sabato 15 ottobre 2011

Teresa d'Avila - Libro della Vita (capp. 1-25)


Teresa d’Avila

Libro della vita


JHS

PROLOGO

1. Vorrei che, come mi hanno ordinato e concesso ampia facoltà di descrivere il mio modo di orazione e le grazie che il Signore mi ha fatto, mi avessero dato anche la libertà di parlare molto minutamente e con chiarezza dei miei grandi peccati e della mia spregevole vita: mi sarebbe stato di grande conforto; ma non l’hanno voluto, anzi mi hanno imposto molte restrizioni a questo riguardo. Chiedo, perciò, per amore del Signore, che chi leggerà questo scritto della mia vita tenga presente che essa è stata così miserabile che non ho trovato un santo, tra quelli che si convertirono a Dio, con cui consolarmi, perché vedo che, dopo la chiamata del Signore, essi non tornavano ad offenderlo. Io, invece, non solo diventavo peggiore, ma sembrava che facessi ogni sforzo per respingere le grazie che Sua Maestà mi faceva, come colei che si vedeva obbligata, poi, a servirlo in maggior grado, e capiva di non poter pagare neanche la minima parte di ciò che gli doveva.

2. Sia sempre benedetto, per avermi aspettato tanto, colui che con tutto il mio cuore supplico di darmi la grazia di fare con assoluta chiarezza e verità questa esposizione che i miei confessori mi hanno ordinato (anche il Signore io so che lo vuole da molto tempo, senonché finora non ho osato tanto); il mio scritto sia a gloria e lode sua e giovi a me, perché d’ora innanzi i miei superiori, conoscendomi meglio, aiutino la mia debolezza, così che io possa soddisfare in parte, con i miei servigi, il mio debito verso il Signore, cui sia sempre resa lode da tutte le creature. Amen.

CAPITOLO 1

In cui descrive come il Signore cominciò a indirizzare la sua anima alla virtù fin dall’infanzia, e dell’aiuto che a tal fine rappresenta il fatto che siano virtuosi i genitori.

1. L’aver genitori virtuosi e timorati di Dio, unitamente a tutto il favore che il Signore mi concedeva, mi sarebbe bastato per crescere buona, s’io non fossi stata tanto spregevole. Mio padre amava leggere buoni libri e ne teneva diversi in lingua volgare perché anche i suoi figli li leggessero. A causa di queste letture e della cura che mia madre aveva di farci pregare e di renderci devoti di Nostra Signora e di alcuni santi, cominciò a destarsi in me la pietà, credo all’età di sei o sette anni. Mi era di aiuto il vedere che i miei genitori non favorivano che la virtù; di virtù essi ne avevano molte. Mio padre era un uomo di grande carità verso i poveri e di grande umanità verso i malati e anche verso i servi; tanta, che non si poté mai ottenere ch’egli tenesse degli schiavi perché ne aveva una grande pietà. E quando una volta ebbe a trovarsi in casa nostra una schiava di suo fratello, la trattava affettuosamente come i suoi propri figli; diceva che gli era di una pena intollerabile il fatto che non fosse libera. Era molto sincero. Nessuno lo udì mai imprecare o mormorare. E fu sempre molto onesto.

2. Anche mia madre aveva molte virtù, e trascorse la sua vita in gravi malattie. Grandissima la sua onestà; benché fosse di singolare bellezza, non diede mai occasione di pensare che vi facesse caso. Infatti, pur morendo a soli trentatré anni, già il suo modo di vestire era come quello di una persona attempata. Molto dolce e di notevole intelligenza. Soffrì molto nel corso della sua vita. Morì da vera cristiana.

3. Eravamo tre sorelle e nove fratelli. Tutti, grazie a Dio, somigliavano in virtù ai genitori, tranne me, sebbene fossi la più amata da mio padre; e, prima ch’io cominciassi a offendere Dio, forse tale preferenza non era senza motivo; per questo provo una grande pena quando ricordo le buone inclinazioni che il Signore mi aveva donato, e quanto male seppi trarre profitto da esse.

4. I miei fratelli, dunque, non mi intralciavano in nulla per distogliermi dal servire Dio. Ne avevo uno quasi della mia età, con il quale mi mettevo spesso a leggere le vite dei santi; era quello che più amavo, sebbene provassi grande amore per tutti, come tutti lo provavano per me. Nel vedere i martìri che le sante avevano sofferto per Dio, mi sembrava che comprassero molto a buon mercato la grazia di andare a godere di lui, e desideravo ardentemente morire anch’io come loro, non già per l’amore che mi sembrava di portargli, ma per godere presto dei grandi beni che leggevo esservi in cielo. E stando insieme con questo mio fratello, entrambi cercavamo di scoprire che mezzo potesse esserci a tal fine. Progettavamo, così, di andarcene nella terra dei mori, a mendicare per amore di Dio, nella speranza che là ci decapitassero. Credo che il Signore ci avrebbe dato il coraggio, in così tenera età, di attuare il nostro desiderio, se ne avessimo avuto i mezzi, senonché l’aver genitori ci sembrava il più grande ostacolo. Ci impressionava molto nelle nostre letture l’affermazione che pena e gloria sarebbero durate per sempre. Ci accadeva, pertanto, di passare molto tempo a parlare di quest’argomento e godevamo di ripetere molte volte: sempre, sempre, sempre! Nel pronunciare a lungo tale parola, piacque al Signore che mi restasse impresso nell’anima, fin dall’infanzia, il cammino della verità

5. Da quando capii che era impossibile andare dove mi uccidessero per il mio Dio, decidemmo, con mio fratello, di fare gli eremiti; e in un grande orto della casa ci adoperavamo, come potevamo, a costruire eremi, servendoci di piccole pietre, che poi cadevano a terra. E così non trovavamo nessun espediente che fosse di aiuto al nostro desiderio; ora mi sento piena di devozione pensando come Dio mi avesse concesso così presto ciò che ebbi poi a perdere per colpa mia.

6. Facevo elemosine come potevo, ma potevo poco. Cercavo la solitudine per recitare le mie preghiere, che erano molte, specialmente il rosario, di cui mia madre era assai devota, e per questo voleva che lo fossimo anche noi. Mi piaceva molto, quando giocavo con altre bambine, costruire monasteri e giocare «alle monachine». Mi sembra che io desiderassi esserlo, sebbene non nella stessa misura in cui desideravo le cose che ho già dette.

7. Ricordo che quando morì mia madre avevo poco meno di dodici anni. Non appena cominciai a capire ciò che avevo perduto, mi recai angosciata davanti a un’immagine di Nostra Signora e la supplicai con molte lacrime di farmi da madre, mi sembra che questa preghiera, anche se fatta con semplicità, mi abbia giovato, perché in modo evidente ho trovato ascolto in questa Vergine sovrana ogni volta che mi sono raccomandata a lei e, alla fine, mi ha richiamata a sé. Mi fa soffrire, ora, vedere e pensare a che cosa fosse dovuto il non esser rimasta salda nelle buone aspirazioni iniziali.

8. Oh, mio Signore!, poiché sembra che abbiate deciso che io mi salvi, piaccia alla Maestà Vostra che sia così; ma, avendomi elargito tante grazie come avete fatto, perché non ritenete conveniente – non per mio profitto, ma per vostra gloria – che non si macchiasse tanto la casa in cui di continuo dovevate dimorare? Mi affligge, Signore, anche dire ciò, perché so che la colpa fu tutta mia, in quanto non mi sembra, in realtà, che abbiate tralasciato di far nulla affinché io, fin da questa età, fossi totalmente vostra. Se voglio lamentarmi dei miei genitori, mi è ugualmente impossibile farlo, perché in essi non ho visto altro che bene e cura del mio bene. Fu appunto trascorsa quest’età quando cominciai a conoscere i doni di natura – che, a quanto si diceva, erano molti – elargitimi dal Signore e, mentre avrei dovuto rendergli grazie per essi, incominciai a servirmene per offenderlo, come ora dirò.

CAPITOLO 2

Tratta di come andò man mano perdendo queste virtù e di quanto importi, nella fanciullezza, frequentare persone virtuose.

1. Mi sembra che la causa prima d’ogni mio male stia in quanto ora dirò. A volte considero quale errore commettano i genitori che non si adoperano in tutti i modi perché i loro figli abbiano sempre davanti agli occhi esempi di virtù. Infatti, pur essendo mia madre così virtuosa come ho detto, del positivo che aveva non appresi nulla o quasi nulla, giunta all’uso della ragione: molto male, invece, mi arrecò qualcosa in lei di meno perfetto. Era appassionata di libri di cavalleria, senza, però, ricevere da questo passatempo il danno che ne ricevetti io, perché non trascurava per esso il suo lavoro, procurandone solo il rapido disbrigo nell’intento di darsi alla loro lettura. E forse lo faceva per non pensare alle sue grandi sofferenze e occupare i suoi figli in modo che non si sviassero dietro altre cose. Questo, però, rincresceva tanto a mio padre che bisognava far attenzione perché non se ne accorgesse. Io cominciai a prendere l’abitudine di leggerli, e da quel piccolo suo difetto ebbero inizio il raffreddarsi dei miei buoni desideri e le mie manchevolezze in tutto il resto. Né mi sembrava che vi fosse alcun male nello spendere tante ore del giorno e della notte in così vana occupazione e di nascosto da mio padre. Me ne estasiavo a tal punto che, se non avevo un libro nuovo, non mi sembrava di avere alcuna gioia.

2. Cominciai a portare abiti di lusso e a desiderare di piacere, cercando di far bella figura; a curare molto le mani e i capelli, a usare profumi e a far ricorso a tutte le possibili vanità, che erano molte, essendo io molto raffinata. Non avevo cattiva intenzione, perché non avrei voluto che mai nessuno offendesse Dio per causa mia. Ebbi per molti anni esagerata cura della mia persona e di altre ricercatezze nelle quali non scorgevo alcuna colpa. Ora so quanto nocive dovevano essere.

Avevo alcuni cugini che soli godevano della libertà di accedere in casa, giacché altre persone non vi erano ammesse a causa della gran riservatezza di mio padre. Avesse voluto Dio che si fosse guardato anche da costoro, perché ora conosco il pericolo di frequentare, nell’età in cui si deve cominciare a coltivare la virtù, persone che, lungi dal capire la vanità del mondo, inducono anzi ad ingolfarsi in esso. Erano quasi della mia età, un po’ più grandi di me. Stavamo sempre insieme; mi amavano molto. La conversazione si svolgeva su ciò che faceva loro piacere; così ascoltavo la storia delle loro simpatie e delle loro fanciullaggini per nulla buone; e il peggio fu che l’anima si abituò a ciò che fu causa di tutto il suo male.

3. Se mi fosse concesso dar consigli, direi ai genitori di fare molta attenzione, in questa età, alle persone che trattano con i loro figli, perché è un momento assai pericoloso, in cui la nostra natura è più portata al peggio che al meglio. Così accadde a me che avevo una sorella molto più grande di età, dalla cui bontà e onestà – che era molta – non imparavo nulla, mentre appresi tutto il male possibile da una parente che frequentava assiduamente la nostra casa. Era di un comportamento così leggero che mia madre aveva fatto di tutto per allontanarla, quasi presagisse il male che doveva venirmi da lei, ma disponeva di tante occasioni per introdursi da noi, che non v’era potuta riuscire. Affezionatami a questa parente, con lei si svolgevano la mia conversazione e le mie chiacchiere, perché non solo mi assecondava in tutti i passatempi che io desideravo, ma mi ci spingeva lei stessa, mettendomi anche a parte delle sue relazioni e vanità. Fino a quando cominciai a trattarla, che fu all’età di quattordici anni, o forse anche di più (voglio dire quando strinse con me tale amicizia che mi rese partecipe delle sue confidenze), non mi sembra che io avessi mai abbandonato il Signore per grave colpa, né perduto il timor di Dio, benché fosse più forte in me quello di mancare all’onore. Ciò, in verità, ebbe il potere di non farmi perdere del tutto l’onore, né mi sembra che in questo per nessuna cosa al mondo avrei potuto cambiare, né che ci fosse alcun amore umano che potesse indurmi a capitolare. Magari avessi avuto tanta forza per non andare contro l’onore di Dio quanta me ne dava il mio istinto per non perdere quello che credevo fosse l’onore del mondo! E non consideravo che lo perdevo per molte altre vie.

4. Nel cercarlo ponevo, infatti, da persona vana, somma cura, ma non facevo ricorso a nessun mezzo necessario per conservarlo: cercavo solo con ogni attenzione di non perdermi del tutto. mio padre e mia sorella soffrivano molto di quest’amicizia e me la rimproveravano spesso. Ma siccome non potevano eliminare le occasioni dell’ingresso di tale parente in casa, le loro diligenze non approdavano a nulla, tanto più che la mia astuzia in materia di cose nocive era grande. Talvolta, mi spaventa il danno che arreca una cattiva compagnia; se non ne avessi fatto esperienza, non potrei crederlo così grave; credo che il male sia peggiore specialmente nell’età giovanile. Vorrei che i genitori imparassero dal mio esempio a far molta attenzione a questo riguardo. Quella compagnia, infatti, mi cambiò a tal punto che non mi restò quasi più nulla della mia indole e dei miei propositi improntati a virtù. Anzi, mi sembra che questa parente e un’altra persona, dedita allo stesso genere di passatempi, mi lasciassero un’impronta profonda delle loro miserie.

5. Da ciò comprendo quanto vantaggio procuri una buona compagnia e sono convinta che se allora avessi frequentato persone virtuose, sarei rimasta salda nella virtù perché, potendo avere a quell’età chi mi avesse insegnato a temere Dio, l’anima sarebbe andata acquistando forze per non cadere. Invece, perduto interamente questo timore, mi rimase solo il sentimento dell’onore che mi tormentava in tutto quel che facevo anche se, appena pensavo che le mie azioni non si sarebbero risapute, mi arrischiavo a far cose che erano certamente e contro il mio onore e contro Dio.

6. Dapprima – a quanto mi sembra – mi pregiudicarono le circostanze che ho detto, ma non dovette essere colpa di quella parente, bensì mia, perché in seguito per fare il male bastò la mia astuzia perversa, aiutata dalle serve che avevo, nelle quali trovavo buona disposizione a ogni genere di malizia. Se, invece, qualcuna mi avesse consigliato bene, forse ne avrei approfittato, ma erano accecate dall’interesse, come io dall’affetto. Eppure non ero mai incline a gravi colpe – perché aborrivo per natura cose disoneste –, ma solo a passatempi di una piacevole compagnia; senonché, esposta all’occasione, il pericolo era ovvio e compromettevo anche mio padre e i miei fratelli. Me ne liberò Dio in modo che si vide bene come si adoperasse contro la mia volontà perché non mi perdessi del tutto, sebbene il mio comportamento non potesse restare così segreto da non procurare molto scapito al mio onore e sospetti in mio padre. Infatti, dopo neanche tre mesi, mi pare, che mi ero data a questa vanità, mi condussero in un monastero del luogo, dove si educavano persone della mia condizione, sebbene non di così spregevoli abitudini come me. Ciò fu fatto con tale abile segretezza che soltanto io e qualche parente lo sapemmo, perché si attese una circostanza che non doveva far apparire imprevedibile tale decisione: quella del matrimonio di mia sorella, dopo il quale non era opportuno che io, già orfana di madre, restassi sola in casa.

7. Era così grande l’amore che mio padre mi portava e così grande la mia abilità nel dissimulare che egli, non potendomi credere tanto colpevole, non mi fece mancare mai il suo affetto. Poiché era stato breve il tempo del mio traviamento, benché ne fosse trapelato qualcosa, probabilmente nessuno poteva affermare nulla di certo, anche perché io, temendo tanto per il mio onore, ponevo ogni mia cura nel far restare tutto segreto e non consideravo che non poteva esserlo per colui che tutto vede. Oh, mio Dio, quale danno reca al mondo non dare a questa riflessione la dovuta importanza e pensare che possa rimanere segreta una cosa che sia contro di voi! Sono sicura che si eviterebbero grandi mali se si capisse che quel che importa non è il guardarci dagli uomini, ma il guardarci dal dispiacere a voi.

8. I primi otto giorni soffrii molto, e più perché mi sorse il sospetto che si fosse capita la mia vanità che non per trovarmi lì. Già, infatti, ero stanca di essa, e non mancavo d’avere gran timore di Dio quando gli recavo offesa, procurando di confessarmi subito. Dopo un’iniziale grande inquietudine, passati otto giorni – e credo anche meno – mi sentivo molto più contenta che in casa di mio padre, e altrettanto contente erano tutte di stare con me, perché Dio mi aveva fatto la grazia di riuscire sempre gradita, dovunque mi trovassi, e così ero molto amata. E benché io allora fossi molto contraria a farmi monaca, godevo nel veder tante buone suore, perché lo erano molto le religiose di quella casa, di grande modestia, pietà e raccoglimento. Ciò nonostante, il demonio non cessava di tentarmi, procurando che quelli di fuori mi disturbassero con messaggi. Ma siccome non era impresa facile, la persecuzione finì presto e la mia anima cominciò a riprendere le buone abitudini della mia prima età; capii, così, quanto sia grande la grazia che Dio concede a chi egli pone in compagnia dei buoni. Mi sembra che Sua Maestà andasse pensando e ripensando per quale via potesse volgermi a sé. Siate voi benedetto, Signore, che tanto mi avete sopportato! Amen.

9. C’era una cosa che forse mi poteva essere di qualche discolpa – se di colpe non ne avessi avute tante – ed è che trattavo con chi mediante il matrimonio mi sembrava che potesse far finire tutto bene. Inoltre, informandomi dal mio confessore e da altre persone circa molte cose, mi sentivo dire che non andavo contro Dio.

10. Con noi educande dormiva una monaca per mezzo della quale, come ora dirò, sembra che il Signore abbia voluto cominciare a illuminarmi.

CAPITOLO 3

In cui si parla di come influì la buona compagnia a risvegliare i suoi pii desideri e in che modo il Signore cominciò a illuminarla sull’inganno in cui era caduta.

1. Cominciando, così a gustare la buona e santa compagnia di questa monaca, godevo di sentirla parlare così bene di Dio, perché era una grande santa, molto saggia; credo che la gioia di ascoltare tali discorsi non mi sia mai venuta meno. Prese a raccontarmi come ella fosse giunta a farsi monaca soltanto per aver letto ciò che dice il Vangelo: Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. Mi parlava del premio che il Signore concede a coloro che lasciano tutto per lui. Questa buona compagnia cominciò a sradicare da me le abitudini create dalle cattive compagnie, a ricondurre il mio pensiero a desideri di cose eterne e ad annullare in parte la grande avversione che avevo per la vita del chiostro, divenuta, anzi, grandissima. Così, se vedevo qualcuna versare lacrime quando pregava, o dare altri segni di virtù, ne avevo grande invidia, perché il mio cuore era così duro a questo riguardo che, se avessi letto tutta la passione, non avrei versato una lacrima; e ciò mi faceva soffrire.

2. Stetti un anno e mezzo in questo monastero, migliorandomi molto. Cominciai a recitare non poche orazioni vocali e a supplicare tutti di raccomandarmi a Dio affinché mi suggerisse lo stato in cui avrei dovuto servirlo. Tuttavia desideravo che non fosse quello monacale e che a Dio non piacesse ispirarmi proprio questo, sebbene temessi anche il matrimonio. Allo scadere del tempo in cui rimasi qui, già propendevo di più ad esser monaca, anche se non in quella casa, per certe pratiche di maggior rigore che avevo poi saputo che vi si osservavano e che erano, a mio giudizio, eccessive. Mi confermavano in questa opinione alcune delle più giovani, mentre se fossero state tutte di un unico parere, ne avrei tratto gran profitto. Inoltre avevo una grande amica in un altro monastero, il che influiva a che non mi facessi monaca, se monaca dovevo essere, se non dove stesse lei: badavo, insomma, più a compiacere il mio istinto naturale e la mia vanità che a procurare il bene dell’anima mia. Questi buoni pensieri di essere monaca mi venivano solo a volte, e poi se ne andavano, così che io non potevo convincermi a diventarlo.

3. Nel frattempo, sebbene io non trascurassi di prendere le mie medicine, il Signore, il cui vivo desiderio di dispormi allo stato che più a me si conveniva aveva più potere d’ogni medicina, mi mandò una così grave malattia che dovetti tornare a casa di mio padre. Quando fui guarita, mi condussero a far visita a una mia sorella – che abitava in un borgo – il cui amore per me era così grande che, se avessi assecondato il suo desiderio, non avrei mai dovuto lasciarla. Suo marito mi voleva egualmente molto bene, per lo meno mi circondava di attenzioni, e anche di questo devo essere molto grata al Signore, perché dappertutto mi ha sempre fatto trovare affetto, mentre io l’ho ricambiato di tutto da quella che sono.

4. Lungo la strada abitava un fratello di mio padre, vedovo, molto saggio e di grandi virtù, che il Signore andava disponendo per sé tanto che, sebbene in età avanzata, lasciò tutto quello che possedeva, si fece religioso e finì la sua vita in modo tale che credo goda ormai di Dio. Volle che mi trattenessi alcuni giorni con lui. La sua occupazione era quella di leggere buoni libri in volgare, e la sua conversazione aveva quasi sempre per argomento Dio e la vanità del mondo. Desiderava che io gli leggessi quei libri e, quantunque essi non mi piacessero, mostravo di averne diletto, perché ho sempre procurato di accontentare chiunque, anche se ciò dovesse pesarmi, tanto che, mentre tale inclinazione in altri sarebbe stata virtù, in me è stata un gran difetto, perché molte volte agivo sconsideratamente. Oh, Dio mio! per quali vie Sua Maestà mi andava disponendo allo stato in cui desiderava servirsi di me, tali che, senza che io volessi, mi costrinse a vincere me stessa! Sia benedetto per sempre! Amen.

5. Anche se i giorni in cui mi trattenni lì furono pochi, in virtù di quanto operavano nel mio cuore le parole di Dio, lette o ascoltate, e la buona compagnia, riuscii man mano a capire la verità delle cose che mi colpivano da bambina, cioè il nulla del tutto, la vanità del mondo, la brevità della vita, e a temere, se fossi morta, di andare a finire nell’inferno. E sebbene la mia volontà non fosse ancora incline allo stato monacale, capii ch’era lo stato migliore e più sicuro; pertanto, a poco a poco, mi confermai nella decisione di abbracciarlo.

6. Trascorsi tre mesi in questa lotta, incoraggiando me stessa con questo ragionamento: le fatiche e la sofferenza della vita religiosa non potevano superare le pene del purgatorio e, avendo io ben meritato l’inferno, non era poi molto vivere come in purgatorio, tanto più che, dopo, sarei andata diritta in cielo, e questo era il mio desiderio. Così, in tale slancio ad abbracciare uno stato, mi sembra che a spingermi fosse più un timore servile che l’amore. Il demonio mi insinuava, per dissuadermi, l’impossibilità di sopportare i disagi della vita religiosa, delicata com’ero. Da ciò mi difendevo ricordando le pene sofferte da Cristo, di fronte alle quali non era gran cosa che io soffrissi un poco per lui. Dovevo certo anche pensare – ma di quest’ultima riflessione non mi ricordo – ch’egli mi avrebbe aiutato a sopportare tali pene. In quei giorni fui assalita da molte tentazioni.

7. Ero stata colta, oltre che da attacchi di febbre, da gravi svenimenti, perché ho avuto sempre ben poca salute. Mi rianimò l’essere divenuta ormai amante di buoni libri. Lessi le lettere di san Girolamo che m’incoraggiarono tanto da farmi decidere a dire a mio padre quanto mi proponevo. Ciò significava quasi prender l’abito religioso, essendo io così ligia al punto d’onore che non credo sarei mai tornata indietro per nessuna ragione, una volta detta una parola. Egli mi amava talmente che non riuscii in nessun modo ad ottenere il suo consenso, né mi valsero le preghiere di persone che indussi a parlargli. Tutto quel che si poté ottenere da lui fu che dopo la sua morte avrei potuto fare ciò che volessi. Io già temevo di me stessa: che, cioè, la mia debolezza non mi facesse tornare indietro; pertanto, non mi sembrò conveniente tale indugio e cercai di conseguire il mio scopo per altra via, come ora dirò.

CAPITOLO 4

Dice come il Signore l’aiutò a vincere se stessa per prendere l’abito religioso e parla delle molte malattie che Sua Maestà cominciò a mandarle.

1. Nel tempo in cui maturavo queste decisioni, avevo persuaso un mio fratello a farsi religioso, parlandogli della vanità del mondo, ed entrambi ci accordammo d’andare un giorno, di buon mattino, al monastero dove stava quella mia amica che io amavo molto. Riguardo a quest’ultima determinazione, mi sentivo così decisa che sarei andata in qualunque monastero ove pensassi di servire meglio Dio o dove mio padre l’avesse voluto, perché ormai non davo alcuna importanza al mio benessere, ma miravo soprattutto alla salvezza della mia anima. Ricordo bene, a dire il vero, che quando uscii dalla casa di mio padre, provai tanto dolore che non credo di sentirlo maggiore in punto di morte: mi sembrava che tutte le ossa mi si slogassero perché, non avendo ancora raggiunto un amor di Dio capace di rimuovermi dall’amore del padre e dei parenti, dovevo far solo ricorso a una forza così grande che, se il Signore non mi avesse aiutato, le mie considerazioni non sarebbero bastate a farmi andare avanti. In quel momento egli mi diede forza per vincere me stessa in modo che potei realizzare il mio progetto.

2. Quando vestii l’abito, subito il Signore mi fece capire quanto favorisca coloro che si fanno forza per servirlo. Nessuno, però, sospettava tanta lotta in me, in cui si vedeva solo una incrollabile risoluzione. Subito fui così felice d’aver abbracciato la vita monastica, che tale gioia non mi è mai venuta meno fino ad oggi, perché Dio cambiò l’aridità della mia anima in grandissima tenerezza. Mi davano molta gioia tutte le pratiche della vita religiosa; è bensì vero che a volte mi accadeva di spazzare in ore che prima ero solita occupare nel fare sfoggio di ornamenti, ma appunto ricordandomi che ero ormai libera da tutto ciò, provavo una gioia sconosciuta tale che me ne stupivo e non riuscivo a capire da dove provenisse. Quando ripenso a questo, non c’è cosa che mi si possa presentare, per quanto difficile sia, che esiterei ad affrontare. Perché ormai so, avendone fatto esperienza in molti casi, che se mi sforzo, in principio, di prendere la decisione di fare una cosa (giacché, essendo in onore di Dio, fino dal principio egli vuole – per nostro maggior merito – che l’anima provi quello sgomento, e quanto più grande esso sia, tanto maggiore e più dolcemente gradito, se si riesce a vincerlo, sarà, dopo, il premio), anche in questa vita Sua Maestà mi dà la ricompensa con tali doni che solo chi ne gode può saper valutare. Di questo ho fatto esperienza, come ho detto, e anche in cose molto gravi; pertanto, non consiglierei mai – se fossi persona capace di dar consigli – che, di fronte all’insistenza di una buona ispirazione, si tralasci di seguirla per paura: se si agisce chiaramente soltanto per Dio non c’è da temere alcun danno, essendo egli onnipotente. Sia per sempre benedetto! Amen.

3. Sarebbero dovute bastare, o mio sommo Bene e mio riposo, le grazie che fin qui mi avevate fatto, guidandomi con la vostra pietà e grandezza, attraverso tante vicende, a uno stato così sicuro e a una casa dove erano molte serve di Dio, dalle quali potevo prendere esempio, per crescere nel vostro servizio. Non so come proseguire, quando ricordo la cerimonia della mia professione, l’estrema decisione e la gioia con cui la celebrai e lo sposalizio che contrassi con voi. Non posso dirlo senza lacrime, e dovrebbero essere lacrime di sangue, e il cuore mi si dovrebbe spezzare, né sarebbe troppo dolore di fronte alle offese che in seguito vi recai. Mi sembra, ora, di aver avuto ragione a non volere una così grande dignità, visto che dovevo usare tanto male di essa. E voi, mio Signore, per quasi vent’anni in cui usai male di questa grazia, voleste essere l’offeso, perché io potessi migliorare. Sembra, mio Dio, che io non facessi altro se non promettervi di non mantener nulla di ciò che vi avevo promesso, anche se allora non era questa la mia intenzione; ma le mie azioni erano poi tali che non so più quali fossero le mie intenzioni, e da questo si vede meglio chi siete voi, mio Sposo, e chi sono io. E, in verità, molte volte il dolore per le mie grandi colpe è temperato dalla gioia che mi dà il pensiero che si possa conoscere la vostra infinita misericordia.

4. In chi, o Signore, essa può risplendere come in me, che ho tanto offuscato con le mie cattive azioni le immense grazie che avevate cominciato a farmi? Povera me, mio Creatore, che se voglio discolparmi, non posso addurre nessuna scusa, né v’è alcuno che abbia colpa all’infuori di me! Poiché se io avessi ricambiato anche in parte l’amore che cominciavate a dimostrarmi, non avrei più potuto amare altri che voi, e con questo si sarebbe rimediato a tutto. dal momento che non meritai tanta fortuna, mi giovi ora, o Signore, la vostra misericordia.

5. Il cambiamento di vita e di cibi mi fece male alla salute, e anche se la mia gioia era molta, ciò non fu una sufficiente difesa. Cominciarono ad aumentare gli svenimenti, e fui colta da un così violento mal di cuore da fare spavento a chi assisteva agli attacchi, con l’aggiunta di molti altri mali. Così passai il primo anno in cattive condizioni di salute, ma non mi sembra di aver offeso molto il Signore nel corso di esso. E, siccome il male era tanto grave da farmi restar di solito quasi fuori dei sensi – e alcune volte del tutto priva di conoscenza –, mio padre si adoperava con ogni premura a cercare un rimedio; ma, non essendo riusciti a darglielo i medici di qui, mi fece portare in un luogo che aveva gran fama circa la guarigione di altre malattie, ove gli dissero che avrebbero guarito anche la mia. Mi accompagnò quella monaca amica di cui ho parlato, che era un’anziana della casa. Nel monastero in cui stavo non c’era impegno di clausura.

6. Rimasi lì quasi un anno, e per tre mesi soffrendo enormi tormenti a causa delle cure cui venni sottoposta, cure così forti che io non so come riuscii a sopportarle; alla fine, nonostante la mia pazienza, il mio fisico, come dirò, non poté resistere oltre. La cura doveva cominciare all’inizio dell’estate, ed io ero andata lì al principio dell’inverno. Tutto questo tempo rimasi in casa di quella sorella che, come ho detto, abitava in un villaggio lì vicino, aspettando presso di lei il mese di aprile, perché la vicinanza del luogo mi evitava di andare troppo avanti e indietro.

7. Durante il viaggio di andata, quel mio zio di cui ho detto che abitava lungo la strada, mi diede un libro intitolato Terzo abbecedario, che cerca d’insegnare l’orazione di raccoglimento. Anche se in questo primo anno avevo letto buoni libri (poiché altri non volli più leggerne, ormai esperta del danno che mi avevano arrecato), non sapevo come procedere nell’orazione, né come raccogliermi; pertanto, mi rallegrai molto di averlo e decisi di seguire quel metodo con tutto il mio impegno. Poiché il Signore mi aveva ormai dato il dono delle lacrime e mi piaceva leggere, cominciai a raccogliermi un po’ in solitudine, a confessarmi spesso, e a indirizzarmi per quel cammino, avendo come guida quel libro, perché io un maestro, voglio dire un confessore che mi capisse, non l’avevo trovato, quantunque lo cercassi, e neanche riuscii a trovarlo nei vent’anni che seguirono. Ciò mi fu causa di molto danno facendomi tornare spesso indietro, e anche esponendomi al rischio di perdermi del tutto; mentre un buon confessore mi avrebbe almeno aiutato a sottrarmi alle occasioni di offendere Dio. Sua Maestà cominciò a concedermi tante grazie in questo inizio che, giunto il termine del tempo in cui mi trattenni qui (trascorsi quasi nove mesi in questa solitudine), benché non fossi così esente dall’offendere Dio come il libro consigliava e trascurassi molte cose, sembrandomi quasi impossibile tanta vigilanza, mi guardavo, però, dal commettere peccato mortale, e fosse piaciuto a Dio che lo avessi fatto sempre! Invece tenevo in poco conto i peccati veniali procurando così la mia rovina. Il Signore, dunque, cominciò a favorirmi tanto in questa via, che mi faceva grazia di concedermi un’orazione di quiete e qualche volta pure quella di unione, anche se io non intendevo che cosa fossero né l’una né l’altra, né il loro grande valore, mentre credo che per me sarebbe stato un gran bene saperlo. È vero che l’orazione di unione durava ben poco, non so se appena un’Ave Maria, ma ne restavano in me così grandi effetti che, pur non avendo in quel tempo neppure vent’anni, mi sembrava di tenere il mondo sotto i piedi. Ricordo, pertanto, che mi facevano pena quelli che lo seguivano, fosse anche solo in cose lecite. Mi sforzavo quanto più potevo di tenere presente dentro di me Gesù Cristo, nostro Bene e Signore: era questa la mia maniera di pregare; così se pensavo a qualche momento della sua passione, me lo rappresentavo interiormente. Ciò nonostante spendevo la maggior parte del tempo a leggere buoni libri, che erano tutto il mio diletto. Dio, infatti, non mi ha dato la capacità di usare dell’intelletto, né di giovarmi dell’immaginazione, così ottusa in me che, nonostante gli sforzi per rappresentarmi – come procuravo di fare – l’umanità del Signore, non ci riuscivo mai. E sebbene attraverso l’incapacità do servirsi dell’intelletto, perseverando, si giunga più presto alla contemplazione, la via è però assai faticosa e penosa perché, se la volontà resta inattiva e manca all’amore un oggetto che lo occupi con la propria presenza, l’anima resta come immobile e senza appoggio, e gran pena producono la solitudine e l’aridità, e grandissima lotta i pensieri.

8. Alle persone che si trovano in questa condizione è necessaria una maggiore purezza di coscienza che non a quelle capaci di usare l’intelletto; perché chi riflette a ciò che è il mondo e a ciò che si deve a Dio, a quanto egli ha sofferto e a quanto poco lo si serve, e a ciò che dà in premio a chi lo ama, ne trae utile insegnamento per difendersi da pensieri e occasioni pericolose; ma chi non può giovarsi di questa capacità è più esposto a pericoli e bisogna che si dia molto alla lettura, perché da sé non può trarre alcun insegnamento. È quanto mai faticoso questo modo di procedere; e se il direttore spirituale costringe a sopprimere la lettura (che aiuta molto il raccoglimento di chi procede nel modo suddetto, anzi gli è necessario leggere, anche se poco, almeno al posto dell’orazione mentale che non può fare), se, dico, si è costretti a stare gran tempo in orazione senza questo aiuto, sarà impossibile rimanervi a lungo e, insistendo, se ne avrà danno alla salute, perché costa molta fatica.

9. Ora, mi pare di capire che fu il Signore a disporre che io non trovassi chi potesse darmi insegnamenti, perché [se mi avessero vietato l’aiuto del libro] credo che mi sarebbe stato impossibile durare diciotto anni in questo stato e in quest’aridità, per l’incapacità, come dico, di ragionare. In tutto questo tempo, a meno che non fosse dopo la comunione, io non osavo mai cominciare l’orazione senza un libro, giacché la mia anima temeva di farlo priva di tale aiuto, come se dovesse combattere contro molti nemici esterni. Con questo rimedio, che era come una compagnia o uno scudo in cui avrei ricevuto i colpi dei molti importuni pensieri, mi sentivo rincuorata, perché l’aridità non era il mio stato ordinario, ma sopravveniva sempre quando mi mancava un libro. Allora, l’anima restava subito sconvolta e i pensieri si disperdevano: con la lettura li raccoglievo di nuovo e mi sentivo l’anima come accarezzata. Spesso non c’era bisogno d’altro che di aprire il libro; a volte leggevo poco, a volte molto, secondo la grazia che il Signore mi faceva. A me sembrava, in quei primi tempi di cui parlo, che, avendo i libri e in certo modo la possibilità d’isolarmi, non ci sarebbe stata alcuna occasione pericolosa che potesse rimuovermi da tanto bene, e credo che, con l’aiuto di Dio, sarebbe stato così, se avessi avuto un maestro spirituale o altra persona che mi avesse insegnato a fuggire le occasioni sul nascere e mi avesse fatto uscire da esse al più presto, se vi fossi entrata. Mi sembrava infatti che, se allora il demonio mi avesse assalito apertamente, in nessun modo sarei tornata di nuovo a peccare. Ma egli fu tanto astuto e io così vile, che tutte le mie risoluzioni mi giovarono poco; moltissimo, invece, quando mi posi al servizio di Dio, per sopportare le terribili malattie che mi colpirono, con quella grande pazienza che Sua Maestà mi diede.

10. Molte volte, pensando, piena di ammirazione, alla infinita bontà di Dio, la mia anima si dilettava di vedere la sua magnificenza e misericordia. Sia egli sempre benedetto, avendo io costatato chiaramente che non tralascia di premiare, anche in questa vita, ogni mio buon desiderio. Per quanto meschine e imperfette fossero le mie opere, questo mio Signore le andava migliorando, perfezionando e avvalorando, e subito occultava colpe e peccati. Permette anche, Sua Maestà, che si accechino coloro che me li hanno visti commettere e glieli toglie dalla memoria; indora le colpe; fa risplendere una virtù che egli stesso pone in me, quasi costringendomi a mantenerla.

11. Ma voglio ritornare a quanto mi è stato comandato di scrivere, tanto più che, se volessi dire minutamente come il Signore agiva con me in quest’inizio, sarebbe necessaria un’intelligenza ben diversa dalla mia per esaltare ciò che gli devo a tale riguardo e mettere in evidenza la mia profonda indegnità e ingratitudine nell’averlo dimenticato completamente. Sia egli sempre benedetto per avermi tanto sopportata! Amen.

CAPITOLO 5

Prosegue nel parlare delle gravi malattie che ebbe, della pazienza che il Signore in esse le diede, e in che modo trasse dal male il bene, come si vedrà da un fatto che le accadde nel luogo dove si recò per curarsi.

1. Dimenticavo di dire che nell’anno del noviziato soffrii grandi inquietudini per cose in se stesse di poca importanza; ma è che, molte volte, venivo ripresa senza avere alcuna colpa. Io lo sopportavo a mala pena e con assoluta imperfezione, anche se la grande gioia di essere monaca finiva con il farmi sopportare tutto. siccome mi vedevano cercare la solitudine e talvolta piangere, a causa dei miei peccati, pensavano che si trattasse di scontentezza e se lo dicevano fra loro. Ero attaccata a tutte le pratiche religiose, ma non potevo soffrirne nessuna che comportasse disprezzo. Godevo di essere stimata, ero accurata in quel che facevo. Tutto mi sembrava virtù, anche se questo non mi servirà di discolpa, perché sapevo bene come cercare in tutto la mia soddisfazione, e poi l’ignoranza non annulla la colpa. Di qualche scusa mi può essere il fatto che il monastero non aveva basi di molta perfezione; io, da misera creatura, me ne andavo dove stava la mancanza e trascuravo ciò che v’era di buono.

2. Vi era, allora, una monaca affetta da una gravissima malattia assai dolorosa, perché si trattava di alcune fistole che le si erano aperte nel ventre a causa di un’ostruzione intestinale, attraverso le quali mandava fuori ciò che mangiava. Ne morì presto. Io vedevo tutte aver paura di quel male; a me destava grande invidia la sua pazienza e chiedevo a Dio che, se mi dava la stessa pazienza, mi mandasse pure tutte le malattie che volesse. Mi sembra che non ne temesse alcuna, essendo così disposta a guadagnare beni eterni, che ero decisa a conquistarmeli con qualunque mezzo. E ciò mi stupisce, non avendo ancora, a mio avviso, un amor di Dio quale mi sembra d’averlo avuto dopo che incominciai a praticare l’orazione, ma solo una luce che mi faceva apparire di poca stima tutto quanto finisce, e di molto pregio i beni che si possono guadagnare con il sacrificio di quanto ha fine, perché sono beni eterni. Anche in questo mi diede ascolto Sua Maestà, perché prima che fossero trascorsi due anni ero in tali condizioni che, sebbene non si trattasse di un male di quel genere, non credo che sia stata meno penosa e tormentosa la malattia da me sofferta per tre anni, come ora dirò.

3. Giunto il tempo d’iniziare la cura che stavo aspettando nel luogo dove, come ho detto, mi trovavo con mia sorella, mi condussero via di lì, con ogni riguardo e con tutte le comodità possibili, mio padre, mia sorella e quella monaca mia amica che era partita con me e che mi amava moltissimo. Qui il demonio cominciò a turbare la mia anima, anche se Dio seppe trarre da ciò molto bene. C’era un ecclesiastico che risiedeva in quel luogo dove andai a curarmi, di ottima condizione sociale e di grande intelligenza; era anche colto, se pur non eccedeva in cultura. Cominciai a confessarmi da lui, avendo sempre amato le lettere, anche se gran danno spirituale mi arrecarono i confessori semidotti in quanto non riuscivo ad averli mai di così buona istruzione come era mio desiderio. Ho visto per esperienza che è meglio, se si tratta di uomini virtuosi e di santi costumi, che non ne abbiano nessuna, anziché poca, perché in tal caso né essi si fidano di sé, ricorrendo a chi abbia una buona preparazione culturale, né io mi fido di loro. Un vero dotto non mi ha mai ingannato. Nemmeno gli altri credo che mi volessero ingannare, salvo che non ne sapevano di più. Io, invece, pensando che sapessero, ritenevo di non dover far altro che prestare loro fede, tanto più che mi davano consigli di una certa larghezza, cioè che indulgevano a una maggiore libertà; d’altronde, se mi avessero stretto un po’ i freni, io, miserabile qual sono, ne avrei cercato altri. Ciò che era peccato veniale mi dicevano che non era alcun peccato; ciò che era peccato gravissimo e mortale mi dicevano che era peccato veniale. Questo mi arrecò tanto danno che non è superfluo parlarne qui, per prevenire altre persone di così gran male; di fronte a Dio capisco che non mi serve di giustificazione, giacché era sufficiente che le cose di per sé non fossero buone perché dovessi guardarmene. Credo che a causa dei miei peccati Dio permise che essi s’ingannassero e ingannassero me. Io ingannai molte altre dicendo loro le stesse cose che erano state dette a me. Trascorsi in questa cecità credo più di diciassette anni, finché un padre domenicano molto dotto mi aprì gli occhi su molte cose, e i padri della Compagnia di Gesù mi disingannarono del tutto, riempiendomi di spavento con il rimproverarmi così cattivi inizi, come dirò in seguito.

4. Quando dunque cominciai a confessarmi dal suddetto ecclesiastico, egli mi si affezionò molto, perché allora, a partire da quando mi ero fatta suora, io avevo poco da confessare in confronto alle colpe che ebbi in seguito. La sua non era un’affezione sconveniente, ma per il fatto d’essere eccessiva, finiva con il non essere buona. Sapeva bene che non mi sarei indotta per nessun motivo a far nulla di grave contro Dio, e anch’egli mi assicurava lo stesso di sé e così discorrevamo parecchio. Ma allora, immersa in Dio come ero, ciò che mi faceva più piacere era parlare di cose a lui attinenti; e, poiché ero tanto giovane, il costatarlo riempiva di confusione il mio interlocutore il quale, per il grande affetto che lo legava a me, cominciò a rivelarmi la rovina della sua anima. E non era poca cosa, perché da quasi sette anni si trovava in una situazione assai pericolosa, avendo una relazione con una donna di quello stesso luogo; e ciò nonostante continuava a celebrare la Messa. Il fatto era ormai così noto che egli aveva perduto l’onore e la fama, ma nessuno osava redarguirlo. Io ne ebbi molta compassione, perché lo amavo molto, essendo allora questa la mia grande leggerezza e cecità, di ritenere virtù il serbarmi grata e fedele a chi mi amava. Sia maledetta tale fedeltà che si estende fino a far violare quella verso Dio! È una pazzia diffusa nel mondo che rese pazza anche me: dobbiamo a Dio tutto il bene che ci viene fatto e stimiamo virtù non rompere un’amicizia, anche se si tratta di andare contro di lui. Oh, cecità del mondo! Fosse a voi piaciuto, Signore, che io mi dimostrassi molto ingrata verso tutti, e non lo fossi stata minimamente contro di voi! Ma, per i miei peccati, è avvenuto proprio il contrario.

5. Cercai di sapere di più, informandomi meglio presso i suoi familiari; conobbi più a fondo la gravità del suo danno morale, ma vidi che il pover’uomo non aveva tanta colpa, perché quella donna sciagurata gli aveva fatto alcuni sortilegi mediante un piccolo idolo di rame, che gli aveva raccomandato di portare al collo per amor suo, e nessuno era riuscito a farglielo togliere. A dire il vero, io non credo a queste storie dei sortilegi, ma dico quello che ho visto per avvisare gli uomini di guardarsi dalle donne che cercano di adescarli in tal modo, e di esser convinti che, avendo esse perduto ogni pudore di fronte a Dio (mentre più degli uomini sono tenute a rispettarlo), non possono meritare la minima fiducia. Infatti non badano a nulla pur di conseguire il loro intento e assecondare quella passione che il demonio pone nel loro cuore. Benché io sia stata tanto miserabile, non sono mai caduta in alcuna colpa di tal genere né ho mai avuto l’intenzione di far del male né, anche se l’avessi potuto, avrei voluto forzare la volontà di qualcuno ad amarmi, perché da questo mi preservò il Signore; ma se mi avesse abbandonato avrei commesso anche riguardo a ciò il male che commettevo riguardo al resto, perché di me non c’è assolutamente da fidarsi.

