la quale deve integrarsi nella nostra vita e perfino nel nostro modo di vivere l'amore. Questa evoluzione continua è d' altron­de l'indice che la vita è ancora all'opera in noi, che non è né paralizzata né irrigidita, ma che è sempre capace di dare nuovi frutti. La vita nuova nello Spirito santo progredisce e si sviluppa al­lo stesso modo - come diceva Paolo - fino a raggiungere la statu­ra di un "uomo maturo, nella misura che conviene alla piena ma­turità di Cristo" (Ef 4,13). La crescita di quest'uomo nuovo è sempre legata alla realtà psicologica di ciascuno e in modo diffi­cile da controllare: la guida spirituale ne terrà conto. Non potrà mai discernere chiaramente tra ciò che è puro dato psicologico e ciò che proviene solo dallo Spirito santo. Un chirurgo può di­stinguere tra un nervo, un muscolo e una vena, ma quando si tratta di vita interiore, un simile discernimento non è possibile. Ogni dato è innanzitutto psicologico, ma nello stesso tempo in armonia o in disaccordo con lo Spirito. Il che significa che l'a­zione dello Spirito santo può appoggiarsi sia sugli elementi oscuri che su quelli luminosi della personalità. Un equilibrio psicologi­co non è mai una condizione sine qua non del progresso spiri­tuale, così come un handicap psicologico non è mai un ostacolo insuperabile. L'importante è discernere come vengono messi in opera gli elementi oscuri e quelli luminosi, in che direzione si sviluppano se positiva o negativa e, infine, se sono o meno al servizio dell'amore. Questa è la posta in gioco della paternità spirituale, che cerca di accompagnare e di illuminare questo processo. In altri termi­ni, si tratta della scoperta di quella che oggi si chiama l'interiori­tà presente in ogni uomo, il suo essere e la sua realtà più profon­di, il suo stesso fondamento. Da soli siamo incapaci di far affio­rare questo fondo, di destare questa nuova sensibilità ai valori spirituali: dobbiamo essere indirizzati sul cammino, abbiamo bi­sogno di una parola che illumini questa nuova situazione, in modo da potervi scoprire e riconoscere il lato migliore di noi stessi. In questo senso l'accompagnamento spirituale si avvicina a quella che Socrate chiamava maieutica. Potremmo anche chiamarla oste­tricia spirituale, e la guida assomiglia sempre un po' a una le­vatrice. E’ uno dei motivi per cui Thomas Merton, in uno dei suoi ul­timi scritti (Final Integration. Towards a Monastic Therapy), po­ne come obiettivo della vita monastica quello di essere fully bom, "pienamente nato", con il che intende: essere in grado di vivere a partire dalla propria esperienza interiore che si discerne e si avverte sgorgare dal proprio intimo profondo. Quando questa integrazione ha luogo, diventa fonte di grande maturità e di sa­pienza: la profondità dell'essere umano infatti è più universale dell'io empirico e superficiale. Poiché ha toccato il fondo del pro­prio essere, un uomo simile ha acquisito una dimensione cosmi­ca, è divenuto un uomo téleios, compiuto, perfetto. Ha raggiun­to un'identità integrale più ampia di quella del suo piccolo io limitato, che è solo un frammento del suo essere autentico. Può ora identificarsi con tutti gli uomini e partecipare della loro vi­ta; è infatti diventato uomo universale, sorgente di amore per tutti. E’ in grado di percepire l'amore e la sofferenza di ciascuno e, ciononostante, di restare libero nei confronti di tutti; ha rag­giunto la sorgente della vera libertà al fondo del proprio essere, sorgente che è lo Spirito santo. Non è più guidato dalla propria generosità esteriore, o da nobili sentimenti, e nemmeno dalla fredda intelligenza. Ormai sa vivere spontaneamente e gratui­tamente a partire dalla propria interiorità e dalla sua sorgente profonda, là dove Dio lo abita e lo guida. La spontaneità inte­riore è segno di libertà interiore; in questo senso bisogna inten­dere l'espressione di Agostino: Ama et fac quod vis, "ama e fa' ciò che vuoi". E sufficiente amare, e amare sempre più. Adesso ci è facile rispondere a una domanda frequente: "Si può fare a meno della paternità spirituale?". Naturalmente Dio può sempre guidare qualcuno in modo diretto, ma normalmen­te non agisce così. Per chi desidera sinceramente inoltrarsi un po' nello spessore dell'esperienza spirituale, si impone un certo accompagnamento da parte di un fratello; e non solo agli inizi, quando si concepisce più facilmente l'inevitabilità di una certa iniziazione, ma anche più tardi, soprattutto ogni volta che, sot­to l'azione dello Spirito santo, uno è invitato a fare un passo in avanti nel cammino verso Dio. Ogni volta infatti bisogna ol­trepassare una specie di tetto, accedere a un nuovo stadio della vita. Quando si è sul punto di doppiare la boa, affiorano le stes­se incertezze, si presentano gli stessi tranelli: bisogna scartare illusioni, evitare scogli, e sempre, nel dedalo di innumerevoli e sottili reazioni del nostro orgoglio, stupito e insieme ferito, mi­nacciato di essere colpito a morte, bisogna individuare quel te­nue filo della grazia, la dolce e quasi impercettibile mozione dello Spirito, per aprirsi a lei, lasciare che si impadronisca di noi e ci conduca là dove non pensavamo, là dove spesso non avrem­mo mai voluto andare, verso ciò che occhio non ha mai visto, né orecchio udito, né mai è entrato nel cuore dell'uomo. Ma ogni volta - ed è questa una certezza della fede - anche la guida sarà là: se siamo pronti, Dio la metterà sul nostro cam­mino. Allora il più povero e l'ultimo dei nostri fratelli o delle nostre sorelle potrà offrirci la sorpresa di una Parola di Dio, a condizione che la sappiamo attendere.



