lunedì 18 luglio 2011

Macrina

Oggi 19 luglio ricordiamo:

Macrina (327-380), monaca
Tempera all’uovo su tavola lignea telata e gessata - (particolare dell’icona monaci d’oriente e d’occidente)  -  stile bizantino
LE ICONE DI BOSE, Santa Macrina
Le chiese d'oriente e d'occidente ricordano oggi Macrina, monaca della Cappadocia.
Sorella maggiore di Basilio di Cesarea, di Gregorio di Nissa e Pietro di Sebaste, Macrina decise a dodici anni di non contrarre matrimonio, onde potersi dedicare a una vita di lavoro umile e di preghiera, tesa all'unificazione del cuore. Il fratello Gregorio, suo biografo, non a torto la presenta come l'ispiratrice della vita monastica alla quale attirò in seguito la madre e le domestiche, e quindi anche il fratello Basilio.
La ricerca di Macrina e delle sue compagne condusse alla creazione di un monastero doppio, dove risiedevano a breve distanza uomini e donne, il cui unico intento era quello di vivere il Vangelo nel celibato e nella vita comune, svolgendo lavori poveri e praticando in modo intenso verso tutti l'ospitalità e la condivisione.
Macrina morì all'età di 53 anni, dopo aver guidato per tutta la vita come una madre la sua comunità; prima di morire ringraziò Dio per aver aperto agli uomini la via della resurrezione, e lo pregò di accogliere la sua vita come un'offerta, «come incenso davanti al suo volto».
TRACCE DI LETTURA
Signore, tu hai dissolto per noi la paura della morte, tu dai in deposito alla terra la terra che noi siamo, quella che tu stesso hai plasmato con le tue mani, e fai rivivere ciò che hai donato all'uomo, trasformando mediante l'immortalità e la bellezza quello che in noi è mortale e deforme.
Sei tu che ci hai strappati alla maledizione e al peccato, facendoti per noi l'una e l'altro.
Dio eterno, verso cui mi sono protesa fin dal seno di mia madre, te che la mia anima ha amato con tutte le sue forze, poni al mio fianco un angelo luminoso che mi conduca per mano dove si trova l'acqua del riposo, nel seno dei santi patriarchi!
Tu che hai spezzato la fiamma della spada di fuoco e hai restituito al paradiso l'uomo crocifisso con te e che si era affidato alla tua misericordia, ricordati anche di me nel tuo regno
(Preghiera di Macrina in Gregorio di Nissa, Vita di santa Macrina 24).
PREGHIERA
Signore Dio eterno,
la tua serva Macrina attraverso la vita cenobitica
ha voluto seguire tuo Figlio Gesù Cristo
fino a condividere la sua croce:
noi ti preghiamo,
liberaci dalla paura della morte
e rendici capaci di vivere
in modo che i nostri fratelli e le nostre sorelle
abbiano la vita in abbondanza, nella pace e nella gioia cristiana.
Per Cristo nostro Signore.
* * *
Di seguito, per chi ha più tempo, propongo la lettura della "Vita di Macrina", scritta dal fratello Gregorio.

* * *

Gregorio di Nissa
Vita di Macrina
[1] La forma di questo libriccino, quale appare dall’imma­gine che ne dà l’intestazione, è, apparentemente, quella di una epistola; la quantità degli argomenti, però, oltrepassa i limiti dell’epistola e si estende fino a raggiungere la lunghez­za di un trattato. Ma il soggetto ce ne dà la giustificazione, perché, se è più ampio delle dimensioni di un’epistola, fosti tu ad esortarci a scrivere. Certo, tu non ne dimentichi l’oc­casione: allorquando ero sulla strada di Gerusalemme per realizzare un mio desiderio e per vedere in quei luoghi i segni della venuta del nostro Signore nella carne, ti incontrai nel­la città di Antioco. E poiché esaminammo questioni di ogni genere (non era logico, infatti, che quel nostro incontro tra­scorresse senza conversazioni, dato che la tua intelli­genza proponeva molti spunti al nostro parlare), come suole avvenire in questi casi, il nostro colloquio cadde sulla vita di qualche persona famosa. La nostra esposizione prese lo spunto da una donna ‑ se la si può chiamare donna, ché non so se sia conveniente chiamare con il termine proprio della sua natura colei che fu al di sopra della natura. Inoltre il nostro conversare non traeva la sua attendibilità dal sentito dire, perché, quando parlavamo, ripercorrevamo con esattez­za i fatti di cui la nostra personale esperienza ci istruiva, e non prendevamo a testimoni racconti altrui. Infatti non era estranea alla nostra famiglia la vergine che stavamo ricor­dando (in quel caso sarebbe stato necessario conoscere da altri i fatti mirabili che la riguardavano): no, ella era nata dai nostri stessi genitori, fiorita dal grembo della nostra madre come una primizia di frutti. Dunque, siccome tu hai pensato che sarebbe stato di qualche utilità il racconto delle sue buo­ne opere, perché d’ora in poi la sua vita non rimanga igno­rata e non trapassi senza profitto, avvolta nel silenzio, colei che, grazie alla sua filosofia, si levò fino alla più alta vetta della virtù umana, ho pensato che fosse opportuno darti retta e in poche parole, così come vi sarei riuscito, narrare con un racconto semplice e disadorno quanto la riguardava.
[2] Macrina era il nome della vergine, e nella nostra fami­glia il nome di Macrina era famoso da lungo tempo: essa era stata la madre del nostro padre e aveva lottato nella sua confessione di Cristo al tempo delle persecuzioni. Da costei ebbe il nome la nostra Macrina, e glielo dettero i genitori. Ma questo era il nome noto a tutti, quello pronunciato da coloro che la conoscevano; un altro, invece, le era stato dato in segreto, un nome che aveva ricevuto in seguito ad una apparizione, prima di passare dalle doglie del parto alla luce. In effetti, anche la sua madre era, per virtù, così fatta donna, che in tutto era guidata dalla volontà di Dio, e in modo tutto particolare aveva abbracciato un genere di vita puro e im­macolato, sì che nemmeno le nozze ella aveva accettato di buona voglia. Ma poiché era orfana di entrambi i genitori ed era fiorente più di ogni altra donna per la bellezza del corpo e la fama della bellezza aveva attratto molti pretendenti alle sue nozze, vi era il pericolo che, se non si fosse unita a qualcuno di buona voglia, dovesse subire qualcosa di non voluto a causa della tracotanza altrui, in quanto coloro che erano impazziti per la sua bellezza si apprestavano a rapirla. Per questo motivo ella scelse un uomo noto ed esperimentato per la serietà del suo comportamento, perché fosse custode della sua vita, e subito con le prime doglie ella divenne madre di questa Macrina. E poiché fu giunto il momento in cui avreb­be dovuto sciogliere le doglie con il parto, piombata nel sonno, le parve di portare in braccio quell’essere che era ancora racchiuso nelle sue viscere, e che una persona dall’a­spetto e dal portamento più maestoso dell’umano le apparis­se e si rivolgesse con il nome di Tecla a colei che essa por­tava, di quella Tecla di cui molto si parlava tra le vergini.
Dopo che questo fatto si fu ripetuto tre volte, l’apparizione scomparve e dette al parto una tale facilità che la madre si destò dal sonno e, contemporaneamente, il sogno si era fatto realtà. Dunque, il nome tenuto nascosto era quello di Tecla. A me sembra che colui che apparve, quando pronunciò quel nome, non volesse tanto guidare la madre a trovare il nome per la bambina, ma volesse già preannunciare la vita della giovinetta e indicare con questa omonimia che essa avrebbe scelto una vita simile a quella di Tecla.
[3] Crebbe, dunque, la bambina; essa aveva la nutrice, ma spesso era vezzeggiata dalle mani di sua madre stessa. Quan­do ebbe passato l’età dell’infanzia, apprendeva prontamente gli insegnamenti che si impartiscono ai fanciulli, e la giovi­netta sempre si distingueva, per le sue doti naturali, in quel­l’insegnamento al quale era portata per decisione dei genito­ri. La madre era intenta a educare la fanciulla, ma non in questa educazione profana, nella quale di solito crescono i giovani fin dalla prima età, e cioè studiando soprattutto le opere dei poeti. Essa pensava che fosse brutto e assoluta­mente sconveniente insegnare ad una natura tenera e facil­mente malleabile le passioni delle tragedie, tutte quelle pas­sioni che, sorgendo dal cuore femminile, hanno dato ai poeti spunti e argomenti, oppure le buffonerie delle commedie o anche le cause delle sciagure di Troia, perché essa si sarebbe macchiata, in un certo modo, dei racconti sconvenienti che avevano per oggetto quelle donne, Ma tutto quello che, nella Scrittura ispirata da Dio, sembrava di più facile appren­dimento per la prima età, questo costituiva l’insegnamento della fanciulla, e in particolare la Sapienza di Salomone, e, ancor più, in questa, tutto quello che poteva menare a una vita morale. E nemmeno ignorava alcuna parte dei Salmi ma ne recitava qualche brano a tempo debito: quando si levava dal letto, quando si applicava alle sue occupazioni e quando si riposava; quando prendeva il cibo e quando si ritirava dalla tavola e andava a dormire e si alzava di nuovo per la preghiera: in ogni momento ella si dedicava ai Salmi, come se fossero un buon incontro che non l’abbandonava in nes­sun momento.
