domenica 16 ottobre 2011

Baldovino di Ford: Elogio dei perfetti religiosi


Baldovino di Ford




Elogio dei perfetti religiosi


Tract. xvi

Perfectorum religiosorum encomium






PROLOGO



La parola profetica descrive la bellezza dei nazirei. La manifesta con grandi elogi, la innalza e la esalta con i grandi titoli che le attribuisce. Loda nei nazirei lo splendore, il candore e il rosseggiare. E benché questi siano degli aspetti della bellezza e ne accrescano l’incanto, tuttavia alla fine loda per nome anche la bellezza stessa. Né si limita semplicemente a lodare, ma lo fa in paragone, sì che queste realtà appaiono ancor più fulgide dal confronto con altre già di per sé degne di lode: non sono confrontate con esse come da pari a pari, ma sono loro anteposte nell’onore di una dignità altissima. Cresce la solennità della lode quando ciò che essa celebra non solo è posto in alto, ma è posto sopra ogni cosa; non solo è grande, ma è più grande di tutto. E la solennità della lode conosce il suo culmine quando la realtà cui si rivolge, appoggiata sulle proprie virtù e i propri meriti, rimane salda in se stessa, oggetto di lode, e supera, oggetto di lode ancor più grande, le altre realtà pur degne di lode.

Ebbene, nei nazirei viene lodata non la bellezza del corpo, ma quella della vita; non la gloria della carne, ma quella dello spirito, della virtù, dell’onestà. La gloria della carne ha sicuramente un certo incanto presso gli occhi della carne; ma ciò è cosa vana, fallace, come sta scritto: «Fallace è la grazia e vana è la bellezza». Che è mai questa vana bellezza, se non una bella vanità? E che è la grazia fallace, se non una fallacia rivestita di grazia? È rivestita di grazia, certo, ma è pur sempre qualcosa di fallace, una cosa fallace che tuttavia ha un’apparenza di grazia. Piace con la sua gloria a chi la osserva, ma inganna quanti la contemplano; al pari di certi giochi di prestigio, illude gli occhi di quanti la scrutano. Se infatti con l’intelligenza dell’occhio interiore si sondano le parti più interne del corpo umano, che diventa mai la bellezza della carne, se non un velo che copre ciò che è vergognoso, un ornamento per l’ignominia e la confusione che vi si celano dietro? Sotto la gloria della carne si celano onte nascoste che è vergognoso nominare, cui per l’uomo è fastidioso anche solo pensare. Perché l’uomo non è che putredine, l’essere umano è un verme. Se è così (e così è), che cos’è la bellezza dell’essere umano se non la bellezza di un verme? E che cos’è un uomo bello se non un bel putridume? Che cos’è un uomo illustre se non il nobile germoglio di uno schifoso marciume? Con il beato Giobbe egli può dire alla putredine: «Padre mio sei tu!» E ai vermi: «Madre mia, sorelle mie!». La bellezza del corpo può trovar gloria presso gli uomini, ma non presso Dio, perché è priva del merito della virtù e non ha la speranza del premio. Dio, l’arbitro che vive nel nostro profondo e che presta attenzione al cuore, ama la bellezza interiore. Il profeta si rivolge alla figlia del re e dice: «Al re piacerà la tua bellezza». Precisa poi dove si trova questa bellezza, perché a nessuno sfugga ch’essa è interiore: «La gloria della figlia del re è tutta interiore, è nei tessuti d’oro».

Dunque la bellezza dei nazirei è interiore, non esteriore. Essi sono così denominati a causa del fiore della santificazione, non di quello dell’erba, che è poi quello della carne: ogni carne infatti è come l’erba, e tutta la sua gloria è come fiore dell’erba. Sta scritto invece: «Il giusto fiorirà come palma», e ancora: «Piantati nella casa del Signore fioriranno negli atri del nostro Dio». E un altro passo dice: Fate fiorire fiori come il giglio, e mettete fronde nella grazia». Ma dove fiorisce il giglio? Cristo viene concepito a Nazareth, è il fiore nel fiore della verginità e della santificazione. Di Cristo così dice il Padre: «Su di lui fiorirà la mia santificazione». E Cristo dice di se stesso: «Io sono un fiore del campo, un giglio delle valli». Nel libro della Sapienza poi si legge: «Fate fiorire fiori come il giglio»; e Cristo dice: «Siate santi, perché io sono santo». Ebbene, del profumo di questo giglio sono impregnati tutti i nazirei, che attorno a sé lo spandono. Quanti infatti nel tempo della legge furono nazirei, santificati per il Signore, vennero prima come figura di Cristo, e poiché si astenevano dal vino e da ogni genere di bevanda inebriante, con la loro astinenza e tutta la loro vita rappresentarono i futuri imitatori di Cristo.