Manifestare i propri desideri

Abbiamo appena visto come la qualità della paternità spiri­tuale dipenda dalla qualità di una relazione umana. Ebbene, la qualità di ogni relazione umana riflette in buona parte la quali­tà del dialogo che si instaura tra le due persone in questione. Tutta la tradizione è unanime su questo punto: l'accompagnamento si basa sul dialogo, il discepolo interroga suo padre nel­l'attesa di una parola che si presume che questi sia in grado di offrirgli. Anche il contenuto di questo dialogo è ben attestato: lo si chiama comunemente apertura del cuore o manifestazione dei pensieri. Di cosa si tratta? Precisiamo subito che è bene tener distinti accompagnamen­to spirituale e sacramento della confessione. Al presbitero, mi­nistro del sacramento, si confessano i peccati realmente com­messi per i quali si chiede l'assoluzione. Al padre spirituale - al di fuori di qualsiasi contesto sacramentale, dato che nulla vieta che sia un laico - si manifestano i desideri e le tendenze che af­fiorano nel cuore e nell'immaginazione, anche se nessun pecca­to è stato commesso, né interiore né esteriore. La confessione può essere il punto di partenza di un colloquio spirituale che può eventualmente seguirla, ma questo non è indispensabile: con l'as­soluzione finale, la confessione è pienamente compiuta. D'altro canto, un colloquio spirituale non è necessariamente seguito dalla confessione: nella maggior parte dei casi non è co­sì. D'altronde la guida spirituale non è forzatamente un presbi­tero: la paternità spirituale non ha nulla a che vedere con il sa­cerdozio ordinato. Un laico, uomo o donna, che abbia un'espe­rienza personale della vita dello Spirito santo può farsene carico altrettanto bene che un presbitero, e senz'altro meglio che un presbitero che abbia poca o nessuna esperienza. Alla propria guida spirituale non si manifestano innanzitutto i peccati effettivamente commessi, ma piuttosto ciò che gli anziani chiamavano i logi­smoi, i pensieri. La traduzione è ambigua. Non si tratta tanto di quello che pensiamo, ma piuttosto di quello che sentiamo, di ciò verso cui tendiamo: sentimenti, desideri, inclinazioni che si fanno strada, incontrollati, nel cuore e nella mente, anche se non sfociano - se non raramente - in peccati veri e propri. Il termine "confessione" qui sarebbe perciò errato, soprattutto nella sua accezione sacramentale: si tratta unicamente di mette­re in luce, di scoprirsi di fronte al proprio interlocutore. Chi apre così il proprio cuore non chiede un'assoluzione e nemmeno un incoraggiamento o una parola rassicurante, anche se così potrebbe sembrare. Chiede innanzitutto di essere accettato: poter espri­mere a un altro desideri e sentimenti, così a lungo repressi e ri­mossi, costituisce per lui un evento straordinario che, già di per sé, rappresenta un enorme sollievo. Non è più solo con loro, gli è possibile confidarli a un altro che li accoglierà tranquillamen­te e con amore. Accogliere i sentimenti degli altri è infatti in­nanzitutto una questione di amore. I primi momenti del colloquio spirituale, quando i sentimenti più difficili vengono finalmente in superficie, sono sempre i più importanti. La qualità e l'autenticità dell'amore dell'accompa­gnatore (e possiamo ben dire del padre spirituale) sono qui mes­se alla prova. Troppe guide spirituali commettono un grave er­rore: quello di parlare troppo presto, sia per biasimare che per rassicurare. Spiegheremo più avanti in che cosa consiste questo errore tattico; ora ci basta sottolineare che l'ascolto attento e benevolo di quanto viene confidato riveste un'importanza de­terminante per il prosieguo della relazione. Ancora una volta, non si tratta assolutamente di approvare o di condannare le inclinazioni e i desideri che si affacciano; si tratta semplicemente di accettare una persona per come si presenta, magari anche af­flitta da sentimenti che riesce a esprimere solo con difficoltà. Ha il diritto di essere quello che è, come si sente e come si mo­stra: con i suoi desideri. Che questi siano buoni o cattivi non deve entrare in linea di conto, per il momento, neanche se sono espressi con un linguaggio molto confuso. Siamo qui di fronte al punto più delicato dell'accompagnamento spirituale: dietro questa confusione, apparentemente inac­cettabile, si nascondono sentimenti umani insoddisfatti e diffi­cili da esprimere, i quali non solamente sono fondamentali, ma anche vitali e profondamente sani. Il fatto che questi desideri si esprimano per il momento in modo confuso è solo un male relativo che si spiega il più delle volte con l'imperizia e la man­canza di esperienza unite a incidenti del passato con tutte le con­seguenti malformazioni: tutte cose per le quali la vittima non ha alcuna responsabilità. Quanto c'è di profondamente sano in questa persona deve innanzitutto essere schiettamente ricono­sciuto mediante la confutazione di alcuni desideri o fantasmi, deve essere ascoltato e, nella misura del possibile, messo in va­lore nella sua verità profonda. Ecco l'unica possibilità di met­terci in contatto con la misericordia di Dio e con la grazia che vengono a valorizzare l'uomo fin nella sua debolezza più pro­fonda, fino a guarirlo se ne ha bisogno. E’ noto il consiglio che Benedetto dà all'abate: oderit vitia, diligat fratres, "odierà i vizi ma amerà i fratelli" (RB 64,11). Il fra­tello deve sentirsi amato nonostante la propria debolezza, e al cuore stesso della propria debolezza. Va amato com'è, e basta. Con Dio non ci sono condizioni imposte per aver diritto all'a­more, né colpe imperdonabili che farebbero decadere dall'amo­re: il padre spirituale diventa qui l'icona del Padre celeste, "che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni" (Mt 5,45), l'icona di Gesù, che non è "venuto a chiamare i giusti ma i pec­catori" (Mc 2,17). Il fatto che sentimenti e desideri a lungo repressi possano fi­nalmente emergere al cuore del colloquio spirituale è importan­te per un motivo ancora più profondo: è forse la prima volta che siamo in grado di raggiungere perfino i nostri desideri più profondi, il che è assolutamente necessario se la grazia deve un giorno portare frutto in noi. I nostri desideri più profondi in­fatti non sono di tipo razionale, non si situano nemmeno a li­vello della nostra volontà o delle nostre facoltà d'azione. La grazia scende molto più in profondità nell'uomo, raggiunge i suoi de­sideri più segreti e ancora totalmente inespressi, là dove questi si sente più vulnerabile e dove effettivamente è stato maggior­mente ferito, là dove sa di essere incredibilmente debole, là do­ve, secondo Paolo, "la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito desideri contrari alla carne" (Gal 5,17). La carne per Paolo va intesa in senso lato: sono i nostri desideri profondi, quelli che costituiscono il punto di contatto tra la grazia di Dio e la persona umana, il punto d'impatto in cui lo Spirito e la car­ne tentano di sopraffarsi l'un l'altra, dandosi battaglia con desi­deri opposti. Ma è proprio questo il luogo in cui possiamo esse­re assolutamente certi di incontrare la grazia. Per essere in gra­do di ascoltare in noi i desideri dello Spirito, bisogna innanzitutto che i desideri della carne emergano in superficie e si rendano percepibili. Dove la carne non fosse percepita, come potrebbe esserlo lo Spirito, lui che lotta incessantemente contro la carne? Ecco perché è estremamente importante essere messi di fronte ai propri desideri più profondi, osare guardarli in faccia, senza paura e anche senza temerarietà, affinché l'impulso profondo dello Spirito possa anch'esso sorgere e aprirsi un varco. E pro­prio questo l'obiettivo della paternità spirituale: avvicinare una persona ai propri sentimenti e ai propri desideri più profondi, al fine di avvicinarlo allo Spirito santo.