[4] Cresciuta con siffatte occupazioni e con una educazione di tal genere, ed avendo esercitato in modo particolare la sua mano al lavoro della lana, giunge al dodicesimo anno, quan­do in modo particolare comincia a risplendere il fiore della giovinezza. Allora dobbiamo notare con meraviglia che il fio­re della giovinetta, anche se tenuto nascosto, non sfuggiva all’attenzione altrui, e in tutta la sua patria sembrava che non ci fosse niente di così meraviglioso, che potesse essere para­gonato alla sua bellezza e alla sua grazia, al punto che nem­meno le mani dei pittori giungevano a rappresentarne lo splendore, ma quell’arte che ha architettato ogni espediente ed ha tentato le imprese più ardue, tanto che riproduce, con l’imitazione, anche le immagini degli elementi stessi, non riuscì a imitare con esattezza la felice armonia di quella sua forma. Per questo motivo una folla numerosa di pretendenti alle sue nozze stava attorno ai genitori. Ma il padre, che era prudente ed esperto a giudicare per il meglio, scelse in mezzo agli altri uno di nobile famiglia tra quelli della sua stessa stirpe, noto per la sua temperanza, che da poco tempo aveva terminato la scuola. E a lui decide di fidanzare la fanciulla, per quando fosse giunta l’età. Nel frattempo il giovane dava adito alle più belle speranze e portava al padre della fanciul­la, come un gradito dono di dote, la fama che acquistava con la sua arte oratoria, mostrando le sue capacità negli agoni che affrontava in difesa degli oppressi. Ma l’invidia tronca quelle splendide speranze, strappandolo alla vita nel pieno della giovinezza, in un’età che desta commiserazione.
[5] La fanciulla non ignorava il progetto di suo padre e, allorquando quello che era stato deciso per lei fu troncato dalla morte del giovinetto, ella considerò la decisione di suo padre come se costituisse già il suo matrimonio, come se tale decisione si fosse già attuata, e volle da allora in poi rimanere sola, e la sua volontà fu più salda della sua giovane età. Infatti, nonostante che spesso i suoi genitori si mettessero a parlare di nozze con lei, poiché erano molti quelli che per la fama della sua bellezza aspiravano alla sua mano, ella diceva che era assurdo e ingiusto non amare colui che una volta per tutte le era toccato come marito per decisione di suo padre, ma che fosse costretta a guardare anche un altro uomo, men­tre, nella natura, le nozze sono uniche, così come una è la nascita e una è la morte; affermava decisa che quello che le si era congiunto per volere dei genitori non era morto, ma «viveva per Dio» (Rm 6,10) nella speranza della resurrezione, e cre­deva che fosse lontano, ma non morto: sarebbe stato assurdo non conservare la parola data al fidanzato che si trovava in viaggio. Respingendo con questi discorsi quelli che cercava­no di convincerla, essa giudicò che una sola cosa avrebbe potuto salvaguardare la sua buona decisione, e cioè il non separarsi da sua madre nemmeno un attimo, sì che questa spesso le diceva che aveva portato in grembo gli altri suoi figli nel tempo solito, ma lei, Macrina, la aveva portata con sé, sempre, per tutto il tempo, come racchiusa nelle sue vi­scere. Del resto, non era faticosa né inutile per la madre la vita in comune con la figlia: l’ossequio della figlia valeva le attenzioni di molte ancelle e si manifestava un nobile con­traccambio dall’una all’altra. L’una, infatti, dedicava le sue attenzioni all’anima della giovane, l’altra al corpo della ma­dre, e compiva i servizi che erano richiesti in tutti i campi, soprattutto preparando con le sue stesse mani il pane per sua madre. Questa, comunque, non era la sua principale occu­pazione, perché solo dopo che aveva prestato il suo lavoro ai servizi della liturgia Macrina, convinta che tale azione con­venisse al suo modo di vivere, portava a sua madre il cibo che era frutto del suo lavoro personale, nel tempo che le rimaneva. E non soltanto questo, ma insieme con la madre Macrina amministrava tutte le occupazioni che la attendeva­no, giacché essa era madre di quattro figli e di cinque figlie e pagava le tasse a tre governatori, perché i suoi beni erano divisi in altrettante province. Per questo motivo, dunque, le preoccupazioni di sua madre si dividevano nei modi più svariati, giacché il padre era già morto; in tutte queste situazioni Macrina accompagnava sua madre nelle fatiche, condividen­done le preoccupazioni e alleggerendole il peso dei dolori. E contemporaneamente, grazie all’insegnamento di quella, Ma­crina conservava irreprensibile la sua vita, sempre indiriz­zandola e mettendola alla prova sotto gli occhi di lei, e d’altra parte dava alloro comune intento (voglio dire, alla vita se­condo la filosofia) un esempio efficace, l’esempio della pro­pria vita, e così a poco a poco trascinava la madre a una vita immateriale e sempre più spoglia delle cose esteriori.
[6] E dopo che la madre ebbe amministrato conveniente­mente quanto riguardava le sorelle di Macrina, secondo quanto ciascuna voleva, in quel frangente ritornò dalle scuo­le, dove si era esercitato per molto tempo nella retorica, il grande Basilio, il fratello di colei che abbiamo detto. Essa, trovando che il fratello si era esageratamente entusiasmato per l’arte del parlare e che disprezzava tutte le dignità e con la sua superbia si sentiva al di sopra dei personaggi illu­stri nelle cariche pubbliche, con una tale velocità attirò an­che lui all’ideale della filosofia, che egli si staccò dalla cele­brità del mondo e disprezzò l’ammirazione che poteva pro­venirgli dall’arte oratoria e si dedicò a questa vita attiva, lavorando con le proprie mani, e con una totale povertà si preparò una vita che conduceva senza ostacoli alla virtù. Ma la vita di Basilio e le sue occupazioni successive, per cui divenne famoso in tutta la terra che è sotto il sole e oscurò con la sua gloria tutti quelli che erano noti nella virtù, avreb­be bisogno di un lungo racconto e di molto tempo; il mio parlare, invece, deve ritornare allo scopo prefissosi.
[7] Poiché essi ebbero troncato ogni proposta di vita trop­po materiale, Macrina convinse la madre ad abbandonare la sua vita abituale e il suo modo di comportarsi troppo gran­dioso e gli omaggi che le venivano dai suoi sottomessi, ai quali si era abituata in passato per diventare uguale alla folla nel modo di considerarsi e confondere la sua vita per­sonale con quella delle vergini, quante ne teneva in casa, facendo sue sorelle e sue pari quelle che erano nate da schia­ve e da persone a lei sottomesse. O piuttosto, io voglio ag­giungere un piccolo particolare a questo mio racconto e non lasciare senza indagine un fatto di questo genere, che mani­festerà la grandezza d’animo della vergine.
[8] Il se­condo dei quattro fratelli dopo il grande Basilio era Naucra­zio, superiore a tutti gli altri per le sue buone qualità naturali e per la bellezza e la forza e la velocità del corpo e per l’abilità in ogni cosa. Questi aveva già compiuto il ventiduesimo anno d’età e in una pubblica conferenza aveva dato dimostrazione delle proprie fatiche, al punto che tutto il consesso degli ascoltatori provò entro di sé come un terremoto a udirlo, Ma, per un divino suggerimento, Naucrazio disprezzò tutto quello che aveva per le mani e si rifugiò nella vita monastica e povera, con grande entusiasmo. Non portò niente con sé; lo seguiva uno dei suoi servi, di nome Crisafio, sia perché pro­vava sentimenti di amicizia per lui sia perché aveva fatto la sua medesima scelta di vita. Viveva, dunque, da solo in un luogo isolato, presso il fiume Iris. L’Iris è un fiume che scorre attraverso la provincia del Ponto; sorge dal cuore dell’Arme­nia e spiega le sue correnti attraverso le nostre località fino a gettarsi nel Ponto Eussino. Il giovane trovò vicino a questo fiume un luogo nascosto da una folta selva e celato in una forra del dorso della montagna, su in cima: lì viveva, ben lontano dal frastuono della città e dalle occupazioni dell’e­sercito e dell’oratoria che si praticava nei tribunali. E, libe­ratosi di tutto quello che assorda la vita umana, si mise a curare con le sue proprie mani dei vecchi che vivevano con lui nella povertà e nella debolezza, giudicando che convenis­se alla sua vita dedicarsi a una siffatta attività. E siccome si esercitava nella caccia, in quanto era abile in ogni specie di essa, egli procurava a quei vecchi il nutrimento e, così facen­do, domava la sua giovinezza con quelle fatiche. Ma, ubbi­dendo di buon grado anche ai desideri di sua madre, caso mai essa gli imponesse qualcosa, con entrambe queste occu­pazioni indirizzava a retto fine la sua vita: vale a dire, per mezzo delle fatiche teneva a freno la sua giovinezza e, con lo zelo che prestava a sua madre, seguendo i comandamenti divini procedeva felicemente sulla strada che mena a Dio.