6. Non appena seppi questo, dunque, cominciai a dimostrargli più amore. La mia intenzione era buona, ma non il mezzo di cui mi servivo; nell’intento di fare il bene, infatti, per quanto grande fosse, non dovevo lasciarmi andare neanche al minimo male. Di solito gli parlavo di Dio; questo doveva giovargli, ma credo che più utile allo scopo fu il fatto che egli mi amasse molto. Per farmi piacere, invero, si decise a darmi l’idoletto, che io feci gettare subito nel fiume. Appena se ne fu liberato, cominciò – come chi si svegli da un lungo sonno – a ricordarsi a poco a poco di tutto quello che aveva fatto in quegli anni e, spaventato di se stesso, dolendosi della sua perdizione, finì con il detestarla. Nostra Signora dovette aiutarlo molto, perché era molto devoto della sua concezione, la cui ricorrenza era da lui celebrata solennemente. Infine, cessò del tutto di vedere quella donna, e non si stancava di render grazie a Dio per averlo illuminato. Morì allo scadere esatto di un anno dal giorno in cui l’avevo conosciuto. Si era adoperato già molto nel servire Dio, perché nel suo affetto per me non scorsi mai nulla di male, quantunque potesse essere forse più puro, ma ebbe anche tali occasioni che, se non avesse tenuto ben presente Dio, l’avrebbe offeso molto gravemente. Come ho già detto, quello ch’io capivo essere peccato mortale, non l’avrei fatto davvero, e ritengo che la costatazione di questa mia fermezza abbia contribuito al suo amore per me. Credo, infatti, che tutti gli uomini preferiscano le donne che vedono inclini alla virtù, e anche per quel che riguarda l’affezione terrena, credo che le donne ottengano da essi di più con questo mezzo, come dirò in seguito. Sono sicura che egli si sia salvato. Morì serenamente e del tutto fuori di quella situazione; sembra che il Signore l’abbia voluto salvare con questo mezzo.

7. Rimasi in quel luogo tre mesi, con grandissime sofferenze, perché la cura fu più forte di quel che consentisse la mia costituzione fisica. Dopo due mesi, a forza di medicine, ero ridotta quasi in fin di vita, e il mal di cuore ch’ero andata a curarmi era molto più forte, tanto che a volte mi sembrava che me lo dilaniassero con denti aguzzi, e si temé che si trattasse di rabbia. A causa della estrema mancanza di forza (non potendo, per la gran nausea, cibarmi di nulla che non fosse liquido), della febbre che non subiva interruzione, spossata oltre ogni dire, perché mi avevano dato una purga ogni giorno quasi per la durata di un mese, ero così consumata che mi si cominciarono a rattrappire i nervi, con dolori talmente intollerabili che non potevo aver riposo né giorno né notte e in più avevo una tristezza molto profonda.

8. Di fronte a questo bel guadagno, mio padre mi ricondusse a casa, dove tornarono a visitarmi i medici. Tutti mi diedero per spacciata perché dicevano che, oltre a tutto il resto, ero anche tisica. Di ciò m’importava poco; i dolori erano il mio tormento, perché li avevo in tutto il corpo, dalla testa ai piedi; quelli dei nervi sono intollerabili, a detta dei medici, e siccome i miei nervi si rattrappivano tutti, certamente – se io non ne avessi perduto il merito per colpa mia – sarebbe stato un duro ma meritorio tormento. Rimasi in questo grave stato circa tre mesi, durante i quali mi pareva impossibile che si potessero sopportare tanti mali insieme. Ora me ne stupisco e ritengo come una somma grazia del Signore la pazienza che egli mi diede, perché si vedeva chiaramente che mi veniva da lui. Mi giovò molto in questo l’aver cominciato a far orazione e l’aver letto la storia di Giobbe nei Moralia di san Gregorio, con la quale il Signore volle forse prevenirmi, affinché io potessi sopportare tutto con rassegnazione. Il mio colloquio era sempre con lui; pensavo spesso, ripetendole, a queste parole di Giobbe: Se abbiamo ricevuto i beni dalla mano del Signore, perché non ne accetteremo anche i mali?. E mi sembrava che mi dessero coraggio.

9. Giunse la festa della Madonna di agosto; il mio tormento durava dall’aprile ed era stato assai maggiore negli ultimi tre mesi. Sollecitai la confessione, perché amavo sempre molto confessarmi spesso. Pensarono che tale richiesta fosse dovuta alla paura di morire e mio padre non mi lasciò confessare per non darmi altro dolore. Oh, esagerato amore della carne che, quantunque si trattasse dell’amore di un padre cattolico fervente – lo era infatti molto, e la sua non certo ignoranza –, avrebbe potuto arrecarmi un grave danno! Quella notte ebbi una crisi che mi fece restare fuori dei sensi quattro giorni o poco meno. In questo frattempo, mi amministrarono il sacramento dell’unzione e, pensando che spirassi da un momento all’altro, non facevano che indurmi a recitare il Credo, come se io potessi capire qualcosa. A volte, dovettero ritenermi proprio morta, tanto che dopo mi trovai perfino la cera sugli occhi.

10. Il dolore di mio padre per non avermi fatto confessare era grande; molte le sue lacrime e le sue preghiere. Benedetto sia colui che si degnò di ascoltarle! Quando già da un giorno e mezzo, infatti, nel monastero era aperta la mia sepoltura in attesa della salma, e in un convento dei nostri frati fuori di città era stato celebrato l’ufficio dei defunti, il Signore si compiacque di farmi riprendere conoscenza. Volli subito confessarmi e mi comunicai con molte lacrime; esse, però, a mio giudizio, non provenivano solo dal dolore e dal pentimento di avere offeso Dio, il che sarebbe bastato a salvarmi, se non bastava il fatto di essere stata tratta in inganno da coloro che mi avevano detto come alcune colpe non fossero peccati mortali, mentre poi ho visto con certezza che lo erano. Continuavo infatti ad avere dolori insostenibili, tanto da perdere spesso la conoscenza, anche se credo di aver fatto una confessione completa, accusandomi di tutto ciò in cui capivo d’aver offeso Dio, giacché Sua Maestà, fra le altre grazie, mi ha concesso anche quella di non aver mai tralasciato di confessare, dopo la mia prima comunione, alcuna cosa che credessi peccato, sia pure veniale. Ma, senza dubbio, la mia salvezza sarebbe stata molto in pericolo, se fossi morta allora, sia per il fatto che i confessori erano ben poco istruiti, sia perché io ero una miserabile, sia per molte altre ragioni.

11. È la pura verità se dico che, giunta a questo punto e considerando come il Signore mi abbia quasi risuscitata, mi sembra d’essere così sbigottita da stare quasi tremando dentro di me. Mi pare che sarebbe stato bene, anima mia, che tu considerassi il pericolo da cui il Signore ti aveva liberato, e se l’amore non bastava a farti cessare di offenderlo, avresti almeno dovuto farlo per timore, potendo egli mille altre volte darti la morte in occasioni più pericolose. Credo di non esagerare molto nel dire «mille altre volte» anche se chi mi ha imposto di essere moderata nel parlare dei miei peccati, debba rimproverarmene: sono già abbastanza abbelliti. Io lo prego per amore di Dio di non togliere nulla di quanto riguarda le mie colpe, poiché in esse si vedono di più la magnificenza di Dio e la sua pazienza verso un’anima. Sia egli per sempre benedetto! Piaccia a Sua Maestà che io muoia piuttosto che cessare mai d’amarlo!

CAPITOLO 6

Ove si dice quanto Teresa fu debitrice al Signore per averle dato la rassegnazione nelle sue grandi sofferenze, come ella prese per mediatore e avvocato il glorioso san Giuseppe e quanto ciò le giovò.

1. Dopo quei quattro giorni di crisi, rimasi in tale stato che solo il Signore può conoscere gli insostenibili tormenti di cui soffrivo: mi sentivo la lingua a pezzi a furia di mordermela, la gola chiusa da soffocarmi per non aver inghiottito nulla e per la grande debolezza, così che neanche l’acqua poteva passarvi; mi pareva di essere tutta slogata, con un grandissimo stordimento; tutta rattrappita, diventata come un gomitolo – perché tale fu il risultato del tormento di quei giorni –, senza poter muovere, se non mi aiutavano gli altri, né piede, né mano, né testa, neanche fossi stata morta; mi pare che potessi muovere solo un dito della mano destra. Per di più non si sapeva come aiutarmi perché tutto il corpo mi doleva tanto da non poter sopportare d’essere toccata. Se mi dovevano spostare, mi muovevano in due persone, dentro un lenzuolo, l’una da capo e l’altra da piedi. Rimasi n questo stato fino alla Pasqua di risurrezione. C’era di buono solo il fatto che, quando mi lasciavano in pace, spesso i dolori cessavano, e quel po’ di riposo bastava per farmi credere di star bene, temendo che mi dovesse venir meno la pazienza. Perciò fui molto felice quando mi sentii libera da così acuti e continui dolori, anche se i brividi di freddo della quartana doppia, che mi perdurava fortissima, erano insopportabili. Avevo, inoltre, una grandissima nausea.

2. Sollecitai subito con tanta insistenza il mio ritorno al monastero, che fui ricondotta lì. Così accolsero viva colei che aspettavano morta, ma il corpo era peggio che morto, da far pena a vederlo. Indicibile il punto di magrezza a cui ero giunta: non mi erano rimaste che le ossa. Durai in questo stato più di otto mesi; il rattrappimento, anche se andava migliorando, continuò per quasi tre anni. Sopportai tutto con grande rassegnazione e, tranne nei primi tempi, con grande gioia, perché ogni cosa mi sembrava un nonnulla, paragonata ai dolori e ai tormenti sofferti prima; ero molto rassegnata al volere di Dio, anche se avesse dovuto lasciarmi sempre in quello stato. Mi sembra che tutta la mia ansia di guarire fosse dovuta al desiderio di stare da sola in orazione, com’era mia abitudine, cosa che in infermeria non potevo fare. Mi confessavo assai spesso. Parlavo molto di Dio, così che tutte ne restavano edificate e si stupivano della pazienza che il Signore mi concedeva, giacché sembrava impossibile, senza l’aiuto di Sua Maestà, che io potessi sopportare tanto male con tanta gioia.

3. Gran cosa fu l’avermi egli dato la grazia dell’orazione, con la quale mi faceva capire in cosa consistesse l’amarlo. In quel breve periodo di tempo vidi nascere in me nuove virtù (sebbene non così forti da esser sufficienti a farmi sempre operare con rettitudine), come il non parlar male di nessuno, nemmeno in cose di poco conto, evitando di regola ogni mormorazione e tenendo ben presente che non dovevo volere né dire di altri quello che non volevo si dicesse di me. Rispettavo questa norma con somma cura, in qualunque occasione mi trovassi, benché non in modo così perfetto che alcune volte, quando si trattava di un’occasione superiore alle mie forze, non trasgredissi il mio proposito; ma di solito era così. E convinsi tanto di ciò quelle che stavano o trattavano con me, che ne contrassero anch’esse l’abitudine. Si capiva che dove ero io le spalle stavano al sicuro. Della stessa stima godevano le persone con le quali io avevo amicizia o vincolo di parentela o alle quali insegnavo; ciò nonostante, in altre cose devo rendere ben conto a Dio del cattivo esempio che davo. Sia compiaccia Sua Maestà di perdonarmi, per essere stata causa di tanti mali, anche se l’intenzione non era così cattiva come poi apparivano le opere.

4. Rimasi desiderosa di solitudine, amante di trattare e parlare di Dio e, se trovavo con chi farlo, ciò mi dava più gioia e distrazione che tutta la squisitezza – o, per meglio dire, la grossolanità – delle conversazioni mondane. Mi comunicavo e confessavo molto più spesso e desideravo farlo. Ero appassionata alla lettura di buoni libri e provavo un così profondo pentimento di aver offeso Dio, che molte volte non osavo – ricordo – fare l’orazione, perché temevo come un gran castigo l’enorme pena che avrei provato per averlo offeso. Questa pena andò poi crescendo fino a tal punto che non saprei a quale tormento paragonarla; e non era dovuta né poco né molto al timore, mai, ma all’impossibilità di sopportare il pensiero della mia ingratitudine, non appena ricordavo le grazie che il Signore mi faceva nell’orazione e vedevo quanto male lo ripagavo. M’irritavano le molte lacrime che versavo per le mie colpe, considerando la scarsa ammenda che ne facevo, se non bastavano né propositi, né la sofferenza in cui mi vedevo a non farmi ricadere, non appena se ne presentasse l’occasione: mi sembravano lacrime mendaci e mi sembrava che, cosciente di quanta grazia mi faceva il Signore nell’accordarmele, procurandomi un così profondo pentimento, la colpa, dopo, fosse più grave. Cercavo però subito di confessarmi e così, a mio giudizio, facevo da parte mia quello che potevo per ritornare in grazia. Tutto il danno stava nel fatto di non evitare radicalmente le occasioni e nello scarso aiuto che mi davano i confessori; se, invece, mi avessero prospettato il pericolo che correvo e l’obbligo che avevo di non continuare in quelle relazioni, senza dubbio, credo, mi sarei salvata, perché in nessun modo avrei potuto sopportare d’incorrere in peccato mortale solo un giorno, se ne fossi stata consapevole. Tutti questi segni del timore di Dio mi vennero dall’orazione, e per la maggior parte erano intessuti d’amore, perché non mi si presentava mai il pensiero del castigo. Tutto il tempo in cui fui ammalata ebbi gran cura della mia coscienza, quanto ai peccati mortali. Oh, mio Dio, desideravo tanto la salute per meglio servirvi, ed essa, invece, fu la causa di ogni mio male!

5. Nel vedermi, dunque, tutta rattrappita e in così giovane età, e nel vedere in che stato mi avevano ridotto i medici della terra, decisi di ricorrere a quelli del cielo perché mi guarissero, desiderando ancora la salute, anche se tiravo avanti con molta allegria. Pensavo talvolta che se, stando bene, mi dovevo dannare, era meglio che restassi così; tuttavia, pensavo anche che con la salute avrei potuto servire meglio Dio. Questo è il nostro errore, non abbandonarci totalmente nelle mani del Signore, il quale sa meglio di noi quanto ci conviene.

6. Cominciai a far celebrare Messe e a recitare orazioni approvate [dalla Chiesa], giacché non sono mai stata amante di certe devozioni praticate da alcune donne – con cerimonie che io non ho mai potuto soffrire e che a loro ispiravano religioso rispetto (in seguito si è capito che non erano convenienti perché superstiziose) – e presi per avvocato e patrono il glorioso san Giuseppe, raccomandandomi molto a lui. Vidi chiaramente che questo mio padre e patrono mi trasse fuori sia da quella situazione, sia da altre più gravi in cui erano in gioco il mio onore e la salvezza dell’anima mia, meglio di quanto io non sapessi chiedergli. Finora non mi ricordo di averlo mai pregato di un favore che egli non mi abbia concesso. È cosa che riempie di stupore pensare alle straordinarie grazie elargitemi da Dio e ai pericoli da cui mi ha liberato, sia materiali sia spirituali, per l’intercessione di questo santo benedetto. Mentre ad altri santi sembra che il Signore abbia concesso di soccorrerci in una singola necessità, ho sperimentato che il glorioso san Giuseppe ci soccorre in tutte. Pertanto, il Signore vuol farci capire che allo stesso modo in cui fu a lui soggetto in terra – dove san Giuseppe, che gli faceva le veci di padre, avendone la custodia, poteva dargli ordini – anche in cielo fa quanto gli chiede. Lo hanno costatato alla prova dei fatti anche altre persone, alle quali io dicevo di raccomandarsi a lui, e ce ne sono ora molte ad essergli diventate devote, per aver sperimentato questa verità.

7. Cercavo di celebrarne la festa con tutta la solennità possibile, piena di vanità più che di spirito di devozione, perché volevo che si facesse tutto alla perfezione, con molta ricercatezza, pur essendo animata da buona intenzione. Era proprio questo il mio male: che quando il Signore mi faceva la grazia di poter compiere qualcosa di buono, lo riempivo di imperfezioni e di molti errori; invece, per il male, le ricercatezze e le vanità, mi adoperavo con ogni ingegnosa cura e diligenza. Il Signore mi perdoni. Vorrei persuadere tutti ad essere devoti di questo glorioso santo, per la grande esperienza dei beni che egli ottiene da Dio. Non ho conosciuto persona che gli sia sinceramente devota e gli renda particolari servigi, senza vederla più avvantaggiata nella virtù, perché egli aiuta molto le anime che a lui si raccomandano. Già da alcuni anni, mi pare, nel giorno della sua festa io gli chiedo sempre qualcosa e sempre mi vedo esaudita. Se la mia richiesta esce un po’ dalla retta via, egli la raddrizza per il mio maggior bene.

8. Se avessi autorità di scrittrice mi dilungherei a raccontare molto minuziosamente le grazie che questo glorioso santo ha fatto a me e ad altre persone, ma per non oltrepassare i limiti che mi sono stati imposti, in molte cose sarò più breve di quanto vorrei, in altre più lunga del necessario; agirò, insomma, come chi ha poca discrezione in tutto ciò che è bene. Solo chiedo, per amor di Dio, che ne faccia la prova chi non mi credesse, e vedrà per esperienza di quale giovamento sia raccomandarsi a questo glorioso patriarca ed essergli devoti. Dovrebbero amarlo specialmente le persone che attendono all’orazione, giacché non so come si possa pensare alla Regina degli angeli nel tempo in cui tanto soffrì con Gesù Bambino, senza ringraziare san Giuseppe per essere stato loro di grande aiuto. Chi non dovesse trovare un maestro che gli insegni l’orazione, prenda questo glorioso santo per guida e non sbaglierà nel cammino. Piaccia a Dio che io non abbia sbagliato nell’arrischiarmi a parlarne perché, anche se mi professo a lui devota, nel modo di servirlo e di imitarlo ho sempre mancato. È stato lui a fare sì che io potessi alzarmi e camminare, e non essere più rattrappita; io, invece, da quella che sono, lo ricambiai con l’usar male di questa grazia.

9. Chi avrebbe detto che sarei ritornata così presto a cadere, dopo tante grazie di Dio, dopo che Sua Maestà aveva cominciato a darmi virtù tali che per se stesse m’incitavano a servirlo, dopo essermi vista quasi morta e in così gran pericolo di dannarmi, dopo essere risuscitata anima e corpo, con grande meraviglia di tutti coloro che mi vedevano viva? Che è ciò, Signor mio? Dobbiamo vivere una vita così piena di pericoli? Mentre scrivo questo, mi sembra che con il vostro aiuto e per vostra misericordia potrei dire, anche se non con la stessa perfezione, ciò che ha detto san Paolo: Non sono più io che vivo, ma voi, mio Creatore, che vivete in me, per il fatto che da alcuni anni, a quanto mi è dato d’intendere, voi mi reggete con la vostra mano, sì ch’io vedo dai desideri e propositi, di cui in qualche modo in questi anni ho dato prova, attuandoli in molte circostanze, di non far nulla contro la vostra volontà, neppure la minima cosa. Certo, credo di arrecare ugualmente molte offese a Vostra Maestà senza rendermene conto. Credo anche, però, di essere risolutamente decisa a non trascurare nulla di quanto mi si presenti di fare per amor vostro, e in alcune circostanze voi mi avete aiutato a riuscirvi. Non amo il mondo né cosa alcuna che gli appartenga, né credo che mi allieti nulla che non venga da voi; il resto mi appare, anzi, come una pesante croce. È vero che mi posso ingannare, e forse non ho i sentimenti che ho detto; ma voi certo vedete, mio Signore, che a me non sembra di mentire e temo – con tutta ragione – che non abbiate di nuovo ad abbandonarmi, perché ormai so fin dove arrivino la mia debole forza e la mia scarsa virtù se voi non continuate sempre a darmela aiutandomi a non lasciarvi. Piaccia a Vostra Maestà di non abbandonarmi neanche adesso in cui mi sembra rispondere al vero quanto ho detto di me. Non so come si desideri vivere, essendo tutto così incerto. Mi pareva ormai impossibile abbandonarvi interamente, mio Signore; ma, poiché tante volte vi ho abbandonato, non posso cessar di temere, ben sapendo che non appena vi allontanavate un poco da me, stramazzavo a terra. Siate benedetto per sempre, anche se io vi abbandonavo, voi non mi lasciaste mai così totalmente che io non tornassi a rialzarmi, con l’aiuto della vostra mano. E spesso, Signore, io non la volevo, né volevo capire che molte volte voi mi chiamavate di nuovo, come ora dirò.

CAPITOLO 7

Racconta in che modo andò perdendo le grazie che il Signore le aveva fatto e quale vita dissipata cominciò a condurre. Parla dei danni che derivano dalla mancanza di una stretta clausura nei monasteri di religiose.

1. Così, dunque, di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a espormi a tali tentazioni e ad avere l’anima così guasta da tante vanità, che mi vergognavo di tornare ad avvicinarmi a Dio, con quella particolare amicizia, che è data dall’orazione; a questo contribuì il fatto che, aumentando i peccati, cominciò a mancarmi il gusto e il piacere delle pratiche di virtù. Io vedevo molto bene, o Signore, che ciò mi veniva a mancare, perché io mancavo a voi. Fu questo, appunto, il più terribile inganno che il demonio poteva tramarmi sotto l’apparenza dell’umiltà: cominciai a temere di fare orazione, vedendomi senza alcuna speranza di salvezza. Mi sembrava meglio seguire i molti, poiché quanto a essere spregevole, ero tra le peggiori creature, e recitare le preghiere d’obbligo vocalmente, piuttosto che darmi alla pratica dell’orazione mentale ed avere tanta familiarità con Dio, io che meritavo di stare con i demoni e che ingannavo la gente, perché esteriormente mantenevo buone apparenze. Di questo non si può incolpare la casa in cui stavo, perché con la mia astuzia mi adoperavo a godere di una buona opinione, pur non fingendo consapevolmente spirito cristiano, perché in materia d’ipocrisia e vanagloria, grazie a Dio, non ricordo di averlo mai offeso, per quanto io sappia; al primo impulso di farlo, provavo tanto dolore che il demonio se ne andava sconfitto e io restavo con la vittoria. Perciò a questo riguardo mi ha tentato sempre ben poco. Ma se, per caso, Dio avesse permesso che mi tentasse in ciò così fortemente come in altre cose, anche qui sarei caduta; Sua Maestà, però, finora mi ha preservato da questo (sia per sempre benedetto), anzi mi affliggeva molto godere di una buona opinione, conoscendo l’intimo dell’animo mio.

2. Il fatto di non essere considerata tanto miserabile dipendeva dal vedere che, pur essendo così giovane e fra tante occasioni, mi ritiravo spesso in solitudine a pregare e a leggere molto, che parlavo di Dio, che amavo far dipingere la sua immagine in molti luoghi, avere un oratorio e provvederlo di ciò che potesse ispirare devozione, che non mormoravo, e altre cose del genere, tutte con l’apparenza di virtù. Io poi, vana com’ero, sapevo dare importanza a quelle esteriorità che il mondo suole tenere in pregio, e per questo mi concedevano maggiore e più ampia libertà che non alle suore più anziane, e riponevano grande fiducia in me! Infatti, non credo che sarei mai giunta ad abusare di questa libertà e a far nulla che non fosse permesso, come parlare nel monastero attraverso fori o pareti, o di notte, né lo feci mai, perché il Signore mi sostenne con la sua mano. A me, che consideravo attentamente e seriamente molte cose, sembrava assai mal fatto il mettere a rischio per la mia cattiveria l’onore di tante religiose le quali, invece, erano buone, come se fosse ben fatto il resto che facevo! A dire il vero, però, il male inerente a questa ultima riflessione non era così grave come il male di cui ho parlato prima, benché fosse anch’esso grave.

3. Credo, pertanto, che mi fu di gran danno non stare in un monastero di clausura, perché la libertà di cui le buone religiose potevano godere tranquillamente (non erano tenute a privarsene, non essendovi l’impegno della clausura), per me, che sono vile, sarebbe stata certamente causa di finire all’inferno, se il Signore, con tanti mezzi d’aiuto, con tante sue specialissime grazie, non mi avesse tratto fuori da questo pericolo. E così mi sembra che un monastero di donne senza clausura rappresenti un grandissimo pericolo in quanto, nei confronti di quelle desiderose d’una vita rilassata, è piuttosto la strada per andare all’inferno che un rimedio per la loro debolezza. Questo non si pensi di riferirlo al mio monastero, perché in esso sono tante le religiose che servono con profonda sincerità e con assoluta perfezione il Signore che Sua Maestà, nella sua infinita bontà, non può tralasciare di aiutarle; e poi non è dei più liberi e vi si osserva compiutamente la Regola; quanto ho detto si riferisce ad altri che io conosco e ho visto.

4. Mi fa proprio una gran pena che il Signore abbia bisogno di ricorrere a particolari richiami – e non una volta, ma molte – perché quelle monache si salvino, tenuto conto di come sono autorizzati in tali monasteri gli onori e le distrazioni mondane e di quanto siano male intesi i loro obblighi. Piaccia a Dio che non reputino virtù ciò che è peccato, come molte volte facevo io; è, infatti, tanto difficile per loro capirlo, che ci vuole proprio la mano del Signore. Se i genitori accettassero il mio consiglio, direi ad essi che, non volendo badare a collocare le proprie figlie dove sia loro aperta la strada della salvezza, ma dove trovano più pericolo che nel mondo, badino almeno al loro onore e preferiscano maritarle molto umilmente che metterle in simili monasteri, a meno che abbiano assai buone propensioni, e piaccia a Dio che ne traggano vantaggio; oppure se le tengano in casa ove, se vogliono comportarsi male, la cosa non potrà restare nascosta se non poco tempo, e invece lì molto di più, finché il Signore non scopre ogni cosa; e allora non danneggiano solo se stesse, ma tutte. A volte quelle poverette non hanno nessuna colpa, perché seguono la strada che si trovano aperta davanti. Fa pena anzi, che molte, volendo appartarsi dal mondo e pensando di andare a servire il Signore e di allontanarsi da ogni pericolo, si trovino in mezzo a dieci mondi, senza sapere come difendersi né premunirsi, poiché la giovane età, la sensualità e il demonio le invitano e le inducono a far cose che sono proprie del mondo, in quanto vedono che lì tali cose sono stimate buone, per così dire. Mi sembra di poterle paragonare in parte ai disgraziati eretici, che si accecano volontariamente, facendo credere di seguire la via giusta e di esserne convinti, senza peraltro esserlo, perché nell’intimo una voce dice loro che è errata.

5. Oh, che enorme disgrazia, che enorme disgrazia è quella degli ordini religiosi – sia di uomini sia di donne – dove non si osserva la Regola, dove, in uno stesso monastero si seguono due strade: una di virtù e di religione, l’altra di rilassamento, e tutt’e due quasi ugualmente battute. Anzi, ho detto male ugualmente, perché per i nostri peccati è più battuta quella più imperfetta la quale, essendo più larga, è preferita. Quella della vera religione è così poco praticata che il frate o la suora che devono cominciare a seguire con impegno la loro vocazione hanno più da temere dai propri familiari che da tutti i demoni e devono avere più cautela e dissimulazione nel parlare dell’amicizia che desiderano stabilire con Dio, che non di altre amicizie e di altri desideri che il demonio introduce nei monasteri. Io non so perché ci meravigliamo che ci siano tanti mali nella Chiesa, quando coloro che dovevano essere i modelli da cui tutti imparassero virtù hanno così profondamente cancellata l’impronta lasciata dallo spirito dei santi negli ordini religiosi. Piaccia alla divina Maestà di porvi il rimedio che vede necessario! Amen.

6. Quando, dunque, incominciai a intrattenermi in queste conversazioni (non credendo – visto che esse erano in uso – che doveva venirmene all’anima il danno e la distrazione che poi capii dovuti ad esse, e sembrandomi che un’abitudine così comune come era, in molti monasteri, quella delle visite non avrebbe fatto più male a me che alle altre che pur vedevo buone, ma non consideravo che erano molto migliori di me e che quanto per me era un pericolo, per altre lo era assai meno, sebbene un po’ credo che lo fosse, se non altro per il tempo male speso), mentre stavo con una persona appena conosciuta, il Signore volle farmi capire che quelle amicizie non mi giovavano e volle ammonirmi e illuminarmi nella mia grande cecità. Mi si presentò davanti Cristo con un aspetto molto severo, facendomi conoscere quanto fosse addolorato di ciò. Lo vidi con gli occhi dell’anima più chiaramente di come potessi vederlo con quelli del corpo, e la sua immagine mi rimase così impressa che, pur essendo trascorsi da questa visione più di ventisei anni, mi sembra di averla ancora presente. Rimasi assai spaventata e turbata, tanto da non voler più vedere la persona con cui stavo parlando.

7. Mi fu di gran danno non sapere che si potesse vedere anche senza gli occhi del corpo e il demonio, confermandomi in questa opinione, mi fece credere che era impossibile, che era un’illusione, e che poteva essere opera di satana, e altre cose del genere, sebbene, in fondo, mi restasse l’impressione che fosse opera di Dio e non un inganno. Siccome, però, questo non mi garbava, cercavo di smentire me stessa. Così io, poiché non osavo parlarne con nessuno e in seguito fui di nuovo molto importunata a questo riguardo, ricevendo l’assicurazione che non c’era alcun male nel vedere quella tale persona, che non ci rimettevo l’onore, anzi lo guadagnavo, tornai alla stessa conversazione di prima e ne praticai anche altre, dopo questa, essendo stati molti gli anni in cui mi prendevo questa ricreazione pestilenziale che, peraltro – standoci dentro – non mi pareva così cattiva com’era, anche se a volte vedevo chiaramente che non era buona; ma nessuna mi procurò tanto sviamento come questa che ho detto, perché vi ero molto attaccata.

8. Un’altra volta, mentre stavo con la stessa persona vedemmo venire verso di noi – e lo videro anche gli altri lì presenti – un qualcosa simile a un grosso rospo, ma assai più agile nel muoversi di quanto non lo siano i rospi. Non riesco a capire come in pieno giorno potessero trovarsi siffatti schifosi animali nel luogo da cui veniva, né se n’erano mai visti, e l’impressione che mi fece mi pare andasse oltre un orrore naturale; nemmeno di questo potei più dimenticarmi. Oh, grandezza di Dio, con quanta sollecitudine e con quanta bontà cercavate di avvisarmi in tutti i modi, e quanto poco seppi approfittarne!

9. Vi era lì una monaca, mia parente, anziana, gran serva di Dio e di molta pietà. Anche lei talvolta mi ammoniva, e io non solo non l’ascoltavo, ma m’inquietavo con lei che mi sembrava scandalizzarsi senza ragione. Ho detto questo perché si conoscano la mia perversità, la grande bontà di Dio, e quanto meritassi l’inferno per così estrema ingratitudine; e anche perché, se piacerà al Signore che qualche monaca legga mai il mio scritto, tragga insegnamento dal mio esempio; io la scongiuro, per amore di nostro Signore, di fuggire da tali ricreazioni. Piaccia a Sua Maestà che io possa disingannare qualcuna delle molte che ho ingannato, dicendo loro che ciò non era male e rassicurandole, in così grande pericolo, per la mia cecità, non perché avessi intenzione di ingannarle; pertanto, per il cattivo esempio che diedi, fui – come ho detto – causa di molti mali, senza che me ne rendessi conto.

10. Nei primi giorni della mia malattia, prima che sapessi giovare a me stessa, avevo un grandissimo desiderio di giovare agli altri; tentazione molto comune nei principianti e che a me riuscì bene. Siccome amavo molto mio padre, desideravo, per il bene che a me sembrava di avere con l’attendere all’orazione – bene maggiore del quale non ritenevo che in questa vita potesse essercene alcuno –, che ne godesse anche lui. Pertanto, con rigiri, come meglio potei, cominciai a fare in modo che la praticasse. A questo scopo gli diedi alcuni libri. Essendo egli, come ho detto, tanto virtuoso, questa pratica gli fu così congeniale che in cinque o sei anni, mi pare, aveva fatto tali progressi che io ne lodavo molto il Signore e ne avevo grandissima consolazione. Furono molte le prove d’ogni genere ch’ebbe a soffrire; le sopportava tutte con perfetta rassegnazione; veniva spesso a vedermi, perché trovava conforto nel parlare delle cose di Dio.

11. Ormai, però, da tempo io mi ero così rovinata da non praticare più l’orazione e, vedendo ch’egli pensava che io ero quella di sempre, non potei resistere a non trarlo d’inganno. Infatti, da oltre un anno non facevo più orazione, sembrandomi maggiore umiltà. E questa, come dirò in seguito, fu la più grande tentazione che io ebbi a sostenere, tanto che a causa di essa avrei finito col perdermi del tutto poiché se, nonostante l’orazione, un giorno offendevo Dio, in altri, con il suo aiuto, tornavo a raccogliermi e ad allontanarmi dall’occasione. Siccome quel benedetto uomo di mio padre veniva con l’idea di prima, mi era duro vederlo inganno a tal punto da pensare che trattassi con Dio come di solito, e gli dissi che io non facevo più orazione, anche se gliene tacqui la causa. Addussi come motivo di impedimento le mie malattie; benché, infatti, fossi guarita da quella più grave, fino ad oggi ne ho sempre avute e ne ho ancora di ben gravi e quantunque da poco tempo non mi attacchino più con tanta violenza, pure non mi danno tregua in nessun modo. Per esempio, ho avuto per vent’anni il vomito al mattino, tanto che mi accadeva di non poter fare colazione se non dopo mezzogiorno e a volte anche più tardi. Da quando, poi, ricevo più spesso la comunione, il vomito mi viene la sera, prima di andare a letto, con molta maggior sofferenza, perché devo provocarlo io stessa con penne o altre cose del genere; se tralascio di farlo, sto molto male, e quasi mai, mi sembra, sono esente da molti dolori, a volte assai gravi, specialmente di cuore, anche se il male, prima molto frequente, ora mi viene solo di tanto in tanto. Dei forti attacchi di paralisi, delle febbri e di altre infermità che ero solita avere spesso, sono guarita da otto anni. Ma a questi mali do così poca importanza, che molte volte perfino me ne rallegro, sembrandomi così di offrire qualcosa al Signore.

12. Mio padre credette, dunque, che questa fosse veramente la causa, perché egli non diceva mai bugie e mai avrei dovuto dirne io, coerente a quello di cui parlavo con lui. Aggiunsi, perché se ne convincesse meglio (ben comprendendo che a quel riguardo non esisteva discolpa) che era già molto se riuscivo ad attendere al coro, anche se nemmeno questo fosse motivo sufficiente per trascurare una pratica che non richiede forze fisiche, ma solo amore e abitudine. E il Signore ci dà sempre l’occasione favorevole per compierla, se lo vogliamo. Dico «sempre» perché, sebbene per determinate circostanze o anche infermità talvolta ci venga impedito di stare a lungo in solitudine, non mancano di esserci altri momenti in cui la salute ci permette di attendervi, senza dire che nella stessa malattia o in speciali avverse circostanze sta la vera orazione, se si tratta di anima amante, nell’offerta cioè a Dio di quella sofferenza, pensando per chi si soffre, conformandosi alla sua volontà con mille altre considerazioni del caso. In tal modo, l’anima fa esercizio d’amore, perché non bisogna praticarla necessariamente solo quando si disponga di tempo e di solitudine, né pensare che diversamente non possa esservi orazione. Con un po’ di attenzione, se ne può ricavare molto bene anche se il Signore con sofferenze di vario genere ci toglie il tempo di attendere all’orazione. Infatti, io ci ero riuscita quando avevo la coscienza pura.

13. Mio padre, però, per la stima che aveva di me e l’amore che mi portava, mi credette in pieno, anzi mi compassionò. Ma, avendo ormai raggiunto un ben alto grado di orazione, in seguito non si tratteneva più tanto con me e, dopo avermi vista, se ne andava dicendo che restare era una perdita di tempo, mentre io, pur sprecandone tanto in vanità, non me ne davo pensiero. Non fu soltanto lui, ma varie altre persone quelle che avviai nel cammino dell’orazione. Pur nel tempo in cui andavo dietro a queste vanità, non appena vedevo qualcuno portato alla preghiera, gli insegnavo il modo di meditare, lo aiutavo a fare progressi e lo provvedevo di libri, perché – come ho detto – avevo questo desiderio che altri servissero Dio, da quando cominciai a praticare l’orazione. Mi sembrava che, non servendo io il Signore come ben intendevo doversi fare, dovevo procurare che non andasse a vuoto ciò che Sua Maestà mi aveva fatto conoscere, in modo che altri lo servissero per me. Dico questo affinché si veda la mia grande cecità: lasciavo andare alla perdizione me stessa e procuravo che altri migliorassero.

14. In quel tempo mio padre fu colpito dalla malattia che lo condusse alla tomba e che durò alcuni giorni. Andai ad assisterlo, pur essendo più malata io nell’anima che non lui nel corpo, a causa delle mie molte vanità, sebbene non in modo tale – a quanto capivo – da essermi mai trovata in peccato mortale in tutto questo tempo della mia maggior dissipazione poiché, se ne fossi stata consapevole, in nessun modo sarei rimasta in tale stato. Soffrii molta pena durante la malattia di mio padre, e credo di averlo in parte ripagato di ciò che egli aveva sofferto nel corso delle mie infermità. Nonostante che io stessi molto male, mi sforzavo di servirlo e sebbene, mancandomi lui, mi venisse a mancare ogni bene e diletto di cui egli mi faceva godere sempre e pienamente, mi feci coraggio per non dimostrargli dolore e comportarmi, finché morì, come se non sentissi alcuna pena, anche se mi parve che mi strappassero l’anima, quando vidi estinguersi la sua vita, perché l’amavo molto.

15. È da lodare il Signore per la morte che egli fece, per il desiderio che aveva di morire, i consigli che ci diede dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi, per la preghiera di raccomandarlo a Dio e di chiedere misericordia per lui, per le esortazioni a servire sempre il Signore e a considerare che tutto finisce quaggiù. Fra le lacrime ci confidò il suo grande dolore di non averlo servito abbastanza e che avrebbe voluto essere frate in qualche Ordine dei più rigorosi. Sono sicurissima che quindici giorni prima il Signore gli abbia fatto intravedere che non sarebbe vissuto, perché nel periodo precedente a questo non lo pensava, benché stesse male; dopo, pur essendo molto migliorato, come riconoscevano i medici, non faceva alcun caso di ciò, ma era tutto preso a preparare la sua anima al trapasso.

16. Il suo male più forte fu un enorme dolore alle spalle che non gli cessava mai; a volte lo tormentava tanto da procurargli grande sofferenza. Io gli dissi, poiché era molto devoto di Gesù caricato della croce, di pensare che Sua Maestà con quel dolore gli voleva far provare qualcosa di ciò che egli aveva sofferto. Ne ebbe tanto conforto che mi sembra di non averlo mai più udito lamentarsi. Rimase tre giorni completamente privo di sensi. Il giorno in cui morì, il Signore lo fece tornare così interamente in sé che ne restammo sbigottiti, e durò in tale stato finché, giunto alla metà del Credo, che egli stesso recitava, spirò. Rimase come un angelo, e tale a me sembrava che fosse – per modo di dire – quanto ad anima e a disposizione spirituale che aveva straordinariamente buone. Non so perché ho detto questo, se non per condannare la mia miserabile vita perché, dopo aver visto tale morte e conosciuto una tal vita, almeno per il fatto di assomigliarmi un po’ a tale padre avrei dovuto migliorarmi. Il suo confessore, il quale era un domenicano molto dotto, diceva non dubitare che egli fosse andato direttamente in paradiso, perché era suo confessore da alcuni anni e lodava molto la sua purezza di coscienza.

17. Questo padre domenicano, che era molto virtuoso e timorato di Dio, mi fece molto bene, perché, avendolo scelto anche come mio confessore, si prese a cuore il bene dell’anima mia, e mi fece capire la rovina in cui mi trovavo. Mi faceva comunicare ogni quindici giorni; a poco a poco, trattandolo di più, gli parlai della mia orazione; mi disse di non abbandonarla mai, che assolutamente non poteva farmi altro che bene. Cominciai a tornare ad essa, anche se non evitavo le cattive occasioni, e non l’abbandonai più. Vivevo una vita piena di sofferenze perché, mediante l’orazione, vedevo meglio le mie colpe: da una parte mi chiamava Dio, dall’altra io seguivo il mondo; le cose di Dio mi davano una grande gioia, quelle del mondo mi tenevano legata. Sembrava che volessi conciliare questi due opposti – così nemici l’uno dell’altro – come sono la vita e le gioie spirituali e i piaceri e i passatempi dei sensi. Nell’orazione provavo grande sofferenza, perché lo spirito non era padrone, ma schiavo; pertanto non riuscivo a rinchiudermi nel mio intimo (che era il mio solo modo di procedere nell’orazione) senza rinchiudervi con me mille vanità. Trascorsi così molti anni; soltanto ora mi meraviglio che una creatura umana abbia potuto resistere tanto in questo stato senza romperla o con Dio o con il mondo: certo, lasciare l’orazione non era più in mio potere, perché mi teneva con le sue mani colui che così voleva darmi maggiori grazie.

18. Oh, mio Dio, se dovessi raccontare tutte le occasioni da cui in quegli anni il Signore mi liberava e come io tornassi a invischiarmi in esse, e i pericoli a cui mi sottrasse di perdere completamente la reputazione! Io, sempre a operare in modo da rivelarmi per quella che ero, e il Signore sempre a coprire le mie colpe e a mettere in luce qualche mia piccola virtù – se ne avevo – e ingrandirla agli occhi di tutti, in modo che tutti mi stimavano molto perché, anche se alcune volte trasparivano le mie vanità, vedendo in me altre cose che a loro sembravano buone, non potevano credere al resto. Questo perché colui che sa tutto aveva già visto che così doveva essere affinché, quando avessi poi testimoniato queste cose, le mie parole riscuotessero più credito e perché la sua sovrana liberalità guardava non ai miei grandi peccati, ma ai desideri che spesso avevo di servirlo e al dolore di non trovare in me la forza di farlo.

19. Oh, Signore dell’anima mia! Come potrò esaltare le grazie che in quegli anni mi avete fatto? Pensare che proprio mentre io più vi offendevo, voi, in poco tempo, mi disponevate, mediante un vivissimo pentimento, a godere dei vostri doni e favori! In verità, o mio Re, facevate ricorso al più raffinato e penoso castigo che poteva esserci per me, come chi ben capiva ciò che doveva riuscirmi più increscioso: punivate i miei misfatti con grandi favori. E non credo di dire insensatezze, anche se sarebbe bene che perdessi il senno ricordando ora di nuovo la mia ingratitudine e cattiveria. Era tanto più penoso per me ricevere grazie, quando ricadevo in grandi colpe, che ricevere castighi; una sola grazia mi par proprio che bastasse ad annientarmi, confondermi e farmi soffrire più che molte infermità e gravi pene messe insieme, mentre i castighi vedevo bene di meritarli e mi sembrava con essi di pagare in parte il debito dei miei peccati, benché tutto fosse poco nei confronti delle mie colpe che erano molte; ma vedermi oggetto di altre grazie quando avevo ricambiato così male quelle già ricevute, era un genere di tormento terribile per me. Credo lo sia per tutti coloro che hanno qualche conoscenza o amore di Dio, come si può capirlo anche dalle cose umane, se si ha un cuore virtuoso. La causa delle mie lacrime e del mio sdegno era che, nonostante quello che sentivo, mi vedevo sempre in condizioni tali da essere prossima a tornare a cadere, anche se i miei propositi e i miei desideri allora – cioè almeno in quel momento – mi apparivano incrollabili.

20. Gran male è per un’anima trovarsi sola tra tanti pericoli. A me sembra che, se io avessi avuto con chi parlare di tutto questo, mi avrebbe giovato a non ricadere, non foss’altro per vergogna, visto che non avevo timor di Dio. Perciò consiglierei a coloro che praticano l’orazione, specialmente al principio, di cercare l’amicizia e la conversazione di quelle persone che attendono allo stesso esercizio. È cosa di grande importanza, anche se non si tratti d’altro che di aiutarsi scambievolmente, tanto più, poi, che ci sono molti altri vantaggi. Io non so perché, se in materia di conversazione e affetti umani, anche non molto convenienti, si cercano amici con cui confidarsi e con cui godere di raccontare quei vani piaceri, non si debba permettere a chi comincia con sincerità ad amare e a servire Dio, di parlare con qualche persona delle proprie gioie e delle proprie pene, avendo di tutto quelli che si dedicano all’orazione. Giacché se è sincera l’amicizia che l’anima vuole avere con Sua Maestà, non deve aver timore di vanagloria: respingendola al primo attacco, ne uscirà con merito. Io credo che chi agirà con questa retta intenzione, gioverà a sé e a coloro che l’ascoltano, e ne uscirà più edotto; anche senza sapere come, sarà d’insegnamento ai suoi amici.