La censura interiore

Abbiamo visto sopra che il ruolo del padre spirituale consiste nel risvegliare nel discepolo il Maestro interiore, cioè lo Spirito santo. Prima di arrivarci, entrerà inevitabilmente in conflitto con un'istanza interiore che, in ciascuno di noi, rappresenta il nemico giurato del Maestro interiore. Chiamiamo questa istan­za la censura interiore, il censore interiore. Chi possiede qualche nozione di psicologia avrà già capito a cosa ci si riferisce: si tratta del super-ego, struttura necessaria di ogni psiche umana, che svolge un ruolo preponderante nella nostra vita morale. Nessuno sfugge alla sua influenza il cui ri­sultato può essere sia paralizzante che liberatore. In ogni caso anche il super-ego dev'essere modellato e guarito dalla grazia. In ciascuno di noi agisce come un'istanza inconscia che esercita una certa autorità sulle nostre opzioni concrete. E’ una sorta di cristallizzazione dei ricordi che ogni autorità esercitata nei no­stri confronti, soprattutto nella prima infanzia, ha lasciato in noi. Ancor oggi noi percepiamo, senza saperlo, l'eco di disap­provazione o di incoraggiamento di ordini, comandi o divieti ri­cevuti nel passato, di punizioni che ci sono state inflitte e di sensi di colpa da cui siamo stati schiacciati. Inutile dire che la figura del padre o, meglio, le tracce che nostro padre, a torto o a ragione, ha lasciato in noi hanno svolto un ruolo determi­nante nella formazione di questo super-ego. Ma anche tutti quelli che hanno esercitato qualche autorità su di noi - insegnanti, edu­catori, preti - hanno lasciato la loro impronta, positiva o negati­va. Come una volta sotto il controllo più o meno severo del pa­dre, così ora mi trovo sotto il dominio altrettanto vincolante di questa istanza interiore che chiamiamo censore interiore: essa svolge il ruolo di spauracchio che mi vieta certe cose, mi impe­disce di riuscire e a volte mi fa fallire. E’ ancora lei che mi mi­naccia e mi incute timore, che mi punisce e mi schiaffeggia, che suscita in me il sentimento di colpa e di vergogna. Se proviamo difficoltà a svelare i nostri sentimenti e i nostri desideri, non è innanzitutto perché sono cattivi, ma perché ci sentiamo inconsciamente giudicati, per quanto li concerne, dal nostro censore interiore. Sentirsi intimiditi o vergognosi di fronte al nostro consigliere spirituale deriva dal fatto che attribuiamo a lui i giudizi di valore di cui soffriamo a ogni istante a causa della nostra censura interiore. Questa identificazione del padre spirituale con il censore interiore, compiuta inconsapevolmente dal discepolo, racchiude da un lato la possibilità di autentica li­berazione e, dall'altro, il rischio di un fallimento senza alcuna speranza. Rischio notevolmente aggravato se l'accompagnatore prende inconsciamente e anche solo in parte il posto del censo­re interiore, ingrandendo e rafforzando l'influenza nefasta di que­st'ultimo, seppur con le migliori intenzioni. Questo capita molto più velocemente e più spesso di quanto si pensi e, nella maggior parte dei casi, molto prima che lo si sospetti. D'altronde, se il colloquio spirituale non conduce alla libera manifestazione dei desideri e dei sentimenti più profon­di, ci sono scarse possibilità che possa succedere qualcosa di di­verso. Consideriamo per un momento lo svolgimento classico di un colloquio spirituale come lo si praticava fino ad alcuni anni orsono, senza per questo negare che spesso sia stato fruttuoso: vi era un grosso pericolo che l'accompagnatore prendesse il po­sto del censore interiore. Si trattava innanzitutto di inculcare nel figlio spirituale alcu­ne ferme convinzioni. L'accompagnatore gli proponeva quindi un ideale attraente. Il giovane non deve forse sognare un ideale e applicarsi per realizzarlo? La volontà del candidato veniva for­temente stimolata: se era abbattuto, lo si incoraggiava; se avve­niva qualche scivolone o passo falso, si faceva appello al reper­torio classico delle minacce, in cui il concetto di peccato morta­le aveva un ruolo obbligato e insostituibile. Nel migliore dei casi, per favorire la guarigione, veniva stilato un piano concreto di mortificazioni, in cui la tattica di "allenarsi a cose faticose e dif­ficili" per non più cedere alle tentazioni faceva la parte del leo­ne. Tutto questo, naturalmente, con l'aiuto della grazia di Dio: aiuto che era sempre supposto ma scarsamente messo in rilievo da una simile strategia. Il punto nevralgico di una direzione spirituale di questo tipo è indubbiamente il fatto che l'accompagnatore è portato a dare il cambio al super-ego, al censore interiore del discepolo. Insie­me corrono così il rischio di non raggiungere mai il Maestro in­teriore, né la grazia dello Spirito santo, fonte di ogni autentica libertà. Un simile accompagnatore non solo non farà mai opera di risveglio alla vita, ma aumenterà l'ansietà e irrobustirà la cen­sura interiore, anche se userà spesso la parola libertà. Anche il concetto di libertà, infatti, può essere adoperato con il tono del­l'obbligo, il che non fa che rendere ancora più confusa la si­tuazione. Abbracciare il ruolo del censore interiore nel corso di un col­loquio è cosa relativamente frequente e non si esagera mai nel­l'evitarlo. E quello che avviene se l'accompagnatore si permette di dire: "E ancora colpa tua", "Dovresti aver vergogna", "Non ci sono scuse per la tua debolezza". Ma il risultato è altrettanto funesto se approva o rassicura con generosità: "Bravo! Molto bene", "Non c e niente di male in questo", "L'intenzione era buona", "Al giorno d'oggi questo è permesso": frasi simili sono anch'esse graditissime dal super-ego. Se l'accompagnatore se ne lascia trascinare, cade sempre nel tranello dello stesso ruolo: non ha preso le distanze e si colloca ancora nel ruolo di chi stabilisce cosa si può o non si può fare, ciò che è permesso e ciò che è vietato. Non fa altro che dare il cambio al censore interiore. Il caso dello scrupoloso è assolutamente tipico. Un uomo si­mile si trova letteralmente schiacciato sotto il peso della censu­ra interiore, incapace di scegliere tra il bene e il male. Gli resta una sola via d'uscita: eseguire con timore e tremore gli impera­tivi dell'istanza interiore, eventualmente anche in contrasto con il buon