Anche i figli di Ionadab si astenevano dal vino. Ionadab aveva ordinato loro di non bere vino, e quelli obbedirono alla voce del padre loro. Per questo dice il Signore: «Dalla stirpe di Ionadab non verrà mai a mancare qualcuno che stia sempre alla mia presenza». Se, come ci assicurano le parole del Signore, non verrà mai a mancare dalla stirpe di Ionadab qualcuno che sempre stia alla sua presenza, ecco che anche ai giorni nostri vi sono dei figli di Ionadab, imitatori di Cristo, che stanno alla presenza del Signore. E infatti il vero Ionadab è Cristo, sempre pronto con tutto il cuore a una totale obbedienza, secondo il significato del nome Ionadab. Pronto è colui che dice: «Di tutto cuore ti offrirò un sacrificio»; nazireo e pronto è colui la cui voce risuona nel salmo: «Ed è rifiorita la mia carne, e con tutto il mio cuore gli renderò grazie» . Le parole «con tutto il mio cuore» si riferiscono allo Spirito, perché dove c’è lo Spirito c’è libertà; le parole che precedono, «ed è rifiorita la mia carne», non si riferiscono alla gloria presente di questa nostra carne voluttuosa, che è fiore dell’erba, ma alla speranza della resurrezione gloriosa e alla fioritura della carne santificata, che vien fatta morire con le sue passioni e i suoi desideri.



I. LO SPLENDORE DEI NAZIREI


L’astinenza dei nazirei e dei figli di Ionadab era sacramento, esempio e segno. Per essi fu sacramento di santificazione, per noi è esempio da imitare e segno per la nostra istruzione. Da esso infatti siamo formati spiritualmente a una triplice astinenza.

Tre sono le cose che in un oblio generato da ubriachezza, in un’ubriacatura generatrice di oblio, distolgono i cuori degli uomini dall’amore di Dio: l’amore della propria individualità, l’amore della propria carne, l’amore del mondo. In altri termini, l’amore per la volontà propria, l’amore per il piacere carnale, l’amore per la vanità mondana. L’amore per il mondo è vano, l’amore per il piacere è dolce, l’amore per la volontà propria è tenace: quanto maggiore è la tenacia, la caparbietà con cui la propria individualità ama se stessa e a se stessa si attacca, tanto più remota è la possibilità che possa staccarsi o separarsi da se stessa. Difficilmente un’anima giunge ad amare qualcosa più della propria volontà, del proprio sentire. Quando perciò si ritrae dalla volontà propria, quasi strappata da se stessa si sente insanguinata come se avesse ricevuto una ferita. L’amore per la volontà propria è un vino che ubriaca la mente e ne sconvolge tutti i sensi: l’udito perché non ascolti l’obbedienza; gli occhi, che sono poi il discernimento, perché non vedano la verità; e così svuota delle loro prerogative tutti i sensi interiori, mandando in mezzo a loro uno spirito di vertigine.