[9] Aveva trascorso cinque anni attuando la filosofia in quel luogo e rendendo felice la madre con questo tipo di vita, perché ornava con la temperanza la sua condotta e prestava tutte le sue forze al volere di colei che lo aveva generato. Ma poi un grave e tragico dolore colpì sua madre, per un piano architettato dall’Avversario, io penso, e che fu sufficiente a procurare la sciagura e il cordoglio di tutta la nostra fami­glia. Improvvisamente egli venne strappato a questa vita, senza che una malattia ci preparasse a temere quella sciagu­ra, senza che la morte del giovane fosse dovuta ad alcuna delle cause più comuni e più conosciute. No: una volta, mos­sosi per andare a caccia e procurare le cose necessarie a quei vecchi, venne riportato morto a casa insieme con il compa­gno della sua vita, Crisafio. La madre si trovava lontana da quei fatti, distante tre giorni di strada dalla sciagura, e uno andò da lei per informarla del tragico avvenimento. Ella era perfetta in tutte le azioni che si ispiravano a virtù, ma, come su tutte le altre donne, anche su di lei la natura ebbe il sopravvento. Venne meno la sua anima, ed ella rimase im­mediatamente priva di fiato e di voce, perché la sua ragione cedette al dolore; giacque a terra sotto l’assalto di quell’an­nuncio sciagurato, come un nobile atleta abbattuto da un colpo improvviso.
[10] Ma in quel frangente brillo la virtù della grande Ma­crina. Opponendo la sua ragione al sentimento si manten­ne immobile e fu puntello alla debolezza di sua madre e la fece rinvenire dall’abisso del dolore; la educò alla fortezza, grazie al suo animo forte e incapace di cedere. E così la madre non fu sconvolta dal dolore né provò sentimenti me­schini e degni di donnicciole, e non si mise a inveire contro la sciagura o a stracciarsi la veste o a gemere o a dare il via ai lamenti tra nenie lacrimose. Ma con serenità si fece forza e respinse gli assalti della natura, sia ragionando ella stessa sia seguendo i ragionamenti che le suggeriva la figlia per portare rimedio al suo male. Allora soprattutto, infatti, risplendette il nobile e sublime animo della vergine, poiché anche in lei la natura provò i sentimenti che le sono propri: era pur suo fratello, infatti, e il più caro tra i suoi fratelli quegli che in tal modo la morte le aveva strappato. Tuttavia, fattasi più forte della sua natura, con i suoi ragionamenti Macrina elevò anche l’animo della madre e l’aiutò a vincere la sciagura, educandola con il suo esempio alla resistenza e alla fortezza. Tanto più che anche la vita di Macrina, divenuta sempre più sublime grazie alla virtù, non lasciava alla madre motivo di affliggersi per colui che era venuto a mancare, ma piuttosto le forniva l’occasione di rallegrarsi per il bene che vedeva.
[11] Poiché, dunque, ebbe un termine la preoccupazione di sua madre per l’allevamento dei figli, e così pure il pensiero della loro educazione e della loro formazione, e dopo che la maggior parte dei mezzi materiali di sostentamento furono divisi tra i figli, allora, come si è detto, la vita della vergine divenne una guida per sua madre, perché ella si indirizzasse a questo modo di vivere filosofico e immateriale; Macrina, che si era staccata da tutte le cose a lei abituali, condusse la madre al suo stesso grado di umiltà, convincendola ad ac­contentarsi dello, stesso onore delle altre, nel gruppo delle vergini, e ad avere uguali la tavola e il letto e tutte le cose della vita, senza distinzione alcuna, in quanto ogni differenza di dignità era stata tolta dalla loro nuova condizione. E tale era l’ordine dell’esistenza, tale l’altezza della filosofia, tale il nobile comportamento di vita in ogni momento del giorno e della notte, che superava ogni possibile descrizione. Come, infatti, le anime che sono liberate dal corpo ad opera della morte si liberano contemporaneamente anche degli affanni di questa vita, così la loro vita venne ad essere estraniata e separata da ogni vanità terrena e si dispose armoniosamente ad imitare la vita degli angeli. In esse, infatti, non si vedeva l’ira, non c’era invidia, non c’era odio, non c’era superbia, niente del genere, e il desiderio delle cose vane, dell’onore, della fama, dell’orgoglio e del fasto e di tutto il resto, era stato eliminato: il loro piacere era la continenza e la loro fama il non essere conosciute, la loro ricchezza la povertà e l’aver scosso dal corpo, come fossero polvere, tutte le sostan­ze materiali; il loro lavoro non era nessuno di quelli eseguiti in questa vita, se non in modo secondario, ma consisteva soltanto nella meditazione delle cose di Dio, nell’ininterrotta preghiera, nel canto incessante, protratto senza distinzione per tutta la notte e il giorno intero, sì che per esse questo era il lavoro e il riposo dal lavoro. Quale discorso umano potreb­be rappresentare ai nostri occhi siffatto modo di vivere, se per quelle donne la vita era al limite tra la natura umana e la natura incorporea? Ché l’essersi liberate delle passioni por­tava la loro natura al di sopra della condizione umana, mentre l’essere viste in un corpo e l’essere circoscritte da una figura e il vivere con gli organi della sensazione le collocava al di sotto della natura angelica e incorporea. Forse si po­trebbe avere il coraggio di dire che non c’era nemmeno una minima differenza, poiché, pur vivendo con la carne, tuttavia a somiglianza delle nature incorporee non erano gravate dal peso del corpo; anzi, la loro vita si svolgeva leggera e sublime e procedeva in alto insieme con le potenze celesti. Non breve fu il tempo in cui vissero in tale modo e le loro rette azioni si accrebbero con il passare degli anni, ché la loro filosofia progrediva sempre più nella purezza con l’aggiun­gersi delle buone azioni, sempre nuove, che esse compivano.
[12] Macrina aveva un fratello, nato dallo stesso grembo, che molto la aiutava a raggiungere il grande ideale di questa vita: si chiamava Pietro, e con lui cessarono le doglie di no­stra madre. Questi, infatti, fu l’ultimo germoglio dei nostri genitori, e ricevette insieme il nome di figlio e il nome di orfano, perché contemporaneamente al suo venire alla luce il padre lasciò la vita. Ma la più anziana delle sorelle, quella di cui stiamo parlando, poco dopo che il bimbo appena nato ebbe finito di succhiare il latte, subito lo strappò alla nutrice e lo allevò per conto suo e lo condusse a godere dell’educa­zione più elevata, esercitandolo fin da piccolo nell’apprendi­mento delle cose sacre, così da non lasciare alla sua anima la possibilità di deviare in vane occupazioni. Macrina, invece, fu tutto per il giovinetto: padre, maestro, pedagogo, madre, consigliera di ogni bene, e lo rese tale che prima che fosse uscito dall’età puerile, quando ancora fioriva nella tenera età, egli si elevò all’ideale sublime della filosofia e, grazie alla sua buona disposizione naturale, fu abile in ogni tipo di at­tività manuale, sì che, senza che nessuno glielo insegnasse, egli con grande precisione metteva in pratica rettamente la scienza di ciascuna cosa, mentre alla maggior parte degli uomini l’apprendimento costa tempo e fatica. Pietro, dun­que, evitò con disprezzo di occuparsi degli studi profani, e, avendo nella sua natura una maestra capace di ogni buon insegnamento, guardava sempre sua sorella, e faceva di lei il modello di ogni buona cosa; progredì così a un punto tale che sembrò non inferiore ai grande Basilio nell’eccellenza della virtù. Questo avvenne nel seguito della sua vita; allora, in­vece, Pietro sostituiva tutti nell’animo di sua sorella e di sua madre, aiutandole in quella vita angelica, sì che un giorno, capitata una terribile carestia, poiché molta gente accorre­va da ogni parte presso quelle donne, nel luogo isolato in cui vivevano, attirata dalla fama della loro generosità, Pietro seppe procurare con la sua attività un cibo così abbondante che per il gran numero della gente che vi accorreva il deserto sembrava trasformato in una città.
[13] In questo frattempo la madre, che era giunta ad una felice vecchiezza, volò a Dio, finendo la sua vita tra le braccia dei due figli. È giusto riferire le parole della benedizione che dette loro, ricordandosi, come era conveniente, di ciascuno dei figli assenti, così che nessuno ne rimase privo; in modo particolare, però, essa affidò a Dio nelle sue preghiere quelli che le erano vicini. Mentre essi stavano al suo fianco, ai due lati del letto, la madre, prendendo ciascun figlio per mano, rivolse a Dio le ultime parole: «A te, Signore, io offro la primizia e la decima del frutto delle mie doglie. La primizia è la mia primogenita, e la decima è quest’altro, l’ultima mia doglia. A te sono consacrate entrambe secondo la Legge, ed esse sono offerte in tuo onore. Venga dunque la tua santifi­cazione su questa mia primizia e su questa mia decima», disse, indicando con queste parole la figlia e il figlio. Quando ebbe finito la benedizione finì anche la sua vita, avendo rac­comandato ai figli di deporre anche il suo corpo nel sarcofago del loro padre, e questi, dopo che ebbero compiuto quanto era stato loro imposto, si dedicarono alla filosofia, sempre più combattendo contro la loro vita e mettendo in ombra le loro prime rette azioni con lo splendore delle suc­cessive.