senso, cosa di cui sovente si rende perfettamente conto. Per aiutare quest'uomo è inutile calmare i suoi scrupoli con fra­si come: "Questo non è male", "Non volevi veramente fare que­sto", "Non eri pienamente libero in quel momento". L'esperienza dimostra che la tregua è di breve durata. Non c'è da stupirsi: parlando in quei termini, l'accompagnatore si è identificato con il censore interiore. Dove questi di solito condanna, ora pronuncia un'assoluzione. Ma la calma relativa che ne consegue non dura: voltate le spalle, l'angoscia ritorna al galoppo, l'aguzzino inte­riore si rimette all'opera e tutto ricomincia da capo. Come aiutare la persona prigioniera della propria censura in­teriore, anche se questa non è sempre così forte come nel caso dello scrupoloso? Il primo aspetto importante è la qualità del rapporto. Questo suppone una forte dose di amore autentico. Nel discepolo l'affetto si esprime in una profonda fiducia; nell'accompagnatore, in un'oggettività e in una capacità di ascolto e di valutazione. Solo così il legame affettivo tra il maestro e il discepolo potrà controbilanciare gradualmente il legame che incatena il discepolo al suo super-ego. Quest'ultimo legame in­fatti, per quanto intessuto di colpevolezza e di timore, ha an­ch'esso a che fare con l'affettività. Quello che un tempo ci ve­niva comandato o proibito dai genitori o da qualsiasi tipo di au­torità aveva sempre a che fare con l'affetto che ricevevamo da loro. Dietro ogni sentimento d'angoscia inculcato dal censore interiore riecheggia quello che un tempo percepivamo implici­tamente negli ordini ricevuti: "Se non ti comporti come ti dico, non sarai più amato, non ti amerò più". Ecco perché il legame affettivo ha un'importanza così grande nel rapporto tra accom­pagnatore e discepolo: solo un amore autentico sarà finalmente in grado di mettere in crisi la posizione di forza occupata dal censore interiore. In seguito, basandosi su questo affetto, l'accompagnatore avrà il compito di neutralizzare il censore interiore del discepolo. D'al­tronde sa già in anticipo che questo censore se la prenderà con lui, tentando innanzitutto di tirarlo dalla sua parte e di cedergli il posto. Come abbiamo già visto, il padre spirituale dovrà stare attento a non cadere nel tranello, evitando tutto ciò che potreb­be portare a questa sostituzione. Farà attenzione a evitare frasi come: "Insomma, dovresti...", "Le cose dovrebbero andare così Non susciterà angoscia né senso di colpa, però si guarderà an­che dal giustificare. In questo modo ci sono buone probabilità che la censura interiore allenti la presa sulla sua vittima: la sua dinamica languisce e muore e i suoi colpi vanno a vuoto. Verrà il momento in cui l'accompagnatore potrà, al cuore stesso del rapporto, dare il colpo di grazia al censore interiore dell'al­tro e metterlo in rotta. In che modo? Impossibile descriverlo, ma questo succede, e succede molto semplicemente aderendo al­la vita. E’ qualcosa che scaturisce all'improvviso dall'accompa­gnatore, come una scintilla di vita e di libertà che si comunica all'altro: è qualcosa che proviene molto semplicemente dalla vi­ta e da un inizio di autentica libertà che deborda dall'accompa­gnatore. All'improvviso gli è dato di mettere fuori combattimento il censore interiore e di raggiungere il discepolo a un livello mol­to più profondo della sua personalità, là dove la vera vita si na­sconde dietro questo schermo di vergogna e di, angoscia. Tutta l'abilità consiste nel liberare questa vita e nel consolidare ciò che è nascosto dietro lo scrupolo e che, a prima vista, sembrava essere un male. Il male assoluto, infatti, è raro negli uomini: nella maggior parte dei casi il male è solo un bene distorto e deforma­to. L'arte del padre spirituale consiste nel raddrizzare con amo­re ciò che è distorto; una volta raddrizzata la stortura, il male svanisce e la vita autentica può sgorgare liberamente. Emerge allora che il peccato non si trovava là dove avevamo l'abitudine di collocarlo, così come il bene non si trovava sempre là dove eravamo soliti cercarlo. Il bene e il male erano altrove, non alla superficie della nostra personalità ma ben più in profondità, in un luogo in cui Dio è presente in noi. Senza la luce e lo sguardo di Dio non saremmo capaci di identificarli: ci riusciremmo a fa­tica in noi stessi, e ancor meno negli altri. "Non giudicate, e non sarete giudicati" (Mt 7,1). Quanto abbiamo appena descritto non avviene di colpo, fin dal primo incontro: implica il processo di tutta una vita, di cui il padre spirituale non è l'attore principale, si presta solo all'o­pera della potenza di Dio in lui. Il colpo di grazia inferto a que­sta malformazione sarà alla fine il frutto della Parola di Dio, del suo Spirito, del suo amore incredibile. Essere accolti come si è nell'affetto del padre spirituale, con tutti i propri peccati e la propria debolezza, è il segno - osiamo dire il sacramento - del­l'accoglienza che ci viene fatta dalla misericordia di Dio. Dove c'è l'amore, c e una gioia inesprimibile: là incontriamo anche l'au­tentico pénthos, il pentimento secondo l'evangelo. Nulla è mag­giormente liberatore e più costruttivo del vero pentimento. Que­sto non ha nulla in comune con i sensi di colpa suscitati dal cen­sore interiore: ed è, senza dubbio alcuno, quest'ultimo che sbarra la strada all'autentico pentimento. Il senso psicologico di colpa e la conoscenza evangelica del nostro peccato sono due realtà radicalmente diverse: il vero pentimento è accolto nell'amore e con infinita gratitudine, al cuore della nostra debolezza e del nostro peccato. La forza di Dio infatti non si manifesta altrove che nella nostra debolezza. Una volta messo fuori combattimento il censore interiore, l'ac­compagnatore può agevolmente prendere in mano la situazio­ne. Intendiamoci: l'autentico accompagnatore, cioè lo Spirito santo, davanti al quale la guida umana potrà presto ritirarsi. Que­sto potrà avvenire senza rischi non appena il discepolo avrà sta­bilito il contatto con lo Spirito e avrà, a partire da questo con­tatto, imparato a vivere da uomo libero. Eccoci alla sorgente della coscienza cristiana e dell'autentica libertà: "Tutti quelli che so­no guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio" (Rm 8,14).