Non è certo questo il vino che va dato a chi è afflitto. Quelli che si affliggono e piangono i peccati della volontà propria si inebriano di un vino di compunzione, si dissetano di un vino che allieta il cuore dell’uomo nella promessa e nella speranza della salvezza: per cui beati sono quelli che piangono, perché saranno consolati. E in questo senso che vien detto: «Date vino a chi è afflitto, e bevande inebrianti a chi ha l’amarezza nel cuore»; mentre vien detto, al contrario, «non dare, Lemuel, non dare vino ai re; perché ove regna l’ebbrezza non vi è alcun segreto. Non accada che essi bevano e dimentichino i giudizi di Dio». Il vino della volontà propria è filtrato e spillato dal torchio della disobbedienza; proviene dall’uva acerba che i nostri padri han mangiato e i denti dei figli si sono allegati. Adamo, padre della disobbedienza, ha versato questo vino della volontà propria, e nella sua solitudine ha propinato ai suoi un filtro di morte, quasi dicendo: «Bevetene tutti». Fino ad ora bevono ad esso tutti i peccatori Cristo, al contrario, che non è venuto per fare la sua volontà ma quella del Padre, ha propinato il calice dell’obbedienza fino alla morte quando ci ha detto: «Bevetene tutti». Bevete da questo che io vi offro, non da quello che vi offre Adamo. I Giudei increduli e disobbedienti, al Signore appeso alla croce e assetato della loro salvezza porgevano vino, quel vino che consisteva nella loro vita perversa. Ma egli, assaggiatolo, non ne volle berlo: non consenti ad esso, si astenne dal vino secondo l’uso dei nazirei. Era infatti un vino che veniva da uva velenosa, dal ceppo di Sodoma, dalle piantagioni di Gomorra. Questo vino della volontà propria e della disobbedienza è vietato ai nazirei, come pure ai figli di Ionadab: non ne devono bere. È bene per l’uomo non bere di questo vino. Ciò è ben noto a quanti hanno in sospetto ciò che è della loro volontà, a quanti non confidano in se stessi ma si affidano al giudizio di un altro per essere guidati, a quanti sono presi dal timore di voler qualcosa da se stessi e come frutto della propria iniziativa. Per questo essi si incatenano con legami di obbedienza, si costringono sotto le leggi della disciplina regolare, convertono la loro volontà in obbligo, conducono la libertà in schiavitù; e tutto questo a causa di Cristo, affinché in Cristo la schiavitù sia libera e l’obbligo sia volontario. Poiché essi sono tanto più liberi in Cristo quanto più il loro volontario impegno li ha incatenati all’obbedienza. È questa la prima e la principale astinenza dei nazirei.

Quanto alla bevanda inebriante che è il piacere carnale, essa pure è spillata dal torchio della disobbedienza, e proviene dal frutto dell’albero proibito. La donna vide che era gradito alla vista, dolce da mangiare. Nacquero allora il piacere della gola, la concupiscenza della carne e la concupiscenza degli occhi. I nazirei si astengono dalle bevande inebrianti perché essi non seguono la carne nei loro desideri, ma attraverso l’astinenza, la temperanza e la disciplina portano dappertutto nella loro carne la morte di Gesù. Si astengono anche da ogni altra cosa che possa inebriare perché rifuggono dai molteplici errori della vita secolare: non mettono la loro fede in ciò che è perituro e calpestano sotto i piedi tutta la gloria mondana, contemplando la terra da lontano.

Lo splendore dei nazirei sta nel raggiungimento di questa triplice astinenza: ed è uno splendore che supera lo splendore della neve. Lo splendore di chi pratica l’astinenza è neve; ma c’è differenza fra quanti praticano l’astinenza e fra le varie gradazioni di splendore, così come fra il pieno compimento e il mancato compimento. Per questo sta scritto: «Quando Colui che è celeste fa differenza tra i re, su di essa saranno imbiancati di neve nello Zalmon». Quanti usano in modo lecito del mondo sono resi splendidi come da neve; ma quanti del mondo non usano affatto sono più splendenti. Lo splendore di quelli sta nell’astenersi dalle cose illecite, lo splendore di questi sta nel trattenersi anche dalle cose lecite. Quelli si agitano e si preoccupano per molte cose perché molte cose amano oltre a Dio e non a causa di Dio, anche qualora nulla amino più di Dio: e così il loro amore si trova diviso. Poiché tutto l’amore che viene consumato per realtà mortali è per ciò stesso sottratto alla perfezione dell’amore divino: ciò che è sparpagliato è sempre più debole di ciò che è radunato in unità. L’acqua divisa fra molti rivoli scorre in ciascuno di essi in piccola quantità. Così anche l’amore. Ha detto qualcuno a proposito di un amore certo vano, ma pur sempre amore: «Quando lo spirito, in due parti spaccato, si diffonde da una parte e dall’altra, ciascun amore priva l’altro di forze».

Raduniamo dunque in unità tutto il nostro amore, che non si sparpagli in troppe direzioni; richiamiamo dalla molteplicità ogni pulsione e tensione d’amore. Così tutto ciò che è impeto d’amore potrà riversarsi nell’unità e mettersi in cerca dell’Uno, di quell’Uno che è degno di tutto il nostro benvolere, cui è dovuta la totalità dell’amore, che anche se gli si dona la totalità dell’amore non può mai essere degnamente amato. Poiché c’è violazione della legge quando vien sottratto qualcosa a colui al quale tutto è dovuto. Questo è uno splendore che va al di là dello splendore della neve. È lo splendore che desiderò fortemente chi disse: «Lavami e sarò più bianco della neve».