21. Chi parlando di ciò sentisse vanagloria, la sentirà ugualmente nell’ascoltare con devozione la Messa in pubblico, e nel fare altre pratiche che, sotto pena di non esser cristiani, sono d’obbligo, né si possono tralasciare per paura di vanagloria. Ciò è di così grande importanza per le anime che non sono consolidate nella virtù, avendo esse tanti nemici e amici che le incitano al male, che io non so come raccomandarlo. Mi sembra che il demonio si sia servito di questo stratagemma per un fine che gli sta molto a cuore: fare in modo che le anime si sottraggano a che si conosca la loro sincera intenzione di amare e di piacere a Dio, così come fa di tutto perché si scoprano certe disoneste affezioni che già sembra siano ormai talmente in uso – a quanto fa vedere – da ritenersi un’eleganza, e siano rese pubbliche le offese che si fanno a Dio.

22. Non so se dico sciocchezze; se è così, la signoria vostra strappi questo scritto; e se non lo è, la supplico di venire in aiuto alla mia semplicità, aggiungendo molto al mio pensiero, perché oggi si serve Dio in modo così superficiale che è necessario che coloro che lo servono si aiutino a vicenda per progredire, visto che sembra cosa buona l’andar dietro alle vanità e ai piaceri del mondo. Infatti, ben pochi fanno caso di chi persegue tali vanità; se però qualcuno comincia a darsi a Dio, ci sono tanti pronti a mormorare. Perciò è necessario procurarsi compagnia per difendersi, almeno finché si acquisti tanta forza che non pesi il patire, altrimenti ci si troverà in gravi angustie. Credo che per questo alcuni santi usavano recarsi nel deserto; è una forma di umiltà non fidarsi di sé e credere che Dio ci aiuterà per mezzo di coloro con i quali conversiamo. La carità, inoltre, cresce in virtù di questa comunicazione, e ci sono ancora innumerevoli beni che non oserei menzionare, se non avessi una grande esperienza dell’importanza che è in essi. È vero che io sono la più debole e vile di tutte le creature, ma ritengo che non avrà nulla da perdere chi, umiliandosi, anche se forte, attenderà a questa pratica, credendo a chi ne ha fatto esperienza. Di me posso dire che, se il Signore non mi avesse rivelato queste verità e dato il modo di trattare molto frequentemente con persone dedite all’orazione, a forza di cadere e rialzarmi, sarei andata a capofitto all’inferno; perché per cadere avevo molti amici pronti ad aiutarmi, ma per rialzarmi mi ritrovavo così sola da stupirmi ora di non essere rimasta sempre a terra; e lodo la misericordia di Dio, che era il solo a tendermi la mano. Sia egli per sempre benedetto! Amen.

CAPITOLO 8

Tratta del grande bene che le fece non allontanarsi completamente dall’orazione, per non perdere del tutto la sua anima, e di quale valido aiuto essa sia per riconquistare ciò che si è perduto. Esorta tutti a praticarla. Dice quanto giovi e come, anche se si torni a lasciarla, sia una grande fortuna servirsi per qualche tempo di un così prezioso bene.

1. Non senza motivo ho esaminato con attenzione tutto questo periodo della mia vita; capisco bene che non farà piacere a nessuno lo spettacolo di una condizione tanto spregevole e vorrei davvero che i miei lettori mi disprezzassero, vedendo un’anima così caparbia e ingrata verso chi le ha fatto tante grazie; eppure vorrei parlarne di più per dire quante volte in quel tempo venni meno a Dio.

2. Per [non] essermi appoggiata a questa salda colonna dell’orazione, trascorsi quasi vent’anni in questo mare tempestoso sempre cadendo e rialzandomi; ma rialzandomi male, perché tornavo a cadere. Conducevo una vita così lontana dalla perfezione che non facevo quasi più conto dei peccati veniali e, quanto ai mortali, anche se li temevo, non li temevo come avrei dovuto, perché non rifuggivo dai pericoli. Posso dire che tale vita è una delle più penose che mi sembra si possano immaginare, perché non godevo di Dio, né gioivo del mondo. Quando mi trovavo fra i piaceri mondani, mi dava pena il ricordo di ciò che dovevo a Dio; quando stavo con Dio mi turbavano le affezioni del mondo. Era una lotta così penosa che non so come potei sopportarla anche solo un mese, nonché tanti anni. Ciò nonostante, vedo chiaramente la grande misericordia che il Signore mi usò dandomi il coraggio, poiché mantenevo rapporti con il mondo, di praticare l’orazione. Dico il coraggio, perché io non so in quale cosa, di quante ne esistono quaggiù, sia necessario un coraggio maggiore di quello che comporta tradire il proprio Re, sapere che egli ne è al corrente e non allontanarsi dal suo cospetto. Infatti, anche se siamo sempre al cospetto di Dio, a me sembra che in modo speciale vi si trovino quelli che praticano l’orazione, perché sentono che egli li guarda, mentre gli altri possono restare più giorni senza mai ricordarsi che Dio li vede.

3. È pur vero che in questo tempo trascorsi molti mesi – e credo anche qualche anno – guardandomi dall’offendere il Signore, dedicandomi molto all’orazione e facendo ricorso ad alcune particolari attenzioni per non tornare ad offenderlo. E, siccome quanto scrivo deve rispondere ad assoluta verità, ora vengo a trattare di ciò. Ma ho un vago ricordo di questi giorni buoni, pertanto dovevano essere ben pochi, mentre molti i cattivi. Pochi, però, erano anche i giorni che passavo senza dedicare lungo tempo all’orazione, a meno che stessi molto male o fossi molto occupata. Quando stavo male, mi era più facile trovarmi con Dio; procuravo che altrettanto fosse delle persone con le quali trattavo, supplicavo a questo fine il Signore e parlavo molto di lui. Così, tranne l’anno di cui ho parlato, dei ventotto trascorsi da quando ho incominciato a praticare l’orazione, ne ho passati più di diciotto in questa battaglia e in questo contrasto di stare con Dio e con il mondo. Negli altri di cui ora mi resta da parlare, la causa della lotta fu diversa, anche se non fu piccola; ma per il fatto di essere, a quel che penso, al servizio di Dio e di conoscere la vanità del mondo, tutto mi è stato dolce, come dirò in seguito.

4. Lo scopo, dunque, per cui ho tanto insistito a parlare di ciò è, come ho già detto, anzitutto perché si costatino la misericordia di Dio e la mia ingratitudine, e poi perché si conosca il gran bene che Dio fa a un’anima quando la dispone a praticare e a desiderare l’orazione. Anche se non ha tutta la disposizione necessaria, purché perseveri in essa, per quanti peccati, tentazioni e cadute di ogni genere le frapponga il demonio, il Signore la trarrà al porto di salvezza, allo stesso modo in cui sembra abbia tratto me. Piaccia a Sua Maestà che io ritorni a perdermi.

5. Del bene che attinge chi pratica l’orazione, intendo dire l’orazione mentale, hanno parlato molti santi e buoni scrittori. Ne sia ringraziato il Signore! E se così non fosse, per poco umile che io sia, non sono però tanto superba d’arrischiarmi io a parlarne. Posso dire soltanto quello di cui ho fatto esperienza, ed è che, per quanti peccati faccia, chi ha cominciato a praticare l’orazione non deve abbandonarla, essendo il mezzo con il quale potrà riprendersi, mentre senza di essa sarà molto più difficile. E che il demonio non abbia a tentarlo, come ha fatto con me, a lasciare l’orazione per umiltà; sia convinto che la parola di Dio non può mancare, che con un sincero pentimento e con il fermo proposito di non ritornare ad offenderlo si ristabilisce l’amicizia di prima ed egli ci fa le stesse grazie, anzi, a volte, molte di più, se il nostro pentimento lo merita. Quanto a coloro che non hanno ancora incominciato, io li scongiuro, per amore del Signore, di non privarsi di tanto bene. Qui non c’è nulla da temere, ma tutto da desiderare, perché, anche se non facessero progressi né si sforzassero d’essere perfetti, così da meritare le grazie e i favori che Dio riserva agli altri, per poco che guadagnassero, giungerebbero a conoscere il cammino del cielo; e, perseverando nell’orazione, spero molto per essi nella misericordia di Dio, che nessuno ha preso mai per amico senza esserne ripagato; per me l’orazione mentale non è altro se non un rapporto d’amicizia, un trovarsi frequentemente da soli a soli con chi sappiamo che ci ama. E se voi ancora non l’amate (infatti, perché l’amore sia vero e l’amicizia durevole dev’esserci parità di condizioni e invece sappiamo che quella del Signore non può avere alcun difetto, mentre la nostra consiste nell’esser viziosi, sensuali, ingrati), cioè se non potete riuscire ad amarlo quanto si merita, non essendo egli della vostra condizione, nel vedere, però, quanto vi sia di vantaggio avere la sua amicizia e quanto egli vi ami, sopportate questa pena di stare a lungo con chi è tanto diverso da voi.

6. Oh, bontà infinita del mio Dio, mi sembra di vedere chi siete voi e vedo anche quanto misera cosa sia io! Oh, delizia degli angeli, vedendo questa enorme differenza, vorrei consumarmi tutta d’amore per voi. Com’è vero: voi sopportate chi sopporta di stare con voi. Oh, come vi comportate da buon amico, Signor mio, come cominciate subito a favorirlo, sopportarlo e, aspettando che si conformi alla vostra condizione, con quanta pazienza, nel frattempo, tollerate la sua! Voi tenete conto, mio Signore, di tutti i momenti che dedica ad amarvi, e per un attimo di pentimento dimenticate quanto vi abbia offeso! So questo chiaramente per esperienza personale, e non capisco, o mio Creatore, perché tutti non cerchino di giungere a voi per mezzo di questa particolare amicizia. I cattivi, che non sono della vostra condizione, dovrebbero avvicinarvi per diventare buoni, acconsentendo che stiate con loro, sia pure un paio d’ore al giorno, benché essi stiano con voi turbati da mille sollecitudini e pensieri mondani, come facevo io. Per la violenza che essi devono farsi a voler rimanere in così incomparabile compagnia (voi sapete che in ciò, al principio, e qualche volta anche in seguito, non possono far di più), voi costringete, Signore, i demoni a non assalirli e fate loro diminuire di giorno in giorno le forze contro di essi, a cui, invece, le date perché vincano. No, vita di tutte le vite, voi non uccidete nessuno di quelli che confidano in voi e vi vogliono per amico, anzi sostenete la vita del corpo con maggior salute, dandola all’anima.

7. Non capisco il timore di coloro che esitano ad applicarsi all’orazione mentale, né so di che cosa abbiano paura. Fa bene il demonio, nell’intento di arrecarci, egli sì davvero, male, a ispirarcelo, se mediante la paura riesce a non farmi pensare ai peccati con cui ho offeso Dio, a tutto quel che gli devo, all’inferno, al paradiso e alle grandi pene e dolori che egli ha sofferto per me. Questa fu tutta la mia orazione quando stavo fra i pericoli anzidetti, e questa era la mia meditazione quando riuscivo a concentrarmi in essa perché, per alcuni anni, molte volte badavo più a desiderare che l’ora di stare in orazione finisse e ad ascoltare il suono dell’orologio, che non a darmi a buoni pensieri; e spesso non so a quale grave penitenza che mi fosse stata imposta io non mi sarei obbligata più volentieri che non raccogliermi nella pratica dell’orazione! In verità, era così intollerabile la violenza che il demonio e le cattive abitudini mi facevano perché non mi dedicassi all’orazione, e tale la tristezza che mi prendeva quando entravo in oratorio, che era necessario facessi appello a tutto il mio coraggio (che dicono non sia poco, e si è visto, infatti, come Dio me ne abbia dato assai più di quello che è proprio di una donna, anche se io l’ho impiegato male), e infine il Signore mi aiutava. Dopo essermi fatta, così, forza, sentivo più gioia e tranquillità di altre volte in cui avevo il desiderio di pregare.

8. Se dunque il Signore ha sopportato tanto tempo una creatura spregevole come sono io, ed è evidente che nell’orazione sta il rimedio di tutti i miei mali, chi, per cattivo che sia, avrà da temere? Perché, lo sia pur molto, non lo sarà per lungo tempo dopo aver ricevuto tante grazie dal Signore. E chi potrà non aver fiducia dopo aver visto quanto ha sopportato me, solo perché desideravo e procuravo di trovare tempo e luogo per starmene con lui? E ciò molte volte senza che lo volessi spontaneamente, ma in virtù della grande forza che mi facevo, o meglio, che il Signore mi dava modo di farmi. Ora, se a quelli che non lo servono, anzi l’offendono, l’orazione è così utile e così necessaria che nessuno può immaginare davvero danno maggiore che il non praticarla, perché dovranno astenersene coloro che servono Dio e vogliono servirlo? Davvero io non posso capirlo, tranne che non sia per voler sopportare con maggior pena le prove della vita, e chiudere a Dio la porta attraverso la quale egli darebbe loro gioia. Mi fanno proprio compassione questi che servono Dio a loro spese, perché a coloro che praticano l’orazione lo stesso Signore paga le spese; infatti, per un po’ di sforzo dà ad essi la grazia utile a superare le difficoltà.

9. Siccome di queste gioie che il Signore concede a coloro che perseverano nell’orazione si parlerà a lungo, qui non dirò altro, o meglio dirò solo che l’orazione è la porta d’ingresso per tali sublimi favori che Dio mi ha fatto; chiusa essa, non so proprio come potrà farli perché, anche se Dio vuole entrare in un’anima per goderne e farla godere, non c’è per lui via d’accesso, in quanto egli la vuole sola, pura e desiderosa di ricevere i suoi beni. Se gli ingombriamo la strada di ostacoli e non ci adoperiamo minimamente a toglierli, come potrà giungere a noi e come possiamo pretendere che ci conceda grandi grazie?

10. Affinché si veda la sua misericordia e il gran bene che fu per me il non aver lasciato l’orazione e la lettura, parlerò qui – poiché è cosa assai utile a sapersi – del martellamento a cui il demonio sottopone un’anima per guadagnarsela e degli accorgimenti misericordiosi con cui il Signore cerca di riprendersela affinché tutti si guardino da quei pericoli dai quali io non seppi guardarmi. Soprattutto per nostro Signore e per il grande amore con cui egli ottiene di richiamarci a sé, io scongiuro chiunque a fuggire le occasioni perché, una volta entrati in esse, non c’è da stare sicuri, essendo molti i nemici che ci danno guerra e troppo deboli le nostre forze per difenderci.

11. Vorrei saper descrivere la schiavitù in cui era allora la mia anima, perché ben capivo io di essere schiava, ma non riuscivo a capire di che cosa, né potevo credere del tutto che ciò di cui i confessori non mi facevano gran carico fosse così grave colpa come io la sentivo nel mio intimo. Uno di essi, al quale avevo manifestato questo scrupolo, mi disse anzi che, pur raggiungendo uno stato di elevata contemplazione, tali occasioni e amicizie non mi avrebbero arrecato alcun danno. Questo avveniva già all’ultimo, quando io cominciavo, con l’aiuto di Dio, a fuggire i pericoli più gravi, pur non sottraendomi del tutto alle occasioni. Sembrava loro che io facessi molto, vedendomi piena di buoni desideri e dedita all’orazione, ma la mia anima sentiva che non faceva tutto ciò che era tenuta a fare per colui a cui tanto doveva. Mi è ora motivo di pena il molto che essa soffriva e il poco aiuto che da tutti aveva, fuorché da Dio, e la grande libertà che le concedevano per i suoi piaceri e passatempi, dicendo che erano leciti.

12. Non era piccolo, inoltre, per me, il tormento che mi procuravano le prediche delle quali ero amantissima, al punto che se vedevo qualcuno predicare bene e con spirito di pietà, provavo per lui un affetto particolare, senza che io lo volessi né sapessi chi me lo metteva in cuore. Quasi mai la predica mi sembrava di così poco valore da non ascoltarla volentieri, anche se, stando a quanto dicevano gli altri ascoltatori, il predicatore non era bravo; se poi la predica era bella, mi procurava una gioia particolare. Parlare o sentir parlare di Dio non mi stancava quasi mai, e ciò da quando cominciai a praticare l’orazione. Se, però, da una parte le prediche mi erano di grande consolazione, dall’altra mi erano causa di tormento, facendomi conoscere che non ero neanche lontanamente quale dovevo essere. Supplicavo il Signore di aiutarmi, ma – a quanto ora mi sembra – doveva farmi difetto il fatto di non riporre tutta la mia fiducia in Sua Maestà e di non perderla totalmente in me. Cercavo rimedi, mi impegnavo con diligenza, ma evidentemente non capivo che tutto dà poco profitto se, deposta totalmente la fiducia in noi stessi, non la poniamo in Dio. Desideravo vivere, perché capivo bene di non vivere, ma di lottare contro un’ombra di morte, e non avevo alcuno che mi desse vita, né io potevo procurarmela. Chi poteva darmela aveva ragione di non soccorrermi, poiché tante volte mi aveva attirata a sé e io l’avevo sempre abbandonato.

CAPITOLO 9

Parla del modo in cui il Signore cominciò a risvegliare la sua anima, a illuminarla in così fitte tenebre e a rafforzare le sue virtù affinché non l’offendesse più.

1. Ormai, dunque, la mia anima era stanca e, anche se lo voleva, le sue cattive abitudini non la lasciavano riposare. Accadde un giorno che, entrando nell’oratorio, vidi una statua portata lì in attesa di una certa solennità che si doveva celebrare in casa e per la quale era stata procurata. Era un Cristo tutto coperto di piaghe, e ispirava tale devozione che, guardandola, mi turbai tutta nel vederlo ridotto così, perché rappresentava al vivo ciò che egli ebbe a soffrire per noi. Provai tanto rimorso per l’ingratitudine con cui avevo ripagato quelle piaghe, che pareva mi si spezzasse il cuore, e mi gettai ai suoi piedi con un profluvio di lacrime, supplicandolo che mi desse infine la forza di non offenderlo più.

2. Ero molto devota di santa Maria Maddalena e assai di frequente pensavo alla sua conversione, specie quando mi comunicavo; perché, sapendo che in quel momento il Signore stava certamente in me, mi prostravo ai suoi piedi, nella speranza che le mie lacrime non venissero disprezzate. Ma non sapevo quel che dicevo (facendo già molto chi mi consentiva di spargere lacrime per lui, visto che dimenticavo tanto presto quella pena), e così mi raccomandavo a questa gloriosa santa perché mi ottenesse il perdono.

3. Quest’ultima volta, però, l’essermi prostrata davanti alla statua che ho detto lì posta, credo mi abbia giovato di più, perché avevo perduto ogni fiducia in me e confidavo unicamente in Dio. Mi sembra d’avergli detto allora che non mi sarei alzata da lì finché non mi avesse concesso quello di cui lo supplicavo. Sono certa di essere stata esaudita, perché da allora andai molto migliorando.

4. Questo era il mio metodo di orazione: non potendo discorrere con l’intelletto, cercavo di rappresentarmi Cristo nel mio intimo e mi trovavo meglio, a mio giudizio, ricercandolo in quei tratti della sua vita in cui lo vedevo più solo. Mi pareva che, essendo solo ed afflitto, come persona bisognosa di conforto, mi avrebbe accolta più facilmente. Di queste ingenuità ne avevo parecchie. Mi trovavo assai bene specialmente nell’orazione dell’Orto degli ulivi; lì gli tenevo compagnia; pensavo al sudore e all’afflizione che aveva sofferto; desideravo, potendo, tergergli quel sudore così penoso (ma ricordo che non osavo mai decidermi a farlo, perché mi venivano subito in mente i miei gravissimi peccati). Me ne stavo lì con lui fino a quando i miei pensieri me lo permettevano, essendo molti quelli che mi davano tormento. Per vari anni, la maggior parte delle sere, prima di addormentarmi – allorché per dormire mi raccomandavo a Dio – meditavo sempre un po’ su questo passo dell’orazione dell’Orto degli ulivi, fin da quando non ero ancora monaca, avendo sentito dire che si guadagnavano molte indulgenze. Sono convinta che con questa meditazione la mia anima si sia molto avvantaggiata perché cominciai a praticare l’orazione, senza sapere che cosa fosse, e diventò poi un’abitudine così regolare che non avrei potuto trascurare di farmi il segno della croce prima di addormentarmi.

5. Ma, tornando a ciò che dicevo circa il tormento di alcuni pensieri, è insito nel metodo di fare orazione senza servirsi dell’intelletto che l’anima o è molto concentrata, o è molto smarrita, dico smarrita quanto a riflessione. Se trae profitto, ne trae molto, perché dovuto all’amore. Ma per giungere a questo occorre gran fatica, salvo che si tratti di persone che Dio vuol far pervenire all’orazione di quiete in breve tempo, come è avvenuto ad alcune persone di mia conoscenza. Alle anime che vanno per questa strada giova molto un libro per raccogliersi presto. A me giovava anche la vista della campagna, dell’acqua e dei fiori; queste cose mi ricordavano il Creatore, intendo dire che mi scuotevano, m’inducevano al raccoglimento e mi servivano da libro; mi giovava anche pensare alla mia ingratitudine e ai miei peccati. In cose celesti e concetti elevati la mia intelligenza era così grossolana che mai e poi mai potei concepirli fino a quando il Signore non me ne fece venire a conoscenza in altro modo.

6. Ero così poco capace a raffigurarmi cose con l’intelletto che, se non si trattava di cose che vedevo realmente, non mi giovavo affatto della mia immaginazione, come accade, invece, ad altre persone che possono crearsi immagini su cui raccogliersi. Io potevo pensare a Cristo solo come uomo, ma anche così non potei mai figurarmelo nella mia anima, per quanto leggessi della sua bellezza e ne contemplassi le immagini, se non come chi è cieco o sta al buio, il quale, anche se parla con una persona e sa di trovarsi con lei, perché ha la certezza della sua presenza, voglio dire lo capisce e lo crede, tuttavia non la vede. Così accadeva a me quando pensavo a nostro Signore e per questo ho sempre amato le immagini. Infelici coloro che per propria colpa perdono siffatto bene! È evidente che non amano il Signore perché, se lo amassero, godrebbero nel vederne l’immagine, come quaggiù fa sempre piacere vedere il ritratto di coloro a cui si vuole bene.

7. In quel tempo mi dettero le Confessioni di sant’Agostino, forse per disposizione del Signore, perché io non cercai di averle non conoscendone l’esistenza. Io sono molto devota di sant’Agostino perché il monastero dove fui da secolare era del suo Ordine, e anche perché egli fu peccatore. Infatti, provavo molto conforto nei santi che il Signore rivolse al suo servizio dopo che erano stati peccatori, sembrandomi che mi fossero d’aiuto a sperare che come il Signore aveva perdonato a loro, poteva farlo anche con me. Solo una cosa mi angustiava, come ho già detto: che essi, chiamati dal Signore una sola volta, non tornavano a cadere, mentre io ero stata chiamata già tante volte; ciò mi procurava una grande sofferenza. Ma, considerando l’amore che mi portava, riprendevo coraggio, perché non ho mai diffidato della sua misericordia; di me, invece, assai spesso.

8. Oh, mio Dio, come mi spaventa l’ostinazione che dimostrò la mia anima, pur avendo tanti aiuti da Dio! Mi è causa ancora di timore il pensare al poco dominio che avevo su di me e ai molti ostacoli che mi costringevano a non risolvermi a darmi tutta a Dio. Appena diedi inizio alla lettura delle Confessioni, mi parve di ritrovarmi in esse e cominciai a raccomandarmi caldamente a questo glorioso santo. Quando giunsi alla sua conversione e lessi della voce che egli udì nell’orto, mi parve che il Signore la facesse udire a me, per quel che ebbe a sentire il mio cuore, e rimasi per lungo tempo tutta in lacrime, provando nel mio intimo una grande afflizione e pena. Oh, mio Dio, quanto soffre un’anima nel perdere la libertà che la rende padrona di sé e quanti tormenti patisce! Io ora mi meraviglio di come potessi vivere in tanta angoscia. Sia lodato Iddio che mi diede vita per farmi uscire da una morte così funesta!

9. Mi sembra che la mia anima ricevesse allora grandi forze dalla divina Maestà, che dovette udire i miei lamenti e avere pietà delle mie lacrime. Cominciò a crescere in me la propensione a stare più a lungo con Dio e ad allontanarmi dalle occasioni pericolose perché, in questo modo, subito ritornavo ad amare Sua Maestà. Capivo bene, a quel che credo, di amarlo, ma non comprendevo, come avrei dovuto intenderlo, in che cosa consistesse amare davvero Dio. Non avevo, mi pare, ancora finito di dispormi a servirlo, che Sua Maestà cominciava a ridonarmi le sue grazie. Si sarebbe quasi detto che ciò che gli altri cercano di acquistare con gran fatica, il Signore si adoperava, con me, a farmelo accettare. Infatti, in questi ultimi anni, era un continuo darmi grazie e favori. Che io lo supplicassi di concedermeli, non ho mai osato farlo, neanche per quanto poteva riguardare tenerezza di devozione; gli chiedevo solo che mi concedesse la grazia di non offenderlo e che mi perdonasse i miei grandi peccati; vedendoli così grandi, non osavo, deliberatamente, desiderare favori né grazie. Mi pareva già fin troppo buono verso di me, e fu davvero grande la sua misericordia a mio riguardo, nel consentire che gli restassi dinanzi, dopo avermi condotto alla sua presenza, giacché ben vedevo che se egli non si fosse adoperato a tal fine, io non vi sarei andata. Solo una volta in vita mia mi ricordo di avergli chiesto grazie, trovandomi in uno stato di grande aridità; ma quando m’accorsi di ciò che facevo, rimasi tanto confusa che la stessa vergogna di vedermi così poco umile mi diede ciò che avevo osato chiedere. Ben sapevo che era lecito chiedere questo, ma a me pareva che lo fosse solo per quelli che hanno la disposizione necessaria per aver cercato con tutte le loro forze di praticare la vera devozione, che consiste nel non offendere Dio ed essere disposti e pronti ad ogni forma di bene. Mi sembrava che quelle mie lacrime fossero lacrime di donnicciola, senza efficacia, poiché con esse non ottenevo ciò che desideravo. Eppure, ciò nonostante credo che mi siano valse a qualcosa perché, come ho detto, specialmente dopo queste due volte in cui furono dovute a così gran compunzione e sofferenza del mio cuore, comincia a dedicarmi di più all’orazione e ad occuparmi meno di cose che potessero essermi di danno; benché ancora non le abbandonassi del tutto, tuttavia, come ho detto, Dio mi veniva aiutando a distaccarmene. Poiché Sua Maestà non stava aspettando se non qualche buona disposizione in me, le grazie spirituali andarono crescendo nel modo che dirò; cosa insolita, perché il Signore non usa darle se non a coloro che vivono con maggior purezza di coscienza.

CAPITOLO 10

Comincia a esporre le grazie che il Signore le concedeva nell’orazione e ciò a cui possiamo contribuire con i nostri sforzi; sottolinea, inoltre, quanto sia importante conoscere le grazie che il Signore ci fa. Supplica colui al quale invia questo scritto di mantenere segreto quanto scriverà da qui in avanti, visto che le hanno ordinato di descrivere così minutamente le grazie ricevute dal Signore.

1. Come ho detto prima, c’era già stato un inizio per me, alcune volte, di quello che sto per dire, anche se per brevissimo tempo. Nel cercare di rappresentarmi il Signore e prostrarmi ai piedi di Cristo, nella maniera che ho detto, e talvolta anche durante la lettura, mi accadeva d’improvviso d’essere invasa da un così vivo sentimento della presenza di Dio, da non poter dubitare in alcun modo ch’egli fosse in me ed io tutta rapita in lui. Questo, non in maniera di visione, ma a quel modo che credo si chiami teologia mistica. Tale stato tiene l’anima sospesa in modo tale che essa sembra tutta fuori di sé: la volontà ama, la memoria mi pare sia quasi smarrita, l’intelletto non ragiona, a mio giudizio, ma non si perde; però, ripeto, è inoperoso, standosene come stupito per le molte cose che intende, perché Dio vuole che capisca come da solo non possa intendere nulla di ciò che Sua Maestà gli presenta.

2. Già prima avevo sentito assai di continuo una tenerezza che in parte, mi pare, può essere frutto dei nostri sforzi, una gioia che non appartiene del tutto ai sensi né allo spirito. È data solo da Dio, ma credo che a tal fine possiamo aiutarci molto, considerando la nostra miseria e la nostra ingratitudine verso Dio, quanto egli ha fatto per noi, la sua passione così dolorosa, la sua vita piena di tante tribolazioni, godendo nella contemplazione delle sue opere, della sua grandezza, del suo infinito amore e di molte altre cose in cui s’imbatte continuamente chiunque badi al proprio profitto spirituale, anche se non vada a cercarle con una precisa intenzione. Se a questo si aggiunge un po’ di amore, l’anima gioisce, il cuore s’intenerisce, vengono le lacrime; a volte pare che si spremano a forza, altre volte che le procuri il Signore, senza che si possano trattenere. Sembra che Sua Maestà ricompensi quella piccola concentrazione con un dono così generoso quale è la consolazione provata da un’anima nel vedere che piange per un Signore così grande, e non mi stupisco: ha più che ragione di consolarsi. In ciò è la sua letizia, in ciò il suo godimento.

3. Mi sembra opportuno il paragone che ora mi viene in mente: che queste gioie dell’orazione devono essere simili a quelle che si godono nel cielo ove, non vedendo i beati più di quel che il Signore, conforme ai loro meriti, vuole che vedano, e conoscendo essi i propri scarsi meriti, ognuno è contento del luogo in cui sta, pur essendoci enorme differenza tra un godimento e l’altro in cielo, assai più grande di quella che vi è quaggiù – sebbene sia grandissima – tra alcuni godimenti spirituali e altri. Veramente un’anima ancora agli inizi della sua esperienza, quando Dio le accorda questa grazia, crede quasi che non ci sia più nulla da desiderare e si reputa ben ricompensata di quanto ha compiuto in suo servizio. E ne ha ben ragione, perché una sola di queste lacrime che, come ho detto, possiamo quasi procurarci da noi – benché senza Dio non si faccia nulla –, non si può, a mio parere, comprare neppure con tutte le sofferenze del mondo, tanto è il guadagno che se ne trae: quale maggior guadagno, infatti, che avere una testimonianza di compiacere a Dio? Chi, pertanto, è arrivato a questo punto, lo lodi molto e si riconosca gran suo debitore perché, se non torna indietro, pare che egli già lo voglia per sua dimora e lo abbia scelto per il suo regno.

4. Non si preoccupi di certi sentimenti di umiltà, di cui intendo parlare, in base ai quali sembra umiltà non riconoscere che il Signore ci fa tanti doni. Cerchiamo, invece, di capire bene, proprio bene, come stanno le cose, cioè che Dio ce li dà senza alcun nostro merito, e siamone grati a Sua Maestà; perché, se non riconosciamo di ricevere doni, non siamo spinti ad amare. È certo che quanto più vediamo d’esser ricchi in virtù di essi, dopo aver riconosciuto d’essere poveri in noi stessi, tanto più profitto ce ne viene, e anche più vera umiltà. Inoltre, equivale a scoraggiare l’anima il farle credere che non è capace di grandi beni se, quando il Signore comincia a concederglieli, l’anima comincia a intimorirsi per paura di vanagloria. Dobbiamo credere che chi ci dà i beni ci darà la grazia, di fronte a un’eventuale tentazione del demonio in merito a ciò, di comprendere il suo inganno e la forza per resistergli; a patto, però, di camminare con semplicità davanti a Dio, procurando di accontentare solo lui, non gli uomini.

5. È segno evidente che amiamo di più una persona, quando ricordiamo spesso i benefici che ci ha fatto. Ora, se è lecito e anzi assai meritorio ricordarci che il nostro essere l’abbiamo da Dio, il quale ci ha creati dal nulla e ci mantiene in vita, e tutti gli altri benefici che ci sono venuti dalla sua morte e dalle sue sofferenze, benefici che molto prima di crearci aveva preparato per ciascuno di noi viventi, perché non mi sarà lecito riconoscere, vedere e considerare più e più volte che ero solita parlare di cose vane, e che ora il Signore mi ha concesso di non voler parlare d’altro se non di lui? Ecco qui un gioiello: se ricordiamo che ci fu donato e che ormai lo possediamo, necessariamente ci invita ad amare, ed è proprio questo il bene dell’orazione fondata sull’umiltà. Che dire, poi, nel vederci in possesso di altre gioie più preziose, come le hanno già ricevute alcuni servi di Dio, di disprezzo del mondo e anche di se stessi? È chiaro che dobbiamo ritenerci ancora più debitori e più obbligati a servire, a comprendere che non avevamo nulla di questo e a riconoscere la generosità del Signore, il quale ad un’anima così povera e vile e così priva di meriti come la mia, a cui sarebbe bastata la prima di queste gioie – ed era già tanto per me – volle dare più ricchezze di quante ne sapesse desiderare.

6. È necessario rinnovare le forze per servire Dio e cercare di non essere ingrati, perché ci concede i suoi doni a questa condizione: che se non facciamo buon uso del tesoro che ci dà e dell’alto stato in cui ci pone, ce lo riprenderà, facendoci restare molto più poveri di prima, per dare le sue gioie a coloro in cui risplendano con proprio ed altrui vantaggio. Ma come avvantaggerà sé ed altri e spenderà con larghezza chi non sa d’essere ricco? È impossibile, a mio giudizio, in conformità della nostra debole natura, avere coraggio per grandi cose, senza riconoscersi favoriti da Dio perché siamo così miserabili e così inclini a cose terrene, che difficilmente potrà disprezzare i beni di quaggiù con effettivo, assoluto distacco chi non comprende d’avere un pegno di quelli celesti. Questi doni, infatti, sono i mezzi di cui si serve il Signore per darci la forza che noi, per i nostri peccati, poi perdiamo. E difficilmente riuscirà a desiderare di essere malvisto e disprezzato da tutti, e a praticare le altre grandi virtù proprie delle anime perfette, chi non avrà qualche pegno dell’amore di Dio e, insieme, una viva fede. La nostra natura, infatti, è così debole che non seguiamo se non ciò che abbiamo presente; pertanto sono proprio questi favori a ridestare la fede e a fortificarla. Può anche darsi che io, misera come sono, giudichi tutti da me stessa, che ci saranno altri ai quali siano sufficienti le sole verità della fede per fare opere di grande perfezione, mentre io, da miserabile qual sono, ho avuto bisogno di tutti gli aiuti.

7. Ma ciò lo diranno essi; io dico, secondo quanto mi è stato ordinato, quello che è accaduto a me, e se non dovesse andar bene, colui al quale invio lo scritto – che saprà conoscere meglio di me le deficienze che presenta – lo strappi. Io, però, lo supplico per amor del Signore di pubblicare quello che ho detto fin qui della mia miserabile vita e dei peccati (a partire da questo momento gliene do piena autorizzazione, e la do ugualmente a tutti i miei confessori, come lo è colui al quale andrà questo scritto); se lo vorranno, lo facciano anche subito, me vivente, affinché non inganni più il mondo ove si pensa che ci sia in me qualcosa di buono; sì, non v’è dubbio, lo affermo con tutta verità, per quel che ora capisco di me, che ciò mi darà grande consolazione. Quanto a ciò che dirò da qui in avanti, non do questo permesso, né voglio dire che, se faranno vedere il mio scritto a qualcuno, dicano chi è costei che fece tali esperienze né chi le ha scritte. Perciò, non metto il mio nome né quello di nessuno, anzi, scrivendo, farò tutto il possibile per non essere riconosciuta; chiedo questo per amore di Dio. L’approvazione di persone tanto dotte e importanti è per me sufficiente a conferire autorità a quel qualcosa di buono che vi fosse, se il Signore mi darà la grazia di dirla, perché, in tal caso, il merito sarà tutto suo e non mio, non avendo io istruzione né virtù né formazione da dotti o da qualsiasi persona (solo quelli che mi hanno comandato di scrivere sanno che io scrivo questo, ma attualmente essi non sono qui), e rubando quasi il tempo, con fatica, perché ciò mi impedisce di filare, mentre mi trovo in una casa povera dove attendo a molte occupazioni. Se Dio mi avesse dato più capacità e memoria, almeno con la memoria potrei giovarmi di ciò che ho udito o letto, ma è pochissima quella di cui dispongo. Pertanto, se dirò qualcosa di buono, lo vuole il Signore per trarne qualche bene; ciò che vi sarà d’imperfetto viene invece da me, e la signoria vostra lo cancellerà. Sia in un caso, sia nell’altro, non è di alcun vantaggio dire il mio nome; mentre vivo è chiaro che non si deve parlare del bene; dopo morta non servirebbe ad altro che a sminuire il prestigio di quello stesso bene, screditandolo, per il fatto che è detto da persona tanto vile e spregevole.

8. E, pensando che la signoria vostra farà questo che le chiedo per amore del Signore, come gli altri che dovranno leggere il mio scritto, scrivo con libertà; diversamente ne avrei gran scrupolo, tranne che per dire i miei peccati, per i quali non ne ho alcuno. Del resto, basterebbe esser donna per farmi abbassare le ali; tanto più, poi, donna tanto miserabile. E così, ciò che può esservi in più del semplice racconto della mia vita, la signoria vostra lo tenga per sé, visto che ha tanto insistito perché manifestassi in qualche modo le grazie che Dio mi fa nell’orazione, se sarà conforme alle verità della nostra santa fede cattolica; e se invece non lo fosse, la signoria vostra lo bruci subito, perché io a ciò mi sottometto. Dirò quello che sperimento affinché, se conforme alla fede, possa recare alla signoria vostra qualche vantaggio; altrimenti la prego di trarre d’inganno la mia anima affinché il demonio non guadagni là dove credo di guadagnare io. Del resto, il Signore già sa, come poi dirò, che mi sono sempre adoperata a cercare chi mi illuminasse.

9. Per quanto chiaramente voglia parlare di queste cose di orazione, saranno sempre oscure per chi non ne ha esperienza. Parlerò di alcuni ostacoli che, a mio giudizio, si frappongono in questo cammino, e di altre cose pericolose, secondo ciò che il Signore mi ha insegnato per esperienza e di cui ho trattato con uomini molto dotti e con persone che fanno vita spirituale da molti anni. Si vedrà che in soli ventisette anni da quando pratico l’orazione, nonostante cammini tanto male e fra tanti inciampi in questa via, il Signore mi ha dato tale esperienza quale ne hanno altri che vi camminano da trentasette o da quarantasette anni con continui esercizi di penitenza e di virtù. Sia egli benedetto per tutto questo e si serva pure di me, per quello che egli è. Sa bene il mio Signore che io non cerco altro, scrivendo, se non che egli sia lodato ed esaltato un pochino, facendo vedere come di un letamaio così sudicio e maleodorante egli abbia fatto un giardino di così delicati fiori. Piaccia a Sua Maestà che io non torni per mia colpa a strapparli, ridiventando quella che ero. Questo io supplico, per amore del Signore, che la signoria vostra chieda, poiché sa chi sono io più chiaramente di quanto mi abbia permesso di scrivere.

CAPITOLO 11

Mostra perché non si giunga ad amare Dio con perfezione in breve tempo. Comincia a spiegarlo per mezzo di un paragone che illustra quattro gradi di orazione. Procede, in questo capitolo, a trattare del primo; è molto utile per i principianti e per coloro che non provano gioia nell’orazione.

1. Venendo, dunque, ora a parlare di quelli che cominciano ad esser servi dell’amore (giacché altro non mi sembra il determinarsi a seguire per la via dell’orazione colui che ci ha tanto amato), è un onore così grande che provo una gioia straordinaria nel ripensarvi. Infatti, ogni timore servile scompare immediatamente, se in questo primo stato procediamo come si deve. Oh, Signore dell’anima mia e mio solo bene! Perché non volete che quando un’anima è determinata ad amarvi procurando, per quanto è possibile, di staccarsi da ogni cosa per dedicarsi meglio all’amore di Dio, non abbia subito la gioia di elevarsi a possedere questo amore in modo perfetto? Ho detto male; avrei dovuto dire, deplorandolo: perché non lo vogliamo noi? Infatti, la colpa è nostra se non godiamo subito di tanto onore, in quanto se arrivassimo a possedere in modo perfetto il vero amore di Dio, esso comporterebbe ogni specie di beni. Ma noi siamo così avari e così lenti nel darci totalmente a Dio che, non volendo Sua Maestà che godiamo di un bene tanto prezioso senza pagarlo a caro prezzo, non giungiamo mai a disporci convenientemente a riceverlo.

2. Ben vedo che non c’è prezzo adeguato in terra per l’acquisto di un tale tesoro, ma se facessimo quanto è in nostro potere per non attaccarci a cose terrene, rivolgendo invece ogni nostra cura e ogni nostro atto a quelle del cielo, credo senza alcun dubbio che in breve tempo ci sarebbe dato questo bene, purché – ripeto – ci disponessimo subito a riceverlo, come fecero alcuni santi. Invece, ci sembra di dar tutto, e in realtà offriamo a Dio la rendita e i frutti, e ci tratteniamo la proprietà e il capitale. Ci decidiamo a essere poveri – cosa molto meritoria – ma spesso ritorniamo a porre ogni cura e diligenza a non farci mancare non solo il necessario, ma perfino il superfluo, e ad andare in cerca di amici che ce lo procurino, esponendoci a maggiori preoccupazioni e, forse, a più gravi pericoli, con il desiderare che non ci manchi nulla, di quelli in cui incorrevamo prima con il possesso delle nostre ricchezze. Ci sembra anche di rinunciare al pregiudizio dell’onore con il farci religiosi e con l’aver cominciato a condurre vita spirituale e a seguire la via della perfezione e, appena ci toccano in un punto di onore, non ricordandoci di averlo ormai dato a Dio, eccoci di nuovo a rivendicarlo e a voler riprenderglielo, come si dice, dalle mani, dopo averlo fatto volontariamente, a quanto sembra, padrone di esso. E così è di tutto il resto.

3. Bella maniera di cercare l’amore di Dio! E poi lo vogliamo subito a piene mani, come suol dirsi. Mantenere le nostre affezioni (visto che non cerchiamo di mettere in pratica i nostri desideri per non riuscire ad elevarli dalla terra) e, ciò nonostante, pretendere molte consolazioni spirituali, è assurdo; non mi sembra, infatti, che una cosa sia compatibile con l’altra. Pertanto, poiché non riusciamo a darci totalmente a Dio, anche l’elargizione di questo tesoro non è totale. Piaccia al Signore che Sua Maestà vada donandocelo a goccia a goccia, dovesse pur costarci tutte le sofferenze del mondo!

4. Grande misericordia egli usa a colui al quale dona la grazia e il coraggio di risolversi ad acquistare con tutte le sue forze questo bene perché, se persevera nella sua risoluzione, Dio, che non nega a nessuno il suo aiuto, a poco a poco renderà il suo coraggio capace di conseguire la vittoria. Dico coraggio, essendo innumerevoli gli ostacoli frapposti all’inizio dal demonio per impedire che s’intraprenda di fatto questa via, come chi conosce il danno che gliene viene, non solo per la perdita di quell’anima, ma di molte. Se, infatti, chi comincia a darsi all’orazione si sforza, con il favore divino, di raggiungere la vetta della perfezione, credo che non entrerà mai solo in cielo, ma traendosi dietro molta gente, come un buon capitano a cui Dio abbia affidato la sua compagnia. Perciò il demonio gli pone innanzi tanti pericoli e difficoltà che ha bisogno di non poco coraggio per non tornare indietro e, inoltre, di un grandissimo aiuto di Dio.

5. Parlando ora degli inizi di coloro che sono ormai decisi a perseguire questo bene e a conquistarlo (delle altre cose di cui avevo cominciato a dire circa la teologia mistica – credo che si chiami così – parlerò più avanti): in questi inizi sta proprio la maggior fatica, perché qui è dove si deve lavorare, anche se il Signore fornisce i mezzi per farlo, mentre negli altri gradi di orazione predomina il godimento, sebbene tutti, siano essi al principio, a metà o alla fine, portino le loro croci, per quanto diverse. Questo cammino, già percorso da Gesù Cristo, devono percorrere coloro che lo seguono, se non vogliono perdersi. E benedette queste croci che anche qui, in vita, ci vengono ripagate in sovrappiù!

6. Dovrò servirmi di qualche paragone, anche se, essendo donna, vorrei evitarli e scrivere semplicemente quello che mi hanno comandato, ma è così difficile esprimersi in questo linguaggio spirituale per chi, come me, non ha istruzione, che dovrò cercare di aiutarmi in qualche modo. Potrà darsi che il più delle volte non riesca a far calzare il paragone; vuol dire che servirà da passatempo alla signoria vostra il costatare la mia grande balordaggine. Mi sembra d’aver letto o udito il paragone che segue, ma non so dove né a che proposito, perché ho una cattiva memoria; è utile, però, al mio caso. Chi comincia deve pensare di cominciare a coltivare, per la gioia del Signore, un giardino in un terreno assai infecondo, pieno di erbacce. Sua Maestà strappa le erbe cattive e vi pianta le buone. Ora, supponiamo che questo sia già fatto quando un’anima si decide per l’orazione e ha cominciato a praticarla; con l’aiuto di Dio dobbiamo, da buoni giardinieri, procurare che quelle piante crescano e aver cura d’innaffiarle, affinché non muoiano e producano fiori di molta fragranza, per ricreare nostro Signore, in modo che venga spesso a dilettarsi in questo giardino e a godersi questi fiori di virtù.

