lunedì 8 agosto 2011

Salam 'Alaykum

Riporto da "Avvenire" di ieri 7 agosto.




Dialogo cristiani musulmani in Terra Santa
di Pierbattista Pizzaballa

Nel Medio Oriente, il rapporto tra le fedi religiose è inquinato dal risvolto politico: il confine stesso
fra religione e politica diventa molto evanescente quando ambedue si focalizzano sulle esigenze
umane. Nel documento Kairos , che un gruppo di cristiani palestinesi che vivono nei territori
occupati ha redatto insieme ad alcuni vescovi, destinato allo studio delle comunità cristiane della
Terra Santa perché ne traggano linee di comportamento e di impegno, si trova scritto già
nell’introduzione: «Non si tratta qui soltanto di una soluzione politica, ma piuttosto di una politica
che distrugge la persona umana. E ciò concerne la Chiesa».
Il loro appello diventa così rivolto «ai nostri capi religiosi e politici, alla nostra società palestinese e
alla società israeliana, ai responsabili della comunità internazionale e ai nostri fratelli e sorelle nelle
Chiese di tutto il mondo». Il documento ha suscitato forti reazioni e continuerà a creare discussione
all’interno della compagine ecclesiale di Terra Santa e forse non solo al suo interno. Se in esso si
trovano affermazioni condivisibili, non tutti condividono invece le conclusioni, con l’invito al
boicottaggio di Israele. Per molti è un documento politico che le Chiese, che non sono istituzioni
politiche, non possono fare del tutto proprio. Inoltre, va detto che la maggioranza dei cristiani (circa
il 60%), vive in Israele con prospettive e dinamiche che sono del tutto diverse rispetto a quelle di
coloro che vivono nei Territori, per i quali il documento è pensato. Tale documento, tuttavia, è una
tappa importante del cammino percorso dalle Chiese di Terra Santa, che non può essere ignorato. In
questa regione, infatti, le religioni, sia che si incontrino o che si scontrino, acquistano sempre un
risvolto politico, in uno scenario che per sua natura a tutto dà un significato politico.
Per dialogare bisogna conoscere bene la propria identità, fino a saperne rendere ragione, e bisogna
desiderare di conoscere l’altro, cosa non semplice quando tante cose ci dividono e le difficoltà
legate a queste naturali differenze vengono enfatizzate a scopo politico. Credo sia utile porsi alcune
domande: quanti cristiani che vogliono dialogare con l’islam hanno «faticato» per questo nobile
scopo? Hanno studiato un po’ di Corano, conoscono la storia della nascita e della diffusione di una
religione che è seconda solo al cristianesimo? Sanno come vivono le popolazioni musulmane? Una
particolarità che contraddistingue i nostri cristiani, i cristiani di Terra Santa, e che si è accentuata
molto nel loro diventare piccola minoranza, è la connaturale conoscenza che essi hanno del grande
mondo musulmano che li circonda. Con i musulmani essi condividono innanzitutto una lingua, con
la quale hanno accesso al mondo dell’immaginario, ai proverbi che esprimono la saggezza popolare,
al modo di comprendere e di spiegare le idee, i sentimenti, le cose. Non è poco. Un occidentale
imparerà più facilmente l’arabo classico, l’arabo del Corano, che rimane invece per la nostra gente,
una lingua per la preghiera, dalla quale resta distante l’espressione quotidiana della fede e della
religiosità. I nostri cristiani vivono «silenziosamente» in un mondo che cinque volte al giorno viene
radunato per la preghiera dalla voce del Muezzin: una preghiera che rappresenta qualcosa di più del
folclore locale percepito dai pellegrini.
Essa diventa cultura. Certo, la imparano a memoria, così come alcuni musulmani che abitano lungo
la Via Dolorosa a Gerusalemme imparano il significato e la preghiera che accompagnano la
Stazione adiacente al proprio negozio o alla propria abitazione. I nostri cristiani si riferiscono a Dio
con la stessa parola usata dai musulmani: Allah. Il ritmo delle feste, le spiegazioni delle letture
coraniche che ne vengono fatte, scendono dai minareti nella stessa lingua dei cristiani.
d è curioso notare che il saluto «musulmano» sia la citazione evangelica «salam ‘alaykum» (la pace
sia con voi), là dove i cristiani usano augurarsi «un giorno di bontà» al quale si risponde «un giorno
di luce». «Condividere il lavoro, abitare negli stessi quartieri, vivere una solidarietà semplice e