II. IL CANDORE DEI NAZIREI


Titolo grande di lode, quello che onora i nazirei chiamandoli più splendenti della neve. Ma per sommare lode a lode si aggiunge: «Più candidi del latte». L’olio, il latte, il grasso hanno abbondanza e candore. È la misericordia, quella di cui il Signore dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio». Posseggono il candore e la dolcezza del latte quanti vengono incontro con misericordia alle necessità dei bisognosi che in tal modo sono abbeverati di latte, saziati dalle mammelle delle loro consolazioni. Le necessità possono essere corporali o spirituali. Il corpo abbisogna di molti sostegni per le sue necessità e di molti rimedi per le sue debolezze. L’anima, a sua volta, abbisogna di quelle cose che le sono necessarie per la sua consolazione spirituale e per raggiungere la vera salvezza. In genere quei giusti che hanno una qualche debolezza della carne sono più di altri mossi dal bisogno di portare aiuto e vicinanza affettiva ove scorgono necessità corporali del prossimo, si preoccupano più di nutrire l’affamato che di ricondurre l’errante sulla via della verità. La loro compassione li rende più deboli, io credo, in quelle cose che sentono di vivere essi stessi con maggior fatica; istruiti dalla loro propria esperienza, amano soffrire per Cristo la povertà del povero.

Quelli invece che si sentono più vicini alle anime che ai corpi del prossimo, gli danno un sostegno affinché sappia soffrire per Cristo; provano zelo per Dio e sono mossi da un sentimento di maggior vicinanza interiore riguardo alle necessità spirituali; sono deboli con i deboli, fremono per quanti soffrono scandalo Fra lacrime segrete e segreti colloqui con Dio pregano e intercedono per i nemici, soffrono e piangono per gli altrui peccati; in viscere di carità e in un profondissimo sentimento di benevolenza, con sospiri colmi di lacrime affidano il loro prossimo, che ignora ed erra, a quel Dio cui rendono culto nel loro spirito. Spesso sembrano quasi duri e privi di affetto riguardo alle necessità corporali. Forse per il fatto che soffrono in se stessi la povertà per scelta propria, sono meno dei primi capaci di soffrirla nella persona dell’altro. Non considerano la povertà come una disgrazia, ma come una via di salvezza; ritengono più sicuro sopportare qualche privazione che abbondare di cose superflue, e giudicano i ricchi che muoiono nella loro ricchezza più miserabili dei poveri che per un certo tempo vengono privati di qualcosa a loro salvezza.

La vera misericordia, dal canto suo, soffre per entrambe le necessità: è solo più grande per le necessità più grandi e più piccola per le più piccole. E una grande misericordia quella di chi patisce con il prossimo che è nella privazione; ma è molto più grande quella di chi si preoccupa ch’egli non muoia. Patire dei mali di cui soffrono gli uomini: ecco la realtà profonda della misericordia. Di entrambi i tipi di misericordia Cristo ha mostrato in se stesso l’esempio. Vedendo la folla che quasi veniva meno disse: «Sento compassione di questa folla»; e nel moltiplicare i pani figurò attraverso un beneficio corporale il mistero della grazia spirituale. Ma quando poi vide la città di Gerusalemme, pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu...!». E per spiegare perché egli piangesse, anzi, perché non potesse fare a meno di piangere, soggiunse: «ora, in questo giorno, la via della pace». E quando il Signore veniva condotto alla passione, voltandosi verso le donne che erano là e piangevano disse: «Non piangete su di me, ma su voi stesse e sui vostri figli».

È dunque più grande lo zelo per le anime che la vicinanza alle sofferenze del corpo. Questa è il candore del latte, quello è il candore dell’olio, che galleggia al di sopra di ogni altro liquido. Questa è come il grasso esterno dei sacrifici, quello è il grasso interno. Questa è praticata dai ricchi, che misericordiosi danno del loro; quello è piuttosto dei nazirei: vi è infatti in tale atteggiamento un sincero voler bene al prossimo dal profondo dell’essere. Sì: perché mai si dovrebbe tanto amare il nostro prossimo, che ha in sorte la nostra stessa natura, se non perché sia compartecipe della gloria che ci accomuna? I nazirei che mettono al di sopra di ogni cosa lo zelo per le anime, senza tuttavia disprezzare le necessità dei corpi, sono più bianchi del latte perché in loro risplende un duplice candore. Essi posseggono sempre il candore della grazia e della gloria innanzi a quel Dio che dice: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» . Quelli che si sono impegnati nella vita comune e che nella vita futura avranno in comune ogni cosa già fin d’ora fanno comunione di ciò che è loro fino a non volere per sé nulla che possa giovare ad altri; reputano superfluo tutto ciò che non è stato ricondotto alla grazia della comunione, e ritengono che nulla sia lecito possedere in proprio così come nulla è consentito usurpare dei beni altrui.