[14] In questo frattempo Basilio, il grande tra i santi, fu eletto sovrintendente alla grande chiesa di Cesarea; egli condusse anche il fratello nella carica del sacerdozio presbi­terale, consacrandolo lui stesso con le sante liturgie. E con questo la loro vita progrediva verso un maggior grado di severità e di santità, perché la loro filosofia era stata accre­sciuta dal sacerdozio. Passati otto anni da questi fatti, nel nono Basilio, famoso in tutta la terra, abbandona gli uomini e va a Dio, motivo di pianto sia per la patria sia per il mondo intero.
Macrina, che aveva appreso da altri la disgrazia, stando nel suo posto lontano, si dolse nell’anima per siffatta perdita (come non avrebbe dovuto la sciagura toccare anche lei, se la sentirono persino i nemici della verità?); tuttavia, come la prova dell’oro (così si dice) si fa per mezzo di molti filtri, cosicché, se qualche impurità riesce a passare attraverso il primo, essa viene comunque separata dal secondo, e di nuo­vo, nell’ultimo tutte le impurità mescolate alla massa vengo­no diluite via (e quella è la prova più rigorosa per esaminare l’oro, cioè se, passando attraverso ogni imbuto, esso non re­spinge più nessuna impurità ‑ lo stesso avvenne anche per Macrina. La sua nobile anima, messa alla prova dai vari assalti delle esperienze dolorose, in ogni parte si mostrò sce­vra da impurità e meschinità: la prima volta in occasione della morte dell’altro fratello, poi della dipartita della madre, la terza, infine, quando l’onore comune della nostra famiglia, Basilio, si staccò dalla vita umana. Ella resistette, comunque, come un atleta invitto, per niente affatto spezzata dall’assalto delle sciagure.
[15] Erano passati otto mesi da quella disgrazia, o poco più, e nel nono si radunò ad Antiochia il sinodo dei vescovi, a cui anche noi partecipammo E dopo che ciascuno di noi fu ritornato nella sua terra, prima che fosse passato un anno, venne a me, Gregorio, il pensiero di recarmi da lei. Era tra­scorso molto tempo, e durante quel periodo le persecuzioni avevano impedito le nostre visite, quelle persecuzioni che avevo sopportato in ogni luogo, cacciato dalla mia patria ad opera di coloro che proteggevano l’eresia. E se facevo il conto del tempo trascorso, durante il quale le persecuzioni avevano impedito un nostro incontro, non mi sembrava pic­colo l’intervallo, dovendosi contare otto anni o poco meno.
Poiché, dunque, ebbi percorso la maggior parte della strada e mi trovai ad una giornata di cammino, una visione appar­sami in sogno mi procurò terribili aspettative del futuro. Mi sembrava, infatti, di avere in mano delle reliquie di martiri, e che da esse uscisse un raggio come da uno specchio ben pulito quando viene posto in faccia al sole, sì che gli occhi erano accecati dal bagliore del raggio. E quella visione si ripeté tre volte nella notte, e io non ero in grado di conget­turare con esattezza il significato nascosto di quel sogno, ma prevedevo un dolore per la mia anima e attendevo di giudi­care l’apparizione a seconda degli avvenimenti. E allora, giunto vicino a quel luogo ritirato in cui Macrina viveva tra­scorrendo nella perfezione la sua vita angelica e celeste, dap­prima domandai a uno dei servi se mio fratello fosse presen­te. E quello mi rispose che si era mosso per venirmi incontro ed era ormai il quarto giorno da quando era partito. Capii allora che egli mi era venuto incontro per un’altra strada; perciò domandai della mia grande sorella. E poiché il servo mi disse che era malata, con ancor maggiore fretta mi detti a compiere la strada che restava; e infatti una paura, presaga del futuro, si era insinuata in me e mi sconvolgeva.
[16] Allorché giunsi nel luogo, e la notizia aveva già an­nunciato alla fraternità il mio arrivo, tutto il gruppo degli uomini venne verso di noi dal monastero maschile: essi, in­fatti, hanno l’abitudine di onorare le persone gradite andan­do loro incontro; invece il coro delle vergini in bell’ordine attendeva in chiesa il nostro ingresso. Poiché ebbero fine la preghiera e la benedizione, e le vergini, dopo aver chinato il capo per ricevere la benedizione, si furono levate in piedi mantenendo il decoro e furono tornate nella loro dimora e nessuna fu rimasta presso di noi, io allora, sospettando quanto in effetti era, cioè che la loro maestra non si trovava con loro, fui guidato alla casa in cui si trovava la grande donna; spalancata che fu la porta, mi trovai dentro a quella santa dimora. Macrina era già gravemente presa dalla malat­tia, ma non giaceva su di un letto o su un giaciglio, bensì sul suolo, con un’asse di legno stesa sotto un sacco e la testa appoggiata a un’altra asse, che serviva da guanciale, posta, com’era, di traverso sotto la nuca, e sosteneva secondo il desiderio di lei il suo collo.
[17] Allorché mi vide presso la porta, si levò su di un gomito, ma non ebbe la forza di cor­rermi incontro, oramai sfinita, com’era, dalla febbre; appog­giando le mani al suolo e ,protendendosi dal giaciglio per quanto le era possibile, cercò di farmi l’onore di venirmi incontro; e io, correndo alla sua volta e afferrandole con le mani il viso reclino verso terra, la raddrizzai e la ricollocai nella precedente posizione distesa. Ed essa, tendendo a Dio le mani, disse: «Mi hai colmato anche di questa grazia, o Dio, e non hai deluso il mio desiderio, perché hai mosso il tuo servo a far visita alla tua misera serva». E per non pro­curarmi dispiacere, cercava di soffocare i gemiti e di nascon­dere, in un modo o nell’altro, la presa che l’affanno aveva sul suo respiro, e in tutti i modi cercava di atteggiarsi a maggior gioia, cominciando a parlare lei per prima di cose gradevoli e, con il porre le domande adatte, dando a noi lo spunto di fare altrettanto. E poiché nel seguito del discorso venne l’oc­casione di ricordare il grande Basilio, mi si spezzò l’animo e abbassai lo sguardo per lo sgomento e le lacrime mi scesero dagli occhi. Ma Macrina non partecipò affatto all’abbandono del mio dolore: anzi, cominciò a discutere di una più elevata filosofia, partendo, appunto, dal ricordo di quel santo uomo, e fece tali ragionamenti, esaminando la natura della condizione umana e rivelando con il suo parlare la divina economia che è celata nelle prove dolorose ed illustrando la vita futura come se fosse presa dall’empito dello Spirito San­to, che quasi mi pareva che la mia anima fosse uscita fuori della natura umana e si elevasse per mezzo di quanto si ve­niva dicendo e venisse a trovarsi, guidata da quel suo parla­re, entro ai santuari celesti.
[18] E come apprendiamo della storia di Giobbe, cioè che quell’uomo, consumato in tutto il corpo dal marcio delle pia­ghe, parlando impediva alla sua sensazione di prestare atten­zione a quanto gli procurava dolore, ma teneva la sua soffe­renza chiusa entro di sé e l’agire non gli era impedito né il parlare interrotto, tanto che esaminava gli argomenti più ele­vati, qualcosa del genere vedevo anche nel comportamento di quella grande donna, allorquando la febbre bruciava ogni sua forza fisica e la spingeva verso la morte ed ella ristorava il corpo con la rugiada, se così si può dire, e teneva la mente sgombra nella contemplazione delle realtà sublimi, non dan­neggiata da quella malattia così fiera. E se non temessi che il mio scritto si allungasse troppo e divenisse interminabile, io racconterei ogni argomento di seguito: come essa si elevasse a un sublime parlare, facendo filosofici discorsi sulla nostra anima e riandando alla causa del nostro vivere nella carne e spiegando per quale motivo fosse stato fatto l’uomo, perché fosse mortale, donde provenisse la morte e quale fosse la liberazione da questa vita a una nuova vita. Su tutti questi argomenti ella spiegava ogni cosa con chiarezza e coerenza, come se fosse stata ispirata dalla potenza dello Spirito Santo, mentre il discorso scorreva con grande facilità, come un’ac­qua che si muove senza intoppi dalla sorgente su di un ter­reno in pendenza.