Il Dio-specchio

Accanto al censore interiore, portiamo in noi un altro idolo che ci impedisce di vivere secondo la grazia e che potrebbe ve­nir consolidato da un accompagnamento spirituale maldestro: si tratta dell'immagine idealizzata di sé, immagine riflessa come in uno specchio, che ci si è creata nel corso degli anni e alla qua­le si può essere appassionatamente legati quanto si è asserviti al censore interiore. Abbiamo tutti presente il mito di Narciso, innamoratosi del­la propria immagine riflessa in uno stagno e annegato nel mo­mento in cui volle abbracciarla. Questo mito è l'espressione sim­bolica di un elemento fondamentale della nostra condizione uma­na: l'immagine ideale di noi stessi - ideale umano, ma a volte anche spirituale, portato alle stelle - è sempre più bella della realtà. Quello che faccio o non faccio, le imprese in cui riesco come quelle in cui fallisco vengono tutte inconsciamente valutate con il metro di questa immagine riflessa di me stesso. Desiderando a ogni costo di essere ciò che non sono in realtà, rifiuto di esse­re quello che sono: la mia immagine-specchio è la facile consola­zione mediante la quale cerco di affrontare la vita come posso. Anche se quest'ultima non è una gran riuscita, mi resta sempre la consolazione di sbirciare verso quell'immagine-specchio che pretendo di aver di mira. L'accompagnatore si trova qui di fronte a una realtà delicata che presenta un rischio considerevole. Una guida spirituale troppo ingenua può infatti favorire l'influenza dell'immagine-specchio, adottandola inconsciamente e intervenendo a partire da essa: ap­plaudirà quando qualcuno agirà in conformità alla sua immagi­ne e rimprovererà nel caso contrario. D'altronde non è solo col­pa sua se assume l'immagine riflessa del suo discepolo: fin dal­l'inizio quest'ultimo si è inconsciamente dato da fare perché questo avvenga. In mancanza di meglio, si è presentato alla sua guida con lo specchio in mano, per così dire, con i lineamenti di questa immagine idealizzata che si è creato a suo uso. E sic­come nulla è più rassicurante per entrambi i protagonisti del dia­logo, l'accompagnatore non tarda a cadere in trappola. Da quel momento è a sua volta al servizio dell'immagine-specchio e ri­dotto a un semplice annesso alla problematica del discepolo. Ebbene, la pedagogia di Dio va esattamente in senso inverso: Dio fa di tutto per spezzare lo specchio e l'immagine. Quando questo avviene, può avere conseguenze molto serie: bisognava che Paolo cadesse a terra e restasse cieco per tre giorni; per di­ventare apostolo non poteva più vivere guardandosi allo spec­chio della perfezione giudaica, al contrario, doveva riconciliarsi con la propria debolezza e i propri limiti e magari addirittura con l'ambiguità del proprio peccato. Questo non sarebbe potu­to capitare prima di incontrare Gesù, ma avvenne immancabil­mente nel momento stesso in cui gli apparve Gesù. Come per Paolo e per molti altri convertiti, nel momento in cui lo spec­chio e l'immagine vanno in frantumi si apre una crisi temibile. Ci sembra di aver perso ogni punto d'appoggio, di essere scossi fin nelle fondamenta: è come se il terreno, quel terreno sul qua­le avevamo edificato tutta la nostra personalità, ci franasse sot­to i piedi. In momenti simili l'esperienza spirituale può sfiorare il crollo psicologico, pericolo che può essere scongiurato solo da quanto ci viene rivelato nel medesimo istante: l'amore e la mi­sericordia infiniti di Dio, in una parola: la grazia. Proprio a par­tire da una simile esperienza Paolo potrà più tardi affermare con­vinto: "Per grazia di Dio sono quello che sono" (1Cor 15,10). In quest'attimo decisivo, il ruolo del padre spirituale si limita a predisporre tutto per favorire questo incontro con Dio o, per lo meno, a mantenerne aperta la strada. Infatti, non appena lo specchio e la sua immagine idealizzata sono in frantumi, la stra­da è realmente aperta. L'accompagnatore resisterà alla tentazione di raccogliere i cocci dell'idolo per tentarne un restauro: nulla sarebbe più funesto, anche se l'interlocutore dovesse ottenerne un momentaneo sollievo. Non c'è alcun pretesto che autorizzi la ricostruzione di un nuovo idolo. Al contrario, il discepolo im­parerà a dimorare accanto ai cocci dell'idolo primitivo, senza ama­rezza, nella tranquillità e nell'abbandono, con il cuore ben pre­sto colmo di riconoscenza e di speranza. Nella maggior parte dei casi, in una crisi del genere, saranno la pace, la fiducia e la com­prensione affettuosa della guida ad aiutare il discepolo. Proprio il padre spirituale sarà spesso il primo segno dell'a­more di Dio e il canale attraverso il quale si manifesterà al di­scepolo sconcertato. Ora che lo specchio con l'immagine idea­lizzata è in frantumi, la strada è aperta a Dio. E’ estremamente importante, perché il mistero profondo di ogni uomo non con­siste nell'immagine idealizzata che si è formato da sé, ma risie­de molto più in profondità e può essergli rivelato solo da un'al­tra persona e in un clima di amore. Spesso il padre spirituale è il primo che incontra sul suo cammino: molto dipenderà dal contatto che si stabilirà con lui. Attraverso le parole della gui­da, riflesse nel suo sguardo e nel suo amore, il discepolo potrà assumere il proprio essere profondo; non per perdersi nella gui­da, ma per esserne assunto, capito e confermato in quanto c’è di migliore nella sua identità reale. Allora una parola, un'autentica parola sarà non solo possibile ma anche assolutamente richiesta. Abbiamo già detto come, nei primi momenti del colloquio, le parole vanno utilizzate con cir­cospezione da entrambi gli interlocutori: in genere arrivano trop­po presto e danneggiano il dialogo, quando addirittura non lo interrompono definitivamente. Una volta instaurato il clima di fiducia e di amore ed espressi e liberati dall'angoscia e dalla ver­gogna i sentimenti e i desideri, a quel momento scocca l'ora di una parola che, per quanto discreta, è ormai in grado di dare frutto. Una sola parola, pronunciata con amore e con il tono ap­propriato, nella maggior parte dei casi è più che sufficiente. Sulla bocca del padre la parola ritrova la forza primitiva che dovreb­be sempre essere la sua: è creatrice, portatrice di vita, come la Parola di Dio. Possiede la forza di destare un uomo nuovo. Una parola simile ci colpisce alla sorgente stessa della nostra libertà, che è anche la sorgente di ogni amore in noi; essa scava e sprigiona la nostra libertà. E alla luce di questa libertà così acquisita, tutto il resto sarà ormai valutato nella giusta misura. Così sarà infine possibile discernere correttamente dove può nascondersi il peccato, operazione spesso non esente da sorpre­se: ciò che sembrava male appare assolutamente innocente, men­tre ciò che veniva preso per virtù si scopre essere illusione. Molto orgoglio nascosto si rivela improvvisamente in modo inatteso, così come la mancanza di amore e di fiducia filiale in Dio. Ma colui che è capace di valutare nella giusta misura il peccato, è anche pronto a lasciarsi inondare dalla misericordia e a trovare la propria gioia più profonda nelle lacrime del pentimento. Ec­coci nuovamente alle lacrime: nulla è più liberante delle lacri­me. Non per niente gli autori spirituali, già i più antichi, hanno paragonato le lacrime del pentimento all'acqua di un secondo battesimo nel quale dobbiamo essere nuovamente battezzati af­finché il primo battesimo dia tutti i suoi frutti.



