venerdì 15 luglio 2011

Che cosa è proprio del cristiano?




Di seguito un testo "monastico" adatto ad affrontare la nostra lotta, che, come ci ricorda l'Apostolo, non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro gli spiriti del male che abitano questo mondo di tenebra...

* * *

"Che cosa è proprio del cristiano", si domanda Basilio di Cesarea a
conclusione delle sue Regole Morali. E così risponde: «Vigilare
ogni giorno e ogni ora, ed essere pronto nel compiere
perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che all’ora che
non pensiamo, il Signore viene».



"Vigilanza e attenzione su di sé"
di
Adalberto Piovano, Priore della Comunità monastica Santissima Trinità in Dumenza (Varese)


Così abituati ad identificare questo atteggiamento in prospettiva funzionale e
un po’ negativa, può forse stupirci pensare la vigilanza come «proprio» del cristiano,
come cifra riassuntiva della esperienza cristiana sia in rapporto all’agire del
credente, sia in rapporto ad un tempo di attesa, ad un incontro con il Veniente.
Secondo un certo sentire comune, la vigilanza è intesa come una sorta di
barriera difensiva per conservare la purezza nell’agire e nell’essere, raggiunta dal
cristiano in rapporto al mondo. Spesso confusa con la prudenza, rischia di essere
presa per un meccanismo che ingenera sospetto e paura, e che favorisce uno sguardo
negativo e pregiudiziale su tutte quelle realtà che a torto o a ragione possono
contaminare l’identità del credente.

Per restare all’altezza


Nella tradizione patristico-monastica, la vigilanza ha altri connotati e
decisamente più positivi. Essa è anzitutto in rapporto alla dimensione spirituale
dell’uomo, in vista di una libertà e di una scioltezza interiore che rendono la vita
concentrata e tesa all’essenziale. Se è presente una dimensione ascetica, in cui
collocare anche l’aspetto difensivo che la vigilanza comporta, questa è in funzione di
una pedagogia alla resistenza, per difendere la tensione e la vivacità della vita
interiore da ogni appiattimento e appesantimento.



Nella vigilanza il credente sa mantenersi ad un livello «secondo lo Spirito» a
servizio della pienezza della vita; custodisce il cuore da tutto ciò che ne annebbia lo
sguardo e ne attutisce la capacità di ascolto. Essa serve per strutturare in modo
solido la personalità umana e spirituale.
Intesa come il cuore pulsante dell’agire e dell’essere del credente, educa ad
una capacità di discernimento: «la vigilanza del discernimento è migliore di
qualsiasi atteggiamento che si possa assumere davanti alle varie situazioni degli
uomini… È meglio l’aiuto che viene dalla vigilanza, dell’aiuto che viene dalle
opere».
C’è uno stretto legame fra vigilanza e dimensione interiore dell’uomo, colta
nel simbolo del cuore. È in questo luogo nascosto e pulsante, da cui dipende la verità
della vita, che la vigilanza va esercitata: «tieni il cuore sotto controllo e sottometti ad
una severa critica tutti i sentimenti, i gusti e le inclinazioni. Quando sarà purificato
dalle passioni, esso potrà agire a suo agio».