III. IL ROSSEGGIARE DEI NAZIREI


In questa descrizione del viso dei nazirei un colore si sovrappone all’altro: allo splendore e al candore si aggiunge ora il rosseggiare. Così il loro viso, già magnificamente colorato dallo splendore, acquista una tonalità di grande allegria grazie al rosseggiare. Il rossore sul viso è normalmente un indizio di calore oppure di pudore. I nazirei sono rosseggianti per il fervore dell’ardente loro volontà di donazione e per il pudore che nasce dalla considerazione di ciò che è onesto. Pieni di zelo per la legge di Dio, non solo cercano con fervore la virtù, ma amano ardentemente la bellezza di una vita coerente con se stessa. Delicata è la loro sensibilità, e li fa arrossire di fronte ad ogni sporcizia. Essi hanno in abominio tutto ciò che è sconveniente, si ritraggono di fronte a ciò ch’è inopportuno;. riservati e casti sono i loro sensi. E vergogna per loro vedere cose indecenti, è vergogna ascoltare discorsi ignobili sia riguardo a se stessi che riguardo ad altri, è vergogna dire cose ignobili e anche solo pensarle, come disse qualcuno: «Avevo stretto con gli occhi un patto di non pensare neppure a una vergine». E vergogna compiere atti ignobili, come dice di alcuni l’apostolo: «Quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate?»

Tuttavia è ancora poco, a lode dei nazirei, dire che essi sono rosseggianti. Per il loro colore essi sono anche anteposti all’antico avorio. L’avorio, com’è noto, è un osso di elefante. E questo è un animale costruito su un’impalcatura di ossa, robusto e solido, in grado di sostenere le macchine belliche con le fortificazioni ad esse sovrapposte. Tale è anche la fortezza dei santi: al pari dell’avorio fra le ossa, può gloriarsi di una solidità, di una saldezza e di una bellezza che su tutte s’innalza. La carne è debole, e può rappresentare la debolezza dei santi: perché allora le ossa non potrebbero annunziare la loro forza? È di esse che è scritto: «Il Signore preserva tutte le sue ossa». L’antico avorio è la forza dei giusti, quale fu presente negli antichi giusti che vissero sotto la legge ed è ora presente nei loro imitatori. Negli antichi si trovava una vera gravità di costumi, una grande maturità, una profonda saldezza di cuore che nulla poteva insidiare, una forza irremovibile d’animo che non si lasciava abbattere dalle dure persecuzioni ch’essi dovettero sopportare per la loro legge. Nessuna avversità esterna, nessuna umana protervia, nessuna violenza, nessun oltraggio, nessuno spavento, nessuna vergogna poté separarli dalla reverenza dovuta alla santa religione. A questo proposito ha detto qualcuno, trasfondendo tutti i santi in se stesso: «La mia vergogna mi sta sempre davanti e la confusione del mio volto mi copre, per la voce di chi insulta e bestemmia, davanti al nemico che brama vendetta. Tutto questo ci è accaduto e non ti abbiamo dimenticato, non abbiamo tradito la tua alleanza, non si è volto indietro il nostro cuore» o Questo avvenne sotto la legge, che pure non ha portato nessuno alla perfezione. Mancava ancora il compimento dell’Evangelo. Ancora non era stato detto: «Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri». Si diceva ancora: «Occhio per occhio, dente per dente, livido per livido», e non ancora: «Se uno ti percuote la guancia, tu porgigli anche l’altra». Ancora non si erano rivelati al mondo nella loro pienezza i consigli segreti di perfezione portati dal cielo tramite Cristo e che in Cristo dovevano essere manifestati: consigli che non tutti possono capire, sulla verginità da conservare per dedicarla a Dio, sulla povertà volontaria da ricercare per Cristo, sull’amore per ciò che è più vile, sul disprezzo degli onori, sul non esigere vendetta, sul perdonare l’ingiuria, sul non reclamare attraverso processi ciò che è proprio, sull’odiare il padre, la madre, tutti gli amici e perfino la propria vita, sull’amare i nemici, sull’offrire la vita per gli amici anche quando ci si mostrano nemici, sul sopportare per l’onore e l’amore di Cristo ogni tipo di ingiuria, di oltraggio, di insulto, di obbrobrio, ogni evento duro o umiliante, e sopportare tutto ciò con volto ilare nella gioia dello Spirito santo, come sta scritto: «Se ne andarono dal Sinedrio lieti di essere stati ritenuti degni di venir oltraggiati per il nome di Gesù» . Questi e altri simili consigli della perfezione cristiana, benché fossero stati ispirati da Dio ad alcuni antichi giusti, tuttavia non erano stati proclamati attraverso la legge: sono stati riservati a Cristo perché egli desse compimento alla legge senza peraltro sciogliere la legge.