Il vero Dio per l'uomo libero

Secondo Benedetto, il padre spirituale deve vegliare attenta­mente sul novizio per vedere "se davvero cerca Dio" (si revera Deum quaerit: RB 58,7). Potremmo formulare altrettanto bene questa esigenza così: se cerca il vero Dio". Avrete capito che si tratta di sapere se non sia alla ricerca di un falso Dio, di cui porta in sé l'immagine. Deve invece raggiungere il vero Dio, quel­lo che, al solo incontrarlo, lo libera. La guida deve aver incon­trato anch'essa questo vero Dio e possedere il senso e il gusto di un'autentica libertà. La libertà è il riflesso di Dio nell'uomo: l'accompagnatore deve essere in grado di discernere questo ri­flesso nell'altro e di capire cosa avviene in lui, percependo i luo­ghi in cui è ancora prigioniero, minacciato di ripiegamento, no­nostante un altrettanto evidente fervore solo esterno. Sorveglierà innanzitutto il censore interiore e l'influenza esercitata dall'im­magine idealizzata: in questo il discernimento degli spiriti, o dia­krisis, è assolutamente necessario. Il vero Dio non è quello delle nostre convinzioni o della nostra generosità ma - come dice in modo pregnante Ruusbroec - "il Dio che ci avviene dall'interno verso l'esterno", il Dio che bisogna accogliere nel nostro intimo più profondo. Può essere importante saper interpretare i sintomi di una man­canza di libertà negli altri. Eccone alcuni esempi: chi è carente di libertà può svilupparsi solo in una parte della propria perso­nalità, mentre l'altra parte resta evanescente. E’ un tipo di per­sona che si incontra frequentemente ai nostri giorni: in lui le relazioni sociali sono in primo piano, assieme alla ragione, alla volontà e alla generosità, spesso interpretate come segni di un atteggiamento di fede. Altre forze sono invece relegate in se­condo piano, spesso ridotte al silenzio, rimosse o per lo meno fortemente censurate: sono le forze vitali, proprio quelle che do­vrebbero dare la vita; invece le si guarda con sospetto e sfidu­cia: sono circondate da dubbi mai espressi apertamente ma molto pesanti. Citiamo solo la tenerezza e l'amore, spesso confusi con erotismo e sensualità; lo spirito di decisione e l'efficacia, confu­si con mancanza di delicatezza e di tatto; l'energia, scambiata per durezza; l'amore per la bellezza, interpretato come lusso su­perfluo; la fiducia in se stessi, confusa con l'orgoglio. Tutte queste forze vitali sono la ricchezza dell'uomo: Dio ne è l'autore ed esse dovrebbero restare a disposizione del suo re­gno. È quindi importante non tenerle sotto chiave ma renderle disponibili per una purificazione. Purtroppo vengono spesso so­spettate, senza che si riconosca il loro valore positivo, la loro capacità di essere trascinate nel dinamismo dello Spirito che si incaricherà di dilatare ulteriormente le loro potenzialità nel suo amore e nella sua forza. Ecco alcuni tratti di questa divisione interiore che incontria­mo così spesso. Essa rappresenta un carico pesantissimo per l'in­teressato, perché comporta un enorme dispendio di energie. Senza rendersene conto, quell'uomo esaurisce la propria energia nel­l'allontanare da sé tutte le proprie potenzialità di vita. Quando l'ego e la struttura psicologica della persona implicata sono fra­gili, questo dispendio di energie comporta anche dei rischi. For­tunatamente, nella maggior parte dei casi, viene trovato un com­promesso vivibile: la persona in questione sembra vivere libera, anche se la sua umanità risulta diminuita. Resta chiusa all'amo­re e ripiega su un certo numero di ruoli paralleli che le richiedo­no molte energie e che finiscono per sopprimere ogni possibilità di amore e di vita autentiche. Sarebbe facile enumerare anche altri sintomi che indicano la mancata coincidenza piena e rappacificata con il proprio essere profondo e l'agire non conforme alla sorgente intima. Certi estre­mismi, per esempio: essere molto progressisti o estremamente conservatori, molto spirituali o assolutamente secolarizzati. Di fatto si tratta solo di nomi diversi dell'immagine idealizzata o della schiavitù del super-ego. Anche la malattia o un affatica­mento cronico possono essere il segno di una tensione troppo forte; oppure i compiti che ci si è inventati senza che nessuno ce li abbia chiesti, o quelli richiesti che si assolvono in modo febbrile. Alcune forme di attivismo - l'incapacità di rifiutare qual­cosa, di sospendere il proprio lavoro, di riposarsi, di andare a letto all'ora conveniente - sono solo sintomi di tensione interio­re, così come certi riti nei quali si rinchiude la propria vita e per amore dei quali si spreca un tempo enorme. I confratelli giu­dicano spesso questi sintomi con un'ironia feroce, che però co­glie nel segno; e anche il linguaggio popolare è ricco di espres­sioni a questo proposito. Di uno si dirà: "Se gli togli quell'inca­rico, è la sua fine!", o di un malato: "Se il medico gli toglie le medicine, ne farà una malattia!"; di qualcuno particolarmente virtuoso si dirà che è "un mostro di virtù", di un altro che im­pone a sé e agli altri un ritmo indiavolato: "E un boia! Si am­mazza di lavoro". Ci sarebbe da domandarsi chi è la vittima e chi il carnefice... Quando un monaco viene definito "regola vi­vente" merita senza dubbio il rispetto, ma a condizione che ol­tre alla regola, qualcos'altro viva in lui. Visto dall'esterno un si­mile stile di vita può apparire soddisfacente, fino a un certo punto e per un certo tempo; a volte è addirittura oggetto di lode, ma in realtà la vita è soffocata in persone simili: non diventano mai adulte, sempre scontente, mai soddisfatte, si raggomitolano su se stesse. Nei loro rapporti non sono aperte agli altri e sono in­capaci di donarsi gratuitamente. Saranno anche eroi - o vitti­me? - del dovere, ma non trasmettono la vita, sono sterili e so­pravvivono a fatica. Hanno infatti bisogno di tutta l'energia di­sponibile per mantenere e controllare il processo in atto. Solo la morte le libererà, a meno che un giorno non assumano il ri­schio di confrontarsi con la propria debolezza, alla presenza e con l'aiuto di un fratello o di una sorella che le accoglie per quello che sono, con amore.