[19] E poiché il suo parlare fu terminato, disse: «È ora, fratello, che tu riposi un poco il tuo corpo, che è affaticato assai dal viaggio». E per me era stato un grande, un vero riposo il vederla e ascoltarne i nobili ragionamenti; ma sic­come questo le era gradito, perché si vedesse che io in tutto obbedivo alla maestra, trovai pronta una piacevole dimora in uno dei giardinetti che erano lì vicino, all’ombra di una vite maritata ad un albero, e mi riposai. Ma non mi era possibile gustare quanto poteva farmi piacere, perché dentro di me l’animo era sconvolto nella aspettativa degli eventi dolorosi: quanto avevo visto, infatti, mi sembrava che sciogliesse l’e­nigma del sogno. La vista che avevo innanzi agli occhi era, infatti, una reliquia di un santo martire, che era «morto al peccato» e risplendeva «della grazia dello Spirito Santo che vi abitava». Io spiegai questa mia interpretazione a uno di quelli che prima mi avevano ascoltato raccontare il sogno, e siccome noi eravamo ancora più tristi, come era naturale, nell’attesa di quanto ci affliggeva, Macrina, indovinando, non so come, il nostro pensiero, ci inviò un annuncio dei più lieti, invitandoci a farci coraggio e a nutrire su di lei migliori spe­ranze; ella, infatti, sentiva un accenno di miglioramento. Questo non lo diceva per ingannarci, ma il suo discorso era pura verità, anche se noi momentaneamente non lo sapevamo. In effetti, come un corridore che sorpassa l’avversario ed è ormai presso alla meta dello stadio, quando si avvicina al premio e vede la corona della vittoria, si rallegra come se avesse già ottenuto quanto era posto in palio e annuncia la sua vittoria a quelli che, tra gli spettatori, lo sostengono, così anch’essa, con quel suo stato d’animo, ci dava da sperare le cose migliori in quanto oramai guardava al «premio della ele­zione dell’alto» e pronunciava per se stessa, per così dire, la parola dell’Apostolo: «È stata preparata per me la corona di giustizia che mi darà in ricompensa il giusto giudice», poiché «ho combattuto il buon combattimento, ho compiuto la corsa, ho conservato la fede». Noi, dunque, incoraggiati a questa buona nuova, stavamo a godere quanto ci era stato preparato: le cose imbandite erano varie e piene di ogni pia­cevolezza, perché in tal modo e a tal punto quella grande donna era arrivata con la sua premura.
[20] E dopo che ci fummo visti una seconda volta (poiché essa non lasciava che noi trascorressimo da soli il tempo libero), riprendendo a ricordare tutto quello che aveva vissuto fin dalla giovinezza, lo ripercorreva tutto di seguito, come in uno scritto, e teneva a memoria tutti i particolari della vita dei nostri padri e quanto era avvenuto prima della mia nascita e poi la mia vita successiva: scopo del suo raccontare era il render grazie a Dio. Ella mostrava che la vita dei nostri genitori non tanto era stata gloriosa e famosa ai loro contemporanei per le loro ricchezze, quanto era stata fatta grande per la divina filantropia i genitori del nostro padre erano stati spogliati dei loro averi per aver confessato Cristo, e il nonno materno era stato ucciso per l’ira dell’imperatore e tutti i suoi beni erano stati assegnati ad altri proprietari. E ciononostante il loro tenore di vita era talmente cresciuto grazie alla loro fede, che ai loro tempi non c’era nessuno più famoso di loro. E quando le loro sostanze furono divise in nove parti secondo il numero dei figli, ciascuno ebbe, grazie alla benedizione divina, una parte così abbondante che la loro vita fu più ricca, quanto ad agiatezza, di quella dei loro genitori. Ella, tuttavia, non si era riserbata per sé nessuno dei beni che le era toccato nella divisione in parti uguali tra fratelli, ma, secondo il comandamento divino aveva amministrato ogni cosa per mezzo delle mani del sacerdote. Per dono di Dio la sua vita era stata tale che mai aveva smesso di lavorare con le sue mani per l’attuazione del comanda­mento; non aveva mai guardato ad un uomo né mai le risorse necessarie ad una vita decorosa le erano provenute dalla beneficenza umana; non aveva respinto coloro che do­mandavano né aveva cercato chi potesse farle dei doni, per­ché Dio, senza farsi vedere, con le sue benedizioni aveva accresciuto, come se fossero dei semi, le poche risorse che provenivano dal suo lavoro e da esse aveva fatto crescere frutti abbondanti.
[21] E siccome io le raccontavo le difficoltà che mi angu­stiavano, e innanzitutto che l’imperatore Valente mi faceva esiliare a causa della mia fede poiché c’era nelle chiese quel turbamento che mi aveva trascinato nelle lotte e nelle ambasce, ella disse: «Non smetti di essere ingrato nei confronti dei doni di Dio? Perché non poni un rimedio alla ingratitudine della tua anima? Perché non paragoni quanto successe ai tuoi padri con quanto succede a te? Eppure, secondo l’opinione del mondo, noi ci possiamo vantare soprattutto di questo, cioè di essere di nobile famiglia e di provenire da illustri genitori. Grande fu considerato nostro padre, ai suoi tempi, per la sua cultura, ma la sua rinomanza si arrestò ai tribunali della regione; successivamente, sebbene egli fosse superiore a tutti per l’arte sofistica la sua fama non uscì dal Ponto, ma fu ben contento di essere famoso nella sua patria. Tu, invece», soggiunse, «sei noto alle città e ai popoli e alle genti; delle chiese ti mandano messaggi per esser tue alleate ed essere corrette da te e ti chiamano e tu non vedi in questo la grazia di Dio? E nemmeno ti accorgi da dove provengano tutti questi beni? Sono state le preghiere dei tuoi genitori a farti arrivare a tale altezza, mentre dentro di te tu non hai nessuna o poca attitudine ad ottenere questo».
[22] Mentre ella spiegava, io avrei voluto che si prolungasse il giorno, sì che io potessi continuare a udire i suoi dolci detti; ma la voce di quelli che cantavano per l’ufficio della sera mi chiamò fuori e quella grande donna volle che anch’io mi recassi alla chiesa e insieme con le sue preghiere si ritirò con Dio. Ed era già notte. Quando venne l’alba, mi fu chiaro, da quanto stavo vedendo, che il giorno che spuntava sarebbe stato l’estremo termine della sua vita secondo la carne, perché la febbre aveva oramai consumato tutta la for­za che il fisico di Macrina possedeva. Ma quella, consideran­do il nostro scoraggiamento, cercava di distoglierci da quella aspettativa troppo angosciosa e nuovamente cancellava con il suo nobile parlare il dolore del mio animo; tuttavia da quel momento fu presa da un respiro affannoso, sottile e ininter­rotto. Allora soprattutto la mia anima fu pervasa da senti­menti contrastanti di fronte a quanto stavo vedendo: la mia natura, logicamente, era gravata dalla tristezza, perché non speravo più di potere udire la sua voce, ma prevedevo che ben presto il vanto di tutta la nostra famiglia avrebbe lascia­to questa vita; l’anima mia, invece, era come esaltata per quanto vedeva, e pensava di essersi liberata della natura che è comune a tutti gli uomini. Che Macrina nemmeno nei suoi ultimi respiri non provasse alcun turbamento nella attesa della morte e non temesse per il suo distacco dalla vita, e che, nel suo animo sublime, fino all’ultimo respiro meditasse sull’ideale che fin dall’inizio aveva scelto per la sua vita in terra, questo non mi sembrava cosa umana: era come un angelo che per provvidenza divina era penetrato in una forma umana, senza avere rapporto con la vita nella carne o affinità con essa, sì che non c’era niente di strano che il suo pensiero rimanesse impassibile e la carne non lo trascinas­se alle sue sofferenze. Per questo mi sembrava che ella ma­nifestasse allora a tutti i presenti quel divino e puro amore per lo Sposo invisibile, un amore che portava nascosto e nutrito nelle viscere della sua anima, e che rendesse evidente il suo sentimento proprio perché si affrettava a raggiungere l’oggetto del suo desiderio, sì da essere ben presto con lo Sposo, sciolta dalle catene del corpo. Veramente, la sua era come una corsa verso l’amante, mentre nessun’altra attrat­tiva della vita sviava oramai il suo sguardo.
[23] E oramai gran parte del giorno era trascorsa e il sole volgeva al tramonto. Ma in Macrina non diminuiva l’ardore; anzi, quanto più si avvicinava alla dipartita, tanto più ella, come se vedesse la bellezza dello Sposo, con uno slancio ar­dente si muoveva verso l’oggetto del suo desiderio: tali cose, oramai, diceva, non più a noi presenti, ma a colui al quale incessantemente fissava lo sguardo. Il suo giaciglio era stato già rivolto verso l’oriente ed ella, smettendo di parlare con noi, da quel momento in poi, in preghiera, conversava con Dio, lo supplicava levando le mani e sussurrava con voce esile, così che noi a mala pena potevamo udire quello che stava dicendo; ma questa fu la sua preghiera, e non c’era alcun dubbio che ella si trovava presso Dio e da lui era ascoltata.