O buon Gesù, se con il tuo permesso è possibile chiederlo, perché ci hai fatto così? Noi speravamo che venendo nel mondo tu avresti alleggerito i nostri pesi, avresti deposto il tuo sdegno, speravamo che facendoti uomo ti saresti fatto urna-no, o quanto meno più umano del solito. Ora invece aggiungi peso a peso, sovrapponi durezze a durezze. Non erano abbastanza pesanti le mani di Mosè? Sei venuto per castigarci con flagelli»? O forse per rendere più pesante il nostro giogo? Non ci è permesso di amare gli amici, e neppure di odiare i nemici? O autore di nuove leggi, chi può intendere il tuo linguaggio? Cerchi forse un’occasione per perderci? Il tuo nome non è Gesù? Non sei tu il nostro Dio, il Dio che salva? Sei allora il Dio che perde? No, no! Ma perché allora mi comandi di non odiare il mio nemico, anzi di amarlo? Come posso arrivarci? Ecco, basta che io sia provocato da una minima parola ingiuriosa, e subito tutto arde dentro di me, mi infiammo d’ira, il mio cuore brucia dalla voglia di vendicarsi, la mia lingua si avventa all’insulto. Sono momenti in cui non conosco Dio, non ritrovo più nella mente le tue leggi. E tu dici: «Se qualcuno si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio». Se poi dico al fratello «stupido» o «pazzo» tu mi spaventi ancora di più, poiché sono da sottoporre al sinedrio o al fuoco della Geenna. E non c’è alcun dubbio: tu hai dato i tuoi precetti perché siano osservati fedelmente.

Voglio dire la verità: io posso essere immemore dei benefici, ma non posso esserlo delle ingiurie. Per natura sono a tal punto figlio dell’ira che non posso astenermi dal cadere nell’ira. Ma tu, Gesù, puoi forse di questo essere adirato, tu che non permetti a me di adirarmi, e neppure di turbarmi lievemente o di mormorare entro di me contro il nemico? Chi mi darà di render saldo il cuore, sì ch’io per nulla mi turbi e ad ogni ingiuria diventi insensibile? Chi ci darà di compiere ciò che vuoi che compiamo, di soffrire ciò che vuoi che soffriamo, se tu non ci darai la tua benedizione, o legislatore? Chi ci darà questo, se tu non ci verrai incontro con dolci benedizioni, se noi non rimarremo nell’amore tuo dolce? Orientate all’amore le cose amare diventano dolci e quelle dure si fanno tenere; soltanto nell’amore il tuo giogo è dolce e il tuo carico leggero. Per chi ama che c’è di difficile? Anche l’ordine dato con rigore è più soave se accolto nella carità. Sì, perché paziente è la carità, forte è la carità; non si stanca per la fatica, non si abbatte per il carico; tutto copre, tutto sopporta; consapevole di un santo pudore, nei confronti di Dio è quasi spudorata; arrossisce di fronte a ciò che è ignobile, ma non delle parole di Cristo, non dell’obbrobrio di Cristo né dell’esempio di Cristo. Cristo, che ha dato compimento alla legge, ha insegnato ciò che bisogna fare; e quel che ha insegnato l’ha adempiuto in se stesso e ha proposto se stesso come esempio. Tutto ciò che Cristo ha fatto e insegnato a fare può certamente parere degno di disprezzo agli occhi del mondo; tuttavia non è certo privo dello splendore della vera bellezza. La povertà di Cristo, la sua umiltà è spregevole agli occhi del mondo; ma non c’è dubbio che anche per i poveri di Cristo il mondo è a sua volta spregevole. Si hanno così due realtà che si disprezzano a vicenda, poiché il mondo disprezza ciò da cui è disprezzato. Tuttavia ciò che porta il mondo a disprezzare è l’alterigia della superbia; ciò che lo porta ad essere disprezzato è la nobiltà dell’umiltà.