Fare attenzione alla porta del cuore

Sia nella vita psicologica che spirituale c’è una stretta interdipendenza tra i
sensi (che coinvolgono la dimensione corporale) e il cuore (che è il simbolo della
nostra interiorità). Per questo, un cammino ascetico si fa necessario.
Ogni ascesi, per essere autentica e liberante, deve condurre alla dimensione
più profonda dell’esistenza: se il controllo e il dominio del corpo non raggiungono il
cuore, si può anche ottenere un carattere forte o l’autocontrollo, ma non per questo si
plasma l’uomo spirituale. «Colui che ha rinunciato alle cose materiali… ha fatto
monaco l’uomo esteriore, ma non ancora l’uomo interiore; chi invece ha rinunciato
ai pensieri passionali di questo – cioè dell’intelletto – è questo il vero monaco.
Facilmente uno fa monaco l’uomo esteriore, se vuole; ma non è piccola lotta fare
monaco l’uomo interiore».
Ogni cammino ascetico, dunque, è anzitutto ordinato a mantenere attento e
desto il cuore. La custodia dei sensi, l’ascesi dello sguardo, della bocca, delle
orecchie… sono relativi all'attenzione del cuore, permettendo di trasportare la
vigilanza nello spazio interiore in cui avviene la lotta. E in questo senso vigilanza ed
attenzione diventano la «fatica del cuore», un’ascesi attraverso la quale è possibile
operare quella purificazione necessaria per rendere efficace l’azione della «spada
dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef 6, 17). «Ogni carisma è dato con la fatica del
cuore. E il carisma della vigilanza non lascia entrare i pensieri o, se entrano, non
permette loro di nuocere. Che Dio ti conceda di essere sobrio e vigilante». Ad un
fratello illuso della tranquillità del suo cuore, un abba rispose che solo un cuore
vigilante rende possibile un discernimento della lotta:
«Un fratello ha detto ad un anziano: Io non vedo lotte nel mio cuore.
L’anziano gli rispose: Tu sei un edificio aperto da tutti i lati. Chiunque entra da
te, e ne esce a proprio piacimento. E tu, tu non sai ciò che accade. Se tu avessi
una porta, se tu la chiudessi ed impedissi ai cattivi pensieri di entrare, allora li
vedresti fermi all’esterno e combattere contro di te».
«Avere una porta per sapere ciò che accade» nel cuore è nient’altro che
vigilare e mantenere costantemente sotto controllo la relazione tra sensi ed
interiorità. Questo permette di discernere ciò che intacca la qualità dei nostri
desideri, pervertendoli e allontanandoli da Colui che li rende liberi e veri. E, d’altra
parte, un cuore vigile e custodito impedisce ai sensi e al corpo di cadere nei lacci del
nemico. Potremmo dire che l’ascesi del cuore permette l’ascesi del corpo; un cuore
vigile rende vigilante la totalità della persona. «Un fratello chiese ad abba Arsenio di
dirgli una parola. L’anziano gli disse: lotta con tutte le tue forze perché il lavoro che
fai dentro di te sia secondo Dio e così vincerai le passioni di fuori».

Vigilanza e attenzione

Collocare la vigilanza (in greco nepsis) come dimensione interiore dell’uomo
ci permette di vedere anche il suo rapporto con l’attenzione (prosochè). Sono due
atteggiamenti profondamente legati che creano uno stile particolare di collocarsi di
fronte a se stessi e agli altri, alla realtà e a Dio. Mediante la vigilanza e l’attenzione,
noi possiamo avanzare con circospezione e pazienza nel luogo dell’interiorità,
orientarci in un mondo spesso ambiguo e vegliare per poter discernere i passi del
nemico.
L’attenzione è l’opposto della superficialità e della distrazione, situazioni che
indeboliscono la tensione e la vivacità interiore, perché dice capacità di fissare lo
sguardo su ciò che è essenziale e verso di esso restare in tensione (attendere, in
latino, significa tendere a, essere teso verso). La vigilanza è la custodia
dell’attenzione: non si può essere attenti se si è appesantiti, assonnati, se manca una
sobrietà di cuore e di mente. «In senso stretto e specifico, la nepsis è l’atteggiamento
di un’anima ben sveglia, presente a se stessa e a Dio, vigilante, circospetta e attenta
a non lasciarsi sorprendere dall’avversario demoniaco che cerca di introdursi nella
mente o nel cuore per mezzo dei logismoi Рcio̬ dei pensieri cattivi o semplicemente
importuni che quegli si ingegna di suggerire –, pronta infine a respingerlo fin dal suo
primo tentativo di avvicinarsi. Questo atteggiamento di chi sta sulla difensiva si
chiama anche attenzione (prosoché), "guardia" della mente, del cuore (phylaké)».
Vigilanza e attenzione non possono essere ridotti ad una semplice esercizio
per la conoscenza di se stessi. Sono qualcosa di più: un esercizio della volontà e
della memoria per tenere il cuore (unito all'intelligenza) sotto lo sguardo di Dio:
«Veglia su di te per poter vegliare nella conoscenza di Dio». La vigilanza è un
esercizio che fa interagire cuore e sensi. Si custodisce il cuore per avere l’agilità e la
lucidità nel discernere i pensieri e le immagini che provengono dall’esterno. Ma si
custodiscono i propri sensi perché essi sono il veicolo attraverso cui penetrano nel
nostro cuore fantasie, sensazioni, pensieri. Occhi, orecchie, bocca sono luoghi
simbolici del nostro corpo attraverso cui avviene il contatto tra la realtà che ci
circonda e il nostro mondo interiore. Non si deve mai dimenticare questo rapporto
tra cuore ed attitudine corporale e la loro influenza reciproca; eliminare una delle
componenti è illusorio e pericoloso.