7. Vediamo ora in che modo si può innaffiare un giardino, per capire cosa dobbiamo fare, se la fatica che ci costerà il nostro impegno sarà maggiore del guadagno e per quanto tempo essa durerà. A me sembra che un giardino si possa innaffiare in quattro modi:

- o con l’attingere acqua da un pozzo, il che comporta per noi una gran fatica;

- o con una noria e tubi, tirandola fuori mediante una ruota (io l’ho girata alcune volte), il che è di minor fatica del primo e fa estrarre più acqua;

- oppure derivandola da un fiume o da un ruscello: con questo sistema si irriga molto meglio, perché la terra resta più impregnata d’acqua, non occorre innaffiarla tanto spesso, e il giardiniere ha molto meno da faticare;

- oppure a causa di un’abbondante pioggia, in cui è il Signore ad innaffiarla senza alcuna nostra fatica, sistema senza confronto migliore di tutti quelli di cui ho parlato.

8. Ora, l’attuazione, in pratica, di queste quattro maniere di attingere l’acqua con cui si deve alimentare il nostro giardino, che senz’acqua andrebbe in rovina, è l’esempio che fa al mio caso. Mi pare che potrà chiarire qualcosa circa i quattro gradi d’orazione attraverso i quali il Signore, per sua bontà, ha fatto passare alcune volte la mia anima. Piaccia a lui, per tale bontà, che io riesca ad esprimermi in modo da giovare a una delle persone che hanno ordinato questo scritto. Il Signore lo ha condotto in quattro mesi molto più avanti del punto a cui ero giunta io in diciassette anni. Vi si è disposto meglio di me, e così irriga senza fatica questo giardino con tutte e quattro le acque; anche se l’ultima non gli venga data che a gocce; va però innanzi in modo tale che presto vi si addentrerà ben bene, con l’aiuto del Signore. Se il mio modo di spiegare gli sembrerà insensato, rida pure di me, perché ne avrò piacere.

9. Coloro che cominciano a fare orazione sono coloro che attingono l’acqua dal pozzo, con grande stento, come detto, dovendo affaticarsi a raccogliere i sensi; il che, essendo questi abituati a divagare, costa grande fatica. È necessario che vadano abituandosi a non curarsi minimamente di vedere o udire nulla, mettendo specialmente in pratica questa noncuranza nelle ore di orazione, a starsene in solitudine e, così appartati, pensare alla loro vita passata (anzi, questo, primi e ultimi, lo devono fare tutti spesso), insistendo più o meno in tale pensiero, come dirò in seguito. In principio, inoltre, dà loro pena il non riuscire a capire se si pentono davvero dei propri peccati, ma sì, se ne pentono, se si decidono a servire Dio con tanta sincerità. Devono cercare di meditare sulla vita di Cristo, e in questa meditazione l’intelletto finisce per stancarsi. Fin qui possiamo avvantaggiarci da noi, s’intende con la grazia di Dio, senza la quale si sa che non possiamo avere nemmeno un buon pensiero. Questo è cominciare ad attingere acqua dal pozzo. Voglia ancor Dio che possa trovarsene, ma almeno cerchiamo, da parte nostra, di andare ad attingerla e di fare tutto il possibile per innaffiare i fiori. Dio è così buono che anche quando, per motivi che Sua Maestà solo conosce – forse di gran vantaggio per noi – permette che il pozzo sia secco, se noi facciamo ciò che dobbiamo fare da buoni giardinieri, senz’acqua alimenterà i fiori e farà crescere le virtù. Chiamo qui «acqua» le lacrime e, in mancanza di queste, la tenerezza e il sentimento interiore di devozione.

10. Che deve, dunque, fare colui che da molti giorni non vede in sé altro che aridità, noia, ripugnanza, e tale mala voglia di andare ad attingere acqua, che se non ricordasse di far piacere e di rendere servizio al Signore del giardino e non si adoperasse a non perdere tutto ciò che spera di guadagnare con la grande fatica che costa gettare molte volte il secchio nel pozzo e tirarlo fuori senz’acqua, abbandonerebbe tutto? Gli accadrà spesso di non poter neppure alzare le braccia per far questo, né di avere un buon pensiero, poiché resta inteso che trarre l’acqua dal pozzo equivale a lavorare con l’intelletto. Allora, come dico, che farà in questo caso il giardiniere? Dovrà rallegrarsi, consolarsi e stimare come una grazia straordinaria il poter lavorare nel giardino di così grande imperatore. E poiché sa che con quel lavoro lo accontenta, e il suo intento non dev’essere quello di accontentare se stesso, ma Dio, gli renda gran lode per la fiducia che ripone in lui, avendo visto che senza alcuna paga fa tanta attenzione a ciò che gli è stato raccomandato, e lo aiuti a portare la croce, pensando che nella croce egli visse sempre. Non cerchi, del resto, quaggiù il suo regno né abbandoni mai l’orazione, deciso, anche se questa aridità debba durargli tutta la vita, a non lasciar cadere Cristo sotto il peso della croce. Verrà tempo che sarà ricompensato di tutto; non tema che il suo lavoro vada perduto; serve un buon padrone che lo sta guardando; non faccia caso dei cattivi pensieri; pensi che il demonio li faceva nascere anche a san Girolamo nel deserto.

11. Hanno però il loro premio queste fatiche, che so quanto siano gravi (come chi le ha sopportate molti anni, tanto che quando tiravo fuori una goccia d’acqua da questo benedetto pozzo, pensavo che Dio mi aveva fatto una vera grazia), e che mi sembrano richiedere più coraggio di quel che ci vuole per molte altre traversie del mondo. Ma ho visto chiaramente che Dio le ricompensa sempre ampiamente anche in questa vita. Sì, è così, non v’è dubbio: infatti, con un’ora sola delle dolcezze che egli mi ha poi concesso quaggiù di sé, mi sembra che restino ricompensate tutte le angosce lungamente sofferte per durare nell’orazione. Sono convinta che il Signore voglia dare alcune volte al principio, e altre alla fine, questi tormenti e le molte e varie specie di tentazioni che si presentano, per mettere alla prova coloro che lo amano e vedere se sapranno bere il suo calice e aiutarlo a portare la croce, prima di arricchirne l’anima con grandi tesori. E credo che per il nostro bene Sua Maestà voglia condurci attraverso queste prove, per farci capire che siamo ben poca cosa. Sono tanto sublimi le grazie che dopo ci concederà, che vuole farci vedere, prima di darcele, le nostre miserie per esperienza diretta, affinché non ci accada ciò che avvenne a Lucifero.

12. Che fate, Signor mio, che non sia per il maggior bene dell’anima che già sapete vostra, e che si sottomette a voi per seguirvi dovunque andiate, fino a morire sulla croce, decisa ad aiutarvi a portarla e a non lasciarvi solo con essa? Se ci si renderà conto di avere in sé questa determinazione, non c’è proprio di che temere, né vi è alcuna ragione di affliggersi, anime spirituali; una volta che ci si ponga in così alto grado com’è quello di voler trattare da sole a solo con Dio e abbandonare i passatempi del mondo, il più è fatto. Ringraziatene Sua Maestà e confidate nella sua bontà, che non è mai venuta meno ai suoi amici. Non vogliate indagare perché conceda tanta devozione a chi lo serve da molti anni. Teniamo per certo che tutto è per il nostro bene. Sua Maestà ci conduca dove voglia; ormai non apparteniamo più a noi stesse, ma a lui. Ci usa una grande misericordia nel permetterci di voler scavare nel suo giardino e star vicino al padrone di esso, che è sempre presso di noi. Se egli vuole che queste piante e questi fiori germoglino, alcuni con l’acqua attinta dal pozzo, altri senza di essa, che importa? Fate, o Signore, ciò che volete, purché io non abbia più ad offendervi né a perdere le mie virtù, se, unicamente per vostra bontà, me ne abbiate data qualcuna. Io voglio patire, Signore, perché voi patire; si adempia in me, pertanto, la vostra volontà, e non permetta la Maestà Vostra che un tesoro di così grande pregio come il vostro amore sia dato a chi vi serve solo per averne consolazioni.

13. Si deve notar bene – e lo dico perché lo so per esperienza – che l’anima la quale comincia a inoltrarsi risolutamente in questa via dell’orazione mentale e può riuscire a non far molto caso né delle consolazioni né degli sconforti che prova quando il Signore le concede o le nega questi piaceri e queste tenerezze, ha già percorso gran parte del cammino. Non tema di dover tornare indietro, per quanto possa inciampare, perché ha cominciato a erigere il suo edificio su salde fondamenta. È certo che l’amore di Dio non consiste nel versare lacrime né nel provare questi piaceri e tenerezze – che comunemente desideriamo e con i quali ci consoliamo – ma nel servire Dio con giustizia, con fortezza d’animo e umiltà. Ricevere di più mi sembra lo stesso che non dar nulla da parte nostra.

14. Per donnicciole come sono io, deboli e con scarsa fermezza, mi sembra che convenga, come Dio fa ora con me, favorirle di molti doni, affinché possano sopportare alcune tribolazioni a cui Sua Maestà ha voluto sottoporle; ma quando vedo che servi di Dio, uomini importanti, di cultura, d’intelligenza, fanno caso del fatto che Dio non concede loro devozione, è una cosa che solo a sentirla mi dà fastidio. Non dico che non debbano accettarla, se Dio gliela dà, e farne gran conto, perché significa che Sua Maestà ha ritenuto conveniente dargliela; ma dico che quando non l’hanno, non se ne affliggano e capiscano che non è necessaria, visto che Sua Maestà non la dà, e sappiano essere padroni di se stessi. Tengano per certo che questo è un errore – io l’ho visto e provato – e siano ben convinti che procedere nell’azione senza libertà di spirito e con animo debole è una imperfezione.

15. Questo non lo dico tanto per coloro che cominciano (anche se vi annetto grande importanza, essendo di grande vantaggio cominciare con questa libertà e determinazione), ma per gli altri, poiché ve ne saranno molti che hanno cominciato da un pezzo e non riescono mai a finire. Credo che il non aver abbracciato la croce fin da principio è in gran parte la causa che li rende afflitti, sembrando loro di non far nulla. Non possono sopportare che l’intelletto cessi di operare, mentre forse proprio allora aumenta e prende forza la volontà, ed essi non se ne accorgono. Dobbiamo pensare che il Signore non bada a queste cose le quali, anche se a noi sembrano colpe, non lo sono: Sua Maestà conosce bene la nostra miseria e l’inferiorità della nostra natura, molto meglio di noi stessi, e sa anche che queste anime desiderano solo pensare sempre a lui e amarlo. Questa è appunto la determinazione che egli vuole; quanto all’afflizione che noi ci procuriamo, non serve ad altro che a turbare l’anima la quale, se prima doveva rimanere un’ora senza trar profitto dall’orazione, adesso ne sarà incapace per lo spazio di quattro ore. Moltissime volte (io ne ho grandissima esperienza e so quanto sia vero per averci fatto particolare attenzione e averne parlato in seguito con persone spirituali) dipende da indisposizione fisica, poiché siamo così miserevoli, che questa povera anima partecipa delle miserie del corpo, di cui è come una piccola prigioniera; i cambiamenti di stagione, il mutamento degli umori fanno sì che molte volte, senza sua colpa, essa non possa far ciò che vuole e soffra ogni genere di patimenti. E quanto più, in tali circostanze, si voglia farle forza, tanto peggio è, perché il male dura più a lungo. Bisogna, invece, aver discrezione per capire quando dipende da queste cause e non opprimere la povera anima. Rendiamoci conto d’essere ammalati; si cambi l’ora dell’orazione, e molte volte per vari giorni, si sopporti come meglio si può questo esilio, perché è una grande disgrazia, per un’anima che ama Dio, vedersi vivere in questa miseria e non poter fare ciò che vuole, per il fatto di avere un ospite così cattivo com’è questo nostro corpo.

16. Ho detto «con discrezione», perché qualche volta sarà opera del demonio; pertanto, è bene non lasciare del tutto l’orazione, quando l’intelletto sia molto distratto e turbato, né tormentare di continuo l’anima costringendola a ciò che non può fare. Ci sono altre pratiche esteriori, come le opere di carità e la lettura, anche se a volte non si sarà disposti neppure a questo. Allora l’anima serva il corpo per amore di Dio, affinché sia poi esso a servire l’anima più spesso, e si prenda qualche onesto passatempo di conversazioni – che siano sante conversazioni – o faccia ricorso alla campagna, secondo quello che le consiglierà il confessore. In tutto ha molta importanza l’esperienza che fa conoscere ciò che ci conviene, e in tutto si serve Dio. Il suo giogo è soave ed è di gran guadagno non trascinare l’anima a viva forza, come si dice, ma guidarla con la soavità di tale giogo, per il suo maggior profitto.

17. Perciò ripeto il consiglio già dato – e anche se lo dico molte volte è poco male –, che ha grande importanza, che nessuno si tormenti né si affligga per aridità, inquietudini e distrazioni di pensieri. Se vuole conquistare la libertà dello spirito e non essere sempre pieno di tribolazioni, cominci a non aver paura della croce, e vedrà come anche il Signore l’aiuterà lui a portarla, e la gioia con cui procederà, e il profitto che trarrà da tutto, perché è evidente che se il pozzo non dà acqua, noi non possiamo mettercela. È altrettanto vero, però, che non dobbiamo distrarci, affinché, quando l’acqua ci sia, provvediamo ad attingerla, perché allora Dio vuole, con questo mezzo, moltiplicare ormai in noi le virtù.

CAPITOLO 12

Prosegue a parlare di questo primo stato. Dice fin dove possiamo arrivare da noi stessi, con l’aiuto di Dio, e il danno di voler elevare lo spirito a cose soprannaturali, prima che lo faccia il Signore.

1. Ciò che nel capitolo precedente ho cercato di far capire, sebbene abbia molto divagato in altre cose che mi sembravano particolarmente necessarie, è fino a che punto possiamo arrivare da noi, e come in questo primo grado d’orazione possiamo aiutarci un po’. Infatti, pensando e riflettendo a ciò che il Signore ha sofferto per noi, ci sentiamo muovere a compassione; ed è piacevole questa pena, come anche le lacrime che ne derivano, perché il pensiero della gloria che speriamo, dell’amore che il Signore ci ha portato e della sua risurrezione, ci suscita un godimento che non è del tutto spirituale né del tutto sensitivo, ma un godimento virtuoso, e la pena assai meritoria. Di tal genere sono tutte le cose che suscitano una devozione, al cui acquisto si giunge, in parte, con l’intelletto, benché, se Dio non la concede, non si possa meritarla né conseguirla. Conviene particolarmente a un’anima che egli non abbia portato più su di qui, non cercar di salire da sé – si badi molto a questa raccomandazione – perché non ne trarrebbe altro frutto che danno.

2. In questo stato l’anima può fare molti atti per risolversi a servire bene il Signore e risvegliare il proprio amore per lui; altri ancora può farne per aiutare l’aumento delle virtù, in conformità di ciò che dice un libro intitolato Arte di servire Dio, molto buono e adatto per coloro che si trovano in questo stato, in cui opera l’intelletto. S’immagini di trovarsi dinanzi al Cristo, cerchi d’innamorarsi della sua sacra umanità, tenendola sempre presente, di parlare con lui, chiedergli aiuto nel bisogno, piangendo con lui nel dolore, rallegrarsi con lui nelle gioie, senza dimenticarlo mai a causa di esse e senza andare in cerca di orazioni studiate, ma servendosi di parole che rispondano ai propri desideri e alle proprie necessità. È un metodo eccellente per far profitto, in brevissimo tempo. Chi si adopera a vivere in così preziosa compagnia e ad avvantaggiarsene il più possibile, amando veramente questo nostro Signore, a cui tanto dobbiamo, costui, a mio parere, è già molto progredito.

3. Per questo, come ho già detto, non dobbiamo preoccuparci affatto di non sentire devozione, ma ringraziare il Signore che ci permette di essere desiderosi di accontentarlo, anche se le nostre opere sono fiacche. Questo modo di portar Cristo in noi giova in ogni stato ed è un mezzo sicurissimo per trar profitto dal primo grado di orazione e giungere in breve tempo al secondo, nonché per essere negli ultimi al sicuro dai pericoli ai quali può esporci il demonio.

4. Ebbene, ciò è quanto possiamo fare da noi. Se qualcuno volesse procedere oltre ed elevare lo spirito ad assaporare dolcezze che ivi non gli si offrono, ciò equivale, a mio parere, a perder l’una e l’altra cosa, perché si tratta di dolcezze soprannaturali; e se viene meno l’intelletto, l’anima resta vuota e del tutto arida. Poiché questo edificio dev’essere interamente fondato sull’umiltà, quanto più ci avviciniamo a Dio, tanto più dobbiamo progredire in queste virtù, altrimenti va tutto perduto. E sembra in certo modo superbia che noi si voglia salire più in alto, perché Dio fa già troppo, per quello che siamo, ad avvicinarci a sé. Non si deve intendere con ciò che io mi riferisca all’elevarsi con il pensiero a meditare su cose alte del cielo o di Dio, sulle meraviglie che ci sono là, e sulla grande sua sapienza; perché anche se io non l’ho mai fatto (non ne ero capace, come ho detto, e mi sentivo tanto miserabile che, con l’aiuto di Dio, riuscivo a capire come il solo pensare alle bellezze della terra fosse non poco ardire, tanto più a quelle del cielo), altre persone possono giovarsene, specialmente se sono istruite; il che, a mio parere, è un gran tesoro, per questo esercizio, quando l’istruzione è unita all’umiltà. Pochi giorni fa l’ho costatato in alcuni studiosi i quali, pur avendo cominciato di recente l’orazione, hanno fatto in essa grandi passi, e ciò mi ispira un ardente desiderio che siano molti a dedicarsi alla vita spirituale, come dirò più avanti.

5. Ora, quand’io dico: «non s’innalzino finché Dio non li innalzi», uso un linguaggio spirituale; chi ne abbia qualche esperienza mi capirà, poiché non so dirlo altrimenti se non si riesce a capirlo così. Nello stato di teologia mistica di cui ho fatto cenno, l’intelletto cessa di operare, perché Dio ne sospende l’esercizio, come spiegherò meglio in seguito, se lo saprò fare e s’egli mi darà il suo aiuto a tal fine. Presumere o pensare di sospenderlo noi, è ciò che dico che non si deve fare, come non si deve cessare di operare con esso, perché diversamente resteremo freddi e istupiditi e non faremo né una cosa né l’altra, mentre quando è il Signore a sospenderlo e a fermarlo, gli dà lui stesso di che occuparsi e contemplare, e fa sì che, senza il ricorso alla ragione, intenda nello spazio di un Credo più di quel che noi possiamo intendere con tutte le nostre umane diligenze nel corso di molti anni. Ma pretendere di occupare da noi stesse le potenze dell’anima e di arrestarne l’attività, è una pazzia. E ripeto che, pur facendolo inavvertitamente, è segno di poca umiltà; anche se non c’è colpa, la pena c’è, perché sarà una fatica inutile e l’anima rimarrà con una certa amarezza, come chi, disponendosi a spiccare un salto, si sente afferrare dietro e vede che, dopo aver impegnato tutte le sue forze, si ritrova senza aver fatto nulla di ciò che voleva. Nello scarso profitto ricavato vedrà, chi voglia riflettere, che la causa è quella piccola mancanza di umiltà di cui ho parlato, perché ha questo di eccellente tale virtù, che non c’è azione a cui essa si accompagni che lasci l’anima afflitta. Mi sembra di essermi spiegata, ma forse sarà solo per me. Il Signore apra gli occhi a quelli che leggeranno il mio scritto e, per poca esperienza che abbiano, lo capiranno subito.

6. Ho trascorso vari anni leggendo molte cose senza intendere nulla di esse, e gran tempo in cui, anche se Dio mi concedeva di capire, non sapevo dir nulla per far capire a mia volta le stesse cose, e questo mi è costato non poco tormento. Ma quando Sua Maestà lo vuole, in un attimo insegna tutto, in modo che se ne rimane sbigottiti. In verità debbo dire una cosa; che, pur parlando con molte persone spirituali le quali si adoperavano a spiegarmi ciò che il Signore mi concedeva, perché lo sapessi esporre, era così grande la mia ottusità, che non me ne giovavo né molto né poco, o così voleva il Signore, perché non dovessi essere grata a nessuno se non a lui, essendo sempre stato Sua Maestà il mio maestro (sia egli di tutto benedetto! Mi è causa di grande confusione dire questo, ma è la pura verità). Senza che lo volessi né lo chiedessi (perché a questo riguardo, in cui sarebbe stata una virtù esser curiosa, non lo fui mai, bensì lo fui di altre cose del tutto vane), Dio in un attimo mi fece capire ogni suo favore con assoluta chiarezza, e mi diede la capacità di saperlo dire in modo tale che i miei confessori ne rimanevano stupiti ed io più di loro, perché meglio di loro conoscevo la mia ottusità. Questa grazia l’ho ricevuta da poco, ragion per cui non cerco più di apprendere ciò che il Signore non mi ha insegnato, tranne che non si tratti di cosa che riguardi la mia coscienza.

7. Ritorno ancora una volta ad avvertire quanto importi non elevare lo spirito se Dio non lo eleva, cosa che, quando avviene, s’intende subito. Altrimenti il pericolo è grave, specialmente per le donne, nel cui animo il demonio potrà far sorgere qualche illusione, benché sia convinta che il Signore non gli permetterà mai di rovinare chi cerca di avvicinarsi a lui con umiltà; anzi questi trarrà maggior profitto e guadagno proprio da ciò con cui il demonio ne desiderava vivamente la perdita. Mi sono dilungata tanto per il fatto che questa via dei principianti è la più battuta, e i consigli che ho dato sono molto importanti. Altri ne avranno trattato molto meglio di me, lo ammetto, e confesso di aver scritto con grande confusione e vergogna, anche se non con tutta quella che avrei dovuto avere. Sia benedetto il Signore che vuole e permette che una persona come me parli di cose sue così alte e sublimi.

CAPITOLO 13

Continua a parlare di questo primo stato e dà consigli per vincere alcune tentazioni a cui talvolta il demonio suole esporci. Mette in guardia contro di esse. È un capitolo molto utile.

1. Mi è sembrato opportuno parlare di alcune tentazioni che, come ho visto, si provano agli inizi – e qualche volta le ho avute anch’io – e dare alcuni consigli che mi sembrano necessari in proposito. Agli inizi, dunque, bisogna cercare di procedere con allegrezza e libertà di spirito, mentre alcune persone credono di dover perdere la devozione, se si distraggono un po’. È bene, sì, procedere temendo di sé, per non esporsi poco o molto a occasioni che offrono generalmente motivo di offendere Dio, precauzione indispensabile fino a quando non si è ben saldi nella virtù; e non sono molti ad esserlo tanto da potersi impunemente trascurare in occasioni che assecondano la loro indole. È sempre bene, finché viviamo, se non altro per umiltà, riconoscere la nostra misera natura, ma ci sono molte circostanze in cui – come ho detto – è ammesso prendersi una distrazione, anche per ritornare corroborati all’orazione. Occorre discrezione in tutto.

2. Bisogna avere grande fiducia, perché quello che giova molto non è limitare i nostri desideri, ma credere che con l’aiuto di Dio, impegnandoci a fondo, a poco a poco, anche se non subito, potremo arrivare dove arrivarono molti santi i quali, se non si fossero indotti a tali desideri e non avessero cercato a poco a poco di realizzarli, non sarebbero mai ascesi a uno stato così sublime. Sua Maestà vuole e ama le anime coraggiose, purché procedano con umiltà e diffidino di sé. Non ho mai visto nessuna di esse restare indietro nel cammino della perfezione, né ho mai visto nessuna anima codarda – sia pure ammantata di umiltà – fare in molti anni il cammino che le altre fanno in pochissimo tempo. Mi stupisce quanto profitto si ottenga in questa via con l’animarsi a grandi cose; anche se lì per lì l’anima non ne abbia le forze, spicca il volo e arriva molto in alto, pur stanca e a poco a poco, come l’uccellino di primo pelo.

3. Tempo addietro pensavo molto spesso a ciò che dice san Paolo: che in Dio si può tutto. Ben capivo che da me non potevo nulla. Questo mi giovò molto; e così pure quanto dice sant’Agostino: «Dammi, Signore, ciò che comandi e comanda ciò che vuoi». Molte volte pensavo che san Pietro non aveva perduto nulla gettandosi in mare, anche se dopo ne ebbe paura. Queste prime risoluzioni sono gran cosa, quantunque in questo primo stato occorra procedere con più cautela che negli altri, e ligi al prudente consiglio di un maestro, badando, però, che sia tale da non insegnarci a camminare come tartarughe e da accontentarci che l’anima si mostri capace solo di cacciar lucertoline. L’umiltà sia sempre tenuta presente, per rendersi conto che tali forze non possono provenire da noi.

4. Ma occorre capire bene come debba essere questa umiltà, perché credo che il demonio arrechi molto danno alle persone che praticano l’orazione, cui impedisce di progredire notevolmente, dando loro una falsa idea dell’umiltà, con il far apparire superbia il nutrire grandi desideri, il voler imitare i santi e l’anelare al martirio. Dice subito o fa capire che le azioni dei santi sono cosa da ammirarsi ma non da imitarsi da noi che siamo peccatori. Anch’io dico lo stesso, ma dobbiamo distinguere ciò che è da ammirare da ciò che è da imitare, perché non sarebbe certamente bene che una persona debole e ammalata si esponesse a frequenti digiuni e ad aspre penitenze, andandosene in un deserto, dove non potesse dormire né avesse da mangiare, e cose simili. Dobbiamo, invece, pensare che possiamo sforzarci, con l’aiuto di Dio, a riuscire a disprezzare il mondo, non stimare gli onori, non essere attaccati ai beni materiali. Ma abbiamo cuori così gretti, che ci sembra debba mancarci la terra sotto i piedi non appena decidiamo di trascurare un poco il corpo e darci allo spirito. Inoltre, ci sembra che aiuti il raccoglimento avere tutto quello che è necessario, perché le preoccupazioni turbano l’orazione. Mi addolora che si abbia così poca fiducia in Dio e così grande amor proprio da lasciarsi turbare da tali preoccupazioni. Ed è proprio così: quando lo spirito è così poco elevato, come nel caso suddetto, certe cose da nulla danno tanta pena quanta ne danno ad altri grandi cose di molta importanza. E nel nostro cervello presumiamo di essere spirituali!

5. Ora, a me sembra che con questo modo di procedere s’intenda conciliare il corpo con l’anima per non perdere la pace quaggiù e godere lassù di Dio. E così sarebbe in effetti, camminando con giustizia e conformati a virtù, ma si avanzerebbe a passo di lumaca, con il quale non si arriverebbe mai alla libertà di spirito. Mi sembra un modo di procedere assai buono per i coniugati, i quali devono condursi in conformità della loro vocazione, ma per un altro stato non approvo assolutamente tale modo di trarre profitto, e nessuno mi farà credere che sia buono, perché l’ho provato, e sarei rimasta sempre ad un punto se il Signore, nella sua bontà, non mi avesse insegnato un’altra via più breve!

6. Sebbene, in materia di desideri, li abbia avuti sempre grandi, cercavo tuttavia, come ho detto, di praticare l’orazione, ma di vivere a mio piacere. Credo, però, che se ci fosse stato qualcuno che mi avesse insegnato a volare, sarei riuscita ad attuare tali desideri; ma, a causa dei nostri peccati, sono così pochi, così rari i direttori spirituali esenti da eccessiva prudenza in proposito, che credo sia questo il motivo principale per cui i principianti non arrivano più presto a grande perfezione. Il Signore, infatti, non manca mai di aiutarci e non è per causa sua se non facciamo progressi: i manchevoli e i miserabili siamo noi.

7. Si possono anche imitare i santi nel cercare solitudine e silenzio e praticare molte altre virtù che non uccideranno certo i nostri vili corpi, che noi vogliamo trattare con ogni riguardo, per riuscire solo a rovinare l’anima. E il demonio, da parte sua, concorre moltissimo a renderli inabili ad alti compiti, non appena vede in noi un po’ di amore. Non cerca altro per farci credere che qualunque cosa ci ammazzerà e ci rovinerà la salute; perfino se versiamo qualche lacrima ci fa temere di diventare ciechi. Ci sono passata e per questo lo so, ma mi chiedo se si possa desiderare miglior vista e salute che perdere entrambe per una tale causa. Essendo tanto malata, fino a quando non presi la decisione di non badare al corpo, sono stata sempre come vincolata, del tutto inutile. Anche ora faccio ben poco, ma da quando Dio mi ha fatto capire questo inganno del demonio, non appena egli mi presentava il pericolo di perdere la salute, io dicevo: «m’importa poco di morire»; se mi suggeriva la necessità del riposo: «non già di riposo ho bisogno, ma di croce». Così per il resto. Vidi chiaramente che molto spesso, benché io, di fatto, sia molto malata, si trattava di una tentazione del demonio o della mia pigrizia. Infatti, da quando non mi uso tanti riguardi e non mi concedo agi, ho molta più salute. Perciò è di grande importanza, agli inizi, non nutrire pensieri deprimenti. E mi si creda in questo, perché lo so per esperienza; affinché la mia esperienza serva di lezione, potrà essere utile dire queste mie colpe.

8. C’è, inoltre, un’altra tentazione molto comune, e consiste nel desiderare, non appena si cominciano a gustare la pace e i vantaggi dell’orazione, che tutti siano molto spirituali. Desiderarlo non è male, ma cercare di ottenerlo potrebbe non essere cosa buona, se non si procede con molta discrezione e con abilità, in modo che non sembri un voler far da maestri. Chi vuole, infatti, ottenere qualche frutto in questa circostanza, è necessario che abbia virtù ben salde, altrimenti può essere di tentazione agli altri. Accadde proprio a me – e per questo lo so – quando, come ho detto, facevo sì che altre anime s’inducessero all’orazione: mentre da una parte mi udivano dire grandi cose dell’enorme vantaggio che procurava darsi all’orazione, dall’altra mi vedevano talmente povera di virtù, che il fatto ch’io praticassi l’orazione le rendeva incerte e turbate. E con tutta ragione, come mi hanno poi detto esse stesse, non riuscivano a capire in che modo le due cose potessero conciliarsi. Ne era anche causa, per il buon concetto che avevano di me, il non ritenere cattivo quello che in realtà lo era, per il fatto di vedere che io talvolta lo facevo.

9. Questa è opera del demonio, che sembra servirsi delle nostre buone qualità per giustificare, come può, il male che esige, giacché, poco che sia, in una comunità ha molto da guadagnare; tanto più che il male che facevo era enorme. Così, in molti anni, solamente tre persone si giovarono dei miei consigli; mentre, dopo che il Signore mi fortificò nella virtù, in due o tre anni se ne giovarono molte, come dirò in seguito. Oltre a questo, c’è un altro grave inconveniente, ed è che l’anima ne abbia a scapitare, perché ciò a cui dobbiamo soprattutto badare al principio è di attendere alla sua esclusiva formazione e far conto che sulla terra non ci siano altri che Dio e l’anima: questo sarà molto utile.

10. Un’altra tentazione presenta il demonio (e tutte hanno tale apparenza di zelo virtuoso che è necessario conoscerle e procedere con attenzione): consiste nell’affliggersi per i peccati e per le colpe che si vedono negli altri. Il demonio fa credere che sia solo una sofferenza nata dal desiderio che non si offenda Dio e dal dolore del suo onore vilipeso, a cui si dovrebbe porre subito rimedio. Ciò turba tanto da impedire di concentrarsi nell’orazione: e il maggior danno è pensare che sia virtù, perfezione e grande fervore di amor divino. Non mi riferisco, qui, alla pena che procurano i peccati pubblici, se diventati abituali in una Congregazione, o i mali che recano alla Chiesa le attuali eresie in cui vediamo perdersi tante anime, perché questa pena è molto buona e, come tale, non genera inquietudine. Ma la cosa più sicura per l’anima che si dia all’orazione è dimenticarsi di tutto e di tutti, attendendo a se stessa e ad accontentare Dio. Questo è molto importante perché, se dovessi dire gli errori che ho visto commettere nella fiducia della propria buona intenzione, non la finirei più. Procuriamo dunque di apprezzare le virtù e le buone opere che vedremo negli altri e coprire i loro difetti pensando ai nostri grandi peccati. È un modo di procedere che, anche se non raggiunge subito la perfezione, ci fa conquistare una grande virtù, quella di stimare gli altri migliori di noi; essa ha inizio proprio da qui, s’intende col favore di Dio, necessario in tutto – e, quando manca, sono inutili le nostre diligenze –, che dobbiamo supplicare di darci tale virtù, perché, se ci adopereremo con tutte le nostre forze a questo scopo egli, che non manca a nessuno, ce la darà.

11. Badino a questo consiglio anche coloro che argomentano con l’intelletto, traendo da un solo pensiero molte riflessioni e molti concetti; giacché a coloro che non possono operare con l’intelletto, come accadeva a me, non c’è da consigliare altro se non che abbiano pazienza fino a che il Signore dia loro di che occuparsi e luce per farlo. Possono così poco da sé che l’intelletto, invece di aiutarli, li impaccia. Ritornando dunque a quelli che discorrono con l’intelletto, dico che non devono spendere tutto il tempo in questo perché, anche se è molto meritorio, non sembra loro – essendo l’orazione fonte di gioia – che ci debba essere giorno di domenica né un istante di tregua dal lavoro (subito credono di perder il tempo, mentre io considero gran guadagno questa perdita). Invece, come ho detto, immaginino di essere alla presenza di Cristo e, senza stancare l’intelletto, restino a parlargli e a godere di lui, senza affaticarsi, ripeto, a far ragionamenti, ma esponendogli i bisogni spirituali, consapevoli d’essere indegni che egli sopporti di farli stare alla sua presenza. Ora facciano una considerazione, ora un’altra, perché l’anima non si stanchi di nutrirsi sempre d’un cibo. Sono cibi assai gustosi e proficui; se ci abituassimo a nutrirci di essi, ne avremmo un grande sostentamento per dar vita all’anima, e molti altri vantaggi.

12. Voglio spiegarmi meglio, perché queste cose di orazione sono tutte astruse e, se non si trova un maestro, assai difficili a capirsi; ciò fa sì che, pur volendo essere breve – e per la perspicacia di chi mi ha ordinato di scriverne sarebbe bastato solo appena accennarvi –, la mia incapacità non mi consente di dire e far capire in poche parole una cosa che è tanto importante spiegare bene. Siccome io ho sofferto molto, mi fa pena chi comincia a darsi all’orazione solo con l’aiuto di libri, essendo incredibile quanto sia diverso quello che si capisce dai libri da quello che poi si vede con l’esperienza. Ritornando dunque a ciò di cui parlavo, mettiamoci a meditare su un brano della passione, per esempio quello della flagellazione del Signore legato alla colonna. L’intelletto deve indagare i motivi, che s’indovinano, dei grandi dolori e della pena sofferta da Sua Maestà in quell’abbandono, e molte altre cose che potrà dedurre da questo passo, se il suo intelletto sa ragionare o se è persona dotta. È, questo, il modo di orazione in cui tutti devono cominciare, proseguire e finire, cammino eccellente e sicuro in sommo grado, fino a che il Signore non ci elevi ad altre cose soprannaturali.

13. Dico «tutti», ma ci sono molte anime che traggono più profitto da altre meditazioni che non da quelle della divina passione; perché allo stesso modo in cui vi sono molte dimore nel cielo, vi sono anche molte vie spirituali. Alcune persone traggono profitto dal considerarsi nell’inferno, altre nel cielo – e si abbattono nel pensare all’inferno –, altre dal meditare sulla morte. Alcune, di cuore tenero, provano gran travaglio nel pensare sempre alla passione e, invece, sollievo e profitto nel considerare la potenza e la grandezza di Dio nelle creature, l’amore che ha avuto per noi e che si rivela in tutte le cose. Ed è, questo, un modo mirabile di procedere, purché non si tralasci troppo la passione e la vita di Cristo, da cui ci è venuto e ci viene ogni bene.

14. È necessario che chi comincia ascolti consigli, per vedere da dove può trarre maggior frutto. Per questo bisogna che ci sia un maestro, purché abbia molta esperienza; perché, se non l’ha, può errare grandemente e guidare un’anima senza capirla né lasciare che essa stessa s’intenda; l’anima, infatti, sapendo che è grande merito sottostare al maestro, non osa scostarsi da ciò che le comanda. Io mi sono incontrata con anime soffocate e afflitte per l’inesperienza di chi le guidava, e ne ho avuto pena; qualcuna, persino, non sapeva più che cosa fare di sé perché, se non s’intende lo spirito, si affliggono l’anima e il corpo e si impedisce il progresso. Ne conobbi una il cui maestro da otto anni la costringeva a non uscire dal proprio conoscimento, mentre il Signore l’aveva già elevata all’orazione di quiete, e pertanto soffriva molto.

15. Tuttavia, la meditazione sulla conoscenza di sé non si deve mai tralasciare, perché non c’è anima che nel cammino dello spirito sia così gigante da non aver bisogno di ritornare spesso a essere bambina e a succhiare il latte materno (questo non lo si dimentichi mai, e forse lo dirò più volte, perché ha molta importanza), non essendoci uno stato di orazione così elevato che spesso non sia necessario rifarsi dal principio. La conoscenza di sé e dei propri peccati è il pane che in questo cammino dell’orazione si deve mangiare con tutti i cibi, anche con i più delicati, e senza di esso non ci si può sostenere. Ma si deve mangiare con discrezione, perché quando un’anima si vede ormai piena di devozione e capisce chiaramente di non aver nulla di buono, per s stessa, e si sente confusa di vergogna davanti a sì gran Re, vedendo quanto poco lo paghi per il molto che gli deve, che bisogno c’è di sprecare il tempo in questo? Dobbiamo, invece, passare ad altre cose che il Signore ci pone innanzi e che non vi è ragione di tralasciare, perché Sua Maestà sa meglio di noi ciò di cui ci conviene nutrirci.

16. Sicché è molto importante che il maestro sia avveduto, cioè di buon senso, e che abbia esperienza; se, in più, ha dottrina, è assai grande fortuna, ma se queste tre qualità non si possono trovare insieme, le più importanti sono le prime due, perché, avendone bisogno, i dotti a cui aprire il proprio animo si possono sempre trovare. Dico che ai principianti giova poco la dottrina, se non hanno spirito di orazione. Non dico con questo che non si debba trattare con i dotti, anzi, piuttosto che un’anima non proceda in base alla verità, preferisco che sia senza orazione. E la scienza è gran cosa, perché dà insegnamenti e luce a noi che poco sappiamo, sì che, giunti alle verità della sacra Scrittura, facciamo ciò che dobbiamo. Dio ci liberi dall’attendere a devozioni stolte.

17. Voglio spiegarmi meglio, perché mi sembra d’essermi perduta in molte cose. Ho avuto sempre questo difetto, di non essere capace di farmi capire – come ho detto – se non a prezzo di molte parole. Supponiamo, dunque, che una monaca cominci a fare orazione. Se chi la guida è un uomo semplice e gliene salta il ticchio, le farà credere che è meglio ubbidire a lui che al suo superiore e, senza malizia, ma pensando d’indovinarla, perché, se non è un religioso, gli sembra che si debba fare così. Se poi è una donna sposata, le dirà che è meglio, anche quando dovrebbe attendere alla casa, stare in orazione, benché abbia a scontentare suo marito; e così non saprà disporre il tempo né le cose perché vadano per la giusta via. Mancando egli di luce, non può darla agli altri, pur desiderandolo. Sebbene per queste cose non sembri che occorra lo studio, la mia opinione è sempre stata, come sempre lo sarà, che ogni cristiano cerchi possibilmente di trattare con chi ne sia ben fornito, e quanto più, tanto meglio; quelli che seguono il cammino dell’orazione ne hanno maggior bisogno degli altri, e più spirituali essi sono, più aumenta tale necessità.

18. Né ci si illuda dicendo che gli studiosi senza orazione non son fatti per chi la pratica (io ne ho trattati parecchi, in quanto da alcuni anni a questa parte mi sono adoperata a cercarli, stretta da maggior necessità, e sono sempre stata loro amica) perché, anche se alcuni non ne hanno esperienza, non rifuggono dalle cose spirituali né le ignorano. Infatti nella sacra Scrittura, che hanno continuamente tra mano, trovano sempre le verità attinenti allo spirito buono. Sono convinta che una persona di orazione che tratti con uomini dotti, se non lo vuole lei stessa, non sarà mai ingannata dal demonio con illusioni, perché credo che il demonio tema grandemente la scienza umile e virtuosa, sapendo che a causa di essa verrà scoperto e ne avrà la peggio.

19. Ho detto questo perché si crede che i dotti non siano fatti per gente di orazione, se non sono dotati di tale spirito. Certo, ripeto che è necessario un direttore spirituale, ma se egli non è un dotto, il danno è grave. Sarà di molto aiuto trattare con i dotti, purché siano virtuosi: anche se non hanno uno spirito di orazione, se ne trarrà vantaggio, perché Dio farà loro capire quello che devono insegnare, e li renderà perfino spirituali, perché possano giovarci. Parlo per mia personale esperienza, essendomi accaduto così con più di due persone. Dico pertanto che quando un’anima si rimette totalmente alla guida di un solo maestro, sbaglia molto se non lo cerca come l’ho descritto. Se è persona religiosa, deve già sottostare al suo prelato, cui può darsi che manchino le tre suddette qualità – e non sarà piccola croce – senza dovere, per giunta, andare di sua volontà a sottomettere il proprio giudizio a chi non sia avveduto. Questo io non sono mai riuscita a farlo, né mi sembra che convenga farlo. Se invece è secolare, ringrazi Dio di potersi scegliere la persona alla cui guida sottomettersi, e non perda questa santa libertà. È preferibile rimanere senza guida, finché non si trovi chi fa al caso, e il Signore concederà certo di trovarlo, se si procede in tutta umiltà e con desiderio di riuscire. Io lo lodo grandemente, e dovremmo sempre rendergli infinite grazie, noi donne e coloro che non hanno istruzione, per il fatto che ci sia chi, a costo di tante fatiche, ha raggiunto quella verità che noi, gente incolta, ignoriamo.

20. Molte volte mi stupisce la fatica che ai dotti, specialmente religiosi, è costato acquistare quella scienza della quale, senz’altra fatica se non quella di farne richiesta, io posso giovarmi. E pensare che ci sono persone che non vogliono approfittarne! Non lo permetta Iddio! Vedo quei religiosi costretti ai rigori della regola, che son grandi, con penitenze, cattivo nutrimento, soggetti all’obbedienza – il che alcune volte mi riempie, non c’è dubbio, di confusione –, con l’aggiunta di dormir male, affaticarsi sempre, ovunque trascinare la croce. Mi sembra davvero deprecabile che qualcuno, per sua colpa, perda un bene così grande. Ed è mai possibile che noi, che siamo liberi da queste sofferenze, e ci sediamo a tavola apparecchiata, come si dice, e viviamo a nostro agio, per il fatto di dedicarci un po’ di più all’orazione, dobbiamo aver la meglio su tante fatiche?

21. Siate benedetto, o Signore, per avermi fatto così inutile e incapace! Ma siate soprattutto benedetto perché spronate tante anime ad illuminarci. Dovremmo pregare incessantemente per chi ci illumina. Che saremmo senza di esse fra così grandi tempeste, come sono quelle che oggi sconvolgono la Chiesa? Se alcuni si sono mostrati infedeli, rifulgerà maggiormente la luce dei buoni. Piaccia al Signore di reggerli con la sua mano e di aiutarli affinché aiutino noi! Amen.

22. Mi sono molto dilungata dal soggetto di cui avevo cominciato a parlare, ma ogni soggetto è utile ai principianti, affinché possano avviarsi per un cammino così alto, in modo da rimanere sempre sulla retta via. Tornando, dunque, a quanto dicevo sulla meditazione della flagellazione di Cristo legato alla colonna, è bene fermarsi un momento a considerare le pene che ivi soffrì, perché le soffrì, chi è colui che le soffrì e l’amore con cui le soffrì, ma senza stancarsi a cercare queste considerazioni, stando soltanto lì con lui e facendo tacere l’intelletto. Se si può, occuparlo nel considerare che egli ci guarda, e fargli compagnia, parlargli, supplicarlo, umiliarci e deliziarci con lui, ricordando che non siamo degni di stare lì. Quando un’anima può far ciò, anche se è al principio della pratica di orazione, ne trarrà gran profitto, perché questo modo di pregare è assai vantaggioso, per lo meno tale è stato per la mia anima. Non so se riesco a spiegarmi; vostra paternità lo vedrà. Piaccia al Signore che io riesca sempre a contentarlo! Amen.

CAPITOLO 14

Comincia a spiegare il secondo grado di orazione, in cui il Signore concede già all’anima di sentire dolcezze particolari. La spiegazione tende a illustrare come siano ormai favori soprannaturali. È un capitolo degno di nota.