sincera: sono aspetti della vita comune che possono, senza alcun dubbio, rinforzare la conoscenza
reciproca, l’amicizia, la mutua comprensione e il Erispetto per la libertà di coscienza e di religione»
(Giovanni Paolo II, Beirut, 30 maggio 1997). In quello scambio di aiuti che i cristiani e le Chiese
possono donarsi, certamente i cristiani di Terra Santa possono offrirci l’esperienza di una
plurisecolare convivenza in ambito musulmano, fatta di amicizia, di comune vivere e sopravvivere
ad innumerevoli domini, stranieri, di resistenza comune contro la violenza, di comuni iniziative non
violente che sempre più nascono per contrastare l’occupazione.
In questo panorama non si può tacere del grande ruolo che svolgono le scuole cristiane. In
particolare, mi riferisco all’esperienza che conosco meglio, quella delle scuole cattoliche. Ogni
convivenza, e qui si tratta di progettare e/o riprogettare una convivenza fra cristiani e musulmani, si
basa sulla conoscenza, sul rispetto, sulla tolleranza, sul dialogo reale, costante e sincero. Alla base
dell’indispensabile e impegnativa (faticosa) «conoscenza» di se stessi e dell’altro sta la formazione.
E la formazione è il fine ultimo della scuola. La Custodia di Terra Santa si assume annualmente un
onere molto grave – si supera il milione di dollari, escludendo le spese relative agli edifi ci
scolastici – per permettere a 10.600 allievi di frequentare le proprie scuole. In Israele/Palestina i
cristiani contano ormai una presenza vicina al 2% della popolazione totale, ma le scuole cristiane
accolgono il 4% della popolazione scolastica della Terra Santa. Attualmente ci sono un totale di 35
scuole cattoliche che accolgono complessivamente 37.500 allievi (con una presenza femminile più
alta di 1.500 unità su quella maschile) e rispondono a questo impegno formativo, oltre al Patriarcato
latino, diversi ordini religiosi. L’Università cattolica di Betlemme è retta dai Fratelli delle Scuole
Cristiane. La particolarità più evidente di questo impegno educativo è l’universalità: nelle scuole
cristiane in Israele il 62% degli allievi è cristiano, il 38% è musulmano; in Palestina i cristiani
diventano il 46%, mentre il 54% dei frequentanti è musulmano. Fino al 1948 le scuole cristiane
erano frequentate anche da allievi ebrei, cosa che ora non si verifica più, tranne rare eccezioni. Un
secolo di convivenza tra cristiani e musulmani nelle scuole dei frati – senza dimenticare la passata
ed attuale (piccola e circoscritta) presenza ebraica Рtestimonia che ̬ possibile una reale convivenza
tra cristiani e musulmani nella difficile situazione della Terra Santa. Non è solo questione di
cameratismo, di amicizia, del fatto di condividere la lingua e la sofferenza derivante dalla stessa
condizione sociologica: possiamo dire che, nel caso delle scuole e dell’importante ruolo che esse
ricoprono, la religione non è motivo di separazione.
Gli studenti che sono stati insieme nelle scuole cristiane, continuano a rispettarsi e ad essere
tolleranti quando frequentano l’università, quando affrontano i problemi del lavoro e della vita
familiare. La «fatica» che si fa a conoscersi, porta frutto.
L’educazione alla comprensione reciproca insegna ad accettare e anche a valorizzare le differenze, a
saper convivere nella differenza. La scuola diventa luogo di dialogo interreligioso e contribuisce in
modo concreto alla pace in Medio Oriente.
La scuola è, per eccellenza, il luogo per continuare ad insegnare e a testimoniare questa volontà di
dialogo, formando giovani capaci di un futuro diverso, un futuro da vivere insieme. La capacità di
stupirsi, che tanto ammiriamo nell’infanzia, è un dono che diventa un tesoro prezioso quando riesce
a mantenersi intatto attraverso le prove della vita. A volte l’Europa sembra davvero un «vecchio
continente» che ha perso la capacità di accogliere la novità, di guardare con curiosità ciò che è
strano e diverso, di stupirsi davanti al vero, al buono e al bello, quando sono fuori dagli schemi!
Eppure ognuno di noi ha fatto l’esperienza, anche solo dovuta alla casualità di un incontro, di
essersi «lasciato sorprendere dallo stupore» e di ritrovarsi più ricco, quasi felice nel dire a se stesso:
«Ma sì, guarda cos’è riuscito ad insegnarmi quel tale che consideravo nemico, “altro”». Lasciarsi
andare a fare il primo passo è forse parte di quel «ritornare bambini» che Gesù ci ha così
calorosamente raccomandato.