[24] Così diceva:
«Tu, o Signore, hai cancellato per noi il timore della morte ;
Tu hai fatto del termine di questa vita l’inizio della vera vita;
Tu per un breve tempo lasci riposare il nostro corpo nel sonno e di nuovo lo desti al suono dell’ultima tromba;
Tu dai in deposito alla terra la nostra terra, che formasti con le tue mani, e di nuovo ridesti quello che hai donato, mo­dificando con l’immortalità e la bellezza il nostro elemento mortale e la nostra bruttura;
Tu ci hai liberato dalla maledizione e dal peccato; ti sei fatto maledizione e peccato per noi;
Tu hai schiacciato la testa del serpente che aveva afferrato l’uomo alla gola trascinandolo nell’abisso della disob­bedienza;
Tu ci hai aperto la strada della resurrezione, spezzando le porte dell’inferno, e hai ridotto all’impotenza colui che aveva il potere della morte;
Tu hai dato a coloro che ti temono come segno il simbolo della santa croce, perché fosse distruzione dell’Avversario e sicurezza della nostra vita.
Dio eterno! a cui mi sono slanciata dal grembo di mia madre.
Tu che la mia anima ha amato con tutte le sue forze, a cui ho consacrato la mia carne e la mia anima dalla mia giovinezza fino ad ora; ponimi accanto l’angelo luminoso che mi conduca per ma­no al luogo del refrigerio, là dove c’è l’acqua del riposo nel seno dei santi Padri;
Tu che hai spezzato la fiamma della spada di fuoco e hai restituito al Paradiso l’uomo che è stato crocifisso con te e si è chinato alla tua misericordia, anche di me ricordati nel tuo regno poiché anch’io sono stata crocifissa insieme con te, ho inchiodato la mia carne per la paura dite e ho temuto i tuoi giudizi.
Che l’abisso spaventoso non mi separi dai tuoi eletti; che l’Invidioso non si opponga alla mia strada e che non si scopra davanti ai tuoi occhi il mio peccato, se ho sbagliato per la debolezza della mia natura e ho peccato in parola o in opera o in pensiero.
Tu che hai il potere sulla terra di rimettere i peccati, liberami, affinché io possa riprendere fiato, e sia trovata davanti alla tua faccia, spogliatami del corpo mio, senza macchia né ruga nella forma della mia anima, ma, irre­prensibile e immacolata la mia anima sia accolta dalle tue mani, come l’incenso davanti al tuo volto».
[25] E mentre pronunciava queste parole ella si faceva il segno della croce sugli occhi e sulla bocca e sul cuore. E a poco a poco la sua lingua, arsa dalla febbre, non riusciva più ad articolare le parole e la voce veniva meno e solamente dal contrarsi delle labbra e dal movimento delle mani noi com­prendemmo che stava pregando. E, sopraggiunto nel frat­tempo il vespero, fu portato un lume; Macrina allora spa­lancò gli occhi e volse lo sguardo al raggio di luce, sì che fu chiaro che ella desiderava pronunciare la sua preghiera se­rale di ringraziamento. Ma poiché la voce le veniva meno, solo con il cuore e con il movimento delle mani fece ciò che desiderava, e le labbra si muovevano secondo il moto inte­riore. Quando ella ebbe pronunciato la preghiera di grazie ed ebbe accostato la mano al viso per fare il segno della croce, e così ebbe segnato il termine della preghiera, allora trasse un grande e profondo sospiro e insieme con la preghiera pose fine alla vita. Poiché da quel momento fu rimasta senza respiro e immobile, io, ricordandomi le raccomandazioni che mi aveva fatto quando ci eravamo incontrati, allorché disse che voleva che con le mie mani le chiudessi gli occhi e che le cure di rito fossero rese al suo corpo per opera mia, avvicinai a quel santo volto la mano intorpidita dal dolore, perché non sembrasse che avevo dimenticato la sua raccomandazione. Ma i suoi occhi non avevano alcun bisogno di chi li chiudes­se, poiché, come avviene nel sonno voluto dalla natura, si erano nel modo più composto coperti dalle palpebre. E le labbra erano strettamente unite, le mani in bella posa appog­giate al petto e tutto l’atteggiamento del suo corpo si era composto da solo nella posizione più decorosa e non c’era alcun bisogno della mano di chi l’acconciasse.
[26] E il mio animo era sconvolto per due motivi: perché vedevo quello spettacolo e perché giungevano alle mie orec­chie le voci delle vergini, che dolorosamente si lamentavano. Fino a quel momento, infatti, esse si erano fatte forza ed erano rimaste calme, chiudendo in cuor loro il dolore, e per timore di Macrina avevano soffocato l’empito delle lacrime, come se temessero il rimprovero di quel volto, che oramai taceva. Non volevano lasciarsi sfuggire un grido, infrangen­do l’ordine ricevuto, e non volevano che la maestra ne pro­vasse dolore. È come se un fuoco bruciasse di dentro, con­sumandone l’animo, poiché non furono più in grado di do­minare in silenzio la loro afflizione, ecco che tutte proruppero in un grido doloroso e intrattenibile, così che il mio intelletto non rimase più nella sua normale condizione, ma, come se fosse stato inondato da un torrente, fu sommerso e travolto dal sentimento: invece di pensare a quanto mi rima­neva da compiere, io partecipai con tutto me stesso a quel dolore. E mi sembrava giusto e logico che quelle vergini fossero afflitte, perché esse non piangevano per la perdita di un’amicizia occasionale o di una parentela secondo la carne, né per alcun altro motivo tra quelli che rendono gli uomini incapaci di sopportare le sciagure, ma, come se fossero state strappate alla speranza che riponevano in Dio e alla salvezza dell’anima, così gridavano e così gemevano tra le lacrime: ‘Si è spento il lume dei nostri occhi; ci è stata tolta la luce che guidava le nostre anime; è svanita la sicurezza della nostra vita; ci è stato tolto il sigillo dell’incorruttibilità; è stato la­cerato il legame della nostra concordia; è stato spezzato il sostegno di coloro che erano privi di forza; è stata portata via la cura di coloro che erano malati. Grazie a te la notte per noi era come il giorno, rischiarata da viva luce; ora, invece, anche il giorno si è mutato in tenebra’. E in modo ancor più stra­ziante delle altre attizzavano il fuoco del dolore quelle che la chiamavano madre e nutrice. Erano quelle che Macrina aveva raccolto al tempo della carestia, a causa della quale esse erano vissute in mezzo alla strada; Macrina le aveva nutrite e allevate e le aveva educate ad una vita pura e incorrotta.
[27] Poiché, dunque, come da un abisso, io ebbi ripreso animo, volsi lo sguardo verso quella santa donna e, come se fossi responsabile del disordine di coloro che gridavano nel lutto, dissi a gran voce a quelle vergini: ‘Guardatela, e ricor­datevi delle sue raccomandazioni, che sempre vi educavano a conservare l’ordine e il decoro in ogni momento. Quest’a­nima divina volle che osservaste un tempo ben preciso per il pianto, e vi prescrisse di abbandonarvi ad esso solamente nell’ora della preghiera: ecco, ora lo potete fare, purché mu­tiate il gemito del lamento funebre in una concorde salmo­dia’. Questo io dissi con voce più alta, per sovrastare il la­mento funebre. Poi ordinai loro di ritirarsi per un poco nella casa vicina; qualcuna di loro, però, doveva rimanere: quelle, precisamente, di cui Macrina più volentieri aveva accettato i servigi quando era in vita.
[28] Tra costoro vi era una donna, nobile per ricchezze e per stirpe e che da giovane era stata famosa per la sua bel­lezza e la sua appariscenza; essa era stata congiunta ad un uomo di elevata dignità ed era vissuta con lui per breve tem­po, ma quella unione era stata troncata quando essa era an­cor giovane. Macrina era allora diventata la custode e l’edu­catrice della sua vedovanza, ed essa trascorreva con quelle vergini la maggior parte del suo tempo, imparando a esse a vivere secondo virtù. Vetiana si chiamava quella donna, e il suo padre Arassio, che era membro del senato. A costei io dissi che sarebbe stata una bellissima azione se avesse fatto indossare a Macrina, almeno ora, l’abbigliamento più bello e avesse ornato con veli luminosi quella carne pura e immaco­lata. Vetiana rispose che bisognava domandare che cosa la santa donna avesse voluto a tale proposito: non sarebbe stato pio da parte nostra se fosse fatto qualcosa contro i suoi de­sideri. Comunque, quello che a Dio fosse stato gradito e ap­provato, sarebbe stato ben fatto anche per lei.