1. Poiché si è ormai detto con quanta fatica venga innaffiato questo giardino, quando a forza di braccia occorre cavar l’acqua dal pozzo, parliamo ora del secondo modo di tirar fuori l’acqua, preparato dal padrone del giardino in modo che, mediante il meccanismo di una ruota e di tubature, il giardiniere possa trarre più acqua con minor fatica, e possa riposarsi, senza bisogno di stare in continuo lavoro. Ebbene, questo modo, applicato all’orazione detta di quiete, è quello di cui ora voglio parlare.

2. A questo punto l’anima comincia a raccogliersi e raggiungere ormai uno stato soprannaturale a cui in nessun modo potrebbe arrivare con le sue forze, per quanto impegno mettesse. È vero che sembra che si sia alquanto stancata nel girare la ruota e lavorare d’intelletto per riempire i canali, ma ora l’acqua è più alta, perciò si lavora meno che a tirarla su dal pozzo; intendo dire che l’acqua è più vicina, perché la grazia si manifesta all’anima più chiaramente. Ciò determina un raccogliersi delle potenze spirituali in se stesse per godere meglio di quella gioia, ma non si perdono né si addormentano; soltanto la volontà agisce, in modo tale, però, che – senza sapere come – resta prigioniera, ossia acconsente ad essere incarcerata da Dio, come chi sa bene di essere prigioniero di chi ama. Oh, Gesù e Signor mio, com’è potente il vostro amore! Esso tiene il nostro così avvinto a sé, da non lasciargli libertà di amare in quel momento nient’altro che voi.

3. Le altre due potenze aiutano la volontà a diventare capace di godere di un bene così grande, sebbene alcune volte, quando la volontà è unita a Dio, accade che le siano di grande ostacolo. Ma allora la volontà non badi ad esse, standosene nel suo godimento e nella sua pace perché, se cercasse di raccoglierle, sarebbe una perdita per sé e per loro. Sono esse, infatti, come certe colombe che non si accontentano del cibo che ricevono senza fatica dal padrone della colombaia e vanno a cercarselo altrove, ma lo trovano così cattivo che tornano indietro. Altrettanto avviene delle altre facoltà: esse vanno e vengono, sperando che la volontà dia loro qualcosa di ciò che gode. Se il Signore vuole gettare ad esse un po’ di cibo, si fermano, altrimenti tornano a cercarlo: forse pensano di giovare alla volontà, mentre a volte, quando la memoria o l’immaginazione vogliono rappresentarle ciò che sta godendo, le fanno un danno. Bisogna, quindi, regolarsi in questi casi come dirò.

4. Tutto quello che ora avviene comporta grandissima letizia e così poca fatica che l’orazione non stanca, anche se dura a lungo, perché l’intelletto qui opera molto lentamente ed estrae assai più acqua di quella che non estraesse dal pozzo; le lacrime che qui Dio ci dà sono lacrime di gioia e, benché si sentano, sgorgano spontaneamente.

5. Quest’acqua di grandi favori e grazie che qui il Signore ci dona fa crescere le virtù in modo incomparabilmente maggiore che nella precedente orazione, perché l’anima va ormai elevandosi dalla sua miseria e va acquistando già una qualche conoscenza delle delizie del cielo. Credo che questa conoscenza la faccia maggiormente progredire e anche giungere più vicino alla vera virtù da cui derivano tutte le virtù, che è Dio. Infatti, Sua Maestà comincia a comunicarsi a quest’anima e vuole che essa lo senta. Arrivati a questo punto, si comincia subito a perdere l’avidità delle cose terrene, e poche grazie! Perché si vede chiaramente che quaggiù non si può avere neanche per un attimo quella gioia, né ci sono ricchezze, potenze, onori, piaceri che bastino a darci un solo istante di questa gioia, essendo un godimento vero che ci soddisfa pienamente. Nelle cose terrene è un miracolo, mi pare, intendere dove stia questa gioia, perché non manca mai un motivo di dubbio o di contrasto, mentre qui tutto è positivo, in quel momento. Un motivo di delusione verrà dopo, vedendo che quella gioia è finita e non si può né si sa come recuperarla; perché allora, se il Signore non vuole ridarla, poco giova farsi a pezzi con penitenze, orazioni e ogni genere di mortificazioni. Dio, nella sua grandezza, vuole che quest’anima intenda che Sua Maestà le è così vicino da non esservi più bisogno dell’invio di messaggeri: occorre solo che essa parli con lui e senza bisogno di emettere la voce, perché egli ormai le sta così vicino che dal movimento delle labbra la intende.

6. Sembra inopportuno dir questo, perché sappiamo che sempre il Signore ci ascolta ed è in noi. Non c’è dubbio che sia così, ma questo nostro Imperatore e Signore vuole che noi, a questo punto, comprendiamo che egli ci ascolta e quali siano gli effetti della sua presenza, e il suo particolare desiderio di cominciare a operare nell’anima, dandole grandi soddisfazioni interiori ed esteriori e facendole capire la differenza che, come ho detto, passa fra tali gioie e diletti e quelli del mondo. E così sembra riempire il vuoto che a causa dei nostri peccati avevamo fatto nella nostra anima. Questa soddisfazione alberga nella parte più intima dell’anima, che non sa da dove né in che modo le venga, né sa, spesso, cosa fare, né cosa volere, né cosa chiedere. Le sembra di aver trovato tutti i beni riuniti insieme e non sa che cosa ha trovato, e nemmeno io so come farlo capire, perché, per molte cose, sarebbe necessario aver studiato. Ora, per esempio, sarebbe stato bene spiegare che cosa siano le grazie generali e quelle particolari, perché ci sono molti che lo ignorano, e come il Signore voglia che qui l’anima veda con i propri occhi, come si dice, queste grazie particolari. Inoltre, la scienza mi sarebbe stata utile per molte altre cose che saranno forse errate; ma, poiché dovranno essere rivedute da persone che sanno riconoscere gli errori, sono tranquilla, perché so di poterlo essere, sia per quanto riguarda la forma, sia per quanto riguarda il concetto; sono infatti sicura che coloro ai quali lo scritto andrà in mano, sapranno vedere quanto vi è di errato e lo toglieranno.

7. Vorrei proprio riuscire a spiegare queste cose, perché si tratta degli inizi, e quando il Signore comincia a elargire tali grazie, l’anima stessa non le capisce né sa come regolarsi. Infatti, se il Signore la conduce per la via del timore, come ha fatto con me, e non c’è chi la intenda, soffre una gran pena, mentre le darebbe molta gioia vedersi descritta al vivo, in modo da rendersi conto chiaramente della via che segue. È molto utile, in ogni grado di orazione, sapere quel che si deve fare per poter progredire. Per non sapere cosa fare, ho sofferto molto e ho perduto molto tempo, e mi fanno gran pena le anime che, giunte a questo punto, si trovano sole. Pur avendo letto molti libri spirituali ho visto che essi, anche se toccano l’argomento in causa, spiegano ben poco, e se l’anima non ha molta esperienza, avrà da sforzarsi molto per comprendersi.

8. Desidererei vivamente che il Signore mi aiutasse a descrivere gli effetti prodotti nell’anima da quei favori che già cominciano a essere soprannaturali, affinché si possa capire da tali effetti se vengono dallo spirito di Dio. Dico «si possa capire», per quanto è possibile intendere su questa terra, ma è sempre bene procedere con timore e cautela perché, anche se vengono da Dio, a volte il demonio può trasfigurarsi in angelo di luce, e se l’anima non ha molta esperienza, non se ne accorgerà; deve avere davvero molta esperienza perché, per accorgersene, bisogna essere giunti quasi al sommo dell’orazione. Non mi è certo di aiuto, per questo lavoro, la ristrettezza del tempo – e così è necessario che Sua Maestà faccia quello che io non posso fare –, perché devo seguire la comunità e attendere a molte occupazioni (trovandomi in una casa di nuova fondazione, come si vedrà in seguito): pertanto scrivo molto irregolarmente e a brevi intervalli. Vorrei che m’aiutasse lui, perché quando il Signore ispira, si scrive più facilmente e con maggior chiarezza, come se si avesse davanti un modello e si dovesse far solo il lavoro di ricopiarlo. Ma se manca l’ispirazione, adattare un linguaggio a queste cose è più difficile che l’esprimersi in arabo, per così dire, anche se si sia praticata per molti anni l’orazione. Pertanto, mi sembra un grandissimo vantaggio, quando parlo di un grado di orazione, trovarmi in esso, vedendo chiaramente che non sono io a parlare, perché non dispongo i concetti con l’intelletto né, dopo, so come sia riuscita ad esprimerli. Questo mi accade molte volte.

9. Torniamo ora al nostro orto o giardino e vediamo come comincino questi alberi a riempirsi di linfa per fiorire e poi fruttificare, e così i fiori e i garofani, per dar profumo. Questo paragone mi piace, perché molte volte, agli inizi (e piaccia al Signore che io abbia ora cominciato a servire davvero Sua Maestà! Agli «inizi», intendo dire, di quella parte della mia vita di cui parlerò da qui in avanti) mi procurava grande gioia considerare la mia anima come un giardino in cui il Signore passeggiava. Lo supplicavo di aumentare il profumo dei piccoli fiori di virtù che sembravano sul punto di sbocciare, e di nutrirli, per amore della sua gloria – poiché io non volevo nulla per me –, tagliando quelli che voleva, poiché io sapevo bene che sarebbero cresciuti più belli. Dico «tagliare», perché in certi momenti nell’anima non c’è ricordo di questo giardino; sembra che sia completamente secco e che non debba esserci acqua per alimentarlo, né che ci sia mai stato nell’anima alcun germe di virtù. Si prova allora grande sofferenza, perché il Signore vuole che al povero giardiniere sembri perduto tutto ciò che ha fatto per alimentare e innaffiare il giardino. Allora è davvero il momento di sarchiare e sradicare le erbacce rimaste, per piccole che siano, di riconoscere che non ci sono diligenze che bastino, se Dio ci priva dell’acqua della sua grazia, e far poco conto del nostro nulla, anzi del nostro meno che nulla. Questo farà progredire l’anima nell’umiltà. I fiori torneranno a sbocciare.

10. Oh, mio Signore e mio bene! Io non posso dire questo senza lacrime e grande gioia della mia anima, se penso che voi vogliate, Signore, starvene così con noi, quando già siete presente nel santissimo Sacramento, come dobbiamo credere in modo certo, perché è così. In tutta verità, ci è lecito, dunque, fare questo paragone, che se non è per colpa nostra, possiamo godere di voi come voi di noi, poiché avete detto che la vostra delizia è stare con i figli degli uomini. Oh, Signor mio! cosa è mai questo? Ogni volta che ascolto queste parole ne provo gran conforto, e ciò anche quando ero assai colpevole. È possibile, Signore, che ci sia un’anima la quale, giunta a ricevere da voi simili grazie e doni, e a capire che voi godete di essa, torni ad offendervi, dopo tanti favori e così grandi prove del vostro amore, da non poter dubitare di esso, vedendone chiaramente le opere in sé? Sì, c’è sicuramente, e non una, ma molte volte l’ha fatto, e sono io. Piaccia alla vostra bontà, Signore, che sia io sola l’ingrata, quella che ha commesso così grande iniquità, che si è resa colpevole di così smisurata ingratitudine; anche da lei, però, la vostra infinita bontà ha già ricavato qualche bene: quanto maggiore è il male, tanto più risplende il bene delle vostre misericordie. E con quanta ragione io le posso cantare per sempre!

11. Vi supplico, mio Dio, di concedermi che ciò avvenga e che io possa cantarle in eterno, visto che vi siete compiaciuto di elargirmele così straordinariamente grandi da meravigliare coloro che le vedono e far spesso trasecolare me che allora mi effondo nelle vostre lodi, poiché sola e senza di voi io non potrei far altro che strappare di nuovo i fiori del mio giardino, in modo che questa mia terra miserabile si ridurrebbe allo stato di un letamaio come prima. Non permettetelo, Signore, né vogliate che si perda un’anima che a prezzo di tante sofferenze avete redento e che tante volte siete tornato a riscattare strappandola alle fauci dello spaventoso dragone.

12. La signoria vostra, padre, mi perdoni se divago dal mio soggetto e non se ne meravigli, poiché parlo di cose che mi riguardano. L’anima è così presa da ciò che scrive che, a volte, le è difficile non continuare nelle lodi di Dio in quanto, scrivendo, ripensa al molto che gli deve. Spero che la signoria vostra non ne sarà scontento, perché mi sembra che entrambi possiamo innalzare lo stesso canto, anche se in maniera differente; è, infatti, molto più quello che io devo al Dio, il quale mi ha perdonato di più, come la signoria vostra sa.

CAPITOLO 15

Prosegue nel medesimo argomento e dà alcuni consigli circa il modo di procedere nell’orazione di quiete. Dice che ci sono molte anime che giungono a questo grado di orazione, ma poche lo oltrepassano. Le cose di cui si parla qui sono molto necessarie e utili.

1. Adesso torniamo al nostro argomento. Questa quiete e raccoglimento dell’anima sono cose che si avvertono chiaramente per la pace e l’appagamento che producono, con grandissima gioia e riposo delle potenze spirituali e con soavissimo godimento. Sembra all’anima, non essendo mai giunta più in alto, che non le resti altro da desiderare e molto volentieri direbbe con Pietro che lì è il luogo dove fissare la sua dimora. Non osa muoversi né spostarsi, perché le sembra che quel bene le debba sfuggire di tra le mani; a volte non vorrebbe nemmeno respirare. Poveretta, non capisce che, come non poté far nulla per attirarsi quel bene, meno ancora potrà fare per conservarlo più di quanto il Signore vorrà. Ho già detto che in questa orazione di raccoglimento e di quiete non mancano di agire le potenze dell’anima; ma l’anima è così appagata di Dio che, mentre dura tale stato, anche se la memoria e l’intelletto si scombussolano, poiché la volontà è unita a Dio non perde la pace e la tranquillità, anzi a poco a poco essa riporta al raccoglimento l’intelletto e la memoria. Infatti, benché non sia del tutto immersa in Dio, è così occupata a contemplarlo, senza saper come, che le altre due potenze, per quanti sforzi facciano, non possono toglierle il suo appagamento e la sua gioia; tanto più che, senza molta fatica, essa si va adoperando perché questa piccola scintilla di amore di Dio non si spenga.

2. Piaccia a Sua Maestà di darmi grazia di far ben comprendere questa cosa, perché sono molte, moltissime le anime che arrivano a questo stato, e poche quelle che vanno avanti e non so di chi sia la colpa. Certamente non è Dio a venir meno, poiché se Sua Maestà dà la grazia di giungere fin qui, non credo che cesserà di concederne molte altre, se non a causa della nostra colpa. È molto importante che l’anima, arrivata a questo punto, si renda conto della grande dignità del suo stato, della somma grazia che il Signore le ha fatto, e di come ben a ragione debba distaccarsi dalla terra, visto che la sua bontà sembra renderla ormai cittadina del cielo, se non resta quaggiù per sua colpa. Sventurata lei se torna indietro! Io penso che sarà per precipitare in basso – come avrei fatto io, se la misericordia del Signore non mi avesse salvata – perché nella maggior parte dei casi ciò avverrà, io credo, per gravi colpe, essendo impossibile lasciare un sì gran bene senz’essere accecati da un grave male.

3. Prego pertanto, per amore del Signore, le anime alle quali Sua Maestà ha concesso così grande grazia di giungere a questo stato, di conoscersi bene e di valutarsi molto, con un’umile e santa presunzione, per non ritornare alle pentole d’Egitto. Se per debolezza e perversità, per indole misera e vile, ricadessero – come feci io –, abbiano sempre presente il bene perduto, siano diffidenti e camminino con timore, perché ne hanno motivo, perché se non tornano all’orazione andranno di male in peggio. Questa io chiamo vera caduta, abbandonare la strada che è stata fonte di tanto bene. Parlando a queste anime non dico già che non debbano più offendere Dio e non cadere in peccato (anche se sarebbe giusto che chi ha cominciato a ricevere tali grazie se ne guardasse bene, ma siamo tanto miserabili!). quello che raccomando vivamente è di non lasciare l’orazione, perché è lì dove si capisce ciò che si fa e dove si riceve dal Signore la grazia del pentimento e la forza per rialzarsi. Mi si creda, mi si creda davvero: allontanandosi dall’orazione, si corre grave pericolo. Non so se dico bene, perché – come ho già fatto osservare – giudico in base alla mia esperienza.

4. È, dunque, questa orazione una piccola scintilla del vero amore di Dio che il Signore comincia ad accendere nell’anima, volendo che essa intenda gradatamente in che cosa consista quest’amore pieno di dolcezze. La quiete e il raccoglimento, ossia tale piccola scintilla, se viene dallo spirito di Dio e non è un piacere suscitato dal demonio o prodotto dai nostri sforzi (per quanto riesca impossibile a chi ha esperienza non capire subito che non è cosa da potersi acquistare da noi stessi, ma la nostra natura è così avida di piaceri che fa ogni tentativo per alimentarla, pur restando assai presto senza alcun calore, perché per quanto voglia attivare il fuoco così da ottenere questo piacere, sembra non faccia altro che gettarci acqua per smorzarlo) se, dunque, questa piccola scintilla è accesa da Dio, per piccola che sia, scoppietta ben forte, e se non la soffochiamo per colpa nostra, è lei a dar l’avvio al grande fuoco dell’ardente amor di Dio che sprigiona fiamme, come dirò a suo luogo, e che Sua Maestà suscita nelle anime perfette.

5. È, questa scintilla, un segno e un pegno che Dio dà all’anima di averla scelta ormai per grandi cose, perché si prepari a riceverle, è un grande dono, molto più grande di quanto io possa dire. Ripeto, conosco molte anime che giungono fin qui, ma quelle che passano oltre, come dovrebbero, sono così poche che ho vergogna a dirlo; non già che siano poche in senso assoluto, anzi, devono essercene molte, perché se Dio ci sopporta, è per qualche cosa; dico solo quello che ho visto. Desidererei vivamente avvertirle di badare a non nascondere il loro talento, perché sembra che Dio le abbia scelte per profitto di molte altre, specialmente in questi tempi in cui sono necessari forti amici di Dio a sostegno dei deboli; pertanto, quelli che riconoscono in sé questa grazia, si reputino davvero tali, se sanno conformarsi alle leggi che richiede una buona amicizia anche nel mondo; altrimenti, come ho già detto, temano ed abbiano paura di far male a se stessi, e Dio voglia che sia soltanto a se stessi!

6. Ciò che deve fare l’anima durante l’orazione di quiete non è altro che attendervi con dolcezza e senza strepito. Chiamo «strepito» l’andar cercando con l’intelletto molte parole e considerazioni per render grazie di questo beneficio e rivangare il mucchio dei propri peccati e delle proprie mancanze per convincersi di non esserne degna. Tutto questo altera la quiete, perché l’intelletto si sforza di rappresentare le cose e la memoria si agita per ricordarle. Non c’è dubbio che queste due potenze a volte mi stanchino perché, pur avendo poca memoria, non mi riesce di dominarla. La volontà operi con calma e prudenza, e intenda che con Dio non si negozia bene a forza di braccia, e che questi ragionamenti sono come grossi pezzi di legna messi senza discernimento sulla scintilla per soffocarla; lo riconosca e con umiltà dica: «Signore, che posso fare io qui? Che ha da vedere la serva con il padrone e la terra con il cielo?» e altre parole d’amore che la circostanza le suggerisca, convinta della verità di quello che dice. E non badi all’intelletto, che è un seccatore, e se essa vuol renderlo partecipe di ciò che gode o si sforza di indurlo al raccoglimento – perché molte volte la volontà si troverà in quiete e unita a Dio, mentre l’intelletto sarà in gran scompiglio – è meglio che lo lasci andare, anziché corrergli dietro, e se ne stia a godere di quella grazia, raccolta in sé come ape prudente. Se, infatti, nell’alveare non entrasse nessuna ape e se ne andassero tutte per darsi la caccia a vicenda, difficilmente si potrebbe fare il miele.

7. L’anima, pertanto, se non fa attenzione a questo, perderà molto; specialmente se ha l’intelletto acuto, perché è allora quando esso comincia a coordinare discorsi e a cercar ragioni, pensando anche un pochino, se sono ben argomentate, di far qualcosa di buono. La sola ragione che qui può valere è intendere chiaramente che non ce n’è nessuna perché Dio ci faccia una grazia così grande, all’infuori, unicamente, della sua bontà. Cerchiamo di capire, piuttosto, che gli siamo molto vicini, chiediamo grazie a Sua Maestà e preghiamo per la Chiesa, per coloro che si raccomandano alle nostre preghiere e per le anime del purgatorio, non con rumore di parole, ma con vivo desiderio di essere esauditi. È un’orazione che comprende molte cose e mediante la quale si ottiene di più che con molti ragionamenti dell’intelletto. La volontà ridesti in sé alcune considerazioni offerte dalla stessa ragione nel vedersi tanto migliorata, per ravvivare il suo amore, e compia, insieme, alcuni atti d’amore chiedendosi, per esempio, che cosa debba fare per colui a cui deve tanto, senza peraltro – come ho detto – dar adito alla voce dell’intelletto, applicandolo alla ricerca di profonde ragioni. Giovano di più, a questo proposito, alcune pagliuzze poste qui con umiltà (e saranno meno che paglie, se le poniamo noi), che meglio attizzano il fuoco, anziché molta legna ammonticchiata con argomentazioni dottissime che – a nostro avviso – in un Credo soffocherebbero la fiamma. Questo avviso è utile per gli studiosi che mi hanno comandato di scrivere perché, essendo tutti, per la bontà di Dio, arrivati qui, può darsi che perdano il tempo in applicazioni della sacra Scrittura e, sebbene la dottrina sia loro di gran vantaggio prima e dopo, in questi momenti di orazione c’è ben poca necessità di essa, a mio parere, e serve solo ad indebolire la volontà, perché l’intelletto allora ha la percezione di essere vicino alla luce, con così assoluta chiarezza che anch’io, pur essendo quella che sono, sembro un’altra.

8. E così, stando in questa orazione di quiete, benché non capisca quasi nulla di ciò che recito in latino, specialmente del Salterio, mi è accaduto non solo di capire il versetto come suona in lingua volgare, ma anche di andare oltre e gioire di penetrare il senso del versetto stesso. Lasciamo stare il caso in cui dovessero predicare e insegnare, perché allora conviene servirsi della dottrina per aiutare quei poveretti di scarsa istruzione come me. La carità è sempre una gran cosa, soprattutto quella di giovare alle anime, facendolo apertamente per amor di Dio. Ma, in questi momenti di quiete lascino riposare l’anima nella sua pace, mettendo da parte le lettere; verrà il tempo di giovarsene al servizio del Signore, e di apprezzarle tanto che per nessun tesoro vorrebbero aver tralasciato di istruirsi, unicamente per servire Sua Maestà, essendo in ciò di molto aiuto per loro. Ma davanti alla sapienza infinita, mi credano, vale più un piccolo sforzo di umiltà e un atto di essa, che tutta la scienza del mondo. Qui non c’è da argomentare, ma da riconoscere sinceramente che cosa siamo e presentarci con semplicità davanti a Dio il quale vuole che l’anima si riveli sprovveduta, come lo è infatti al cospetto di lui, che si umilia tanto da sopportarla vicino a sé, pur essendo noi quello che siamo.

9. L’intelletto si muove anch’esso per ringraziare Dio in parole ornate, ma la volontà, tenendosi quieta e non osando nemmeno alzare gli occhi, come il pubblicano, farà più buon ringraziamento di quel che l’intelletto, mettendo a soqquadro la retorica, può forse fare. Infine, in questo stato non si deve lasciar del tutto l’orazione mentale, neppure certe preghiere orali, che alcune volte, volendolo e potendolo, si possono fare. Dico così perché, quando la quiete è profonda, difficilmente si può parlare, e lo si fa solo con grande sforzo. Si sente, a mio parere, quando lo spirito viene da Dio o è procurato da noi stessi con un inizio di devozione dataci da Dio e per la quale vogliamo, come ho detto, passare a questa quiete della volontà; in tal caso non produce alcun effetto, tutto finisce presto e si resta nell’aridità.

10. Se proviene dal demonio, ritengo che l’anima dotata di esperienza se ne accorgerà, perché lascia inquietudine, poca umiltà e poca disposizione per gli effetti prodotti dallo spirito di Dio, nessuna luce nell’intelletto né fermezza nella verità. Ma può fare poco o nessun danno, se l’anima indirizza a Dio la gioia e la dolcezza che prova in quello stato e pone in lui ogni suo pensiero e desiderio, come si è già dato avviso. Il demonio non può guadagnare nulla, anzi Dio permetterà che, a causa dello stesso diletto che produce nell’anima, perda molto, perché questa, pensando che venga da Dio, si darà spesso all’orazione, con vivo desiderio di lui. E se è un’anima umile e non curiosa, né ha cura dei diletti, ancorché spirituali, ma amante della croce, farà poco conto del piacere procurato dal demonio, mentre non potrà fare altrettanto se è spirito di Dio, che terrà, invece, in gran stima. Tutto ciò che presenta il demonio è una menzogna come lui, ma se vede che l’anima, per effetto di quel piacere e di quel diletto si umilia (perché di questo deve molto preoccuparsi: procurare in tutte le cose spirituali di uscirne con grande umiltà), non tornerà spesso all’assalto, vedendo che ne esce sconfitto.

11. Per questo e per molte altre ragioni, ho consigliato, parlando del primo grado di orazione – cioè il primo modo di attingere acqua –, che è importantissimo che le anime, entrando in orazione, comincino a distaccarsi da ogni genere di diletti e vi entrino risolute ad aiutare Cristo a portar la croce, come buoni cavalieri che senza soldo vogliono servire il loro re, ben sicuri di averne una ricompensa. Teniamo gli occhi costantemente fissi su quel vero ed eterno regno che aspiriamo a guadagnarci. È cosa molto importante averlo sempre presente, e specialmente in principio, mentre dopo si vedrà così chiaramente che, anziché cercare di ricordare la caducità delle cose di questo mondo, il nulla del tutto e il nessun conto che deve farsi del riposo terreno, sarà necessario, per vivere, dimenticarlo.

12. Sembra che queste considerazioni siano troppo terrene e lo sono, in verità, tanto che chi è già progredito nella perfezione terrebbe a disonore e si vergognerebbe se dovesse pensare di abbandonare i beni di questo mondo per il fatto che hanno fine, mentre, anche se durassero sempre, sarebbe felice di lasciarli per Dio; e con gioia tanto maggiore quanto più squisiti essi fossero, e più duraturi. In tali anime l’amore è ormai cresciuto ed è lui ad agire. Ma per i principianti tali considerazioni sono cosa di grandissima importanza – e non le ritengano vili, perché è grandissimo il vantaggio che se ne trae –; per questo insisto tanto. Ne avranno bisogno anche coloro che sono già molto avanti nell’orazione, in quelle circostanze in cui Dio vuol metterli alla prova e sembra che li abbandoni perché, come ho già detto e non vorrei che lo si dimenticasse, in questa vita che viviamo, anche se diciamo che l’anima cresce, e in verità cresce, non cresce come il corpo. Ma, mentre un bambino, dopo essere cresciuto ed aver acquistato una gran corporatura, preso ormai l’aspetto di un uomo, non torna a calare e ad avere un corpo di bambino, qui, invece, il Signore fa che questo avvenga (a quanto ho visto io per me, non so se per altri). Dev’essere per umiliarci a fin di bene e perché non ci accada di trascurarci mentre stiamo in questo esilio; pertanto, chi si trova più in alto, ha da temere di più e da fidarsi meno di sé. A volte, coloro la cui volontà è ormai così strettamente unita a quella di Dio che, pur di non commettere peccati, quando si vedono assaliti da tentazioni e presunzioni, si lascerebbero tormentare e soffrirebbero mille morti, per evitare il pericolo di offenderlo, hanno bisogno di giovarsi delle prime armi dell’orazione e tornare a pensare che tutto finisce e che c’è il cielo e l’inferno, e altre cose di tal genere.

13. Ritornando, dunque, a quello che dicevo, è fondamentale, per liberarsi dagli inganni e dai piaceri del demonio, avviarsi con decisione, fin dal principio, a seguire la via della croce, e a non desiderare altro, poiché nostro Signore stesso indica questo cammino di perfezione, dicendo: «Prendi la tua croce e seguimi». Egli è il nostro modello; non avrà nulla da temere chi segue i suoi consigli unicamente per compiacergli.

14. Dal profitto stesso che costaterà in sé, capirà che non è opera del demonio, perché, se anche tornerà a cadere, c’è una prova della presenza del Signore, ed è il fatto di rialzarsi presto, con altri segni che ora descriverò. Quando si tratta dello spirito di Dio, non è necessario andar cercando considerazioni da cui ricavare umiltà e confusione, perché è lo stesso Signore a darcele, in un modo assai diverso da quello con cui potremmo acquistarle mediante le nostre povere considerazioni, che non sono nulla in confronto della vera umiltà piena di luce che il Signore insegna, tale da generare una confusione che annienta. È notevolissima la conoscenza che Dio ci dà di noi stessi, affinché comprendiamo che non possediamo alcun bene di nostro; e tanto più chiaramente quanto più grandi saranno le sue grazie. Ci infonde un gran desiderio di progredire nell’orazione, e non lasciarla, per quante difficoltà possano sopravvenire. L’anima, pertanto, è disposta a tutto, sicura, pur con umiltà e timore, della sua salvezza. Non il timore servile, subito scacciato, ma, al suo posto, un sincero timore riverenziale, molto accresciuto. Vede nascere in sé un amor di Dio senza alcun interesse egoistico, desidera momenti di solitudine, per godere maggiormente di quel bene.

15. Infine, per non stancarmi, questa grazia è il principio di ogni bene, è il tempo in cui i fiori sono ormai sul punto di sbocciare. L’anima lo vede ben chiaramente e per nulla ormai potrà indursi a credere che Dio non sia stato con lei, fino a quando torni a costatare le proprie colpe e imperfezioni, ché allora teme di nuovo. Ed è bene che tema, sebbene ci siano alcune anime cui giova di più credere con certezza che quanto avviene è opera di Dio, che non tutti i timori possibili; perché, se per loro natura sono inclini all’amore e alla gratitudine, il ricordo della grazia ricevuta da Dio le farà tornare a lui più facilmente che non il pensiero di tutti i castighi dell’inferno; almeno così accadeva a me, benché tanto spregevole.

16. Siccome i segni dello spirito buono saranno descritti in seguito, non ne parlo ora qui, tanto più che mi costa molta fatica esporli con chiarezza. Credo che col favore di Dio riuscirò, in questo, a dir qualcosa di buono perché, a parte l’esperienza da cui ho imparato molto, sono cose su cui ho sentito alcune persone assai dotte e di gran santità, alle quali è doveroso prestar fede. Così le anime che per bontà di Dio arriveranno a questo stato potranno evitare le tribolazioni in cui mi sono trovata io.

CAPITOLO 16

Parla del terzo grado di orazione e spiega via via cose assai elevate: ciò che può fare l’anima che arriva a questo grado e gli effetti che operano tali grazie così grandi del Signore. È molto utile per elevare lo spirito a lodare il Signore e per consolare molto le anime che sono arrivate qui.

1. Cominciamo ora a parlare della terza acqua con cui si irriga questo giardino, cioè l’acqua corrente di fiume o di fonte. Ciò costa molto minor fatica, benché dia un po’ da fare immettere l’acqua nei canali. A questo punto il Signore vuole aiutare il giardiniere in modo tale da prenderne quasi il posto e far tutto lui. È come un sonno delle potenze dell’anima: esse non si perdono del tutto, ma non capiscono in che modo operino. Il piacere, la dolcezza e la gioia sono incomparabilmente maggiori di quelli dello stato precedente, perché l’acqua della grazia arriva alla gola, tanto che l’anima non può né sa come andare avanti né tornare indietro: vorrebbe godere dell’eccelsa gloria. È come uno con la candela in mano, cui manca poco per morire della morte tanto desiderata. In quell’agonia sta godendo con la maggiore gioia esprimibile: mi sembra che non sia altro se non un morire quasi completamente a tutte le cose del mondo e stare già godendo di Dio. Non so quali altri termini usare per dire e spiegare questo; l’anima non sa in tale stato cosa fare, se parlare o tacere, se ridere o piangere: è un glorioso delirio, una celeste follia, da cui si desume la vera sapienza, ed è, per l’anima, un modo di godere deliziosissimo.

2. Questa orazione il Signore me l’ha data largamente, credo cinque o sei anni fa, molte volte, ma siccome non la capivo, né l’avrei saputa esprimere, avevo deciso fra me, giunta a questo punto, di parlarne assai poco o nulla. Capivo bene che non era un’unione completa di tutte le potenze e vedevo anche molto chiaramente che era qualcosa di più della precedente, ma confesso che non sapevo precisare né intendere quale fosse questa differenza. Credo che si debba all’umiltà della signoria vostra, nel voler ricorrere a una persona così molto incapace come sono io, se il Signore mi ha concesso oggi, subito dopo la comunione, questa orazione, senza che io potessi far altro, e mi ha ispirato questi paragoni, insegnandomi il modo di esprimermi e ciò che in questo stato deve fare l’anima. Fui meravigliata di capire tutto in un attimo. Molte volte mi ero sentita come fuor di me, ebbra di quest’amore, e non avevo mai potuto intender come ciò avvenisse. Capivo bene che era opera di Dio, ma non riuscivo a capire come egli operasse perché, a dire il vero, le potenze gli sono quasi del tutto unite, ma non sono così assorbite in lui da non poter operare. Ho gioito moltissimo per averlo ora capito. Sia benedetto il Signore per avermi così favorita!

3. Qui le potenze non possono far altro che occuparsi completamente di Dio. Sembra che nessuna osi muoversi né potremmo smuoverle noi, a meno che con molto sforzo non volessimo distrarci, ma credo che neanche in tal caso potremmo riuscirci. Si dicono molte parole in onore di Dio, ma senza ordine (se il Signore stesso non vi pone ordine, perché l’intelletto qui non serve a nulla); l’anima vorrebbe gridare le sue lodi, e scoppia di gioia; è in preda a un’inquietudine piacevole. I fiori già sbocciano, già cominciano a emanare profumo. L’anima allora vorrebbe che tutti la vedessero e si accorgessero della sua gioia, per lodare Dio e aiutarla a glorificarlo e per renderli partecipi del suo gaudio, incapace di sopportarlo da sola. Mi sembra che sia come quella donna di cui parla il Vangelo che voleva chiamare e chiamava le vicine. Credo che tale sentimento doveva provare il re profeta Davide quando suonava e cantava sull’arpa le lodi di Dio. Di questo glorioso re io sono molto devota, e vorrei che lo fossero tutti, specialmente i peccatori come me.

4. Oh, mio Dio, come si sente mai un’anima che si trova in questo stato! Vorrebbe essere tutta lingua per lodare il Signore; dice mille santi spropositi, riuscendo sempre a contentare chi la tiene così. Io so di una persona alla quale, pur non essendo poetessa, accadeva di improvvisare strofe molto sentite nelle quali manifestava la sua pena; esse erano elaborate dal suo intelletto, ma erano solo uno sfogo dell’anima che, per godere maggiormente della gioia che una così deliziosa pena le dava, se ne lamentava con il suo Dio. Vorrebbe che tutto il suo corpo e la sua anima le si lacerassero per manifestare il godimento che in quella pena prova. Quali tormenti, allora, le si potranno presentare che non le sia piacevole affrontare per il suo Signore? Vede ora chiaramente che i martiri non ci mettevano niente del loro nel sopportare i tormenti, perché sa bene, l’anima, che la forza viene da un’altra parte. Ma quale sarà la sua pena nel rientrare in se stessa per vivere nel mondo e dover tornare alle cure e agli impegni che esso impone di adempiere! Mi sembra, pertanto, di non aver esagerato nel parlare, sempre in modo inadeguato, della gioia di cui il Signore vuole che in questo esilio goda un’anima. Siate per sempre benedetto, Signore, e tutte le creature vi lodino in eterno! Vogliate ora, mio Re, ve ne supplico, poiché quando scrivo queste cose non sono fuori di questa sana, celestiale follia, per vostra bontà e misericordia – avendomi voi fatto questa grazia senza alcun merito mio –, vogliate, dunque, che tutti coloro con cui dovrò trattare siano pazzi del vostro amore, o concedetemi di non trattare più con nessuno, o fate che io non tenga più in alcuna stima le cose del mondo, o tiratemi fuori da esso. Non può più, mio Dio, questa vostra serva sopportare tanti tormenti come quelli che soffre nel vedersi lontana da voi. Pertanto, se deve ancora vivere, non vuole riposo in questa vita e vi prega di non darglielo. Quest’anima vorrebbe sentirsi ormai libera; il mangiare la distrugge, il dormire l’angoscia; vede che il tempo le passa nel trascorrere una vita comoda, mentre nulla la può far vivere bene fuori di voi; le pare di vivere contro natura, perché ormai non vorrebbe più vivere in sé, ma in voi.

5. Oh, mio vero Signore e gloria mia, quale leggera e pesantissima croce avete preparato per coloro che giungono a questo stato! Leggera perché è soave, pesante perché arriva il momento in cui non si ha la capacità di sopportarla, eppure non si vorrebbe esserne liberi, se non fosse per vedersi già con voi. Se poi l’anima si ricorda che non vi ha servito in nulla e che, vivendo, vi può servire, vorrebbe caricarsi di una croce assai più pesante e non più morire sino alla fine del mondo. Non fa nessun conto del suo riposo, pur di rendervi un piccolo servizio; non sa che cosa desidera, ma bene intende che non desidera altra cosa che voi.

6. Oh, figlio mio (è così umile che vuole chiamarsi così colui al quale è diretto questo scritto, da lui stesso ordinatomi), tenete solo per voi le cose in cui vostra signoria veda che esco dai limiti, perché non c’è argomentazione valida a non farmi perdere il buon senso, allorché il Signore mi trae fuori di me stessa, né credo d’essere io a parlare da quando questa mattina mi sono comunicata; mi sembra un sogno quello che vedo e non vorrei vedere altro che anime malate della stessa malattia della quale ora io soffro. Supplico la signoria vostra: diventiamo tutti pazzi per amore di colui che per nostro amore fu chiamato tale! La signoria vostra dice di amarmi, voglio che me lo dimostri col disporsi a ricevere da Dio questa grazia; perché pochissimi sono coloro che io non veda pieni di eccessiva prudenza per ciò che loro conviene. Può anche darsi che io ne abbia più di tutti; non me lo permetta la signoria vostra, padre mio, che mi è anche padre oltre che figlio, perché è il mio confessore, colui al quale ho affidato la mia anima, e mi disinganni con saggia franchezza, che oggi nel mondo è così poco di moda.

7. Vorrei che tra noi cinque, che ora ci amiamo in Cristo, stabilissimo un accordo e, come altri oggi si uniscono in segreto per andare contro la Maestà divina e ordire cattiverie ed eresie, cercassimo di riunirci alcune volte per disingannarci reciprocamente, avanzare proposte circa il nostro possibile emendamento e compiacere meglio Dio, poiché non c’è nessuno che conosca così bene se stesso come ci conoscono quelli che ci guardano dal di fuori, se lo fanno con amore e con l’occhio sempre attento al nostro profitto. Però, dovremmo riunirci «in segreto» perché un tale linguaggio è fuori moda. Perfino i predicatori compongono i loro sermoni in maniera da non scontentare nessuno. L’intenzione sarà buona e sarà anche bene agire così, ma in tal modo pochi si emenderanno. Perché mai non sono molti quelli che per le prediche lasciano i pubblici vizi? Sa che cosa ne penso? Perché coloro che predicano hanno troppa prudenza. Non la perdono poiché non ardono del gran fuoco dell’amore di Dio, di cui ardevano gli apostoli, e così la loro fiamma scalda poco. Io non dico che debba essere così grande come quella degli apostoli, ma vorrei che fosse più viva di quello che vedo. Sa la signoria vostra cosa sarebbe di molta importanza a questo scopo? Aver in odio la vita e in poca stima l’onore: agli apostoli non importava, pur di dire una verità e sostenerla a gloria di Dio, perdere o guadagnare; infatti, chi sinceramente rischia tutto per Dio, tollera con lo stesso animo l’una e l’altra cosa. Non dico che io sia tale, ma vorrei esserlo.

8. Oh, che gran libertà considerare una schiavitù dover vivere e trattare secondo le leggi del mondo! Non appena la si ottenga dal Signore, non c’è schiavo che non rischi tutto per riscattarsi e tornare in patria. Siccome è questa la vera strada, non bisogna fermarsi nel percorrerla, non potendosi mai raggiungere così gran tesoro finché non sia finita la vita. Il Signore ci dia, a tal fine, il suo aiuto. La signoria vostra strappi quanto ho scritto, se le sembra opportuno, oppure lo consideri come una lettera per lei, e mi perdoni l’eccessiva temerità.

CAPITOLO 17

Continua a parlare di questo terzo grado di orazione. Finisce di esporre gli effetti che produce e dice quanto siano qui di ostacolo l’immaginazione e la memoria.

1. Ho parlato entro ragionevoli limiti di questo modo di orazione e di ciò che deve fare l’anima o, per meglio dire, di ciò che in lei fa Dio, il quale si assume lui l’ufficio di giardiniere e vuole che l’anima si riposi. La volontà non ha altro da fare che accettare le grazie di cui gode, mettendosi a disposizione per tutto ciò che in lei vorrà operare la grazia divina. Ci vuole coraggio, certo, perché è così grande il godimento che alcune volte sembra all’anima di essere sul punto di uscire da questo corpo. E che morte fortunata sarebbe!

2. Qui mi sembra che venga bene, come ho già detto alla signoria vostra, abbandonarsi completamente fra le braccia di Dio; se egli vuole portare l’anima in cielo, bene; se all’inferno, non se ne affligga, andandoci con il suo Bene; se vuol farla cessare di vivere, è proprio quel che si desidera; se farla vivere mille anni, va anche bene; Sua Maestà ne disponga come di cosa propria, poiché l’anima non appartiene più a se stessa; è tutta data al Signore; non si preoccupi d’altro. Dico dunque che, in così alto grado di orazione come è questo, quando Dio lo concede all’anima, questa può fare tutto ciò e anche più, essendo tali i suoi effetti e accorgendosi lei stessa che opera senza alcuna stanchezza dell’intelletto. Solo mi sembra che rimanga come stupita di vedere il Signore fare così bene il giardiniere, senza sottoporla a nessuna fatica, ma volendo unicamente che goda del profumo incipiente dei fiori. Con un solo suo intervento, per poco che duri, essendo tale il giardiniere, cioè il creatore dell’acqua, ne dà a dismisura; e quello che la povera anima non ha potuto fare, forse stancando in vent’anni l’intelletto, lo fa questo celeste giardiniere in un momento, ingrossando e maturando i frutti in modo che, se il Signore lo vuole, l’anima può sostentarsi con il ricavato del suo giardino. Ma non le permette di ripartirne i frutti con altri, fin tanto che non si sia fortificata bene con ciò di cui si è nutrita, affinché non abbia a consumarsi tutto in assaggi senza che ella ne tragga alcun vantaggio né ricompensa da coloro che ne fa partecipi, con il pericolo, forse, di morire di fame per mantenere e far mangiare altri a sue spese. Questo lo capiranno bene le persone intelligenti e sapranno applicarlo meglio di quanto io non sappia dire, pur sforzandomi di farlo.

3. In conclusione, le virtù sono ora più forti che nella passata orazione di quiete e l’anima non può non accorgersene, perché si sente cambiata e, senza saper come, comincia a operare grandi cose, grazie al profumo di quei fiori che il Signore fa sbocciare, affinché essa si veda in possesso di virtù, pur comprendendo bene che non le ha per merito suo, in quanto no avrebbe potuto guadagnarle neanche in molti anni, ma che in quel così breve spazio di tempo gliene ha fatto dono il celeste giardiniere. Qui l’umiltà provata dell’anima è molto maggiore e più profonda che nello stato precedente, perché vede più chiaramente di non aver fatto né poco né molto, niente altro se non acconsentire che il Signore elargisse le sue grazie, abbracciandole con la propria volontà. Mi pare che questo modo di orazione sia una ben manifesta unione di tutta l’anima con Dio; in esso sembra anche che Sua Maestà voglia permettere alle potenze d’intendere e godere quanto egli vi opera.