I

momenti salienti dell'accompagnamento

Dobbiamo ora applicare a tre casi concreti queste condizioni generali relative a ogni dialogo spirituale, tre casi in cui questo si rivela spesso indispensabile. Si tratta di tre momenti decisivi in ogni cammino spirituale: il discernimento della volontà di Dio; la scoperta della nostra interiorità; l'apprendistato dell'agire di Dio in noi e del nostro agire in lui. Innanzitutto il discernimento della volontà di Dio, che si tratti sia di opzioni fondamentali - la scelta di un mestiere, per esem­pio, odi una vocazione, o del compagno di vita - sia di una delle molteplici decisioni a cui la vita ci obbliga incessantemente, ma di fronte alle quali ci sentiamo così spesso sollecitati in direzio­ni opposte. Vorremmo scegliere bene, cioè scegliere secondo Dio e i suoi piani: è uno dei casi in cui anche chi non si rivolge rego­larmente a un padre spirituale, sarà portato a farlo per chiedere luce. Non che quell'altro fratello, anche se è abituato ad ascoltar­ci, abbia in tasca la soluzione in virtù di una sapienza personale; o che abbia ricevuto qualche rivelazione a nostro riguardo e che sia in grado di fornirci non solo un consiglio, ma quasi un ordine da parte di Dio. No, al contrario: il padre spirituale non detiene alcuna soluzione e, se svolge correttamente il pro­prio ruolo, lo sa fin troppo bene. La soluzione l'abbiamo in noi stessi, ci è accordata in anticipo, nel nostro intimo, grazie allo Spirito santo che ci è donato. Questo significa molto concreta­mente che quello che cerchiamo come volontà di Dio si trova già da qualche parte in noi e che, tutto sommato, non dovrebbe essere così difficile percepirlo. In realtà incontriamo molte dif­ficoltà a farlo e d'altronde sappiamo per esperienza che, in oc­casione dell'una o dell'altra scelta cruciale, ci è già capitato di sbagliarci. Quello che ci auguravamo, e addirittura credevamo, fosse la volontà di Dio si è presto rivelato un inganno, una do­lorosa illusione, alimentata in noi da qualche altro desiderio o tendenza più o meno confessabile, al cui riguardo non avevamo visto chiaro. Il fatto è che la volontà di Dio in noi fa per così dire miste­riosamente corpo con il complesso sistema di desideri e di in­quietudini del quale abbiamo parlato. Questo miscuglio tutta­via non costituisce ancora il fondo del nostro essere ma è, in una zona più superficiale, come una specie di cappa che rende difficile la trasparenza della volontà di Dio. Il ruolo del padre spirituale non è quello di toglierci questa cappa: nessuno ne sarebbe veramente capace e, anche se lo fos­se, una simile operazione provocherebbe un disorientamento così totale che sarebbe meglio risparmiarci questa prova. Il padre spi­rituale innanzitutto ci ascolterà: attraverso tutti i desideri e le velleità superficiali che si contendono il nostro cuore, come li percepiamo e li esprimiamo, è possibile che colui che ha l'udito fine - e il cuore puro - riesca a cogliere il desiderio di Dio che giace in fondo al nostro cuore, la sua volontà costitutiva del no­stro essere. Quando ne avrà percepita qualche traccia, ce la in­dicherà, non come per imporcela: ancora una volta, non servi­rebbe a nulla. Ci aiuterà invece a fare noi stessi la cernita, per esempio ponendo alcuni punti di domanda, o verificando i no­stri desideri alla luce della Parola di Dio. Ci farà prendere co­cienza di quello che differenzia il desiderio di Dio in noi dai nostri piccoli desideri personali. Infatti, non appena saremo in grado di veder chiaro in tutto ciò che ingombra l'ingresso del nostro cuore e ostacola la volontà di Dio, desidereremo imme­diatamente rinunciarvi, senza neanche grandi sofferenze, pur di offrire tutte le possibilità alla volontà di Dio. Questa, quando davvero ci riguarda, si impone da sola con una forza mite e irre­sistibile insieme che, senza violenza alcuna, trascina dolcemen­te la nostra libertà. La volontà di Dio infatti fa parte del nucleo più intimo del nostro essere: da lei dipende tutto ciò che siamo ed è sempre lei che ci condurrà alla nostra piena realizzazione. Un altro punto cruciale dell'esperienza spirituale è costituito dalla scoperta della nostra interiorità. La preghiera è spesso il luo­go in cui avviene questa scoperta, a volte abbastanza presto, al­tre volte solo dopo lunghi anni. In quest'ultimo caso la preghie­ra ha cessato di essere per noi una sconosciuta: abbiamo già esplo­rato un certo numero di sentieri, abbiamo tentato diversi metodi e l'uno o l'altro ci sono sembrati efficaci per un periodo. Forse ci siamo familiarizzati con un piccolo trantran che per il momento ci basta: un po' di lettura, un pizzico di riflessione o di medita­zione, qualche invocazione, nei giorni migliori anche l'abbozzo di un buon proposito. Perché non esserne felici, soprattutto con i tempi che corrono, o per lo meno accontentarsene, senza voler fare troppo i difficili? Ma arriva il giorno in cui Dio non se ne accontenta più. Per tirarci fuori da questo trantran e invitarci ad andare allargo, Dio dispone di un solo mezzo: troncare la corrente e chiudere i rubinetti. Intelligenza, immaginazione, cuore si trovano con­temporaneamente e improvvisamente a secco e devono far fronte a un irrefrenabile disgusto, se non alla disperazione. E’ lo scacco di tutti i nostri sforzi finalizzati alla preghiera, scacco amara­mente gustato dal nostro amor proprio ormai senza scampo? No, è esattamente l'opposto che ci viene proposto: lungi dall'essere uno scacco e l'annientamento di ogni speranza, è la possibilità di Dio che ci si presenta, la speranza autentica che ci viene of­ferta, e che bisognerebbe esser capaci di cogliere al volo. E in­fatti Dio