Perché la vera umiltà, quella di Cristo, ha in qualche modo in se stessa l’orgoglio di una nobile superbia. Essa rifiuta di servire sotto il giogo del peccato, ha l’audacia di calpestare in virtù della propria forza ogni vana alterigia e le cervici gonfie di superbia. Il vero imitatore di Cristo, memore della sua condizione di creatura plasmata a immagine e somiglianza di Dio», memore poi del prezzo con cui è stato redento dal Figlio di Dio, per rispetto alla propria dignità insuperbisce nobilmente contro la superbia che è invece indegna di qualsiasi dignità; e giudica indegno della propria nobiltà amare la vanità dell’onore mondano e non amare le promesse di Dio che sorpassano ogni desiderio. È in questo senso che della chiesa è stato scritto: «Io farò di te la superbia dei secoli»; e dei ministri di Dio è detto: «Vi godrete la forza delle nazioni, insuperbirete sulla loro gloria» Che cos’è la forza delle nazioni, che cos’è la loro gloria, se non quella che essi amano, essi che confidano nella loro forza e si gloriano nella loro grande ricchezza’? La loro gloria è in ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti come sono alle cose della terra. Sta scritto: «Quanti possedevano campi li vendevano e ne deponevano l’importo ai piedi degli apostoli». Ai piedi, quasi fosse da calpestare con i piedi, indegno di essere trattato con le mani. Ascoltiamo le parole di Pietro: «Non possiedo né argento né oro». Parole degne del primato del principe degli apostoli, del principe della chiesa. Che vi è di comune fra Pietro e l’argento e l’oro? È Pietro colui che dice: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?». E a lui che chiede la ricompensa non viene promesso né argento né oro. Egli li disprezzava, perché insuperbiva sulla gloria delle nazioni. Li disprezzò anche Paolo, che disse: «Quando abbiamo cibo e vestito, contentiamoci di questo». Egli non arrossì della povertà di Cristo, non mangiò gratuitamente il pane, ma lavorò notte e giorno. Non arrossì dell’umiltà di Cristo quando disse: «Siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi». E anche: «Siamo diventati spettacolo a Dio, agli angeli e agli uomini».

I nazirei, dunque, nel loro rosseggiare sono i perfetti discepoli di Cristo. Per il loro obbrobrio di doppia misura essi sono più rosei del roseo e dell’antico avorio, nello stesso modo in cui sono più perfetti degli antichi giusti; e sono tanto più forti quanto più sono stati fatti autentici custodi della norma di vita cristiana.



IV. LA RICERCA DI DIO DEI NAZIREI


Ed ecco che nuova lode si aggiunge alla lode, nuovo onore si somma all’onore. «Più belli dello zaffiro», è detto. È una bellezza perfetta che si affida a un ordine mirabile. Il primo gradino di perfezione consiste nel conservare se stesso, per quanto lo permette l’umana fragilità, puro dalla corruzione della vita presente. Il secondo gradino consiste nel non trascurare in nulla, in quanto si presenta la possibilità di dare aiuto o consiglio, l’attenzione verso il prossimo. Il terzo gradino consiste nel sopportare con forza, per quanto lo consente l’umana debolezza, nel calore dello spossesso di sé e nel rosseggiare di una santa riservatezza, ciò che di duro e di vergognoso ci viene offerto. Il quarto gradino consiste nel dirigere sempre verso Dio l’occhio della ricerca interiore, per quanto può l’umana capacità, e nel riferire ogni cosa alla sua gloria, e ciò sia nel fare il bene che nel subire il male. La prima virtù è innocenza riguardo a se stessi portata al suo compimento; la seconda è misericordia verso il prossimo spinta fino alla sua piena realizzazione; la terza è pazienza di fronte al nemico che da nulla può essere vinta; la quarta è la pura e semplice coscienza innanzi a Dio che nasce dalla sincerità della ricerca interiore. La prima virtù è costruita o da un santo odio di sé o da una dura misericordia verso di sé; la seconda da un amore benevolo, che è l’amore per il prossimo; la terza da un amore paziente, che è l’amore per il nemico; la quarta da quell’amore che tutto supera e che è l’amore per Dio. Quest’ultima informa tutte le altre affinché siano delle virtù; poi le rende salde, le riempie, affinché non siano vane. Sì: qualunque cosa buona uno compia, qualunque cosa cattiva subisca, tutto sarà considerato vano, privo di solidità e indegno di lode se egli non dirige l’occhio della propria ricerca interiore al luogo in cui sarà gradito alla presenza di Dio nella luce dei vivendi, se non è preso dall’onore di Dio al punto di non cercare più la propria gloria.