4. Questo accade alcune volte, anzi molte volte, quando la volontà è unita a Dio (lo dico affinché la signoria vostra veda che ciò è possibile e lo intenda quando lo abbia a sperimentare; io, invece, ne sono rimasta stordita e perciò ora ne parlo qui): si vede e s’intende chiaramente che la volontà è legata a Dio e ne gode e si vede anche chiaro che solo la volontà sta in molta quiete, mentre, dal canto loro, l’intelletto e la memoria sono così liberi da poter trattare d’affari e attendere a opere di carità. Tale condizione, benché sembri identica, è differente – in parte – dall’orazione di quiete, di cui ho già parlato perché lì l’anima non vorrebbe muoversi né agitarsi, godendo del santo ozio di Maria, mentre in quest’orazione può anche fare da Marta (così che fa quasi insieme vita attiva e contemplativa), attendere a opere di carità, a faccende convenienti al suo stato, a leggere, benché l’intelletto e la memoria non siano del tutto padroni di sé e ben capiscano che la parte migliore dell’anima è all’altro estremo. È come se stessimo parlando con uno, e dall’altra parte ci parlasse un altro: non potremmo intenderci bene né con l’uno né con l’altro. È una cosa che si avverte molto chiaramente e dà molta gioia e soddisfazione quando si prova; serve molto a disporre l’anima, quando ha il tempo di starsene in solitudine, libera da occupazioni, a una profondissima quiete. È lo stesso caso di una persona sazia, che non ha bisogno di mangiare e sente lo stomaco soddisfatto, in modo che non sarebbe disposta a mangiare qualunque cibo; peraltro, non così sazia che, se li vede buoni, tralasci di mangiarli volentieri. Essa non è soddisfatta dei piaceri del mondo, né allora li vorrebbe, perché ha in sé chi più la soddisfa; ha gioie più grandi da Dio, desidera soddisfare i suoi desideri, godere di più, stare con lui: questo è ciò che vuole.

5. C’è un’altra maniera di unione, che non è ancora intera unione, superiore a quella di cui ho appena finito di parlare, ma non tanto quanto quella della terza acqua. La signoria vostra, quando il Signore gliele concederà tutte, se già non le ha, avrà molto piacere di trovarle qui descritte e capire in che consistano, perché una cosa è che il Signore ci dia la grazia, un’altra è intendere che favore e che grazia sia, un’altra ancora saper dire e far capire come sia. Sebbene sembri necessaria soltanto la prima di queste tre cose perché l’anima non proceda confusa e timorosa, con maggior coraggio nella via del Signore, mettendosi sotto i piedi tutte le cose del mondo, tuttavia è un gran vantaggio e una grazia intendere cosa si è ricevuto. Per ognuna di tali grazie è doveroso che chi le ha ne lodi molto il Signore; e anche chi non le ha, avendone Sua Maestà fatto dono a qualcuno dei viventi, affinché potesse esserci d’aiuto. Ora, dunque, accade molte volte in questa specie di unione di cui intendo parlare (specialmente a me che il Signore ha favorito moltissime volte di questa grazia) che Dio assorbe la volontà e anche, a mio giudizio, l’intelletto, perché non ragiona, occupato a godere di Dio, come chi sta guardando e vede tante cose che non sa dove indirizzare lo sguardo; guardando una cosa ne perde di vista un’altra, e così non osserva nulla distintamente. La memoria resta libera e, insieme con essa, credo anche l’immaginazione che, vedendosi sola, scatena un’incredibile guerra e cerca di sconvolgere tutto. Mi riduce assai stanca e la detesto; spesso supplico il Signore di volermela togliere in questi momenti, se deve turbarmi tanto. Alcune volte gli dico: «Quando, mio Dio, la mia anima sarà tutta unita per lodarvi e non così spezzettata da non poter giovare a se stessa?». Qui vedo il male di cui è causa il peccato, il quale ci costringe a non fare ciò che vogliamo, a non stare sempre, cioè, occupati in Dio.

6. A volte mi accade – e oggi è stata una di queste volte, pertanto lo ricordo bene – che mi sento struggere l’anima dal desiderio che essa ha di vedersi unita con la sua parte maggiore, e ciò è impossibile, perché la memoria e l’immaginazione le fanno tanta guerra da non consentirle di prevalere. Anche se, mancando le altre potenze, non possono far nulla, neppure il male, fanno già molto col creare scompiglio. Dico «neppure il male» perché non hanno forza e non si concentrano in un punto; non essendo loro d’aiuto l’intelletto né poco né molto in quello che gli presentano, non si fermano in nulla, ma volteggiano qua e là come farfallette notturne importune, irrequiete, che svolazzano da una parte all’altra. Mi sembra che il paragone sia particolarmente appropriato perché anche se tali farfalle non hanno forza di fare il male, danno fastidio a chi le vede. Non so, per questo, che rimedio vi possa essere; Dio ancora non me ne ha insegnato alcuno, altrimenti lo userei volentieri per me, poiché – come dico – mi tormentano spesso. In questo stato si vedono ben chiaramente la nostra miseria e il grande potere di Dio; perché, mentre le potenze che restano libere ci molestano e stancano tanto, le altre che stanno con Sua Maestà ci danno un vero riposo.

7. Il rimedio che, in conclusione, ho trovato, dopo tanti anni di fatica, è quello di cui ho parlato nell’orazione di quiete: non badare all’immaginazione più di quanto non si badi a un pazzo e lasciarla alla sua ostinazione, che solo Dio le può togliere. Infine, qui non è che una schiava. Dobbiamo sopportarla con pazienza, come fece Giacobbe con Lia, perché è una grande grazia del Signore che possiamo godere di Rachele. Dico che è come schiava perché, in conclusione, non può, per quanto faccia, trascinare a sé le altre potenze; anzi, sono esse a tirarla spesso dalla loro parte senza alcuna fatica. A volte Dio ha la bontà di sentire compassione del suo smarrimento e della sua irrequietezza, desiderosa com’è di stare con le altre, e le consente di consumarsi al fuoco di quella divina fiamma in cui le altre sono già ridotte in cenere, perduto quasi il loro naturale essere nel godimento trascendente di così grandi beni.

8. In tutte queste maniere di unione di cui ho detto parlando di quest’ultima acqua di fonte, la gioia e il riposo dell’anima sono così grandi che molto chiaramente a tale gioia e diletto partecipa anche il corpo. Le virtù, ripeto, attingono un alto grado. Sembra che il Signore abbia voluto spiegare questi stati in cui si viene a trovare l’anima nel modo più chiaro, a mio parere, in cui si può farlo capire quaggiù. La signoria vostra ne parli con persona spirituale che sia giunta a questo punto e che sia dotta. Se la dovesse assicurare che mi sono spiegata bene, ritenga che è opera di Dio e ne ringrazi molto Sua Maestà perché, ripeto, con il tempo godrà molto di capire che cosa sia tutto questo; e finché non le dà la grazia d’intenderlo, le dà pur sempre quella di goderne. Quando Sua Maestà le avrà dato la suddetta grazia, con la sua intelligenza e dottrina lo capirà da questo che ho scritto. Sia lodato per tutti i secoli dei secoli! Amen.

CAPITOLO 18

In cui tratta del quarto grado di orazione; comincia a spiegare in modo eccellente la grande dignità a cui viene elevata dal Signore l’anima che si trova in questo stato. Serve per incoraggiare molto coloro che si danno all’orazione, a cercare di pervenire a così alto stato, raggiungibile anche sulla terra, sebbene non per nostro merito, ma per la bontà del Signore. Si legga con attenzione, perché l’esposizione è fatta con grande sottigliezza e contiene argomenti importantissimi.

1. Il Signore m’insegni le parole con cui io possa dire qualcosa della quarta acqua. Qui è molto necessario il suo aiuto, ancor più che per la terza, perché in quella l’anima sente di non essere morta del tutto, mentre qui possiamo dire che lo è, essendo realmente morta al mondo. Se non che, ripeto, è ancora in grado di capire d’essere quaggiù, di sentire la sua solitudine e di giovarsi di tutti i mezzi esterni per far intendere quello che prova, sia pure con segni. In tutta l’orazione, nelle varie forme di essa di cui ho parlato, il giardiniere lavora sempre un po’, benché in questi ultimi gradi il lavoro sia accompagnato da tanta gioia e consolazione che l’anima non vorrebbe mai lasciarlo; pertanto, non si sente come una fatica, ma come una gioia. Ma qui non c’è coscienza, c’è solo il godimento, senza sapere di che. Si sente di godere un bene dove si racchiudono, uniti, tutti gli altri beni, ma non si comprende tale bene. Tutti i sensi sono presi da questo godimento, in modo che nessuno resta libero di occuparsi in altre cose, esterne o interne. Prima era loro permesso – ripeto – di manifestare con alcuni segni la grande gioia che sentivano; qui l’anima gode incomparabilmente di più e può manifestare molto meno, perché il corpo rimane senza forza, né l’anima ne ha per poter comunicare quella gioia. In quel momento ogni cosa le sarebbe di grave imbarazzo e tormento, e disturberebbe il suo riposo. Aggiungo che se è unione di tutte le potenze, anche volendolo, l’anima non può occuparsi di nulla, trovandosi in questo stato, e se lo potesse non sarebbe più unione.

2. Come avvenga questo fatto che si chiama unione e cosa sia, non so spiegarlo. Se ne parla nella teologia mistica, ma non ne conosco i termini, e neanche so intendere che cosa sia la mente né in che differisca dall’anima o dallo spirito. Mi sembra che sia tutt’uno, anche se l’anima talvolta esce di se stessa come un fuoco che, ardendo, sprigiona fiamme, e talvolta aumenta con impeto: la fiamma sale, così, molto più in alto del fuoco, ma non per questo è di diversa natura, essendo la stessa fiamma che sta nel fuoco. Questo, le signorie vostre, con la loro dottrina, lo capiranno, perché non so dirne di più. Ciò che intendo spiegare è quello che l’anima prova quando sta in questa divina unione.

3. Si sa ormai cosa sia unione: due cose distinte in una. Oh, mio Signore, quanto siete buono! Vi lodino, mio Dio, tutte le creature, poiché ci avete tanto amato che possiamo con verità parlare di questa comunicazione che, pur in questo esilio, avete con le anime; e anche se esse sono virtuose, è sempre per effetto di grande larghezza e magnanimità: quella propria di voi, mio Signore, che date da par vostro. Oh, liberalità infinita, quanto sono meravigliose le vostre opere. Esse riempiono di ammirazione chi, per intendere queste verità, non ha in nessun modo l’intelletto occupato in cose della terra. Il fatto, poi, che concediate così sovrane grazie ad anime che vi hanno tanto offeso, certo non mi fa capire più nulla, e quando comincio a pensare a questo, non posso procedere oltre. Dove andare che non sia tornare indietro? Non so pertanto come ringraziarvi per così grandi grazie: a volte non trovo nulla di meglio che dire spropositi.

4. Molte volte, quando mi accade di ricevere queste grazie o quando Dio comincia a darmele (poiché, stando pienamente in esse, ho già detto che è impossibile far nulla) gli dico: «Signore, badate a quel che fate, non dimenticatevi così presto dei miei grandi peccati; visto che li avete dimenticati per darmene il perdono, vi supplico di ricordarvene per porre un limite alle grazie. Non versate, o mio Creatore, un così prezioso liquore in un vaso così incrinato, poiché avete visto già altre volte che io torno a spargerlo fuori; non ponete un simile tesoro dove ancora non si è perduto totalmente – come dovrebbe essere – il desiderio di umane consolazioni; sarebbe sciupato perché male speso. Come affidare il potere di questa città e le chiavi della sua fortezza a un governatore così vile che al primo assalto dei nemici li lascia entrare? Non sia così grande il vostro amore, eterno Re, da porre a rischio gioielli tanto preziosi! E come, mio Signore, dar motivo di ritenerli di poco conto il metterli nelle mani di un essere così spregevole, ignobile, fiacco, miserabile e di nessuna importanza come me perché, per quanto con il vostro favore – e non ne occorre poco, essendo come sono – mi sforzi di non perderli, non posso riuscire a farne trarre giovamento ad alcuno; infine, sono una donna, e non una donna virtuosa, ma spregevole. Porre i talenti in una terra così ingrata è come non solo nasconderli, ma sotterrarli. Voi, o Signore, non siete solito concedere simili ricchezze e grazie a un’anima se non perché essa giovi a molte altre. Voi sapete, mio Dio, che vi supplico di ciò fermamente, con tutto il cuore – come già ve ne ho supplicato alcune volte –, giacché ritengo giusto perdere il maggior bene che si possa avere sulla terra, perché voi lo diate a chi se ne gioverà meglio di me, per vostra maggior gloria».

5. Queste e altre cose mi è accaduto di dire molte volte. Poi ho costatato la mia stoltezza e poca umiltà, perché il Signore sa bene ciò che conviene fare e come la mia anima non aveva forze per salvarsi, se Sua Maestà non me ne avesse provveduto con tante grazie.

6. Intendo anche parlare delle grazie e degli effetti che tale unione lascia nell’anima, che cosa essa possa fare di suo, e se può aver parte nell’arrivare a così alto stato.

7. Accade, dunque, che si produca questa elevazione dello spirito o unione con l’amore celeste. A mio giudizio, c’è differenza fra unione ed elevazione in questa stessa unione. A chi non l’ha provato sembrerà di no, mentre a me pare che, pur essendo in fondo la stessa cosa, il Signore vi opera in modo diverso, e nel volo dello spirito aumenta molto il distacco dalle creature. Io ho visto chiaramente che è una grazia particolare, benché – ripeto – sia o sembri tutt’una con l’unione. Se è vero che un fuoco piccolo è anch’esso un fuoco come uno grande, si vede, però, bene la differenza tra l’uno e l’altro: in un fuoco piccolo, prima che un piccolo pezzo di ferro si arroventi, passa molto tempo; ma se il fuoco è grande, anche se il pezzo è grosso, in pochissimo tempo sembra cambiare del tutto natura. Così mi sembra sia di queste due specie di grazie del Signore e sono certa che chi è arrivato ai rapimenti lo intenderà bene. Se non ne ha fatto esperienza, invece, gli sembrerà uno sproposito, come può anche essere; infatti, se una persona come me vuol parlare di un tale argomento e far capire, anche in piccola parte, ciò alla cui spiegazione sembra impossibile, per mancanza di parole adeguate, dare anche solo l’avvio, non è improbabile che dica spropositi.

8. Ma credo che il Signore mi aiuterà nel mio intento, ben sapendo Sua Maestà che esso, dopo l’adempimento dell’obbedienza, non è altro se non quello di attrarre le anime a un bene così elevato. Non dirò nulla che non abbia lungamente sperimentato. È vero che, quando cominciai a scrivere di quest’ultima acqua, mi sembrava impossibile saperne trattare, più difficile che parlare in greco, talmente mi appariva irto di difficoltà. Pertanto, deposta l’idea, andai a comunicarmi. Sia benedetto il Signore che così favorisce gli ignoranti! Oh, virtù dell’obbedienza che tutto puoi! Dio illuminò la mia mente alcune volte con le parole e altre offrendomi il modo in cui dovevo dirle, perché, come già nella precedente orazione, sembra che Sua Maestà voglia dire anche qui quello che non posso né so dire. Questa è la pura verità; pertanto quello che vi sarà di male – è chiaro – viene dal mare di tutti i mali che sono io. Così dico che, se vi fossero persone – e ve ne devono essere molte – giunte ai gradi di orazione di cui il Signore ha fatto grazia a questa miserabile, che volessero trattarne con me, credendo d’essere fuori di strada, il Signore aiuterà la sua serva perché riesca a indicare il sentiero della verità.

9. Ora, parlando di quest’acqua che viene dal cielo per riempire e impregnare con la sua abbondanza tutto il giardino, se il Signore non smettesse mai di darla ogni volta che ve ne fosse bisogno, si capisce facilmente quale riposo ne avrebbe il giardiniere. E se non vi fosse mai inverno, ma sempre primavera, non mancando mai fiori né frutta, ben s’intende di quale gioia godrebbe; ma, finché viviamo, ciò è impossibile: bisogna sempre, quando manca un’acqua, procurare l’altra. Questa del cielo viene, molte volte, quando il giardiniere meno se l’aspetta. Veramente, da principio, è quasi sempre dopo una lunga orazione mentale: durante tale ascesa il Signore viene a prendere quest’uccellino e lo depone nel nido perché si riposi. Poiché lo ha visto volare a lungo e adoperarsi con l’intelletto, con la volontà e con tutte le sue forze a cercare Dio e compiacerlo, vuole dargliene il premio sin da questa vita; e che gran premio! È tale che basta un istante di gioia per ripagarlo di tutte le pene che possa aver sofferto.

10. Mentre l’anima sta così cercando il suo Dio, si sente, con grandissima gioia, quasi del tutto venir meno, per una specie di deliquio; a poco a poco le mancano il respiro e le forze fisiche, tanto che non può muovere neppure le mani, se non a prezzo di un grande sforzo; gli occhi le si chiudono senza che li voglia chiudere o, se ritiene aperti, non vede quasi nulla, né, se legge, riesce a pronunciare una sillaba e quasi neppure a distinguere le lettere; vede che ci sono lettere, ma poiché l’intelletto non le è di aiuto, non è capace di leggerle, pur volendo; ode ma non capisce quello che ode. Così che i sensi non le servono più, anzi le sono di danno perché le impediscono di stare in pace. Superfluo dire che non può parlare, poiché non riesce a mettere insieme una parola, né ha la forza, qualora ci riuscisse, di pronunciarla, perché ogni forza fisica si perde, mentre aumentano quelle dell’anima, per farla meglio godere della sua gioia. Il diletto esteriore che allora si prova è pur esso grande e sensibile.

11. Per quanto duri, questa orazione non è mai di danno, almeno a me non lo è mai stata, né ricordo che il Signore mi abbia una sola volta fatto questa grazia e che io – per malata che fossi – ne risentissi, anzi ne uscivo sempre migliorata. Ma che male può fare un bene così grande? Sono tanto evidenti i suoi effetti esteriori che non si può dubitare della grandezza della causa che li produce, e se, per l’eccesso della gioia, il Signore ci toglie le forze, è per ridarcele in maggior grado.

12. È vero che in principio è di così breve durata – almeno così era per me – che allora né mediante questi segni esteriori né con la sospensione dei sensi si fa conoscere. Ma si capisce bene dalla sovrabbondanza delle grazie quanto debba essere stato grande il fulgore del sole che lì risplendeva, se ha fatto struggere l’anima così. Si noti che, a mio parere, per quanto lungo sia il tempo della sospensione di tutte le potenze in cui si viene a trovare l’anima, è assai breve; è molto se dura una mezz’ora. Credo di non averlo mai avuto così a lungo. È vero che è difficile poter computare il tempo, perché si è fuori dei sensi, ma intendo dire che le potenze tutte insieme rimangono sospese per poco, essendovene sempre qualcuno che torna in sé. La volontà è quella che si mantiene assorta, ma le altre due potenze tornano presto a importunarla; perseverando essa nella quiete, si arrestano di nuovo; stanno per un po’ tranquille e pi riprendono la loro attività.

13. In quest’alternativa si possono passare, come si passano in realtà, alcune ore nell’orazione perché, una volta che le due potenze abbiano cominciato a gustare quel vino celeste e a inebriarsene, tornano facilmente a sospendersi per usufruirne di più: così si accompagnano alla volontà e godono tutt’e tre. Ma questo stato di sospensione completa, senza alcun disturbo dell’immaginazione – la quale, a mio parere, rimane anch’essa del tutto sospesa –, ripeto che dura poco, anche se le potenze non si riprendono così perfettamente da non restare alcune ore come stordite, mentre Dio torna di tanto in tanto ad attrarle a sé.

14. Ora veniamo a quello che l’anima sente nel proprio intimo in questo stato. Lo dica chi lo sa, perché è cosa che non si può intendere e tanto meno esprimere. Mi stavo domandando, mentre mi disponevo a scrivere di questo, tornando dalla comunione e uscita da questa stessa orazione di cui parlo, cosa facesse allora l’anima. Il Signore mi disse queste parole: «Si strugge tutta, figlia mia, per meglio immergersi in me; ormai non è più lei che vive, ma io; non potendo comprendere ciò che intende, il suo è un non intendere intendendo». Chi ne abbia fatto esperienza capirà qualcosa di questo, essendo tanto oscuro ciò che le avviene che non si può spiegare più chiaramente. Posso dire soltanto che l’anima si vede unita a Dio e ne ha una tale certezza che in nessun modo potrebbe non crederlo. Tutte le potenze, in questo momento, vengono meno, essendo sospese così totalmente che, come ho detto, non ci si accorge assolutamente che operino. Se si stava meditando su un brano della passione, se ne perde la memoria come se mai si fosse avuto presente; se si legge, non c’è più ricordo di ciò che si leggeva e non c’è la possibilità di fermarsi a meditare; se si prega, lo stesso. Sembra che a quella farfalletta importuna della memoria si brucino le ali e non possa più agitarsi. La volontà è certo tutta occupata nell’amore, ma non sa come ama. L’intelletto, se intende, non capisce come intenda, per lo meno non può comprendere nulla di ciò che intende. A me sembra che non intenda affatto perché – ripeto – non intende se stesso; non riesco a capire questo mistero.

15. Mi è accaduto all’inizio di essere vittima di una grave ignoranza, non sapere, cioè, che Dio è in tutte le cose e, poiché mi sembrava che mi stesse molto vicino, lo ritenevo impossibile. Eppure non potevo rinunciare a credere che stesse lì, perché mi sembrava di aver visto chiaramente la sua presenza. Quelli che non erano istruiti mi dicevano che vi era soltanto con la sua grazia. Ma non potevo convincermene perché, ripeto, mi pareva che fosse proprio presente, e questo dubbio mi dava pena. Me ne liberò un dottissimo religioso dell’Ordine del glorioso san Domenico, il quale mi disse che Dio è realmente presente e mi spiegò come egli si comunica alle nostre anime, dandomi così una grande consolazione. Bisogna notare e capire bene che sempre quest’acqua del cielo, questo insigne favore di Dio, arricchisce l’anima di grandissimi tesori, come ora dirò.

CAPITOLO 19

Prosegue nello stesso argomento, iniziando la spiegazione degli effetti che opera nell’anima questo grado di orazione. Esorta vivamente a non tornare indietro e a non lasciare l’orazione, anche se dopo questa grazia si torni a cadere. Parla dei danni che in questo caso ne verrebbero. È molto importante e di grande consolazione per i deboli e i peccatori.

1. Dopo questa orazione e questa unione, l’anima rimane presa da grandissima tenerezza, tanto che vorrebbe struggersi in lacrime, non di pena, ma di gioia e si trova bagnata di lacrime senza accorgersene né sapere quando né come pianse, ma le dà grande gioia vedere quell’impeto di fuoco mitigato dall’acqua che, al tempo stesso, lo fa aumentare. Sembra, il mio linguaggio, arabo, ma è proprio così. Mi è accaduto, a volte, in questo grado di orazione, di trovarmi così fuori di me da non sapere se la gioia che provavo fosse un sogno o una realtà; ma, vedendomi immersa nelle lacrime che sgorgavano senza pena con tanto impeto e rapidità da sembrare piovute da una nube del cielo, capivo che non era un sogno. Ciò mi accadeva all’inizio, quando l’orazione durava poco.

2. L’anima resta così piena di coraggio che, se in quel momento la facessero a pezzi per Dio, le sarebbe di grande gioia. È l’ora delle promesse e delle decisioni eroiche, degli ardenti desideri, il momento in cui comincia a disprezzare il mondo, vedendone chiaramente la vanità. È avvantaggiata molto di più e in più alto grado che nelle orazioni precedenti e la sua umiltà è più grande, perché sa con certezza che non è dovuto ad alcuna sua diligenza il conseguimento di quella meravigliosa e straordinaria grazia, non essendo intervenuta né per acquistarla né per conservarla. Vede benissimo d’essere profondamente indegna perché, in una stanza dove entra molto sole, non vi è ragnatela che rimanga nascosta; la sua miseria è evidente. È così lontana dalla vanagloria che le pare impossibile averla, costatando con i propri occhi il poco o nulla che può fare, perché qui non c’è stato quasi neanche il suo consenso. Infatti sembra che, suo malgrado, siano state chiuse le porte a tutti i sensi perché possa godere meglio del Signore. Resta, così, sola con lui; che altro deve fare se non amarlo? Non vede né ode, se non con grandi sforzi: c’è poco di cui compiacersi. In seguito le si presentano innanzi con grande verità la sua vita passata e la gran misericordia di Dio, senza che l’intelletto abbia bisogno di andarne in cerca, trovando lì pronto di che mangiare e intendere. Riconosce di meritare l’inferno e, vedendosi punita con il paradiso, si scioglie in lodi di Dio. Anch’io vorrei farlo ora. Siate benedetto, mio Signore, che da una melma così sporca come sono io fate uscire un’acqua così limpida perché sia degna della vostra mensa! Siate lodato, o delizia degli angeli, per voler elevare tanto un così misero verme!

3. Questi vantaggi restano per qualche tempo nell’anima; essa ormai, sapendo chiaramente che i frutti non sono suoi, può accingersi a condividerli con altri, senza che abbia a mancarne lei. Comincia a mostrarsi quale anima custode di tesori celesti che desidera spartire con altri, e a supplicare Dio perché non sia la sola ad essere ricca. Comincia a giovare al prossimo, quasi senza accorgersene né far niente di suo. Gli altri però se ne accorgono, perché ormai il profumo dei fiori è talmente aumentato da far loro desiderare di starle vicino. Comprendono che è ricca di virtù, vedendo i frutti così appetitosi, e vorrebbero mangiarne con lei. Se la terra di quest’anima è stata zappata a fondo con fatiche, persecuzioni, mormorazioni e malattie – giacché pochi possono giungere a tale stato senza tutto questo – e se si è ammorbidita con il distacco assoluto da ogni umano interesse, s’imbeve tanto di acqua che difficilmente potrà più inaridirsi. Ma se è terra ancora attaccata al mondo e tutta ingombra di spine, come lo ero io all’inizio, e non è ancora esente da occasioni né grata quanto merita una grazia così eccelsa, torna a inaridirsi. Se il giardiniere non ci bada, e il Signore, per sua bontà, non torna a far piovere, potrete pur considerare perduto il giardino. Così mi è accaduto alcune volte e, certo, è una cosa che mi spaventa né potrei crederla se non ne avessi fatto esperienza. A conforto di anime deboli come la mia, dico che non devono mai disperare né cessare di confidare nella grandezza di Dio. Anche se, dopo essere state su una cima così alta qual è quella a cui il Signore le ha fatte pervenire in questo stato, tornano a cadere, non si scoraggino, se non vogliono perdersi del tutto, perché le lacrime ottengono qualunque cosa: un’acqua attira l’altra.

4. Uno dei motivi che mi hanno incoraggiato, pur essendo quella che sono, a obbedire all’ordine di scrivere ciò e a dar conto della mia spregevole vita e delle grazie che mi ha fatto il Signore – quando, invece di servirlo, lo offendevo – è stato questo. Certo, io vorrei avere grande autorità per essere creduta a tale riguardo e supplico il Signore che me la dia. Ripeto che nessuno di quelli che hanno cominciato a praticare l’orazione si perda d’animo con il dire: «Se ritorno a essere un peccatore, andare avanti nell’esercizio dell’orazione è peggio». Io credo che lo sia se abbandona l’orazione, senza cercare di emendarsi dal peccato, mentre se non l’abbandona, sia certo che essa lo condurrà al porto della luce. In questo subii molti assalti da parte del demonio; soffrii tanto da credere che fosse poca umiltà praticare l’orazione, essendo così peccatrice che, come ho già detto, tralasciai di praticarla per un anno e mezzo, o almeno un anno, perché del mezzo non mi ricordo bene. Continuare così non sarebbe stato altro – né altro era – se non mettermi io stessa nell’inferno, senza bisogno di demoni che mi ci facessero andare. Oh, Dio mio, che enorme cecità! E come riesce bene il demonio nel suo intento col gravare in questo la mano! Il demonio sa bene che per lui è perduta l’anima perseverante nella pratica dell’orazione, e che tutte le cadute a cui la spinge le sono d’aiuto, per la bontà di Dio, a farle spiccare poi un balzo più alto nel suo servizio; si può ben capire quanto gli importi evitarlo.

5. Oh, Gesù mio! Che spettacolo vedere come a un’anima caduta in peccato, dopo essere giunta qui, voi, per vostra misericordia, tornate a dar la mano sollevandola! Come si rende essa conto allora delle infinite vostre grandezze e misericordie e della propria miseria! È questo il momento in cui, riconoscendo la vostra magnanimità, si sente davvero annientare; il momento in cui non osa alzare gli occhi o li alza solo per vedere ciò che vi deve; il momento in cui si fa devota della Regina del cielo perché vi plachi; il momento in cui invoca i santi che caddero dopo essere stati da voi chiamati, perché l’aiutino; il momento in cui le sembra troppo quel che le date, perché sa di non meritare neanche la terra che calpesta; il momento di accostarsi ai sacramenti, per la fede viva che la anima nel vedere la virtù che avete in essi riposta, di profondere lodi perché avete lasciato per le nostre piaghe medicina e unguento tali che non le rimarginano solo superficialmente, ma le fanno sparire del tutto. Questo la riempie di stupore, e chi, Signore dell’anima mia, non ha da stupirsi di una misericordia così grande e di così accresciuto favore a compenso di un tradimento così ripugnante ed esecrabile? È solo perché sono perversa se, scrivendo queste cose, non mi si spezza il cuore.

6. Con queste lacrimucce che qui piango, date da voi, perché quando vengono da me sono acqua di assai cattivo pozzo, mi sembra di ripagarvi di tanti tradimenti commessi, sempre peccando e cercando di distruggere le vostre grazie. Avvaloratele voi, mio Signore: schiarite un’acqua così torbida, non fosse altro che per impedire che ad alcuno venga la tentazione di avventare giudizi, come ho fatto io, nel chiedersi perché, o Signore, lasciavate da parte tante sante persone che vi hanno servito e hanno lavorato per voi, educate nella religione e veramente religiose – non come me che di religiosa avevo solo il nome – e non facevate loro, come vedevo chiaramente, le grazie che concedevate a me. Ma capisco, o mio Bene, che voi tenete in serbo il premio per darlo loro tutto in una volta, mentre la mia debolezza ne ha bisogno subito. Ormai esse, da forti, vi servono anche senza ricompensa, e voi le trattate come gente intrepida e non interessata.

7. Ciò nondimeno voi sapete, mio Signore, che molte volte io vi ho implorato di perdonare chi mormorava di me, perché mi sembrava che avessero ragione da vendere. Questo accadeva, Signore, quando, per vostra bontà, mi sorreggevate perché non vi offendessi tanto e io già cercavo di allontanarmi da tutto ciò che mi sembrava potesse dispiacervi: appena feci questo, voi, Signore, cominciaste ad aprire i vostri tesori in favore della vostra serva, come se non aveste aspettato altro se non che vi fosse in me volontà e disposizione a riceverli, data la rapidità con cui prendeste non solo a darmeli, ma anche a volere che si capisse che me li davate.

8. Quando furono noti tali favori, si cominciò ad avere buona opinione di colei che non tutti avevano ancora capito quanto fosse colpevole, benché molti indizi ne trasparissero. Ma all’improvviso si cominciò anche a mormorare e a perseguitarmi e, a mio parere, ben a ragione. Pertanto non nutrivo inimicizia per nessuno, ma supplicavo voi di considerare quanto buon diritto ci fosse per farlo. Dicevano che volevo passare per santa e che inventavo novità, mentre non ero ancora arrivata a osservare bene la mia Regola, né al livello delle ottime e sante monache che erano nel monastero (né credo di poter mai raggiungere tale livello, se Dio, nella sua bontà, non farà tutto lui), anzi ero solo capace di togliere le buone usanze e introdurne altre che non lo erano; per lo meno facevo tutto il possibile per introdurle, e nel male potevo molto. Pertanto, non avevano alcuna colpa se mi accusavano. E non erano solo monache, ma anche altre persone, che scoprivano i miei veri difetti, perché voi glielo permettevate.

9. Una volta, mentre recitavo le Ore, quando già da qualche tempo ero soggetta a questa tentazione, giunsi al versetto che dice: Tu sei giusto, Signore, e retti sono i tuoi giudizi; cominciai a pensare che gran verità essa fosse; infatti, in questa e in ogni altra cosa di fede, il demonio non ha mai avuto il potere di tentarmi in modo da farmi dubitare che voi, mio Signore, siate la fonte di ogni bene, anzi, mi sembrava che quanto più una verità non seguisse un ordine naturale, tanto più fermamente la ritenessi tale e m’ispirava profonda devozione. Nella vostra onnipotenza erano racchiuse, per me, tutte le meraviglie che potevate fare, e in ciò – come ripeto – non ho mai avuto dubbi. Chiedendomi, poi, perché, con la vostra giustizia, potevate permettere che molte vostre serve fedeli – come ho detto – non avessero i doni e le grazie che facevate a me, pur essendo io quella che ero, mi rispondeste: «Tu servimi e non pensare ad altro». Fu la prima parola che udii da voi, pertanto ne rimasi tutta sbigottita. Siccome in seguito spiegherò – insieme ad altre cose – questo modo di udire, non ne parlo qui, per non uscire fuori dal tema in questione, da cui credo d’essermi già molto allontanata. Quasi non so quel che mi dico. Si degni la signoria vostra, figlio mio, di tollerare queste digressioni, perché quando considero fino a che punto Dio mi ha sopportato e mi vedo in questo stato, non fa meraviglia che perda il filo del discorso. Piaccia al Signore che le mie dissennatezze siano sempre queste e non permetta più che io possa contravvenire alla sua legge in un sol punto! Piuttosto mi annienti all’istante.

10. basta già a far vedere le sue grandi misericordie il fatto che ha perdonato non una, ma molte volte tanta ingratitudine. A san Pietro perdonò una volta, a me molte; e con ragione il demonio mi tentava a non pretendere una stretta amicizia con colui che trattavo così manifestamente da nemica. Che grande cecità, la mia! Dove potevo credere di trovare rimedio se non in voi? Che follia fuggire dalla luce per andare sempre inciampando! Che umiltà piena di superbia creava in me il demonio nell’allontanarmi dalla colonna e dal bastone che dovevano sostenermi per evitare una così grave caduta! Oggi mi faccio il segno della croce, perché non mi sembra di aver mai corso pericolo così grande come in questa insidia che il demonio mi tendeva con il pretesto d’insegnarmi l’umiltà. Mi suggeriva il pensiero che, essendo così perversa, dopo aver ricevuto tante grazie, non potevo accostarmi all’orazione; che mi bastava recitare le preghiere d’obbligo, come tutte, e se non facevo bene neanche questo, come potevo pretendere di far di più? Era segno di poco rispetto e di tenere in poco conto i favori di Dio. Era bene pensare e capire questo, ma il grandissimo male fu di metterlo in pratica. Siate voi benedetto, Signore, per essere venuto in mio soccorso!

11. Così credo che il demonio dovette cominciare a tentare Giuda, solo che con me il traditore non osava farlo tanto scopertamente, ma a poco a poco sarebbe riuscito a gettarmi nello stesso abisso in cui gettò lui. Stiano attenti a questo, per amor di Dio, tutti coloro che praticano l’orazione. Sappiano che il tempo che io trascorsi senz’attendervi, la mia vita fu assai più disperata; vedete un po’ che buon rimedio mi dava il demonio e che bella umiltà: una grande inquietudine nel mio intimo. Ma come poteva riposare la mia anima? La sventurata si allontanava dal suo riposo, avendo sempre presenti le grazie e i favori ricevuti e vedendo che i piaceri di quaggiù le facevano nausea. Mi meraviglio come potesse accadere tutto ciò. Speravo sempre: non lasciavo mai la speranza (per quel che ora ricordo, perché devono esser passati più di ventun anni) di decidermi a tornare all’orazione, ma aspettavo di essere del tutto libera da ogni peccato. Oh, com’ero mal incamminata con questa speranza! Il demonio me l’avrebbe data fino al giorno del giudizio, per portarmi poi dritta all’inferno.

12. Poiché, dunque, pur attendendo all’orazione e alla lettura spirituale – cose con le quali potevo conoscere la verità e il cattivo cammino che seguivo – e importunando spesso il Signore con lacrime, ero così perversa da non sapermi difendere, una volta allontanatami da queste pratiche e abbandonatami a passatempi, con molte occasioni pericolose e pochi aiuti, anzi oserei dire nessuno, tranne l’aiuto per cadere, che cosa potevo sperare se non quello che ho detto? Credo che abbia gran merito davanti a Dio un religioso molto dotto dell’Ordine di san Domenico, che mi aprì gli occhi: egli – come ritengo d’aver detto – mi fece comunicare ogni quindici giorni; e meno male che cominciai a tornare in me! Anche se continuavo ad offendere il Signore, poiché non avevo smarrito del tutto la buona strada, sia pure a poco a poco, cadendo e rialzandomi, avanzavo in essa, e chi non lascia di andare avanti nel cammino, anche se tardi, alla fine arriva. Perdere la strada mi pare non sia altro che abbandonare l’orazione. Dio ce ne liberi per quello ch’egli è!

13. È chiaro da ciò – e lo si noti bene per amore del Signore – che, quantunque un’anima giunga a ricevere da Dio così speciali grazie nell’orazione, non deve mai fidarsi di sé, né esporsi in nessun modo ad occasioni, potendo sempre cadere. Ci si badi bene, perché è molto importante; l’inganno che qui può tramare il demonio, dopo tali favori, sebbene la grazia venga certo da Dio, è servirsene da traditore ai suoi fini, rivolgendosi a persone non progredite in virtù, né in mortificazione, né in distacco dal mondo. Infatti, in questo stato non sono ancora tanto forti da potersi esporre, come più avanti dirò, a occasioni pericolose, per quanto abbiano grandi desideri e generose risoluzioni… È, questa, una valida dottrina, e non mia, ma insegnatami da Dio; pertanto, vorrei che ne venissero a conoscenza altre persone ignoranti come me. Ripeto che, quantunque un’anima si trovi in questo stato, non deve, fidandosi delle sue forze, uscire all’attacco, perché avrà abbastanza da fare per difendersi. Qui sono necessarie armi per proteggersi dai demoni, e l’anima ancora manca di forze per combattere contro di essi e schiacciarli sotto i piedi, come fanno coloro che si trovano nello stato di cui parlerò in seguito.

14. Ecco l’inganno con cui il demonio ci prende al laccio: quando un’anima si è tanto avvicinata a Dio da vedere la differenza tra i beni del cielo e quelli della terra nonché l’amore che il Signore le dimostra, per effetto di quest’amore sente nascere fiducia e sicurezza di non più decadere da quello stato di godimento. Sembrandole di veder chiaramente il premio celeste, ritiene impossibile lasciare una felicità, che anche in questa vita è così piacevole e soave, per cose spregevoli e vili come sono i piaceri del mondo. Con questa sicurezza il demonio le toglie la diffidenza che deve avere di sé; pertanto, come ho detto, si espone a pericoli e comincia, con lodevole zelo, a distribuire i suoi frutti senza misura, persuasa di non dover più temere di sé. Questa convinzione non nasce da superbia, perché ben comprende l’anima che da sé non può nulla, ma dall’abbandonarsi senza discrezione a troppa confidenza in Dio, non considerando che è un uccellino di primo pelo. Può uscire dal nido perché Dio la porta fuori, tuttavia non è in grado di volare, perché le sue virtù non sono ancora ben salde e manca di esperienza per accorgersi dei pericoli, né conosce il danno che le viene dal confidare in sé.

15. In ciò fu la mia rovina; per queste cose, come, d’altronde, per tutto, è necessario avere un maestro e trattare con persone spirituali. Credo, però, che, quando un’anima con l’aiuto di Dio raggiunge questo stato, se essa non lo abbandonerà totalmente, egli non cesserà di favorirla né permetterà che si perda. Ma qualora, come ho detto, dovesse cadere, badi, badi bene, per amore del Signore, che il demonio non la inganni con il farle lasciare l’orazione come faceva con me, per falsa umiltà; l’ho già detto e vorrei dirlo ancora molte volte. Confidi nella bontà di Dio che è più grande di tutto il male che possiamo fare, e quando noi, riconoscendoci colpevoli, vogliamo tornare alla sua amicizia, dimentica la nostra ingratitudine né ricorda le grazie che ci ha fatte e per le quali meriteremmo il suo castigo. Anzi, le nostre colpe lo inducono a perdonarci più presto, come gente di casa sua, che ha mangiato, come suol dirsi, il suo pane. Ricordino le sue parole e considerino ciò che ha fatto nei miei riguardi: mi sono stancata prima io d’offenderlo, che lui di perdonarmi. Egli non si stanca mai di dare, né le sue misericordie possono esaurirsi: non stanchiamoci di riceverle. Sia benedetto per sempre, e tutte le creature lo lodino! Amen.

CAPITOLO 20

In cui tratta della differenza tra unione e rapimento, spiega in cosa consista il rapimento e accenna al bene di cui gode l’anima che il Signore, per sua bontà, fa giungere a questo stato. Parla dei suoi effetti. Capitolo degno di nota.

1. Vorrei saper spiegare, con l’aiuto di Dio, la differenza che passa fra l’unione e il rapimento, o elevazione, o volo dello spirito, come lo chiamano, o trasporto, che è tutt’uno; intendo dire che questi differenti nomi indicano la stessa cosa, che si chiama anche estasi. È di gran lunga superiore all’unione, per gli effetti più grandi che produce e per molte altre operazioni, perché l’unione sembra principio, mezzo e fine dell’estasi e si svolge all’interno dell’anima, ma, poiché l’estasi ha effetti molto più elevati, si svolge internamente ed esteriormente. Lo spieghi il Signore come ha fatto per il resto, perché certamente se Sua Maestà non mi avesse spiegato in che modo e con quali espressioni si può dire qualcosa, io non vi sarei riuscita.

2. Consideriamo ora come quest’ultima acqua, di cui abbiamo parlato, sia così copiosa che, se non fosse perché è un assurdo che ciò avvenga quaggiù, si potrebbe credere che questa nuvola della gran Maestà stia con noi, sulla terra. Quando, in ringraziamento di un così gran bene, corrispondiamo con opere in proporzione delle nostre forze, il Signore rapisce l’anima allo stesso modo (così ho sentito dire) in cui le nubi assorbono i vapori della terra, la nube sale poi in cielo e porta via l’anima con sé, cominciando a farle vedere le ricchezze del regno che le ha preparato. Non so se il paragone quadri, ma realmente, di fatto, succede così.

3. Durante questi rapimenti sembra che l’anima non sia più nel corpo, tanto che questo, sensibilmente, sente che gli viene a mancare il calore naturale e, a poco a poco, si raffredda, anche se con grandissima soavità e gioia. Qui non c’è alcun rimedio per resistere, mentre nell’unione, essendo noi ancora con i piedi per terra, un rimedio c’è: benché con dolore e violenza, si può quasi sempre resistere; ma qui il più delle volte non c’è via di scampo, anzi spesso, prevenendo ogni pensiero e ogni possibile cooperazione, viene un impeto tanto rapido e forte, che vedete e sentite sollevarsi questa nube e questa potente aquila prendervi sulle sue ali.

4. Dico che vi accorgete di ciò e vi sentite portare via, ma non sapete dove; sebbene tutto avvenga nella gioia, la nostra debole natura, all’inizio, ci è causa di timore, ed è pertanto necessario avere un’anima risoluta e coraggiosa – molto più che negli stati precedenti – per rischiare tutto, avvenga quel che vuole, abbandonarsi nelle mani di Dio e andare di buon grado dove ci porta, perché ci porta via, anche se ci è gravoso. E con tanta veemenza che spesso io avrei voluto resistere e lo tentavo con tutte le mie forze, specialmente certe volte, quando mi trovavo in pubblico – e molte altre, in privato – temendo di essere ingannata. Alcune volte ci riuscivo, rimanendone estremamente affranta, come resta sfinito chi lotta con un poderoso gigante; altre era impossibile perché se ne andava via l’anima, e per lo più la testa la seguiva, senza che io la potessi trattenere, e a volte anche il corpo giungeva a sollevarsi.

5. Questo, però, mi è accaduto di rado. Una volta, essendomi sopravvenuto mentre ero in ginocchio, in coro, con tutte le monache, ne provai una grande pena, sembrandomi una cosa talmente straordinaria che non avrebbe mancato, subito, di far rumore. Pertanto proibii alle monache (essendomi accaduto recentemente, dopo la mia nomina a priora) di parlarne. Altre volte, quando cominciavo ad accorgermi che il Signore stava per concedermi questa grazia, mi stendevo al suolo (e una volta lo feci alla presenza di alcune nobili dame nella festa del santo patrono durante la predica), ma, per quanto accorressero a trattenermi, si notava ugualmente. Supplicai molto il Signore di non volermi più concedere grazie che avessero manifestazioni esteriori, perché ero stanca ormai di essere considerata una persona importante, e Sua Maestà poteva ben darmi quella grazia senza che altri se ne accorgesse. Sembra che, nella sua bontà, abbia voluto ascoltarmi, perché d’allora in poi non mi è più accaduto. Però è passato solo poco tempo.

6. Quando volevo resistere, mi sembrava che mi sollevasse da terra una forza così potente, che non so a che cosa paragonarla, perché aveva molto maggior impeto delle altre forze spirituali; ne rimanevo stroncata, essendo una lotta tremenda che, poi, non serviva a nulla poiché, quando il Signore vuole, non c’è forza che valga contro la sua. Altre volte si compiace di accontentarsi di farci vedere la grazia che vorrebbe accordarci e come da parte sua non mancherebbe di farlo; e se gli resistiamo con umiltà, produce gli stessi effetti che avremmo se acconsentissimo.