che prende finalmente in mano la situazione, che af­fretta il passo e vorrebbe vederci accelerare il nostro. A prezzo, è vero, di una grande prova e di un profondo disorientamento. Eccoci tuttavia alle soglie di un mistero che non finirà più di affascinarci non appena avremo compiuto il passo. Ma quale passo? L'espressione è ancora inadeguata: non c'è alcun passo da fare, come potremmo esser capaci di farlo? C'è solo da la­sciar cadere tutto ciò che ci ingombra le mani e il cuore, da mol­lare la presa e quindi fare molto meno, per lasciarci ondeggiare e cadere verso la nostra interiorità, verso quel mondo nuovo al fondo del nostro essere, verso quella parte migliore di noi stessi che sfocia misteriosamente in Dio: profondità vertiginosa, che abbiamo difficoltà a intravedere e che, una volta intravista, ci attira e ci fa paura nel contempo. In genere anche qui deve intervenire un altro, non per spin­gerci con forza là dove non siamo ancora decisi ad andare, ma per aiutarci a prendere coscienza di quella vertigine interiore alla quale basterebbe abbandonarsi perché si tranquillizzino le ten­sioni inutili e si distenda la contrazione dei nostri sentimenti. Dio stesso è questa vertigine al fondo del nostro cuore e la sor­gente della preghiera che cerca solo di liberarsi. Benedetto quel cuore in cui questa sorgente ha potuto sgorgare liberamente in seguito a una sola parola - a un solo sguardo, a volte - di un fra­tello amico. Un terzo punto cruciale di ogni esperienza spirituale consiste nell'apprendistato dell'agire di Dio in noi e di un modo nuovo di collaborare con lui. Come in un dato momento della nostra vita siamo tentati di reinventarci da soli i cammini della preghiera, così siamo soggetti a voler dettare noi stessi le condizioni della nostra militanza al servizio del regno. Mentre invece è Dio a essere all'opera e noi siamo al suo servizio e dovremmo impara­re a scovare questa attività di Dio in noi e attorno a noi, affin­ché possa sostituirsi alle nostre opere personali. Questo suppone una trasformazione progressiva ma molto con­seguente del nostro solito modo di agire. Dio desidera tanto in­segnarci come prestarci efficacemente alla sua forza che, come un uragano, si scatena continuamente sul mondo e sulla chiesa. Ma noi non sappiamo assolutamente captare questa forza divina, sia perché ci troviamo su una lunghezza d'onda completa­mente diversa, sia perché disturbiamo l'agire di Dio con le no­stre emissioni e attività intempestive. Bisognerebbe innanzitut­to fermarci a lungo per far silenzio, in modo che l'agire di Dio possa emergere nel nostro cuore. E, una volta percepiti i segni inequivocabili di questo agire, dovremmo prestarci ad essi inte­ramente, anima e corpo. Si tratta insomma di passare da un at­tivismo benintenzionato ma sconsiderato a una certa passività nell'azione stessa, che lascia Dio pienamente all'opera in ciascuno di noi. Questo passaggio implica sovente una crocifissione, un'auten­tica Pasqua, di cui inconsciamente cerchiamo di allontanare il più a lungo possibile il calice. Dio però non manca di mezzi per farci consegnare le armi e costringerci a una resa incondiziona­ta, eppure, nella maggior parte dei casi, non sappiamo ricono­scere questi interventi di Dio, soprattutto quando si contrap­pongono ai nostri. Più ci sarebbe bisogno di rallentare e di fer­marsi e più noi ci agitiamo. L'agire di Dio in noi ci sconcerta stranamente: prima di trasformarsi in roccia sulla quale costrui­re solidamente, è per noi pietra di scandalo e d'inciampo. Ep­pure solo la potenza di Dio ci permette, malati come siamo, di intraprendere ogni cosa in colui che ci dà forza, ma il cui vigore si manifesta solo nella debolezza, cioè nella passività sovranamente attiva della nostra pazienza umile e fedele. Anche qui abbiamo bisogno dello sguardo e della parola di un altro, di qualcuno esperto sia nelle vie di Dio che nella pro­pria debolezza, qualcuno che ha come sorpreso Dio mentre scri­veva diritto sulle righe storte della propria vita, qualcuno che sia riconciliato con la propria insignificanza così come con le me­raviglie che Dio non cessa di operare, al di là di tutti i limiti dell'uomo e addirittura a dispetto di tutti gli artifici che così spesso l'uomo cerca di mettere in opera per fare meglio di Dio nel suo campo. Soprattutto in materia di accompagnamento, il padre spirituale non cercherà mai di fare meglio e più veloce di Dio, né di sopravvalutare la grazia. Per il discepolo dovrebbe essere sufficiente osservare il proprio padre all'opera con lui per vedere in che modo unico un uomo può essere chiamato a collaborare con la grazia. Collaborare con la grazia di Dio significa anche collaborare alla gioia dell'uomo: questa è, in definitiva, la posta in gioco della paternità spirituale. La misura della sua attuazione e la verifica della sua riuscita - se di riuscita si può parlare in questo campo - sarà la gioia. Come Dio è alla caccia della gioia dell'uomo - c’è infatti gioia in cielo per un peccatore che torna verso il Padre così il padre spirituale è alla caccia della gioia che cova nel cuore del discepolo. Gioia segreta, impercettibile per ora, gioia di Dio in un uomo, ancora vacillante per il momento, ma già destinata a invadere tutto il suo essere: corpo, anima, psiche, profondità dello spirito e del cuore. Non appena sarà stata per­cepita questa gioia, basterà che il padre spirituale e il discepolo le si aggrappino quasi alla cieca, ma con dolce testardaggine e nonostante tutto. Quando la gioia di Dio è nel cuore del padre spirituale e quando la gioia di Dio è nel cuore del discepolo, allora tutto diventa pos­sibile, perché "Dio ama chi dona con gioia".