Ciò che discrimina è fissare l’attenzione sul Signore

Dunque, la vigilanza e l’attenzione ci riportano continuamente al centro della
nostra vita e alla verità di noi stessi di fronte a Dio e ai fratelli, creando quello spazio
in cui è possibile lottare assieme a Cristo: l’umiltà. In un certo senso potremmo
paragonare la vigilanza e l’attenzione alla memoria Dei e al timor Dei che la Regola
di Benedetto pone come fondamento alla scala della umiltà: «il primo grado di
umiltà consiste nel porsi sempre davanti agli occhi il timore di Dio, per evitare nel
modo più assoluto di vivere da smemorati… Per vegliare attentamente sulla propria
condotta, il fratello assennato ripeta dunque senza tregua in cuor suo: Sarò integro
davanti a Lui e mi guarderò dalla mia colpa». Chi ha imparato a vegliare su se
stesso, collocandosi sotto lo sguardo di Dio, non giudica più il fratello, ma assume
dinanzi a Dio la propria fragilità e la propria colpa e la affida alla sua misericordia.
In una stupenda omelia sulla vigilanza (Homilia in illud “Attende tibi ipsi”), Basilio
scrive:
«Non cessare dunque di scrutare te stesso, se vuoi vivere secondo il
comandamento. Non stare a guardare fuori di te se ti riesce di trovare qualcosa
da rimproverare agli altri, come faceva quel fariseo presuntuoso e vanaglorioso
che innalzava se stesso giustificandosi e disprezzava il pubblicano; non
smettere di esaminare te stesso chiedendoti se hai peccato nei tuoi pensieri o se
la tua lingua, più veloce del pensiero, non ha detto qualcosa di troppo, se con le
opere delle tue mani non hai compiuto qualcosa al di là delle tue intenzioni. E
se trovi nella tua vita un gran numero di peccati – sei uomo e dunque ne
troverai di certo – ripeti le parole del pubblicano: O Dio, abbi pietà di me
peccatore».
Questo testo di Basilio fa accenno anche ad un esercizio (askesis) che la
tradizione monastica ci ha consegnato per mantenere il cuore e i sensi svegli nella
vigilanza: l’esame di coscienza. Troviamo un esame vigile e accurato della propria
condotta nella "Vita Antonii" di Atanasio. Infatti, Antonio il Grande consigliava ai suoi
discepoli «di meditare frequentemente il detto dell’Apostolo, che dice: Il sole non
tramonti sulla vostra ira (Ef 4,26) o sopra qualche altro nostro peccato». E
aggiungeva: «Per poter compiere questo è bene ascoltare il detto del santo Apostolo
e custodirlo in noi: Scrutate voi stessi, esaminate voi stessi (2Cor 13,5). Ogni giorno
ciascuno di noi chieda conto a se stesso degli atti quotidiani del giorno e della
notte…».
Come avviene per altri aspetti del linguaggio ascetico, il termine esame di
coscienza può evocare tutto un mondo disciplinare colpevolizzante che rischia di
trasformare l’esame di coscienza in un tormentante giudizio su di sé, colpevolizzante
per alcuni (gli scrupolosi) o giustificatorio per altri (i superficiali):
«L’ascesi implica una grande lucidità per riuscire a vedersi come si è.
L’equilibrio cercato si accompagna ad una chiara visione della propria realtà,
ma è vivamente sconsigliabile un’analisi eccessiva di sé. Guardarsi
continuamente come in uno specchio può scatenare uno stato morboso di
eccessiva scrupolosità. Qui più che mai è necessaria una perfetta misura, ed
anche l’aiuto di una guida sperimentata e l’atmosfera benefica di una comunità
vivente».
Messo nel quadro della vigilanza, l’esame di coscienza è essenzialmente un
uso della memoria. Una sorta di memoria cordis che ci evita di vivere nella
dimenticanza. Ma questa memoria cordis deve essere accompagnata da una memoria
Dei, e cioè dalla consapevolezza di essere alla presenza di Dio, l’unico che può
valutare obiettivamente il nostro cuore e la totalità della nostra vita. Ciò significa
porre il contenuto del nostro cuore davanti agli occhi di Dio per poter vedere,
interpretare, discernere tutto il nostro agire con il Suo sguardo. Lo sguardo di Dio, il
suo Spirito (occhio di fuoco che purifica) diventa una «lampada accesa per
discernere i pensieri», come dice lo Pseudo Macario.