7. Tali effetti sono grandi e uno di essi è quello di mostrare la somma potenza del Signore e come noi non possiamo far nulla, quando Sua Maestà lo vuole, per trattenere non solo l’anima ma neanche il corpo, non essendone più padroni; anche se non lo vogliamo, dobbiamo riconoscere che c’è un essere superiore dal quale sono elargite queste grazie, e che noi non possiamo nulla in alcuna cosa; ciò imprime nell’anima una profonda umiltà. Confesso anche che, all’inizio, provai un grande timore, anzi grandissimo, per il fatto di veder sollevare così un corpo da terra, sebbene sia lo spirito a trascinarlo con sé e, purché non gli resista, lo fa con grande dolcezza, senza che si perda l’uso dei sensi, per lo meno io ero in tale stato che potevo capire di essere sollevata. Ciò rivela una così grande maestà di chi può operare queste cose, da far rizzare i capelli in testa e da far restare con un gran timore di offendere un Dio così grande! È un timore, peraltro, compenetrato di grandissimo amore, che nasce in noi improvviso per colui che, come vediamo, lo nutre in così grande misura verso un così lurido verme, che non sembra contentarsi di trarre a sé in modo tanto reale l’anima, ma vuole anche il corpo, benché mortale e fatto di terra così sudicia com’è diventata per tutte le offese a lui arrecate.

8. Lascia anche un distacco straordinario, che non saprei dire com’è; forse posso dire che è diverso, in qualche modo, cioè supera quello causato dagli altri favori che avvengono solo nell’anima, perché, pur verificandosi allora, dal punto di vista spirituale, un completo distacco dalle cose terrene, nel rapimento sembra che il Signore metta in azione lo stesso corpo e si produce un modo nuovo di rimanere estranei alle cose terrene, così assoluto, che la vita riesce molto più gravosa.

9. Da ciò deriva una pena che noi non possiamo né procurarci né toglierci, una volta che sia venuta. Io desidererei molto spiegare questa grande pena, ma credo di non riuscirvi; tenterò, comunque, di dirne qualcosa. Si deve notare che ho ricevuto queste grazie solo molto recentemente, dopo tutte le visioni e rivelazioni di cui scriverò, posteriormente al tempo in cui, praticando abitualmente l’orazione, il Signore mi concedeva così grandi gioie e doni. Ora, mentre questi favori non cessano, alcune volte – anzi quasi sempre – provo questa pena di cui voglio parlare. È di maggiore e di minor grado, ma io intendo parlare di quando è di maggior grado, perché, sebbene più avanti dirò dei grandi impeti che m’investivano quando il Signore mi faceva dono dei rapimenti, essi non hanno a che vedere, a mio giudizio, con questa pena più di quanto ha a che vedere una cosa molto materiale con una molto spirituale, e credo di non esagerare troppo; a quella pena, infatti, anche se è l’anima a sentirla, poiché è unita al corpo, sembra che partecipino entrambi, e non vi è quell’estremo abbandono che è in questa, nella quale, come ho detto, noi non c’entriamo per nulla; solamente, a volte, d’improvviso viene un desiderio che non so come sia suscitato e, a causa di tale desiderio che penetra tutta l’anima istantaneamente, essa comincia a patire tanta sofferenza da innalzarsi molto sopra se stessa e sopra tutto il creato. Dio la rende tanto estranea alle creature che, per quanto faccia, non le sembra che ve ne sia nessuna sulla terra che possa darle compagnia, e neanche la vorrebbe, non desiderando altro se non morire in quella solitudine. Se le parlano, e vuol farsi tutta la forza possibile per rispondere, non ci riesce, perché il suo spirito, per quanto faccia, non esce da quella solitudine. E, pur sembrando che Dio allora sia lontanissimo, a volte comunica le sue grandezze nel modo più singolare che si possa pensare. Pertanto, non si riesce a dirlo, né credo che possa crederlo né intenderlo se non chi l’avrà provato. Non è, infatti, una comunicazione che serva a consolare l’anima, ma solo a farle vedere che ha ragione di affliggersi per essere lontana da quel bene che in sé racchiude ogni bene.

10. Con questa comunicazione cresce il desiderio, è spinta all’estremo la solitudine che si sente, e la pena è così sottile e penetrante che l’anima, trovandosi in quel deserto, mi pare possa dire testualmente (e forse il re profeta lo disse quando si trovava nella stessa solitudine, senonché a lui, come santo, Dio l’avrà fatta sentire con più intensità): Passai senza dormire le notti e sono come il passero solitario sul tetto. In quei momenti, questo versetto mi si fa tanto presente che mi sembra di vederlo convalidato in me, e mi consola costatando che altre persone – e che persone! – hanno sofferto così estrema solitudine. Sembra che l’anima non stia più in se stessa, ma sulla sommità o tetto di se stessa e di tutto il creato; anzi, mi sembra che stia perfino più su della parte più alta di se stessa.

11. Altre volte, sembra che l’anima abbia un estremo bisogno di Dio e vada dicendo a se stessa: Dov’è il tuo Dio? È da notare che io non conoscevo bene quale fosse la versione in volgare di questo versetto; ma, dopo averla conosciuta, mi era motivo di consolazione costatare che il Signore me l’aveva richiamato alla memoria senza che io lo procurassi. Altre volte, mi ricordavo di san Paolo che dice di essere crocifisso al mondo. Non dico che per me sia così, lo vedo bene; solo mi sembra che l’anima sia in questo stato perché non ha conforto dal cielo, non stando in esso, né lo vuole dalla terra, da cui è ormai fuori, ed è come crocifissa fra il cielo e la terra, fra grandi patimenti, senza che da nessuna parte le venga un soccorso. Infatti, quello che le viene dal cielo (che consiste, come ho detto, in una così mirabile conoscenza di Dio da superare ogni nostro desiderio) non serve che a darle maggior tormento perché aumenta il desiderio in tal modo che la gran pena, a mio parere, alcune volte fa perdere i sensi, anche se per poco tempo. Sembrano transiti di morte, salvo che tali sofferenze sono accompagnate da una così grande gioia che non saprei a cosa paragonarla. È un duro martirio gioioso, perché tutto ciò che di terreno può presentarsi all’anima, anche se si tratti di cose che di solito le piacevano molto, non è più da essa accettato; sembra che subito lo getti lontano da sé. Ben comprende di non voler altro che il suo Dio, e di lui non ama un particolare attributo, lo vuole nell’insieme di tutti i suoi attributi e non sa nemmeno ciò che vuole. Dico «non sa» perché l’immaginazione non le pone dinanzi nulla né, a mio parere, operano le potenze per molta parte del tempo in cui dura questo stato; come nell’unione e nel rapimento le sospendeva la gioia, qui è la pena a sospenderle.

12. Oh, Gesù, se potessi spiegare bene alla signoria vostra queste cose, almeno perché mi dicesse di che si tratta, visto che la mia anima si trova ora sempre in questo stato! Per lo più, quando si vede libera da occupazioni è invasa da tali ansie di morte, e teme, appena le sente arrivare, di dover morire. Ma, una volta immersa in esse, vorrebbe passare tutto il tempo che le resta da vivere in questo patimento, anche se è così eccessivo che chi lo soffre a mala pena può sopportarlo. Pertanto, alcune volte perdo quasi del tutto le pulsazioni, a quanto dicono quelle tra le consorelle che talora mi assistono e che ormai capiscono bene di cosa si tratta. Inoltre, c’è una notevole espansione dei tendini e le mani sono così rigide che a volte non le posso congiungere. Il dolore ai polsi e al corpo, che mi dura fino al giorno dopo, è tale da farmi sentire come slogata.

13. Io ben penso, talvolta, che se la cosa continua così, a Dio piacendo, finirò col lasciarci la vita perché, a mio parere, un simile tormento è sufficiente a farmi morire; solo che io non merito tale grazia. In quel momento il mio unico desiderio è quello di morire: non mi ricordo del purgatorio, né dei grandi peccati commessi per i quali ho meritato l’inferno; dimentico tutto nell’ansia di vedere Dio, e quel deserto di solitudine mi è più caro di qualunque compagnia del mondo. Se c’è qualcosa che potrebbe darmi conforto è trattare con persone che avessero provato questo stesso tormento. Pensare che, per quanto l’anima se ne lamenti, non vi è alcuno che sembri riesca a crederle! [14.] Le dà anche tormento il fatto che questa pena vada aumentando tanto che non vorrebbe più solitudine come prima, né compagnia alcuna se non quella di anime con cui potersi lamentare. È come uno che, avendo il laccio al collo e sentendosi soffocare, cerchi di prendere fiato. Mi sembra, pertanto, che quel desiderio di compagnia nasca dalla nostra debolezza perché, esponendoci la sofferenza a un pericolo di morte (e questo, certo, lo fa; io mi sono vista talvolta in tale pericolo per le mie gravi malattie o per altre circostanze – come ho detto – e credo di poter affermare che, nel caso di cui parlo, il pericolo è così grande come negli altri), la tendenza naturale dell’anima e del corpo a non separarsi spinge a chiedere aiuto per riprendere fiato e a cercare rimedi, per vivere, nel parlare, nel lamentarsi e distrarsi, ben contro la volontà dello spirito, cioè la parte superiore dell’anima, che non vorrebbe uscire da questa pena.

15. Non so se comprendo nel giusto modo queste cose e se le riporto bene, ma, secondo il mio parere, è proprio così. Pensi la signoria vostra che riposo possa io avere in questa vita, da quando quello che avevo – cioè l’orazione e la solitudine in cui il Signore mi dava tanta consolazione – si è mutato quasi abitualmente in questo tormento. Peraltro, è così gioioso e prezioso che l’anima ora lo desidera più di tutti i doni che era solita avere. Le sembra più sicuro perché è la via della croce e ha in sé una gioia molto grande, perché il corpo non partecipa che alla pena, mentre l’anima, che pur ne patisce, gode, però, essa sola della consolazione di tale patimento. Non capisco come ciò possa avvenire, ma è così, e non cambierei questa grazia che il Signore mi fa (un bene della sua mano, come ho detto, in nessun modo acquistato con i miei sforzi, perché assolutamente soprannaturale) per tutte quelle di cui parlerò in seguito; non dico solo prese insieme, ma neppure separatamente. Non tralasci di ricordare quello che, in conclusione, è il tema di questo libro e lo stato in cui ora il Signore mi tiene: dico che questi trasporti vengono dopo i doni già detti, dei quali mi ha favorita l Signore.

16. Standomene dunque, all’inizio, con timore (come mi accade quasi sempre quando ricevo una grazia dal Signore fino a che, andando avanti, Sua Maestà non mi rassicura), egli mi disse di non temere e di stimare questa grazia più di tutte le altre che mi aveva fatto, perché in tale pena l’anima si perfeziona, affinandosi e depurandosi come l’oro nel crogiolo, affinché egli possa meglio applicarvi gli smalti dei suoi doni, ed espia quelle colpe per cui avrebbe dovuto stare in purgatorio. Avevo ben capito che era una grande grazia, ma dopo questo ne rimasi assai più certa. Tanto più che il mio confessore la riconobbe come cosa buona. D’altronde, benché io avessi ragione di temere, a causa della mia miseria, non ho mai potuto credere il contrario. Anzi, quello che mi faceva temere era proprio il fatto che si trattava di un bene troppo grande, avendo presente quanto poco l’avessi meritato. Sia benedetto il Signore che è così buono! Amen.

17. Mi sembra di essere andata fuori tema, perché ho cominciato a parlare di rapimenti, mentre questo che ho detto trascende il rapimento, pertanto lascia gli effetti di cui ho parlato.

18. Ora torniamo al rapimento, e a ciò che di solito accade quando si verifica. Ripeto che spesso mi sembrava che mi lasciasse il corpo così leggero da annullare tutta la sua naturale pesantezza e, alcune volte, in tale misura che quasi non mi accorgevo di toccare la terra con i piedi. Durante il rapimento, infatti, il corpo resta spesso come morto, senza potersi muovere minimamente, nella posizione in cui il rapimento lo coglie: o in piedi, o seduto, o con le mani aperte, o chiuse, in conformità di come si trovava. E sebbene di rado si perdano i sensi, a me è accaduto alcune volte di perderli del tutto – poche volte, però, e per poco tempo. Ordinariamente rimangono turbati; è vero che, pur non potendo compiere alcuna azione esterna, non cessano d’intendere né di udire, ma come da lontano. Non dico che l’anima intenda o oda quando è nel grado più alto del rapimento (per lo più intendo quello in cui si perdono le potenze, essendo strettamente unite a Dio), perché allora non vede, né ode, né sente, a mio parere, ma, come ho detto nella precedente orazione di unione, questa totale trasformazione dell’anima in Dio dura poco; però, mentre dura, nessuna potenza rientra in sé e sa quel che avviene. Finché siamo sulla terra, non se ne deve capire nulla, almeno non lo vuole Dio per non esserne noi capaci. Io questo lo so per esperienza.

19. La signoria vostra mi chiederà come mai alcune volte il rapimento duri tante ore. Spesso, come ho detto nell’orazione passata, ciò di cui ho fatto esperienza è che si gode a intervalli. Molte volte l’anima s’inabissa in Dio o, per meglio dire, Dio l’inabissa in sé; la tiene così un po’ di tempo, poi rimane assorta solo la volontà. Mi sembra che l’agitarsi delle altre due potenze sia come l’ombra dell’asta di un orologio solare che non sta mai ferma; solo quando il Sole di Giustizia lo vuole, la fa fermare. Il rapimento, ripeto, dura poco, ma poiché lo slancio e l’elevazione dello spirito sono stati grandi, anche se le altre due potenze tornano ad agitarsi, la volontà resta assorta; questa, come regina di tutto, domina le azioni del corpo poiché, visto che le altre due potenze vogliono disturbarla con l’agitazione della loro attività, affinché non la disturbino anche i sensi, fa che restino sospesi – di nemici bisogna averne meno possibile –, così volendo il Signore. Per lo più gli occhi stanno chiusi, anche se non vogliamo chiuderli, e se qualche volta, come ho già detto, restano aperti, non si vede né si distingue nulla.

20. Qui è molto meno ciò che si può fare da sé, affinché, quando le potenze tornino a riunirsi, non occorra un grande sforzo. Pertanto, chi riceve da Dio questa grazia, non si perda d’animo vedendo il suo corpo del tutto immobilizzato per molte ore e, talvolta, l’intelletto e la memoria distratti. In verità, ordinariamente tali potenze sono occupate nelle lodi di Dio o nello sforzo di conoscere e capire quello che in loro è avvenuto, e non sono ben deste neppure per questo: somigliano a una persona che ha molto dormito e sognato, e ancora non è del tutto sveglia.

21. Insisto molto su ciò perché so che oggi vi sono – anche in questa città – persone a cui il Signore concede tali grazie, e se coloro che le dirigono non ne hanno fatto esperienza, crederanno forse – specialmente se mancano di dottrina – che nel rapimento esse siano come morte. Fa pena vedere quanto si patisce a causa dei confessori che, come poi dirò, non capiscono queste cose. Forse io non so quel che dico; la signoria vostra vedrà se qualche volta l’indovino, poiché il Signore le ha già dato esperienza di ciò, sebbene, essendo avvenuto solo da poco tempo, potrebbe non averci riflettuto tanto come me. Così, per quanti tentativi io faccia, per molto tempo nel corpo non ci sono forze sufficienti a farlo muovere: tutte le ha portate via con sé l’anima. Molte volte, se era molto malato e pieno di forti dolori, si ritrova guarito e più valido, essendo una grazia ben grande quella che lì ci viene data, e il Signore alcune volte, ripeto, vuole che ne goda anche il corpo, ormai ubbidiente ai desideri dell’anima. Dopo che questa ritorna in sé, se il rapimento è stato grande, le accade di passare uno, due, e anche tre giorni, con le potenze così assorte che, come imbambolata, non sembra ancora rinvenuta.

22. Qui nasce nell’anima il tormento di dover ritornare a vivere; qui, cadutole ormai il primo pelo, le sono nate le ali perché possa volare bene, e spiega già la bandiera per la causa di Cristo; sembra che il capitano di questa fortezza salga, o meglio sia fatto salire sulla torre più alta, per issarvi il vessillo di Dio. Guarda a quelli di sotto come chi è in salvo e non teme ormai i pericoli, anzi li desidera, avendo lì, in certo modo, certezza della vittoria. Qui si vede assai chiaramente il poco conto che si deve fare di tutte le cose di quaggiù e la nullità di esse. Chi sta in alto scopre molte cose. Non vuole più avere una volontà sua, non vorrebbe, cioè, avere libero arbitrio; pertanto, supplica di ciò il Signore e gli dà le chiavi della sua volontà. Ecco qui il giardiniere divenuto castellano, che non vuole fare altro se non la volontà del Signore, né esser padrone di sé né di nulla, neppure di un frutto di questo giardino. Se in esso c’è qualcosa di buono, lo ripartisca Sua Maestà, perché d’ora in poi non vuole più nulla di proprio, ma solo fare ciò che è totalmente conforme alla sua gloria e alla sua volontà.

23. Di fatto, accade realmente tutto questo se i rapimenti sono veri e l’anima ne ha gli effetti e i vantaggi di cui si è detto. In caso contrario, direi di dubitare molto che provengano da Dio, piuttosto propenderei a credere che si tratta di quegli arrabbiamenti di cui parla san Vincenzo. Quello che io so e ho visto per esperienza è che l’anima, qui, in un’ora e anche meno, resta padrona di tutto e con una così piena libertà da non potersi più riconoscere. Vedendo chiaramente che tale favore non è opera sua, non sa come le sia concesso un così gran bene. Ma intende distintamente il grande profitto che deriva da ognuno di questi rapimenti. Nessuno può crederlo, se non l’ha provato per esperienza; pertanto, non si crede alla povera anima: avendola vista così imperfetta, e vedendo che ora, d’un tratto, aspira a cose tanto sublimi (infatti immediatamente l’anima manifesta il suo intento di non contentarsi di servire il Signore nel poco, ma al massimo delle sue possibilità), pensano tutti che sia vittima di una tentazione o di una follia. Se capissero che ciò non nasce da lei, ma dal Signore a cui ha ormai dato le chiavi della sua volontà, non si stupirebbero.

24. Sono convinta che un’anima pervenuta a questo stato più non parla né fa nulla da sé, ma di tutto ciò ch’essa deve fare ha cura questo augusto Re. Oh, Dio mio, come si vede chiaramente il senso del versetto di Davide e come si capisce che egli aveva ragione, e con lui tutti quelli che gli si uniranno, nel chiedere ali di colomba! S’intende bene che lo spirito spicca il volo per innalzarsi al di sopra di tutte le cose create e, anzitutto, al di sopra di se stesso, ma è un volo soave, volo gioioso, volo senza rumore.

25. Che sovranità acquista un’anima quando il Signore la eleva a tale altezza, da cui domina con lo sguardo tutte le cose di questo mondo, senza esserne irretita! Come si vergogna del tempo in cui lo fu! Quanto la sgomenta la sua passata cecità e quale pietà prova per coloro che sono ancora ciechi, specialmente se si tratta di persone di orazione, già favorite da Dio dei suoi doni! Vorrebbe gridare per far loro capire quanto siano in errore e lo fa, anche, alcune volte, ma allora le piovono addosso una infinità di persecuzioni: è ritenuta poco umile e accusata di voler insegnare a coloro dai quali avrebbe da imparare; specialmente se è donna, non esitano a condannarla, e con ragione, ignorando l’impeto che la muove, tale che a volte non può resistere a non disingannare chi ama e che desidera veder libero dal carcere di questa vita, perché non è né le appare altra cosa quella in cui è vissuta lei.

26. Si rammarica del tempo in cui badava al punto d’onore e dell’inganno in cui era di reputare onore quello che il mondo chiama onore: ora vede che è una grandissima menzogna da cui tutti siamo illusi. Capisce che il vero onore non è menzognero, ma risponde a verità, e consiste nello stimare ciò che è stimabile e non far nessun conto di ciò che nessun conto merita, essendo nulla e meno di nulla tutto quello che ha fine e non è a gloria di Dio.

27. Ride di sé, del tempo in cui apprezzava il denaro, ed era avida di averlo; benché io di quest’avidità non abbia mai dovuto, in verità, confessarmi colpevole, tuttavia è grande colpa tenerlo in qualche conto. Se con esso si potesse comprare il bene di cui ora mi vedo in possesso, lo stimerei molto, ma so che un tale bene si acquista col lasciare tutto. In cosa consiste, dunque, ciò che si acquista con questo denaro a cui aneliamo? È cosa di valore? È cosa durevole? E allora a qual fine lo cerchiamo? Misero guadagno ci procuriamo, pagandolo a così caro prezzo! Molte volte con il denaro ci guadagniamo l’inferno, comprando fuoco eterno e pene senza fine. Oh, se tutti riuscissero a considerarlo come terra senza alcun frutto, come andrebbe meglio il mondo, in piena concordia e senza intrighi! Con quanta amicizia si tratterebbero gli uomini! Se venisse meno ogni interesse di onore e di denaro, io sono sicura che si rimedierebbe a tutto!

28. L’anima vede anche l’accecamento che procurano i piaceri, le inquietudini e gli affanni che con essi si comprano già in questa vita. E che inquietudini! Che misere soddisfazioni! Che inutile fatica! Qui scorge non solo le ragnatele del suo intimo e i grandi peccati, ma anche qualunque pulviscolo vi sia, per quanto piccolo possa essere, perché il sole rifulge in pieno. Pertanto, nonostante ogni suo sforzo per raggiungere la perfezione, se la colpisce in pieno questo Sole, si vede tutta assai torbida. È come l’acqua posta in un bicchiere: se il sole non la investe, sembra molto chiara; se è investita dal sole, si vede che è tutta piena di corpuscoli. Il paragone calza alla perfezione, perché prima che l’anima giunga a questa estasi, le sembra di porre ogni cura a non offendere Dio, facendo quanto può, in conformità delle sue forze, per evitarlo; ma, giunta qui, dove la colpisce in pieno questo Sole di giustizia che la costringe ad aprire gli occhi, vede tanti difetti, che vorrebbe subito richiuderli; non essendo ancora così simile all’aquila reale da poter fissare bene il sole, per poco che li tenga aperti, si vede tutta torbida e si ricorda allora del versetto che dice: Chi sarà giusto, o Signore, innanzi a te?

29. Quando fissa questo sole divino, il suo fulgore l’abbaglia; quando guarda se stessa, il fango le offusca la vista, così che la colombella rimane cieca. Accade, pertanto, moltissime volte che resti proprio cieca del tutto, assorta, attonita, priva di sensi di fronte alle molte grandezze che vede. Qui acquista la vera umiltà perché non le importa di dire bene di sé, né che altri lo dicano. Il Signore distribuisce i frutti dell’orto e non lei, e così nulla le si attacca alle mani; tutto il bene che ha viene indirizzato a Dio; se qualcosa di ce di sé, è per la sua gloria. Sa che in quel giardino non ha nulla di suo e, anche volendolo, non potrebbe ignorarlo, perché lo vede con i suoi stessi occhi. Il Signore, suo malgrado, glieli fa chiudere alle cose del mondo, affinché li tenga aperti per comprendere la verità.

CAPITOLO 21

Continua a parlare di quest’ultimo grado di orazione, completandone la trattazione. Esprime la sofferenza dell’anima, che in esso si trova, di tornare a vivere nel mondo e parla della luce che le offre il Signore per vederne gli inganni. Contiene una profonda dottrina.

1. Ora, per completare la trattazione dell’argomento di cui stavo parlando, dico che qui non c’è bisogno del consenso dell’anima a Dio; glielo ha già dato e sa di essersi volontariamente rimessa nelle sue mani e di non poterlo ingannare, perché è onnisciente. Non è come in terra, dove la vita è tutta piena di inganni e di doppiezze e in cui, quando pensate di aver conquistato l’affetto di una persona, in base a ciò che vi dimostra, venite a scoprire che era tutta una menzogna. Non si può ormai più vivere fra tanti imbrogli, specialmente se vi sia di mezzo un qualche interesse. Felice l’anima alla quale il Signore fa conoscere la verità! Oh, come sarebbe adatto questo stato per i re! Come sarebbe di maggior vantaggio per essi cercare di guadagnarselo, anziché mirare alla conquista di un gran dominio! Quanta giustizia vi sarebbe nel loro regno! Quanti mali si eviterebbero e quanti se ne sarebbero evitati! Qui non si teme di perdere la vita né l’onore per amor di Dio. Che gran bene, questo, per chi, come re, è più obbligato di tutti i sudditi ad aver di mira l’onore del Signore perché deve essere loro di esempio! Pur di accrescere di un punto la fede e d’illuminare almeno un po’ gli eretici, un tale re sarebbe disposto – e con ragione – a perdere mille regni. È una cosa ben diversa, infatti, guadagnare un regno eterno, tale che, con una sola goccia d’acqua che di esso l’anima beva, prova nausea per tutto ciò che è terreno. Che ne sarebbe, poi, se s’immergesse totalmente in essa?

2. Oh, Signore! Se voi mi deste modo di proclamarlo a gran voce, non mi crederebbero, lo so, come non credono a molti che lo sanno dire ben diversamente da me, ma io, almeno, ne rimarrei soddisfatta. Mi sembra che, pur di far conoscere una sola di queste verità, terrei in poco conto la vita. Non so, dopo, che cosa farei, perché non c’è da fidarsi di me, ma sebbene sia quella che sono, provo tale bisogno di dire questo a chi comanda, da restarne distrutta. Quando non ne posso più, mi rivolgo di nuovo a voi, mio Signore, supplicandovi di porre rimedio a tutto. voi ben sapete che assai volentieri mi priverei delle grazie che mi avete concesso, purché ciò non mi facesse incorrere nel pericolo d’offendervi, per darle ai re, essendo loro impossibile, con questo, permettere le cose che oggi permettono, e se ne avrebbero grandissimi beni.

3. Oh, mio Dio! Fate che intendano i loro obblighi, giacché avete voluto renderli così famosi in terra, che quando muore qualcuno di essi, in cielo ne appaiono i segni, come ho sentito dire. Certo, pensando a questo, mi sento piena di devozione, per il fatto che voi, mio Re, vogliate far loro intendere anche così l’obbligo di imitarvi in vita, poiché, in qualche modo, la loro morte è accompagnata da segni celesti, come avvenne per la vostra morte.

4. Presumo forse troppo. La signoria vostra strappi tutto, se quanto dico le sembra inopportuno, e creda che parlerei meglio in loro presenza, se potessi farlo, o pensassi di esser creduta; è certo che li raccomando vivamente a Dio e vorrei essere esaudita. Tutto consiste nel rischiare la vita, che io molte volte desidero perdere, e sarebbe avventurarsi a guadagnar molto per poco prezzo, perché non si può vivere vedendo con i propri occhi il grande inganno in cui si è indotti e la cecità che ne consegue.

5. Arrivata a questo punto, l’anima non è solo animata da desideri di servire Dio; Sua Maestà le dà le forze per effettuarli. Non le si presenta occasione in cui pensi di poterlo servire che non colga a volo, e crede di non far nulla, perché – come dico – vede chiaramente che tutto è nulla, se non serve a compiacere Dio. Il tormento è che a persone così inutili come me non si presenti alcuna occasione. Vi piaccia, o mio Bene, che venga un giorno in cui io possa pagare un po’ del molto che vi devo. Disponete voi, Signore, le cose come più vi piacerà, ma in modo che questa vostra schiava vi possa servire in qualche cosa. Anche altre erano donne, eppure hanno fatto per amor vostro azioni eroiche; io non so far altro che chiacchierare, e per questo voi non volete, mio Dio, mettermi alla prova; tutto il mio servizio si esaurisce in parole e desideri, e neppure in questo ho piena libertà, perché forse potrei sbagliare in tutto. fortificate voi la mia anima, o Bene di tutti i beni, o Gesù mio, e dopo averla disposta a tal fine, stabilite il modo in cui possa far qualcosa per voi, non essendovi alcuno capace di ricevere tanto senza pagare nulla. costi quel che costi, Signore, non vogliate che io mi presenti davanti a voi a mani vuote, poiché il premio sarà dato in conformità delle opere. Eccovi la mia vita, il mio onore e la mia volontà; vi ho dato tutto, sono vostra, disponete di me secondo il vostro volere. Vedo bene, mio Signore, quanto poco io valga, ma giunta fino a voi, salita in cima a questa torre da cui si vedono tante verità, se voi non vi allontanate da me, riuscirò a fare qualunque cosa. Se, invece, mi lasciate – sia pure per poco – ritornerò dov’ero prima, cioè sulla via dell’inferno.

6. Oh, che pena per un’anima, giunta a questo stato, dover trattare di nuovo con tutti, assistere all’assurda farsa di questa vita e spendere il tempo nel soddisfare i bisogni del corpo, col mangiare e dormire! Tutto la stanca e non sa come trovare una via di scampo; si vede incatenata e prigioniera; pertanto, sente più al vivo la schiavitù del corpo e la miseria della vita. Riconosce quanto avesse ragione san Paolo di supplicare Dio d’esserne liberato e lo invoca con lui, implorandone anch’essa la liberazione, come ho detto altre volte. Qui, però, lo fa con tale impeto che spesso sembra voglia uscire dal corpo per andare in cerca di tale libertà, visto che nessuno la trae fuori dalla schiavitù. È come una schiava in terra straniera. Ciò che più l’affligge è non trovare molti che uniscano le loro lagnanze alle sue, chiedendo la stessa cosa, e che ordinariamente ci sia, invece, in tutti il desiderio di vivere. Oh, se non fossimo attaccati a nulla, né riponessimo la nostra felicità nelle cose terrene, la pena che ci dà il vivere sempre senza di lui mitigherebbe grandemente la paura della morte per il desiderio di godere della vera vita.

7. Alcune volte penso che se una come me, grazie a questa luce che il Signore mi ha dato, pur essendo così tiepido il mio amore e così incerto il mio vero riposo, poiché le mie opere non l’hanno meritato, spesso soffre tanto di vedersi in questo esilio, quale sarà stata la sofferenza dei santi? Che cosa avranno sofferto san Paolo, la Maddalena e altri come loro, in cui era così grande la fiamma dell’amor divino? Doveva essere un continuo martirio. Ho l’impressione che un qualche sollievo – e perciò le frequento con piacere – mi venga dalle persone che nutrono questi stessi desideri, purché siano desideri accompagnati da opere; dico opere perché vi sono alcuni i quali credono di essere distaccati da tutto e tali si proclamano, e dovrebbero esserlo, come richiede la loro condizione e, a volte, i molti anni che battono il cammino della perfezione; ma l’anima di cui parlo distingue lontano le mille miglia quelli il cui distacco è solo a parole da quelli che hanno già confermato le parole con i fatti, perché vede lo scarso profitto degli uni e il molto profitto degli altri, cosa ben evidente per chi ha un po’ di esperienza.

8. Si è, in questo modo, parlato degli effetti dei rapimenti provenienti dallo spirito di Dio. Questi, però, possono essere più o meno grandi; dico meno, perché da principio, anche se tali effetti esistono, non sono comprovati dalle opere, pertanto non si può capire che ci siano. Va anche aumentando la perfezione, con lo sforzo di far scomparire ogni traccia di ragnatele, e ciò richiede un po’ di tempo; quanto più crescono nell’anima l’amore e l’umiltà, tanto più viva è la fragranza che emana da questi fiori di virtù a vantaggio proprio e altrui. Vero è che, in uno solo di questi rapimenti, il Signore può operare in tal modo da lasciare all’anima ben poco lavoro per l’acquisto della perfezione; nessuno potrà immaginare, se non ne fa esperienza, ciò che il Signore qui dona all’anima, perché, a mio parere, non vi è alcuna nostra diligenza che possa farci giungere a tanto. Non dico che con l’aiuto del Signore e giovandosi per lunghi anni dei mezzi insegnati da coloro che hanno scritto sull’orazione, sia nei primi gradi che nei medi, non si possa giungere con molte fatiche alla perfezione e a un grande distacco dal mondo, ma non in così breve tempo come qui, dove il Signore opera senza alcuna nostra fatica, e prontamente libera l’anima dalla terra e la fa padrona di tutto quanto in essa si trova, anche se in quest’anima non vi siano meriti maggiori di quelli che erano nella mia, il che è tutto dire, perché io non ne avevo quasi nessuno.

9. La ragione per cui Sua Maestà fa questo è perché lo vuole e, volendolo, lo fa; e anche se non ci sia nell’anima la disposizione dovuta, la dispone lui a ricevere il bene che egli le dona. Pertanto, non tutte le volte lo concede perché le anime lo abbiano meritato coltivando accuratamente il giardino, benché sia indubitabile che non tralasci di favorire chi compie bene il suo lavoro e cerca di staccarsi dal mondo. Talora, però, come ho detto, vuol mostrare la sua grandezza nel terreno più ingrato che vi sia, e lo dispone a ogni bene, in modo da far credere che l’anima non possa più tornare a vivere offendendo Dio com’era solita. Ha la mente così abituata a intendere ciò ch’è realmente verità, che tutto il resto le sembra gioco da bambini. Ride, alcune volte, dentro di sé, quando vede persone gravi, di orazione e di religione, fare molto caso di certi punti d’onore che ella già tiene sotto i piedi. Dicono che, per maggior profitto, bisogna conservare la dignità del proprio stato e agire con discrezione. Ma, l’anima sa perfettamente che trae molto più profitto in un sol giorno rinunziando, per amor di Dio, alla dignità del proprio stato, che non in dieci anni, rispettandola.

10. Così vive una vita di sofferenze ed è sempre caricata della croce, ma fa grandi progressi: quando si manifesta a coloro che la trattano, è già assai vicina alla vetta; di lì a poco sale più in alto ancora, perché Dio le va facendo sempre maggiori grazie. Ormai è sua ed è lui ad averne cura; sembra che l’assista continuamente, perché non l’offenda e sembra che la favorisca e la sproni perché lo serva. Quando la mia anima giunse a ricevere da Dio una grazia così grande, i miei mali cessarono, poiché il Signore mi diede la forza di liberarmene, allontanandomi dalle occasioni e dalle persone che solevano distrarmi come se non esistessero più, anzi, mi era d’aiuto ciò che prima soleva recarmi danno; tutto era un mezzo per conoscere meglio Dio, amarlo, capire quanto gli dovevo e pentirmi di quello che ero stata.

11. Mi rendevo ben conto che questo non proveniva da me, né l’avevo acquistato con il mio zelo, non avendo ancora avuto il tempo per adoperarmi a tal fine. Sua Maestà mi aveva dato la forza necessaria a conseguirlo, solo per la sua bontà. Fino ad oggi, quando il Signore ha cominciato a farmi la grazia di questi rapimenti, tale forza è andata sempre aumentando. Egli nella sua misericordia mi ha tenuto per mano, perché non tornassi indietro. Così stando le cose, mi sembra di non far nulla da parte mia, ma di vedere chiaramente che è il Signore a fare tutto. credo, pertanto, che quando un’anima riceve da Dio queste grazie e cammina con umiltà e timore, sapendo che tutto le viene dal Signore stesso e nulla, o quasi nulla, da sé, può frequentare qualsiasi genere di persone, per quanto sviate e viziose esse siano, la lasceranno indifferente e non potranno rimuoverla dai suoi propositi; anzi, come ho detto, le saranno di aiuto come mezzo per ricavare maggior profitto. Sono anime ormai forti quelle che il Signore sceglie per il bene di altre anime, anche se tale forza non viene da loro. Poco alla volta, man mano che il Signore avvicina l’anima alla cima, le comunica più arcani segreti.

12. In queste estasi si hanno vere rivelazioni, grandi grazie e visioni; tutto serve a rendere l’anima umile, a fortificarla, a farle disprezzare le cose di questa vita e a conoscere meglio l’eccellenza del premio che il Signore tiene riservato per coloro che lo servono. Piaccia a Sua Maestà che la grandissima generosità da lui usata con questa miserabile peccatrice serva perché coloro che leggeranno queste pagine si sforzino e s’incoraggino a lasciar tutto completamente per amor di Dio. Se egli ci ricompensa con tanta magnanimità che anche in questa vita si vede chiaramente il premio e il guadagno di chi lo serve, che sarà nell’altra vita?

CAPITOLO 22

In cui si vede quale norma sicura sia, per i contemplativi, non elevare lo spirito a cose alte, se non è il Signore a farlo, e come il mezzo per la più alta contemplazione sia l’umanità di Cristo. Parla di un inganno cui soggiacque un tempo. È un capitolo molto utile.

1. Voglio dire una cosa, a mio parere importante; se alla signoria vostra sembrerà opportuna, servirà a metterla in guardia, poiché potrebbe averne bisogno. In alcuni libri sull’orazione si dice che, sebbene l’anima non possa arrivare da sola a questo stato – essendo una condizione del tutto soprannaturale e opera unicamente di Dio – potrà però aiutarsi, distaccando lo spirito da tutte le cose create ed elevandolo con umiltà, dopo aver trascorso molti anni nella via purgativa e aver fatto progressi in quella illuminativa. Non so bene perché dicano «illuminativa»; penso che sia quella di coloro che progrediscono nella via della perfezione. Tali libri raccomandano, inoltre, vivamente di allontanare da sé ogni immagine corporea per accedere alla contemplazione della divinità, perché dicono che, per coloro che sono ormai giunti tanto avanti, è d’imbarazzo e d’impedimento a una più perfetta contemplazione anche l’umanità di Cristo. Citano in proposito ciò che disse il Signore agli apostoli circa la venuta dello Spirito santo, cioè quando stava per ascendere in cielo. A me sembra che se gli apostoli avessero avuto la fede che ebbero dopo la venuta dello Spirito santo, quando, cioè, cedettero che Gesù era Dio e uomo, l’umanità di Cristo non sarebbe stata loro d’ostacolo; quelle parole, infatti, non furono dette alla Madre di Dio, che pure l’amava più di tutti. Chi scrive questi libri ritiene dunque che, trattandosi di opera esclusiva dello spirito, qualsiasi immagine corporea possa essere di disturbo o di impedimento, e che considerarsi concretamente circondati da ogni parte da Dio e in lui sommersi è quello a cui devono tendere i nostri sforzi. Questa mi sembra che possa essere una buona via da seguire, qualche volta, ma allontanarsi del tutto da Cristo e riguardare il suo corpo divino alla stregua delle nostre miserie o di ogni altra cosa creata, non lo so ammettere. Piaccia a Sua Maestà che io sappia farmi capire!

2. Io non voglio contraddirli, perché sono persone dotte e spirituali che sanno quello che dicono e sono molti i sentieri e le vie per i quali Dio conduce le anime. Voglio soltanto qui dire come ha condotto la mia – delle altre cose non voglio occuparmi – e il pericolo in cui mi sono vista per volermi conformare a ciò che leggevo. Sono certa che chi è giunto all’unione senza passare oltre (intendo dire ai rapimenti, alle visioni e alle altre grazie che Dio concede alle anime), riterrà quanto dicono la migliore cosa da farsi, come lo credevo io, che se avessi persistito in tale convinzione, credo che non sarei mai giunta dove ora mi trovo, perché, a mio parere, essi s’ingannano. Può darsi che l’ingannata sia io, ma voglio dire quello che mi è accaduto.

3. Poiché non avevo un maestro e leggevo quei libri, con l’aiuto dei quali pensavo di riuscire a poco a poco a capire qualche cosa (e mi resi conto in seguito che se il Signore non me lo insegnava, ben poco avrei potuto imparare dai libri, non essendo riuscita a capire nulla né sapendo quel che facevo, fino a quando Sua Maestà non me lo fece intendere per esperienza), appena cominciai ad avere un po’ d’orazione soprannaturale, cioè di quiete, procurai di allontanarmi da ogni cosa corporea, pur non osando elevare gradatamente l’anima, il che mi sembrava – spregevole com’ero – una temerarietà. Avevo, però, l’impressione – ed era proprio così – di sentire la presenza di Dio e cercavo di starmene raccolta in lui. È un’orazione soave e molto gioiosa, se Dio ci aiuta. E, vedendo il profitto e il piacere che ne traevo, non solo sarebbe stato impossibile farmi tornare alla considerazione della umanità di Cristo, ma – a dire il vero – sembrava anche a me un ostacolo. Oh, Signore dell’anima mia e mio bene, Gesù Cristo crocifisso! Non c’è una sola volta in cui mi ricordi di questo pensiero senza provarne una gran pena: mi sembra, infatti, di aver commesso un gran tradimento, sia pure per ignoranza.

4. Tutta la vita ero stata piena di devozione per Cristo (questo mi accadde quasi alla fine – cioè poco prima che il Signore mi facesse queste grazie dei rapimenti e delle visioni – e, giunta a tal punto, durai ben poco tempo in tale opinione); pertanto, tornavo sempre alla mia abitudine di ricrearmi con questo mio Signore, specialmente dopo la comunione. Avrei voluto avere sempre davanti agli occhi il suo ritratto e la sua immagine, non potendo averlo scolpito nell’anima come desideravo. È mai possibile, mio Signore, che io abbia potuto pensare anche solo per un’ora che voi mi sareste stato d’impedimento per un bene maggiore? Da dove sono venuti a me tutti i beni se non da voi? Non voglio credere d’aver avuto in ciò colpa, perché me ne affliggerei molto: certo si trattava d’ignoranza e voi, nella vostra bontà, voleste apportarvi un rimedio mandandomi chi mi traesse d’inganno e poi facendo sì che io vi vedessi tante volte, come più innanzi dirò, perché intendessi meglio quanto fosse grande il mio errore, lo dicessi ad altre persone, come ho fatto, e lo scrivessi ora qui.

5. Credo che questo sia il motivo per cui molte anime, dopo essere giunte all’orazione di unione, non progrediscono né arrivano a una più grande libertà di spirito. Mi sembra vi siano due ragioni su cui appoggiare la mia asserzione; forse quanto dico non avrà valore, ma lo dico per averne fatto esperienza. La mia anima, infatti, stava molto male fino a quando il Signore non la illuminò; tutte le sue gioie erano a sorsi, e una volta venute meno, non trovava quella compagnia che ebbe poi per affrontare sofferenze e tentazioni. La prima è che in quel metodo si nasconde, così di soppiatto e dissimulata che non si avverte, un po’ di mancanza di umiltà. E chi sarà mai come me tanto superbo e miserabile da non ritenersi molto ricco e molto ben ripagato se, dopo essersi tormentato tutta la vita con quante penitenze, orazioni, persecuzioni si possano immaginare, può stare avendone il consenso del Signore, ai piedi della croce con san Giovanni? Non so in quale cervello possa nascere l’idea di non esserne contento se non nel mio, e così venne irrimediabilmente a perdere dove avrei potuto guadagnare.

6. Supposto, poi, che la natura o qualche infermità non permettano di pensare alla passione, per essere troppo penosa, chi ci impedisce di stare con lui dopo la risurrezione, giacché l’abbiamo così vicino nel sacramento in cui si trova ormai glorificato? E potremo contemplarlo non già tormentato e straziato, grondante sangue, stremato dai viaggi, perseguitato da coloro a cui ha fatto tanto bene, disconosciuto dagli stessi apostoli. Certo, non sempre c’è chi sopporti di pensare ai tanti tormenti da lui sofferti, ma eccolo qui, senza pena, pieno di gloria, mentre incita gli uni e incoraggia gli altri, nostro compagno nel santissimo Sacramento, tanto da far credere, prima di salire al cielo, che non si sia sentito di separarsi neppure un momento da noi. E che abbia potuto io, mio Signore, allontanarmi da voi nell’intento di servirvi meglio! Almeno, quando vi offendevo non vi conoscevo, ma che, conoscendovi, abbia pensato di trarne maggior profitto seguendo questa strada, oh, che strada sbagliata battevo, Signore! Anzi, come mi sembra, ero del tutto fuori strada, se voi non mi aveste messo su di essa; e nel vedervi accanto a me ho visto, insieme, ogni bene. Non mi ha più colpito alcun dolore che, guardandovi come eravate dinanzi ai giudici, non mi sia stato facile sopportare. Con la presenza di un amico così buono e con l’esempio di un così valente capitano, che per primo si espose ai patimenti, tutto si può sopportare. Egli ci dà aiuto e coraggio, non ci viene mai meno, è un vero amico. Io vedo chiaramente, e l’ho visto dopo quell’inganno, che per essere graditi a Dio e per ottenere che ci doni speciali grazie, egli vuole che si passi attraverso questa sacratissima umanità di Cristo, in cui Sua Maestà disse di compiacersi. Ne ho fatta l’esperienza moltissime volte, me lo ha detto il Signore; ho visto chiaramente che dobbiamo entrare da questa porta, se vogliamo che la divina Maestà ci riveli i suoi grandi segreti.

7. Pertanto, la signoria vostra, signore, non cerchi altra strada, anche se si trova all’apice della contemplazione; per tale cammino non correrà rischi. Questo nostro Signore è la fonte di ogni nostro bene. Egli c’indicherà la strada; guardando alla sua vita, vi troveremo un modello senza uguali. Che vogliamo di più di un così fedele amico al nostro fianco, che non ci abbandonerà nelle sventure e nelle tribolazioni, come fanno quelli del mondo? Fortunato colui che lo amerà sinceramente e lo avrà sempre vicino a sé! Guardiamo al glorioso san Paolo che sembrava avesse continuamente sulla bocca il nome di Gesù, come colui che lo teneva bene impresso nel cuore. Io, dopo aver compreso questa verità, ho considerato attentamente la vita di alcuni santi, grandi spiriti contemplativi, e ho visto che non seguivano altra strada: san Francesco lo fa vedere con le stigmate, sant’Antonio di Padova con il bambino Gesù, san Bernardo con il godere dell’umanità di Cristo, e ancora lo provano santa Caterina da Siena e molti altri che vostra signoria conoscerà meglio di me.