[29] E vi era una che sovrintendeva al coro delle vergini nel grado di diaconessa, e il suo nome era Lampadion: costei disse di sapere perfettamente che cosa Macrina aveva voluto per la sua sepoltura. E poiché io la ebbi interrogata a questo proposito (essa si trovava presente quando ci domandavamo cosa fare), così disse tra le lacrime: «La vita pura fu l’abbi­gliamento che volle quella santa donna: essa è per lei orna­mento in vita e veste in tempo di morte; invece, per quello che riguarda l’ornamento del corpo, essa non ha mai accet­tato di possederne uno in vita né se lo era preparato per la presente occasione, cosicché nemmeno se lo volessimo noi potremmo avere qualcosa che fosse più adatta di quello che si trova qui adesso». «E non sarebbe possibile», replicai, «tro­vare qualche veste riposta con cui ornare in qualche modo il suo funerale?». «Quali vesti riposte?», disse Lampadion; «tu hai tra le mani tutto quello che era riposto: ecco la veste, ecco il velo del capo, i sandali consunti; questa è la sua ricchezza, questi sono i suoi averi. Oltre a quello che vedi, ella non si è riservato niente che abbia riposto, assicurato in bauli o stan­ze segrete. Ella conosceva un solo deposito per la sua ric­chezza, il tesoro che è nei cieli; là ha riposto ogni cosa e in terra non ha lasciato niente». «E allora», le risposi, «sarebbe forse contraddire la sua volontà se io le dessi una delle cose preparate per la mia sepoltura?». Lampadion disse che non lo credeva: «Se fosse stata ancora viva, Macrina avrebbe accet­tato da te questo onore per due motivi: il tuo sacerdozio, che ella sempre teneva in gran conto, e la comune natura; ella non avrebbe creduto che le fosse estraneo quello che prove­niva da suo fratello. Per questo motivo ella aveva anche raccomandato che il suo corpo venisse composto dalle tue mani».
[30] Poiché fu deciso così ed era tempo di ornare con vesti di lino quel corpo sacro, ci dividemmo le cure e chi si affa­ticava per una cosa chi per un’altra. E io ordinai a uno dei miei servitori di portare la veste, e Vetiana, quella che ab­biamo nominato sopra, ornò con le sue stesse mani quella santa donna, e poiché ebbe accostato la mano al collo di Macrina, disse guardandomi: «Guarda che ornamento è ap­peso al collo della sua santa persona!», e così dicendo sciolse il gancio dal di dietro, tese la mano e mi fece vedere un’im­magine della croce, che era di ferro, e un anello al dito, di ferro anch’esso: quegli oggetti, attaccati a un sottile cordone, stavano sempre sul suo cuore. E io dissi: «Che questo posses­so sia comune. Tu prendi la difesa che ci dà la croce, a me basterà possedere l’anello». E infatti anche sull’anello era stata incisa, come sigillo, l’immagine della croce; Vetiana la guardò e di nuovo mi disse: «Non senza motivo tu hai scelto questo oggetto. Infatti l’anello è vuoto dalla parte del castone e in esso è nascosto un frammento del legno della vita; e così il sigillo che è all’esterno indica, con la sua impronta, che cosa c’è sotto».
[31] E poiché venne il momento di coprire con una veste quel puro corpo e l’ordine della grande Macrina aveva impo­sto a me quel servigio, colei che aveva la sorte di partecipare a quella grande eredità, poiché fu presente all’opera e insie­me a me vi ebbe posto mano, mi disse: «Devi conoscere il più grande dei miracoli compiuti da questa santa donna». «E di che si tratta?», io le chiesi. E quella, scoprendo una parte del seno di Macrina: «Vedi questo sottile e invisibile segno sotto la pelle? Assomiglia a una cicatrice lasciata da un sottile pun­giglione». E così dicendo accostò la lampada al punto indica­to. E io le dissi: «Che c’è di strano se il suo corpo è marchiato in questa parte da questo segno invisibile?». Ed ella riprese: «Questo segno è rimasto sul suo corpo, come ricordo del grande aiuto che ricevette da Dio. Poiché una volta sorse in questo punto un dolore intollerabile e c’era il pericolo o di doverle incidere il tumore o che il male avanzasse senza alcun dubbio e senza scampo fino a divenire incurabile, se si fosse avvicinato al cuore, allora sua madre la pregava con insistenza e la supplicava di accettare le cure del medico, perché anche quest’arte era stata mostrata da Dio per la salvezza degli uomini. Ma Macrina considerava cosa an­cora più intollerabile del male lo scoprire una parte del suo corpo ad occhi estranei, e, fattasi sera, dopo che ebbe prestato a sua madre con le sue stesse mani le cure a cui era avvezza, entrò nel santuario e per tutta la notte restò pro­strata al Dio delle guarigioni e le lacrime che scorrevano dai suoi occhi, mescolatesi alla terra, formarono un fango di cui ella poté servirsi per curare quella sua malattia. E mentre sua madre era scoraggiata e nuovamente la esortava ad affidarsi ad un medico, Macrina disse che le sarebbe stato sufficiente, per guarire, se sua madre avesse apposto con le sue stesse mani al punto ove si trovava il male il santo segno della croce. Poiché la madre ebbe posto la mano entro il seno della veste per imprimere il segno della croce su quella parte, esso fece il suo effetto e il male sparì. Ma questo piccolo segno», soggiunse la donna, «fu visto anche allora al posto del tremendo tumore ed è rimasto fino alla fine, perché costituisse, io credo, un ricordo della guarigione di­vina e rammentasse e suggerisse di render continuamente grazie a Dio».
[32] Poiché ebbe termine la nostra cura e il corpo di Ma­crina fu ornato con quello che c’era a disposizione, ancora la diaconessa mi disse che non era conveniente che Macrina fosse vista dalle vergini così vestita come se fosse promessa sposa. «Ma io ho conservato un mantello di vostra madre», disse, «ed è di colore scuro; penso che sarebbe bene porglielo sopra, perché questa santa bellezza non abbia a brillare di un ornamento posticcio, portatole da un’altra veste».
Questo parere si impose, e Macrina fu coperta con il man­tello, ma biancheggiava anche sotto la veste scura, perché la potenza divina, io credo, aggiungeva al suo corpo anche quel­la grazia, così che sembrava che dei raggi luminosi lampeggias­sero della sua bellezza, come mi era parso di vedere in sogno.
[33] Mentre noi eravamo in queste occupazioni e le salmo­die delle vergini, unite ai lamenti funebri, facevano echeg­giare quel luogo, la notizia della sua morte si era diffusa improvvisamente (non so come) tutto all’intorno, e coloro che abitavano presso al monastero accorrevano all’udire del­la sciagura, così che il vestibolo non era più sufficiente a con­tenere tutti quelli che arrivavano. Dopo che, per tutta la not­te, fu cantata l’innodia per Macrina, come un panegirico dei martiri, e quindi si fece luce, gli uomini e le donne che erano accorsi in folla dai paesi all’intorno turbavano con i loro lamenti la salmodia; allora io, sebbene gravemente afflitto nell’animo da quella sciagura, pure pensavo, per quanto ne ero capace, che nessun preparativo atto a quel funerale do­vesse essere trascurato: pertanto divisi secondo il gesso la folla che accorreva e unii la schiera delle donne al coro delle vergini e il popolo degli uomini al gruppo dei monaci e feci sì che la salmodia, provenendo ora dall’uno ora dall’altro grup­po, procedesse unica, ritmica e armoniosa, come in un coro, perché risultava intrecciata in bell’ordine grazie all’accordo di tutti. E quando il giorno fu un poco avanzato e ovunque, attorno a quel luogo solitario, si era ridotti allo stretto per il gran numero delle persone accorse, colui che sovrintendeva nella sua carica episcopale e si chiamava Arassio (egli era presente con tutto il clero al completo) ci invitò a far avan­zare lentamente il convoglio funebre, perché era lungo il cammino da percorrere e la folla avrebbe impedito un movi­mento più celere; così dicendo invitava tutti coloro che in­sieme con lui erano sacerdoti a portare il corpo.
[34] Poiché fu deciso questo e noi stavamo eseguendo il nostro compito, mi posi sulle spalle il letto funebre e invitai Arassio all’altra parte, mentre altri due sacerdoti che gode­vano di un alto onore nel clero ne sostenevano la parte po­steriore; e così ci muovevamo passo passo in avanti, come conveniva, e il nostro andare procedeva lentamente. Poiché la folla premeva attorno al letto funebre e nessuno era sazio di vedere la sacra salma, e quindi non era possibile compiere agevolmente il cammino; ci precedeva dall’una e dall’altra parte un numero non piccolo di diaconi e di servi che accom­pagnavano in processione, in lunga fila, il feretro. Tutti ave­vano in mano un cero acceso, e quanto avveniva aveva ve­ramente l’aspetto di una mistica processione, mentre la sal­modia a una sola voce da una estremità all’altra veniva cantata come nel canto dei tre fanciulli. E vi erano sette od otto stadi da quel luogo solitario alla chiesa dei Santi Martiri, nella quale erano stati deposti anche i corpi dei no­stri genitori, e con fatica, impiegando quasi tutta la giornata, riuscimmo a compiere quel cammino, perché la folla accorsa e quella che di volta in volta si aggiungeva non ci permetteva di fare la strada come avremmo voluto. Una volta che fum­mo arrivati all’interno della chiesa, deposto il feretro, per prima cosa ci dedicammo alla preghiera, e questa divenne per la folla l’avvio per il lamento funebre. Poiché si tacque la salmodia e le vergini ebbero guardato quel sacro volto e già era stato scoperto il sepolcro dei genitori, in cui era stato deciso che si deponesse anche il corpo di Macrina, una vergine si mise a gridare senza ritegno, dicendo che oramai non avrebbe più visto quel volto, divino all’aspetto, e così anche le altre vergini allo stesso modo si misero a levare alte grida insieme con lei. La confusione e il disordine turbavano quell’ordinata salmodia, conveniente al luogo sacro, perché tutte le vergini prorompevano in gemiti. Con gran fatica, a cenni, potemmo far silenzio, mentre il predicatore invitava alla preghiera e faceva risuonare nella chiesa le voci secondo la consuetudine; allora il popolo si calmò assumendo il com­portamento che la preghiera esige.