Il legame con lo spirito di preghiera

La tradizione monastica, sulla scia dell’insegnamento evangelico (Ef 6,18),
ha indicato soprattutto la preghiera come vero strumento per custodire il cuore vigile
ed attento. Anzi, più propriamente si deve dire che la preghiera non è tanto uno
strumento, ma lo spazio in cui attenzione e vigilanza possono entrare in azione e
dare unità alla complessità della vita, mantenendo desti cuore e corpo, la totalità
della persona. «L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: se c’è
qualcosa infatti a cui segue la preghiera, questa è l’attenzione. A questa dunque
bisogna applicarsi».
Questo profondo legame tra attenzione e preghiera in rapporto alla custodia
del cuore e alla lotta spirituale, fa entrare la preghiera stessa nello spazio dell’ascesi.
Un particolare tratto ascetico della preghiera vigilante è dato dalla continuità, dalla
perseveranza, da quella incessante invocazione del cuore che lo mantiene vigile e
umile nella lotta.
«Attenzione è il silenzio ininterrotto del cuore, da ogni pensiero; il
silenzio che sempre e perennemente e ininterrottamente respira ed invoca Gesù
Cristo, Figlio di Dio e Dio; lui solo. Con lui si schiera coraggiosamente contro i
nemici, e a lui si confessa, che solo ha il potere di perdonare i peccati.
Abbracciata continuamente a Cristo attraverso l’invocazione, a lui che solo
conosce i cuori nel segreto, l’anima cerca di nascondere con ogni mezzo agli
uomini la propria dolcezza e l’intima lotta, perché il maligno non faccia
crescere di nascosto la malizia e non cancelli la bellissima attività».
Proprio in questo clima spirituale è maturata la preghiera del cuore, come
liturgia incessante che mantiene l’interiorità dell’uomo nella vigilanza e permette
l’attenzione nel discernimento dei pensieri malvagi.
Ma essa diventa anche la forza nella lotta in quanto apre a Colui che solo «ha
il potere di perdonare i peccati» e «conosce i cuori nel segreto». A questo riguardo è
stupendo il testo di Cassiano in cui l’accorata invocazione di aiuto del Salmo
69/70,2 «O Dio vieni a salvarmi; Signore, vieni presto in mio aiuto», diventa un
insistente grido sia nella lotta sia dopo la vittoria sul male. Nella stessa linea si
colloca questo apophtegma:
«Abba Elia raccontò che un anziano viveva in un tempio. E vennero i
demoni a dirgli: Vattene da casa nostra. E l’anziano disse: Voi non avete casa.
Allora cominciarono a disperdergli tutti i rami di palma. Ma l’anziano
pazientemente li raccolse. Infine, presagli la mano, il demonio lo trascinò fuori;
ma egli, giunto alla porta, l’afferrò con l’altra mano gridando: Gesù, vieni in
mio aiuto. Subito il demonio fuggì e il vecchio si mise a piangere. Ma il
Signore gli disse: perché piangi? L’anziano rispose: perché osano
impossessarsi di un uomo e fare tali cose. Gli disse il Signore: sei stato
negligente; vedi che mi sono lasciato trovare appena mi hai cercato. Questo ti
dico: molta fatica è necessaria; se non c’è la fatica, non si può avere Dio con sé.
Egli infatti per noi è stato crocifisso».
La vigilanza non è, dunque, un masochismo spirituale, ma il cammino verso
l’apertura del proprio io alla vita vera e all’agape, cercando di mantenere, nella lotta,
equilibrio e sanità spirituale. È una sorgente di ogni discernimento («una condotta
che ha occhi», dice Isacco di Ninive), «atteggiamento umano-spirituale di lucidità,
di sobrietà, di attenzione alla storia, alla vita, all’oggi, agli altri; è passione per il
Signore e rigetto degli idoli; è presenza a se stessi e attenzione alla presenza del
Signore».