La purezza di questa ricerca interiore è nel cuore dei nazirei ciò che è la bellezza degli occhi in un bel volto. Niente più della leggiadria degli occhi è in grado di accrescere l’incanto di una figura avvenente, lo splendore di un volto. In una faccia leggiadra l’incanto degli occhi aggiunge bellezza a bellezza, leggiadria a leggiadria. Ebbene, la bellezza propria dell’opera di bene è la purezza della volontà. Ecco la bellezza dello zaffiro. Lo zaffiro ha il colore del cielo, imita lo spettacolo del cielo puro e sereno. Ma se pure imita la purezza del cielo, tuttavia non la eguaglia: è superato da ciò che gli è superiore, poiché la purezza del cielo splende più di quella dello zaffiro. Così, la ricerca interiore tesa all’adempimento del volere divino e unita alla speranza e al desiderio dei beni celesti, in alcuni ha la purezza dello zaffiro, che imita lo spettacolo del cielo; in altri esprime la purezza ben più splendida del purissimo cielo. Vi sono infatti alcuni che amano Dio di un amore purissimo, non assieme ad altre cose ma al di sopra di tutte; altri invece lo amano certo al di sopra di tutte le cose ma assieme ad esse. Negli uni l’amore è unico, negli altri è solo il più alto. L’amore più alto non esclude un altro amore, l’amore unico non ammette di essere condiviso con un altro. Ed è più puro, nel suo genere, colui che non sopporta la mescolanza con qualcosa di genere inferiore. Quanti invece amano Dio al di sopra di tutte le cose ma anche assieme ad esse, in tutto ciò che soffrono e fanno volgono continuamente lo sguardo, grazie all’occhio di una pura ricerca interiore, a quel Dio che occupa il centro del loro cuore; sperano con fiducia che si compiranno anche in loro quelle promesse di Dio che essi desiderano prima di tutto e al di sopra di tutto. E tuttavia, poiché amano alcune cose vane, nelle quali non amano Dio dato che non le amano rettamente a causa di Dio, spesso distolgono lo sguardo dalla ricerca delle gioie eterne verso ciò che amano di un amore vano. Dove infatti è l’amore, là è l’occhio Così essi sperano, desiderano e pregano che i loro desideri riguardo a ciò che amano si adempiano fino in fondo. Il loro cuore non è totalmente innalzato verso l’alto, si china un poco verso ciò che sta in basso. Quelli invece che amano in purezza solo Dio e ciò che è di Dio vengono giudicati tanto più belli dello zaffiro quanto più puri vengono trovati per la sincerità della loro ricerca interiore. Essi sono sempre intenti alla meditazione dei beni celesti, al pari del profeta che dice al Signore: «Sempre davanti a te la meditazione del mio cuore». Lo stesso profeta, desiderando che gli occhi della sua ricerca interiore non si pieghino verso le vanità dice: «Distogli i miei occhi perché non vedano cose vane»; ed esponendo la purezza del suo desiderio dice: «A te ha detto il mio cuore: ti ha cercato il mio volto; il tuo volto, Signore, io cercherò». Rivelando infine la purezza della sua speranza dice: «Il Signore mi renderà secondo la mia giustizia, secondo la purezza delle mie mani davanti ai suoi occhi».

Stabiliti in tale purezza di ricerca, di desiderio, di speranza, i nazirei in certo modo vedono sempre Dio; e da lui, che gioisce delle sue opere, nello splendore della sua bellezza sempre sono visti come opera delle sue mani. Vi è dunque un considerarsi l’un l’altro, un rallegrarsi dell’uno nella visione dell’altro. Così il profeta può dire: «Gli occhi del Signore sui giusti», e il giusto: «Tengo i miei occhi rivolti al Signore». Ecco che fin d’ora, in questa vita presente, i nazirei vedono in certa misura Dio, gli occhi negli occhi. Ecco che essi anticipano fin d’ora la gioia della visione futura. Ecco che gustano in primizia la dolcezza della futura sazietà, nell’attesa di essere pienamente saziati quando apparirà la gloria di quel Dio che è sopra ogni cosa, benedetto nei secoli. Amen.