[35] E poiché la preghiera ebbe la sua conveniente conclu­sione, mi pervase il timore del divino comandamento, che proibisce di scoprire le vergogne del proprio padre o della propria madre. «E come», io mi dicevo, «potrò evitare sif­fatta condanna, se, guardando i corpi dei genitori, io vedrò la vergogna comune alla natura umana, poiché essi saranno, come è logico, caduti in pezzi e dissolti e mutati in una de­formità orribile e ripugnante?». Ma mentre io ragionavo su queste cose e la maledizione di Noè sui suoi figli mi inten­tava il suo terrore, la storia stessa di Noè mi suggerì quello che dovevo fare. Prima che apparissero ai nostri occhi, quando si sollevò il coperchio, i corpi dei nostri genitori fu­rono rivestiti di una pura sindone, che si stendeva da una estremità all’altra del sarcofago: così i corpi furono nascosti da essa. Allora io e il vescovo del luogo, di cui ho già parlato, sollevammo dal letto il sacro corpo di Macrina e lo stendem­mo accanto alla madre, eseguendo così quanto avevano en­trambe desiderato. Entrambe, infatti, durante tutta la vita, avevano concordemente domandato a Dio che i loro corpi dopo la morte fossero uniti e la loro comunione in questa vita non venisse spezzata nemmeno dalla morte.
[36] Quando fu da noi compiuto tutto quello che è usanza fare nei funerali e bisognò pensare al ritorno, io mi gettai sulla tomba e baciai la polvere; quindi mi misi in cammino, sconvolto e in lacrime, considerando quanto grande era il bene di cui la mia vita era stata privata. E durante la strada un personaggio importante nella carriera militare, che co­mandava la guarnigione di una piccola città del Ponto, chia­mata Sebastopoli, e viveva con i suoi sottomessi, mi si fece incontro amichevolmente allorché giunsi in quella città. Udi­to della sciagura e addoloratosene (era, infatti, uno dei nostri parenti e congiunti per legame di sangue), mi fece il racconto di un miracolo che riguardava Macrina: racconterò solamen­te questo, nella mia storia, e poi finirò il mio scritto. Poiché dunque, finimmo di piangere e ci mettemmo a conversare, mi disse: «Ascolta, quale e quanto bene è scomparso dalla vita umana». E così detto, iniziò il suo racconto.
[37] «Una volta sorse in me e nella mia sposa il desiderio di recarci al frontisterion della virtù: così, infatti, io penso che si debba chiamare quel luogo in cui dimorava quell’a­nima beata. Era insieme con noi anche la nostra figlioletta, alla quale era capitata una disgrazia all’occhio in seguito ad una malattia pestilenziale, ed era uno spettacolo spaventoso e pietoso insieme, perché la cornea attorno alla pupilla si era ispessita e si era fatta biancastra in seguito alla malattia. Quando fummo dentro a quel luogo divino, ci dividemmo, io e mia moglie, secondo il sesso, per visitare coloro che vive­vano da filosofi in quel luogo: io ero nel monastero degli uomini, che era retto da Pietro tuo fratello, mentre mia mo­glie, entrata nel convento delle vergini, era insieme con la santa. Trascorso che fu in questo modo un conveniente pe­riodo di tempo, pensammo che fosse giunto il momento di lasciare quel ritiro, ed io già mi accingevo a farlo, quand’ecco che avvenne, concordemente, da entrambe le parti, una pro­va di benevolenza nei nostri riguardi. Poiché tuo fratello mi invitò a rimanere e a partecipare alla tavola dei filosofi, men­tre la beata donna non voleva congedare mia moglie, ma, tenendosi in seno la mia figlioletta, diceva che non l’avrebbe restituita prima di averle imbandito la tavola e di averle donato la ricchezza della filosofia. Ella baciava, come si usa fare, la bambina, e le accostò la bocca agli occhi e, quando vide la malattia della pupilla, disse: “Se mi concedete questa grazia e se partecipate alla nostra mensa, io vi darò in cambio una ricompensa non indegna dell’onore che mi fate”. “Quale?”, le domandò la madre della fanciulla; e la grande donna disse: “Io posseggo una medicina che è in grado di guarire la malattia degli occhi”. In quel momento mi giunse un annuncio dal monastero delle donne, che mi riferiva della promessa di Macrina; allora rimanemmo volentieri, senza più curarci della necessità di riprendere in fretta il cammino.
[38] Quando il banchetto ebbe termine e la nostra anima si fu saziata, perché il grande Pietro ci aveva servito con le sue mani e ci aveva ristorato e la santa Macrina aveva congedato la mia sposa con tutta la gentilezza che si usa in quelle oc­casioni, lieti e gioiosi riprendemmo il cammino, mentre cia­scuno di noi raccontava all’altro quello che gli era capitato. E io raccontavo tutto quello che avevo visto e avevo udito nel monastero degli uomini, mentre mia moglie raccontava per filo e per segno, come una storia, e pensava di non dover omettere niente, nemmeno i particolari più insignificanti; e, narrando ogni cosa dopo l’altra, come per iscritto, allorché arrivò al punto in cui doveva raccontare della promessa di Macrina di curare l’occhio di nostra figlia, interruppe il suo racconto e disse: “Che ci è capitato? Come abbiamo potuto dimenticare la promessa, cioè quel collirio di cui ella ci aveva parlato?” E anch’io mi irritai insieme con lei per la nostra trascuratezza e ordinai a un servo di correre indietro in fretta per andare a prendere la medicina, quand’ecco che la bam­bina, che si trovava tra le braccia della nutrice, volge gli occhi verso sua madre. Quella fissa lo sguardo negli occhi della fanciulla, e dice: “Smetti di irritarti per la nostra tra­scuratezza”, gridando a gran voce per la gioia e lo stupore; “ecco che non ci manca niente di quello che ci era stato pro­messo: la vera medicina di cui ci parlava Macrina, quella che avrebbe guarito le malattie, è la cura che è riposta nelle pre­ghiere! Ce l’ha data, questa cura, ed ha già fatto effetto: non è rimasto niente della malattia degli occhi, perché tutto è stato ripulito da quella medicina dì Dio”. E così dicendo ella abbracciò la fanciulla e me la mise in braccio. E io allora, riconsiderando nella mia mente gli incredibili miracoli del Vangelo, dissi: “Che c’è di strano se ai ciechi fu restituita la vista per mano di Dio, quando ora la sua serva guarisce quel­le stesse malattie per mezzo della fede in lui, ed ha compiuto un’azione che non è molto inferiore a quei miracoli?». Nel dire questo, la voce gli si spezzò tra i singhiozzi e le lacrime scorrevano al suo parlare. Questo è il racconto del soldato.
[39] Quanto agli altri fatti del genere, che apprendemmo da coloro che erano vissuti insieme con Macrina e sapevano con esattezza tutto quanto la riguardava, io penso che non sia opportuno aggiungerli al nostro racconto. Poiché la maggior parte degli uomini giudica in base al proprio metro l’atten­dibilità di quanto si narra, mentre quello che oltrepassa le capacità dell’ascoltatore viene male accolto, per sospetto di menzogna, come qualcosa di estraneo alla verità. Pertanto non menziono la famosa incredibile messe in tempo di care­stia, quando il grano, distribuito secondo i bisogni, non dava affatto l’impressione di diminuire, ma rimaneva nello stesso peso di prima che fosse distribuito secondo le necessità di chi lo domandava; e così pure altri avvenimenti più mirabili an­cora: guarigioni di malattie e purificazioni di indemoniati e veritiere predizioni degli avvenimenti futuri. Tutte queste cose sono credute vere da coloro che le hanno conosciute con esattezza, anche se sono incredibili, mentre coloro che sono troppo carnali le considerano impossibili. Ma costoro non sanno che «in proporzione alla fede» si compie anche la distribuzione dei carismi, scarsa per coloro che sono incre­duli, grande per coloro che hanno in sé ampio spazio per la fede. Perché, dunque, non siano danneggiati quelli di poca fede, che non credono ai doni di Dio, per questo motivo abbiamo evitato di raccontare l’uno di seguito all’altro dei miracoli ancora più sublimi di questi, pensando che quelli già detti sarebbero stati sufficienti a raccontare la storia di Macrina.