8. Il metodo di escludere tutto ciò che è corporeo dev’essere buono certamente, se lo indicano persone tanto spirituali; ma, a mio parere, si deve seguire solo quando l’anima sia già molto progredita perché, prima d’aver raggiunto un alto grado, è evidente che il Signore si deve cercare attraverso le creature. Tutto dipende da come opera la grazia del Signore in ciascun’anima; di questo non mi occupo. Ciò che vorrei far capire è che la sacratissima umanità di Cristo non ha niente a che fare con le altre cose corporee. Bisogna intendere bene questo punto su cui vorrei sapermi spiegare meglio.

9. Quando Dio vuole sospendere tutte le potenze, come abbiamo visto nei modi di orazione di cui si è parlato, è chiaro che, anche se non lo vogliamo, questa umana presenza ci lascia. E sia pure così, alla buon’ora! E benedetta sia tale perdita che serve a farci godere in maggior misura quello che ci sembra di perdere! Allora, infatti, l’anima è tutta impegnata ad amare colui che l’intelletto si è sforzato di conoscere; ama ciò che esso non è riuscito a capire e gode di quello di cui non avrebbe mai potuto godere così a fondo se non col perdere se stessa, nell’intento – ripeto – di guadagnare maggiormente. Ma, che noi a bella posta procuriamo di disabituarci dal cercare con tutte le nostre forze di aver sempre dinanzi – e piacesse al Signore che fosse davvero sempre! – questa sacratissima umanità, è ciò che – ripeto – non mi sembra ben fatto. È, come suol dirsi, un camminare per aria, perché allora l’anima sembra andare senza appoggio, pur nella ferma convinzione di essere piena di Dio. È molto importante, finché viviamo in veste umana, aver presente il Signore come uomo; in ciò sta il secondo inconveniente cui ho accennato. Il primo, come avevo cominciato a dire, è una certa mancanza di umiltà, per cui l’anima tende ad elevarsi prima che sia il Signore a farlo, non contentandosi di meditare su un fatto così prodigioso, volendo esser Maria prima d’aver faticato come Marta. Quando il Signore vuole che lo sia, fosse anche dal primo giorno, non c’è nulla da temere, ma non invitiamoci da noi stessi, come credo d’aver già detto altrove. Questo neo di poca umiltà, anche se non sembra nulla, al fine di voler avanzare nella contemplazione è molto dannoso.

10. Tornando al secondo inconveniente, noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra – e così saldamente come ci stavo io – è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma questo non avviene molto di frequente; pertanto, al sopraggiungere di impegni, persecuzioni, sofferenze, quando non si può avere più tanta quiete, o in caso di aridità, Cristo è un ottimo amico, perché vedendolo come uomo, soggetto a debolezze e a sofferenze, ci è di compagnia. Prendendoci l’abitudine, poi, è molto facile sentircelo vicino, anche se alcune volte avverrà di non poter fare né una cosa né l’altra. Per questo è bene, come ho detto, non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa. Il Signore restò privo di ogni consolazione; fu lasciato solo nelle sue sofferenze; non abbandoniamolo noi, perché egli ci aiuterà a salire più in alto meglio di quanto avrebbe potuto fare ogni nostra diligenza e si allontanerà quando lo riterrà conveniente o quando vorrà trarre fuori l’anima da se stessa, come ho detto.

11. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio e amarlo tanto che, pur volendo Sua Maestà elevarla a un altissimo gradi di contemplazione, come ho detto, se ne riconosce indegna, dicendo con san Pietro: Allontanatevi da me, Signore, perché sono uomo peccatore. Io l’ho provato; Dio ha condotto per questa strada la mia anima; altri, ripeto, ne seguiranno una più breve. Ciò che io ho capito è che tutto questo edificio dell’orazione dev’essere fondato sull’umiltà e che quanto più un’anima si abbassa nell’orazione, tanto più Dio la innalza. Non ricordo che mi abbia fatto nessuna delle grandi grazie di cui parlerò più avanti, se non quando mi sentivo annientata dalla vista della mia profonda miseria. Perfino, per aiutarmi a conoscermi meglio, Sua Maestà mi faceva capire cose che da sola non avrei saputo immaginare. Sono convinta che quando l’anima fa da parte sua qualche sforzo per aiutarsi in questa orazione di unione, anche se lì per lì sembra trarne profitto, tornerà presto a cadere, come avviene di un edificio senza fondamenta, e temo che non si arriverà mai alla vera povertà di spirito, la quale consiste nel non cercare conforti o piaceri nell’orazione – ora che si sono lasciati quelli della terra – ma trovare consolazione nelle sofferenze, per amore di colui che in essi sempre visse, e mantenersi tranquilla nelle pene e nelle aridità. Quantunque abbia a soffrirne un po’, non giungerà mai a quella inquietudine e a quella pena di alcune persone che, se non s’impegnano sempre a lavorare con l’intelletto e a far pratiche di devozione, pensano che tutto sia perduto, come se un così gran bene potesse essere merito dei loro sforzi. Non dico che non ci si debba impegnare ad ottenerlo e a stare ben raccolti davanti a Dio, ma che, se non si riesce ad avere neppure un buon pensiero, come altra volta ho detto, non ci si disperi. Siamo servi inutili, di che cosa pensiamo mai di essere capaci?

12. Il Signore vuole che ce ne rendiamo conto e che diventiamo come asinelli che portano su l’acqua con la noria di cui si è parlato. Essi, anche se hanno gli occhi bendati e non capiscono quello che fanno, tireranno fuori più acqua che il giardiniere con tutto il suo zelo. Bisogna camminare su questa strada con libertà, mettendosi nelle mani di Dio. Se Sua Maestà vuole innalzarci a far parte della sua corte e dei suoi intimi, seguiamolo di buon grado; in caso contrario, serviamolo in umili occupazioni e guardiamoci, come ho detto talvolta, dal metterci noi nel posto migliore. Dio ha cura dei nostri interessi più di noi e sa quello che conviene a ciascuno. A che serve governarsi da sé, quando si è già data a Dio tutta la propria volontà? A mio parere, questo è assai meno tollerabile qui che nel primo grado di orazione e arreca molto più danno, perché si tratta di beni soprannaturali. Se uno ha una brutta voce, per quanto si sforzi di cantare, non riuscirà a farla diventare bella; se, invece, Dio vuol dargliela buona, non ha bisogno di sgolarsi per migliorarla. Supplichiamolo, dunque, sempre di farci grazie, ma con umiltà, anche se con piena fiducia nella magnanimità di Dio. E poiché ci è permesso di stare ai piedi di Cristo, procuriamo di non allontanarcene, stiamoci comunque sia, imitando la Maddalena: quando l’anima sarà diventata forte, Dio la condurrà nel deserto.

13. Pertanto la signoria vostra, finché non avrà trovato chi abbia più esperienza di me e ne sappia di più, si attenga a ciò che ho detto qui. Trattando con persone che cominciano a godere di Dio, non creda loro quando diranno che hanno l’impressione, aiutandosi, di trarre maggior profitto e godere di più. Oh, quando Dio vuole, come viene in modo scoperto, senza questi miseri aiuti! Egli allora, per quanto noi facciamo per resistergli, rapisce lo spirito, come un gigante prenderebbe una pagliuzza, e non c’è resistenza che valga. È mai possibile credere che, se egli vuol far volare un rospo, aspetti che il rospo voli da se stesso? Ebbene, il nostro spirito mi sembra ancor più pesante ed esposto a maggior difficoltà nell’innalzarsi se non è Dio a sollevarlo, perché è gravato di terra e di mille impedimenti, e poco gli giova la volontà di volare. Anche se volare è più confacente alla sua natura che non a quella del rospo, è così invischiato nel fango che, per sua colpa, non ne è più capace.

14. Voglio, dunque, concludere così: che quando pensiamo a Cristo, dobbiamo sempre ricordarci dell’amore con il quale ci ha fatto tante grazie, e di quello, immenso, che ci ha testimoniato Dio col darcene tale pegno. Amore chiama amore, e anche se siamo agli inizi e tanto miserabili, cerchiamo di riflettere sempre su questa verità e di stimolarci all’amore, giacché se il Signore ci facesse una volta la grazia di imprimercelo nel cuore, tutto ci diventerebbe facile, e potremmo in brevissimo tempo e senza alcuna fatica darci alle opere. Ce lo conceda Sua Maestà – che conosce quanto ne abbiamo bisogno – per l’amore che ci ha portato e che il suo glorioso Figliolo ci ha dimostrato a costo di tante sofferenze! Amen.

15. Una cosa vorrei domandare alla signoria vostra: quando il Signore comincia a fare a un’anima grazie così sublimi, come è quella di elevarla a una perfetta contemplazione, non sarebbe logico ch’essa diventasse subito del tutto perfetta? Sì, certamente, sarebbe giusto, perché chi riceve così grande grazia, non dovrebbe più cercare conforti terreni. Perché, dunque, l’anima solo nel rapimento, quando è ormai più abituata a ricevere grazie, sembra che provi gli effetti più sublimi? Perché, quanto più alti sono, tanto maggiore è il suo distacco dalle cose terrene mentre il Signore, nell’istante stesso in cui scende su di lei, potrebbe santificarla, come farà poi, con l’andare del tempo, lasciandola perfetta in ogni virtù? Questo è ciò che vorrei sapere, e non lo so; anzi so che è ben diversa la forza che Dio dà all’anima agli inizi, quando non dura più che un batter d’occhio, tanto che quasi non si avverte se non per gli effetti che lascia, da quella che si prova quando tale grazia dura più a lungo. E molte volte mi chiedo se non sia perché l’anima non si dispone subito come conviene; pertanto il Signore a poco a poco l’avvia a una salda determinazione e le dà virile coraggio perché rinunci completamente a tutto. come lo fece in breve tempo con la Maddalena, lo fa con altre persone, in proporzione della libertà che esse gli lasciano di operare. Ma purtroppo noi non vogliamo indurci a credere che anche in questa vita Dio ci dia il cento per uno.

16. Mi è venuto in mente quest’altro paragone: essendo tutt’uno quello che si dà ai proficienti e agli incipienti, è come un cibo mangiato da molte persone; quelle che ne mangiano poco rimangono solo con un buon sapore per poco tempo; quelle che ne mangiano di più ne hanno aiuto per sostentarsi; quelle che ne mangiano molto ne ricevono vita e forza. L’anima può nutrirsi tante volte di questo cibo di vita e con tale abbondanza da non trovare più gusto in alcun cibo che non sia questo, vedendo quanto bene ne tragga e avendo ormai fatto l’abitudine a un sapore così squisito che vorrebbe cessare di vivere piuttosto di dover adattarsi ad altri cibi, capaci solo di toglierle il buon sapore che quello le ha lasciato. Anche una santa compagnia non ci procura, frequentandola, tanto profitto in un giorno quanto in molti, perché solo stando a lungo con tale persona possiamo, con l’aiuto di Dio, diventare come lei. Insomma, tutto sta in ciò che Sua Maestà vuole e nella disposizione della persona che egli vuole favorire, giacché importa molto, per chi comincia a ricevere questa grazia, decidersi a distaccarsi da tutto e a tenerla nella stima dovuta.

17. Mi sembra anche che Sua Maestà vada provando ora l’uno, ora l’altro, per vedere chi lo ama; e, per avvivare la nostra fede – se per caso fosse spenta – nelle ricompense che ci darà, si manifesta mediante tale supremo diletto, dicendo: «Badate, questa è solo una goccia di un infinito mare di beni». Così non tralascia di far nulla in favore di quelli che ama e, nella misura in cui vede che sono pronti ad accoglierlo, egli dona e si dona; ama chi lo ama, e che buon amante e che buon amico egli è! Oh, Signore dell’anima mia, chi può trovare parole adeguate per far intendere quali favori concedete a chi ha fiducia in voi, e che cosa perde chi, giunto a questo stato, resta attaccato a se stesso! Non vogliate permetterlo, Signore, giacché voi fate assai più di questo, venendo in un albergo così misero come il mio. Siate benedetto per sempre, in eterno!

18. Torno a supplicare la signoria vostra che, se di quanto ho scritto sull’orazione, vuol trattare con persone spirituali, si accerti che lo siano davvero, perché se non conoscono che una via, o si sono fermate a metà, non potranno cogliere certo nel segno. Vi sono alcuni che, condotti subito da Dio per un cammino molto elevato, credono che allo stesso modo possano avvantaggiarsi gli altri in tale stato, e acquietare l’intelletto, senza servirsi dell’aiuto di cose corporee. Ma chi lo farà, resterà secco come un pezzo di legno. Altri, ancora, avendo avuto un po’ di orazione di quiete, pensano subito che, come sono giunti a questo grado, possono passare all’altro e, invece di avvantaggiarsi, come ho detto, perderanno il vantaggio ottenuto. Pertanto, occorre in tutto esperienza e discrezione. Il Signore, nella sua bontà, ce le dia!

CAPITOLO 23

In cui riprende la narrazione della sua vita e dice come e con quali mezzi cominciò a procedere con maggior perfezione. È utile, per le persone che si impegnano a dirigere le anime nella vita di orazione, sapere come debbano comportarsi agli inizi e conoscere il vantaggio che a lei procurò l’essere stata ben indirizzata.

1. Voglio ora riprendere la storia della mia vita, dal punto in cui l’ho lasciata, dilungandomi più del dovuto per far meglio capire ciò che seguirà. Da qui innanzi sarà un libro nuovo, voglio dire una vita nuova, perché quella di cui ho parlato finora era mia, ma quella che ho vissuto da quando ho cominciato a spiegare cose attinenti all’orazione è la vita di Dio in me, a quanto mi sembra, poiché ritengo che sarebbe stato impossibile altrimenti svincolarsi in così poco tempo da abitudini e opere tanto cattive. Sia lodato il Signore che mi liberò da me stessa!

2. Appena, dunque, cominciai a fuggire le occasioni e a darmi di più all’orazione, il Signore cominciò a elargirmi le sue grazie, come chi non desiderava altro – a quel che si vide – se non che io volessi riceverle. Sua Maestà prese a darmi assai di frequente l’orazione di quiete e molte volte anche quella di unione, che durava a lungo. Ma, poiché in quei giorni si erano verificati casi di donne tratte in inganno dal demonio con grandi illusioni, cominciai a temere, specialmente per la grande gioia e la dolcezza che provavo, e a cui spesso non potevo sottrarmi, anche se, d’altra parte, in me ci fosse l’assoluta persuasione che provenissero da Dio, specialmente quando stavo in orazione e vedevo che ne uscivo assai migliorata e più forte. Ma appena mi distraevo tornavo a temere e a pensare se per caso il demonio non volesse, facendomi credere che era cosa buona, sospendere l’intelletto per privarmi dell’orazione mentale e della possibilità di meditare sulla passione e di servirmi dell’intelligenza, il che – non avendo conoscenza di queste cose – mi sembrava il maggior danno.

3. Siccome, però, Sua Maestà voleva ormai illuminarmi, affinché non l’offendessi più e conoscessi quanto gli dovevo, questa paura aumentò in modo tale che mi fece cercare con diligenza persone spirituali con cui trattarne. Avevo già notizia di alcune, essendosi stabiliti qui i padri della Compagnia di Gesù per i quali io – pur non conoscendone alcuno – nutrivo grande affezione, solo per aver saputo del loro metodo di vita e di orazione, ma non mi credevo degna di parlare ad essi, né tanto forte da seguirne i consigli; e questa era una ragione di maggior timore, perché trattare con loro, essendo quale ero, mi sembrava sconveniente.

4. Rimasi in questa perplessità per qualche tempo finché, ormai spossata da tante lotte e timori interiori, mi decisi a parlare con una persona spirituale per chiederle che tipo di orazione fosse quella che io praticavo e pregarla che mi illuminasse, se ero in errore, essendo disposta a fare tutto il possibile per non offendere Dio; in quanto era la costatazione di mancanza di forza in me – ripeto – che mi rendeva così timorosa. Che grande inganno, mio Dio, quello di allontanarmi dal bene, per voler essere buona! In questo, senza dubbio, deve adoperarsi molto il demonio, quando si comincia a praticare la virtù, perché io non riuscivo ad averla vinta su me stessa. Egli sa che l’infallibile risorsa di un’anima è trattare con gli amici di Dio, pertanto non c’era modo che mi decidessi a far questo. Aspettavo anzitutto di emendarmi – come quando lasciai l’orazione – e forse non mi sarebbe mai stato possibile, essendo ormai così invischiata in certe piccole cattive abitudini, di cui non riuscivo a capire il danno, che era necessario l’aiuto di un altro che mi tendesse la mano per farmi rialzare. Sia benedetto il Signore che fu il primo a porgermi la sua!

5. Quando mi accorsi che il mio timore cresceva man mano che procedevo nell’orazione, mi sembrò che in questo dovesse esserci un grande bene o un grandissimo male, rendendomi ormai ben conto che quanto avveniva in me era cosa soprannaturale, perché a volte non potevo opporvi resistenza ed era escluso che potessi averlo quando volevo. Pensai di non aver altro rimedio se non cercare di mantenere la coscienza pura ed evitare ogni occasione, sia pur di peccati veniali, perché se si trattava dello spirito di Dio, il profitto era evidente; se, invece, si trattava del demonio, procurando io di contentare il Signore e di non offenderlo, poco danno avrebbe potuto farmi, anzi il danno sarebbe stato suo. Decisa a questo e supplicando sempre Dio che mi aiutasse, procurai di fare quanto ho detto per alcuni giorni, ma vidi che la mia anima non aveva la forza di ascendere da sola a tanta perfezione, a causa di certi attaccamenti a cose le quali, benché in sé non molto cattive, bastavano per rovinare tutto.

6. Mi parlarono di un dotto ecclesiastico di questa città, di cui il Signore cominciava a far conoscere alla gente la bontà e la vita edificante. Cercai di mettermi in contatto con lui per mezzo di un santo cavaliere di questa stessa città. È sposato, ma di vita così esemplare e virtuosa e di così grande orazione e carità che da tutto il suo essere emanano bontà e perfezione. E lo dico con molta ragione, perché gran bene è venuto a molte anime per mezzo suo, possedendo egli talenti tali che, sebbene il suo stato non gli sia di aiuto, non può fare a meno di operare con essi: è molto intelligente e affabile con tutti; la sua conversazione, per nulla pesante, è così dolce e garbata e insieme così retta e santa, che dà gran piacere a chi tratta con lui; parlando, mira unicamente al maggior bene delle anime con le quali conversa e non sembra preoccuparsi d’altro che adoperarsi per chi vede soffrire e accontentare tutti.

7. Ebbene, questo benedetto e santo uomo, con la sua avvedutezza mi sembra sia stato il principio della salvezza per la mia anima. La sua umiltà mi sbigottisce perché, praticando l’orazione, per quel che credo, da poco meno di quarant’anni (non so se due o tre anni di meno), tutta la sua vita è improntata alla perfezione che il suo stato sembra permettergli. Sua moglie, infatti, è così gran serva di Dio e così piena di carità che egli certo non si perderà mai per causa di lei; in conclusione, scelta da Dio proprio per colui che sapeva doveva essere un suo grande servo. Alcuni suoi congiunti erano imparentati con i miei ed egli aveva anche frequenti rapporti con un altro gran servo di Dio, sposato con una mia cugina.

8. Per questa via procurai d’incontrare quell’ecclesiastico di cui ho parlato, gran servo di Dio e suo grande amico, dal quale pensai di confessarmi, scegliendolo per mio direttore spirituale. E allorché mi fu presentato perché mi parlasse, io, profondamente turbata nel vedermi alla presenza di un uomo così santo, lo misi a parte della mia anima e del mio modo di fare orazione, ma egli non volle confessarmi, dicendo di essere molto occupato, ed era vero. Cominciò con santa risolutezza a trattarmi da anima forte, come dovevo ragionevolmente essere per il grado di orazione in cui vide che mi trovavo, esigendo che non offendessi più Dio in alcun modo. Io, quando vidi la sua determinazione a trarmi subito fuori da quei difettucci dai quali, come ho detto, non avevo forza di liberarmi con tanta perfezione, me ne afflissi, rendendomi conto che considerava la questione della mia anima come cosa che dovesse essere risolta all’istante, mentre io ritenevo che ci fosse bisogno di molto maggior cautela.

9. Infine, capii che non con quei mezzi che egli mi suggeriva avrei trovato la strada per emendarmi, essendo adatti ad anime più perfette, mentre io, benché fossi già avanti nelle grazie di Dio, ero solo al primo principio in virtù e mortificazione. Certamente, se avessi dovuto trattare unicamente con lui, credo che la mia anima non avrebbe mai progredito, perché il dispiacere che provavo nel vedere che non facevo – né mi sembrava che potessi farlo – quanto egli mi diceva, bastava per farmi perdere ogni speranza e abbandonare tutto. A volte mi meraviglio che, essendo egli una persona dotata di grazie particolari per avviare le anime all’unione con Dio, non abbia saputo intendere la mia né assumerne la direzione, ma vedo che fu tutto per mio maggior bene, affinché conoscessi e trattassi con persone così sante come quelle della Compagnia di Gesù.

10. Da allora rimasi d’accordo con quel santo cavaliere che mi venisse a trovare qualche volta. Qui si vide la sua grande umiltà nell’acconsentire a trattare con una persona così miserabile come me. Cominciò a visitarmi e a incoraggiarmi, dicendomi che non pensassi di dovermi staccare da tutto in un sol giorno, perché a poco a poco lo avrebbe fatto Dio, e che anch’egli era stato alcuni anni senza riuscire a spuntarla in cose di assai scarsa importanza. Oh, umiltà, che gran bene fai a coloro nei quali alberghi e che si legano a chi ti coltiva! Ai fini del mio emendamento, mi parlava questo santo (cui mi sembra di poter con ragione dar questo nome) di alcune debolezze – tali almeno parevano alla sua umiltà – che, in rapporto al suo stato, non erano né mancanze, né imperfezioni, mentre in rapporto al mio sarebbero state gravissime. Non dico questo senza motivo; sembra, infatti, che mi dilunghi in minuzie, ma sono così importanti perché un’anima cominci a trarre profitto e sia tratta a volare – anche se, come si dice, è ancora sprovvista di penne – che non può crederlo se non chi ne ha fatto esperienza. E siccome spero in Dio che la signoria vostra possa aiutare molte anime, dico qui che tutta la mia salvezza fu data dal fatto che egli mi sapesse curare, avesse l’umiltà e la carità di intrattenersi con me e la pazienza di sopportarmi, pur vedendo che non mi correggevo mai del tutto. procedeva con tatto, a poco a poco, per darmi modo di vincere il demonio. Cominciai a nutrire per lui così grande amore che non c’era per me maggior conforto di quello offertomi dai giorni in cui lo vedevo, benché fossero pochi. Quando tardava, subito mi affliggevo molto, sembrandomi che non venisse a farmi visita per la mia enorme cattiveria.

11. Quando egli, man mano, si rese conto delle mie grandi imperfezioni (e saranno stati anche peccati, benché quando trattavo con lui mi fossi molto migliorata), e quando gli esposi le grazie che Dio mi faceva per esserne illuminata, mi disse che una cosa non si accordava con l’altra, che quelli erano doni di persone già molto avanti nella virtù e nella mortificazione, e che non si poteva fare a meno di temere molto, perché in alcune cose gli sembrava di scorgere il senno dello spirito cattivo. Comunque, non si pronunziò in modo definitivo, ma mi raccomandò di riflettere su tutto ciò che potevo capire della mia orazione e di riferirglielo. E la difficoltà era proprio che io non sapevo dire né poco né molto in che cosa consistesse la mia orazione, perché questa grazia di saper capire che cosa sia e di saperne parlare, Dio me l’ha data da poco tempo.

12. Quando mi disse questo, con la paura che già avevo, grande fu la mia afflizione, e molte le mie lacrime, poiché certamente desideravo accontentare Dio e non potevo persuadermi che lì c’entrasse il demonio, ma temevo che, a causa dei miei peccati, Dio mi rendesse cieca perché non lo intendessi. Leggendo alcuni libri, per vedere se riuscivo, col loro aiuto, a dire quale orazione praticassi, ne trovai uno dal titolo La salita del monte dove si parla dell’unione dell’anima con Dio; ivi era indicato tutto quello che io provavo in me in quel non pensare a nulla, che era appunto quanto più spesso dicevo: che, cioè, in quell’orazione non potevo pensare a nulla. segnai con alcune linee le parti che facevano al mio caso e gli diedi il libro affinché sia lui, sia l’altro ecclesiastico di cui ho parlato, santo servo di Dio, lo esaminassero e mi dicessero che cosa dovevo fare. Se fosse loro sembrato opportuno, avrei lasciato del tutto l’orazione. Infatti, che ragione c’era per cui dovessi espormi a tali pericoli? Se dopo quasi vent’anni che la praticavo non ne avevo tratto alcun guadagno, ma solo inganni del demonio, era meglio non praticarla, nonostante che anche questo mi riuscisse duro, perché io avevo già provato quale fosse lo stato della mia anima senza orazione. Così vedevo tutto irto di difficoltà, come chi, trovandosi nel gorgo di un fiume, dovunque si diriga, teme maggior pericolo e sta quasi per affogare. È questo un tormento assai grande e di tal genere ne ho provati molti, come dirò più avanti; benché non sembri cosa molto importante, forse gioverà sapere attraverso quali prove debba passare lo spirito.

13. È certamente grande la pena che si soffre e bisogna aver tatto, specialmente con le donne perché, a causa della loro debolezza, potrebbe riuscire molto dannoso il dir loro apertamente che in esse opera il demonio. Bisogna considerare bene tutto, allontanarle dai pericoli in cui possono incorrere e raccomandar loro di fare attenzione a mantenere il segreto e mantenerlo noi stessi come si conviene. Dico questo perché mi è costata gran sofferenza che non l’abbiano mantenuto alcune persone con cui avevo parlato della mia orazione. Esse, parlandone e chiedendo l’una all’altra, a fin di bene, mi hanno fatto un gran danno, perché si sono divulgate cose che, non essendo adatte a tutti, sarebbe stato bene restassero segrete, e sembrava, inoltre, che a divulgarle fossi io. Credo però che non ne abbiano colpa, avendolo permesso il Signore perché io avessi a soffrire. Non dico che parlassero di ciò che tratto con loro in confessione, ma poiché erano persone che io mettevo a parte dei miei timori, affinché mi illuminassero, mi sembra che avrebbero dovuto tacere; ciò nonostante, non ho mai osato nascondere loro nulla. ripeto, dunque, che si usi molta discrezione, incoraggiando le anime e dando tempo al tempo, perché il Signore verrà loro in aiuto, come ha fatto con me. In caso diverso, piena di paura e di timori com’ero, ne avrei avuto grandissimo danno. Mi meraviglio, con il forte mal di cuore che avevo, di non esserne rimasta pregiudicata nella salute.

14. Quando gli ebbi dato il libro e fatto all’incirca una relazione della mia vita e dei miei peccati come meglio potei (non era una confessione, essendo egli un secolare, piuttosto una spiegazione di quanto fossi colpevole), i due servi di dio si preoccuparono con grande carità e amore di vedere ciò che mi conveniva fare. Giunse la risposta che aspettavo con viva trepidazione, dopo aver supplicato molte persone che mi raccomandassero a Dio ed essermi dedicata in quei giorni maggiormente all’orazione. Il cavaliere venne da me molto afflitto e mi disse che, secondo l’assoluto parere d’entrambi, ero vittima del demonio; che quanto occorreva fare era parlare con un padre della Compagnia di Gesù il quale, non appena io lo chiamassi, dicendo di averne bisogno, sarebbe venuto; che l’informassi di tutta la mia vita e del mio stato con una confessione generale, con assoluta chiarezza; aggiungendo che, in virtù del sacramento della confessione, Dio lo avrebbe maggiormente illuminato, tanto più che nelle cose dello spirito quei padri hanno grande esperienza, e raccomandandomi di non discostarmi in nulla da ciò che mi avrebbe detto, perché correvo un gran pericolo se non trovavo chi mi guidasse.

15. Ciò mi procurò tanto timore e tanta pena che non sapevo cosa fare, tranne piangere in continuazione. Un giorno, mentre stavo in oratorio piena d’angoscia, ignara di quel che sarebbe stato di me, lessi in un libro – che forse il Signore mi pose tra le mani – come san Paolo dicesse che Dio era molto fedele e mai permetteva che fosse ingannato dal demonio chi lo amava. Questo mi consolò moltissimo. Cominciai ad occuparmi della mia confessione generale e a mettere per iscritto in una relazione, quanto più chiaramente seppi e potei fare, tutto il male e il bene della mia vita, senza tralasciare di dire nulla. ricordo che, vedendo, dopo aver scritto, tanto male e quasi nulla di bene, ne provai un’angoscia e un’afflizione grandissime. Mi dava anche angustia che in casa mi vedessero trattare con persone così sante come i padri della Compagnia di Gesù; temevo per la mia cattiveria, perché mi sembrava di sentirmi maggiormente obbligata, trattando con loro, a non essere più una miserabile creatura e a rinunciare ai miei passatempi; se non l’avessi fatto, sarebbe stato peggio per me. Così mi accordai con la sagrestana e la portinaia affinché non lo dicessero a nessuno. Mi giovò a poco, perché si trovò in portineria, quando mi chiamarono, chi lo disse a tutto il convento. Quanti ostacoli e paure frappone il demonio a chi vuol giungere a Dio!

16. Aperta tutta la mia anima a quel servo di Dio – era molto devoto, e anche molto perspicace – egli, come chi ben conosceva questo linguaggio, mi spiegò che cos’era e m’incoraggiò molto. Disse che evidentemente si trattava dello spirito di Dio e che dovevo riprendere l’orazione, perché non ero ben fondata, né avevo ancora ben cominciato a intendere che cosa fosse la mortificazione (ed era così, perché mi sembra che non ne sapessi neanche il nome). Non solo non dovevo in nessun modo lasciare l’orazione, ma attendervi con tutte le mie forze, visto che Dio mi faceva grazie così particolari. Che sapevo io se per mezzo mio il Signore voleva avvantaggiare molte persone? E aggiunse altre cose con cui sembra che profetizzasse quello che poi Dio ha fatto con me, per concludere che sarei stata molto colpevole se non avessi corrisposto alle sue grazie. In tutto quanto diceva mi sembrava che in lui parlasse lo Spirito santo per risanare la mia anima, tanto profondamente s’imprimevano in essa le sue parole.

17. Si verificò in me una completa rivoluzione; mi diresse in tal modo che mi parve d’essere del tutto trasformata. Che gran cosa è intendere un’anima! Mi disse di concentrare ogni giorno l’orazione su un punto della passione, di cercare di trarne profitto non pensando ad altro che all’umanità di Cristo e di resistere, per quanto potevo, a quei miei raccoglimenti e a quelle dolcezze interiori, in modo da non dare adito ad essi fino a che egli non mi desse ordini diversi.

18. Mi lasciò consolata e rinvigorita, e il Signore che aiutò me, aiutò anche lui perché comprendesse la mia condizione e il modo con cui doveva guidarmi. Restai fermamente decisa a non allontanarmi in nulla da ciò che avrebbe comandato, e così ho fatto fino ad oggi. Sia lodato il Signore che mi ha dato la grazia di obbedire ai miei confessori, sia pure imperfettamente! Essi sono stati quasi sempre questi benedetti padri della Compagnia di Gesù e sebbene – ripeto – li abbia seguiti imperfettamente, la mia anima cominciò ad averne un evidente miglioramento, come ora dirò.

CAPITOLO 24

Prosegue nell’argomento iniziato e dice come la sua anima andò avvantaggiandosi da quando cominciò ad obbedire, e quanto poco le giovasse resistere ai favori di Dio, che egli le dava in un modo sempre più perfetto.

1. Dopo questa confessione la mia anima restò così docile da sembrarmi che non vi sarebbe stato nulla a cui non fosse disposta. Cominciai così a cambiare in molte cose, anche se il confessore non mi faceva alcuna pressione, anzi pareva che badasse poco a tutto, e questo mi animava di più, perché mi conduceva per la via dell’amore di Dio e mi lasciava libera, senza altri obblighi, eccetto quelli che io mi imponessi per amore. Rimasi così quasi due mesi, facendo quanto potevo per resistere ai doni e alle grazie di Dio. Nelle forme esteriori era evidente il cambiamento, poiché il Signore ormai cominciava a darmi la forza di fare certe cose che, a giudizio di persone che mi conoscevano, anche della stessa casa, sembravano eccessive. E, rispetto a quel che facevo prima, avevano ragione di ritenerle eccessive, ma rispetto agli obblighi che l’abito e la professione m’imponevano, restavo sempre in debito.

2. Dall’opporre resistenza alle gioie spirituali e ai doni di Dio guadagnai che Sua Maestà mi desse un insegnamento. Prima, infatti, mi sembrava che per ricevere doni nell’orazione occorresse stare in grande raccoglimento e quasi non osavo muovermi. Dopo mi accorsi che ciò aveva ben poca importanza, perché quanto più cercavo di distrarmi, tanto più il Signore mi avvolgeva di soavità e di beatitudine tale che mi sembrava di esserne completamente circondata e di non poterne uscire da nessuna parte, come infatti era. Mi adoperavo a resistere con tanto impegno da provarne angustia; più grande era, però, l’impegno del Signore nel concedermi grazie e nel farsi conoscere molto più del solito in questi due mesi, affinché capissi meglio che resistergli non dipendeva più da me. Cominciai a innamorarmi nuovamente della sacratissima umanità di Gesù Cristo. L’orazione prese a consolidarsi come un edificio posto su salde fondamenta e mi affezionai di più alla penitenza che avevo trascurato a causa delle mie gravi infermità. Quel santo uomo che mi confessò mi disse che un po’ di penitenza non mi poteva fare alcun danno, e che forse Dio mi mandava tanti mali proprio perché, non facendola io, me la voleva imporre lui stesso. Mi ordinò di adempiere alcune mortificazioni non molto piacevoli per me. Io facevo tutto, perché mi sembrava che me lo ordinasse il Signore, dandogli la grazia di ordinarmelo in modo che io gli obbedissi. La mia anima cominciava già a sentir dolore di ogni offesa a Dio, per quanto piccola potesse essere, tanto che se avevo qualcosa di superfluo, non potevo ritirarmi in raccoglimento fin quando non me ne fossi spogliata. Pregavo molto il Signore di tenermi con la sua mano e di non permettere – trattando io con i suoi servi – che tornassi indietro, poiché mi sembrava che sarebbe stato un grave delitto e che essi avrebbero perduto credito per causa mia.

3. In questo tempo, arrivò in città il padre Francesco, già duca di Gandia, che da alcuni anni, dopo aver abbandonato tutto, era entrato nella Compagnia di Gesù. Il mio confessore e il cavaliere che, come ho detto, era venuto anch’egli da me, procurarono che gli parlassi e lo informassi della mia orazione, sapendo che era molto avanti nel ricevere favori e grazie da Dio il quale, tenuto conto del molto che aveva lasciato per lui, lo compensava fin da questa vita. Orbene egli, dopo avermi ascoltata, mi disse che si trattava dello spirito di Dio e che gli sembrava non fosse ormai il caso di resistergli oltre, anche se fino allora avessi agito bene, aggiungendo di cominciare sempre l’orazione con un brano della passione e di non opporre resistenza se, in seguito, il Signore mi rapisse lo spirito, lasciando fare a Sua Maestà, senza procurare io tale elevazione. Essendo già molto avanti in questa via, mi diede medicina e consiglio adatti, perché a tale riguardo è molto importante l’esperienza. Disse che sarebbe stato un errore continuare a resistere. Ne rimasi assai consolata e così anche il cavaliere, il quale si rallegrò molto di sentirgli dire che si trattava dello spirito di Dio, e continuò a darmi aiuto e consigli in tutto quel che poteva, e poteva molto.

4. In quel tempo trasferirono il mio confessore altrove e io ne soffrii moltissimo, temendo di ritornare ad essere una miserabile e sembrandomi impossibile trovarne un altro come lui. La mia anima rimase come in un deserto, piena di sconforto e di paura; non sapevo più che fare di me. Una mia parente ottenne di condurmi a casa sua e io mi adoperai subito a cercarmi un altro confessore tra i padri della Compagnia. Piacque al Signore che stringessi amicizia con una vedova, signora di nobili natali, molto dedita all’orazione, che aveva consuetudine di trattare con loro. Mi fece confessare dal suo confessore e rimasi in casa sua molti giorni. Abitava vicino ai padri e io ne ero assai lieta, perché potevo frequentarli più spesso, essendo grande il vantaggio che la mia anima traeva anche solo dal conoscere la santità dei loro costumi.

5. Questo padre cominciò ad avviarmi a maggior perfezione. Mi diceva che non dovevo tralasciare nulla per soddisfare completamente Dio. E lo faceva con molta abilità e dolcezza perché la mia anima, lungi ancora dall’essere forte, era assai fiacca, specialmente in fatto di rinuncia a certe amicizie che avevo. Anche se per causa loro non offendevo Dio, vi ero molto attaccata, tanto che mi sembrava un’ingratitudine lasciarle. E così dicevo al mio confessore che, poiché con esse non offendevo Dio, non v’era motivo di essere ingrata. Egli mi rispose di raccomandare la cosa al Signore, recitando per alcuni giorni il Veni Creator, affinché m’illuminasse su quel che era meglio fare. Un giorno, dopo essere stata a lungo in orazione e aver supplicato il Signore di aiutarmi a contentarlo in tutto, cominciai a dire l’inno e, mentre lo stavo recitando, mi colse un rapimento così improvviso che mi fece quasi uscire fuori di me, né potei mai dubitarne, essendo stato ben evidente. Fu la prima volta che il Signore mi fece la grazia di un rapimento. Udii queste parole: «Non voglio più che tu abbia conversazione con gli uomini, ma con gli angeli». Mi spaventai molto, perché il trasporto dell’anima fu grande e queste parole mi furono dette nella parte più intima dello spirito. Pertanto mi produssero sgomento anche se, d’altro canto, mi causarono grande conforto, che mi rimase, una volta passato lo spavento dovuto – credo – alla novità del caso.

6. Tutto ciò si è adempiuto perfettamente, perché da allora in poi non ho mai più potuto concepire amicizia, né aver consolazione, né amore speciale se non per coloro che so che amano Dio e procurano di servirlo, senza poter fare altrimenti, né m’importa che siano parenti o amici. Se non è una persona che ama Dio e che pratica l’orazione, mi è una croce assai penosa trattare con chiunque. È proprio così, mi pare, senza alcuna eccezione.

7. Da quel giorno mi sentii così animata a lasciare ogni cosa per amore di quel Dio che in un solo momento – mi sembra, infatti, che non fosse più di un momento – aveva voluto trasformare del tutto la sua serva, che non fu più necessario alcun comando. Il confessore, d’altronde, vedendomi così attaccata a quelle pratiche, non aveva osato impormene risolutamente la rinuncia. Forse aspettava che il Signore operasse il mio cambiamento, come infatti fece; io stessa disperavo di uscirne fuori perché lo avevo tentato altre volte, soffrendone a tal punto che avevo finito col lasciar perdere ogni tentativo, tanto più che mi sembrava che non fosse cosa sconveniente. Con questo rapimento, invece, il Signore mi diede la libertà e la forza di attuare tale rinuncia. Lo dissi al confessore e abbandonai tutto, secondo il suo comando. Fu di grande profitto anche alle persone con cui trattavo vedermi animata da questa risoluzione.

8. Sia eternamente benedetto Dio, per avermi dato in un solo istante la libertà che io non ero mai riuscita a conquistare, nonostante tutte le diligenze usate in molti anni e pur ricorrendo molte volte a tali sforzi che ne restava pregiudicata la mia salute. Ora, invece, trattandosi dell’opera di chi può tutto ed è il vero padrone del mondo, non mi procurò alcuna fatica.

CAPITOLO 25

In cui spiega come si debbano intendere quelle parole che Dio rivolge all’anima, senza che l’orecchio le oda; quali inganni possano esservi e come riconoscerli. È molto utile per coloro che saranno in questo grado di orazione, perché contiene molta dottrina, che è spiegata molto chiaramente.

1. Mi sembra opportuno spiegare che cosa sia questo parlare di Dio all’anima, e ciò che questa sente, affinché la signoria vostra se ne renda conto, accadendomi molto frequentemente dal giorno in cui ho detto che il Signore mi fece tale grazia come si vedrà da quanto sto per dire. Sono parole ben distinte, che non si odono con il senso dell’udito, ma si intendono ben più chiaramente che se si udissero, e fare a meno di sentirle, per molto che si resista, è inutile. Se tra noi, infatti, quando non vogliamo udire una cosa, possiamo tapparci le orecchie o attendere ad altro in modo che, pur udendo, non s’intende ciò che si ode, qui è impossibile. Bisogna ascoltarlo anche se non si vuole e l’intelletto è obbligato a essere ben desto, per intendere ciò che Dio gli vuol far capire. Non c’è volere o non volere che tenga, perché colui che può tutto, vuole che ci rendiamo conto di dover fare la sua volontà, mostrandosi così veramente padrone di noi. Ho fatto di questo lunga esperienza, perché la mia resistenza durò quasi due anni, a causa del gran timore che avevo, e anche ora qualche volta ci provo, ma poco mi giova.

2. Vorrei spiegare gli inganni che qui possono esserci, anche se mi sembra che, per chi ha molta esperienza, si tratterà di poco o niente (ma dev’essere grande l’esperienza), e la differenza che c’è quando parla lo spirito buono e quando invece lo spirito cattivo, e avvertire che può anche trattarsi di parole prodotte dallo stesso intelletto – cosa assai probabile – o di frasi che il nostro spirito rivolge a se stesso. Non so se questo sia possibile, ma fino ad oggi mi è sembrato di sì. Quando è spirito di Dio, sono parole veritiere, come ho visto e comprovato in molte cose che mi furono dette due o tre anni fa, e che si sono tutte avverate in pieno, né alcuna, finora, è risultata falsa; ma c’è altro da cui si vede chiaramente che opera lo spirito di Dio, come poi si dirà.

3. A me sembra che, quando una persona sta raccomandando una cosa a Dio vivamente, potrebbe credere molto facilmente di sentire una qualche risposta circa l’esaudimento o no della sua richiesta, ma chi ha sentito le parole di Dio nel modo anzidetto, vedrà chiaramente di che cosa si tratta, perché la differenza è grande. Se, poi, è un discorso fabbricato dall’intelletto, per quanto ingegnoso sia il suo intervento, si capisce che è lui a comporlo e a parlare, non diversamente da quando si va svolgendo un discorso per altri o si ascolta ciò che altri dice. L’intelletto vedrà subito che in quel momento non ascolta, poiché opera, e le parole che egli fabbrica sono come cosa sorda, frutto della fantasia, prive della chiarezza che hanno le altre; qui, inoltre, è in nostro potere distrarci come tacere, se parliamo; là, invece, è impossibile farlo. Altro segno, poi, ancor più caratteristico, è che le parole dell’intelletto non operano, mentre quelle del Signore sono parole ed opere, e anche se non sono parole di devozione, ma di rimprovero, subito dispongono l’anima come conviene; le infondono capacità, tenerezza; le danno luce, gioia e quiete, e se era in uno stato di aridità, d’inquietudine o di turbamento, ciò le viene portato via come può farlo materialmente una mano, e anche meglio, poiché sembra che il Signore voglia far capire ch’egli è potente e che le sue parole sono opere.

4. Mi sembra che ci sia la stessa differenza che c’è tra parlare e ascoltare, né più né meno. Quando parlo, come ho detto, vado indirizzando il mio discorso con l’intelletto, ma se mi parlano, non faccio altro che ascoltare, senza alcuna fatica. Nel primo caso, è un qualcosa che non sappiamo ben precisare, essendo come mezzo addormentati; nell’altro, invece, è una voce così chiara che non si perde una sillaba di ciò che dice. E ciò accade, talvolta, quando l’intelletto e l’anima sono così sconvolti e distratti, che non riuscirebbero a mettere insieme un discorso sensato. Ecco, invece, che trovano bell’e pronte e ascoltano così sublimi sentenze quali, pur stando in gran raccoglimento, non riuscirebbero mai a concepire, e fin dalla prima parola – come ho detto – l’anima è tutta trasformata. Specialmente durante il rapimento, in cui le potenze sono sospese, come si potrebbero intendere cose che prima non erano mai venute in mente? In che modo verranno in mente allora, mentre l’intelletto è quasi inattivo e l’immaginazione è come trasognata?

5. Si tenga presente che, quando si hanno visioni o si sentono queste parole, ciò non è mai, a mio parere, nel momento in cui l’anima è proprio unita a Dio nel rapimento, perché allora – come ho già spiegato, credo parlando della seconda acqua – si perdono completamente tutte le potenze e, a mio parere, in tale stato non si può né vedere, né intendere, né udire. L’anima è tutta in potere altrui e, in questo tempo che è assai breve, non mi pare che il Signore le lasci alcuna libertà. Passato questo breve tempo, quando l’anima si trova ancora nel rapimento, avviene ciò che dico, perché le potenze sono ridotte a tali che, benché non si perdano del tutto, sono quasi inoperanti, come assorte e incapaci di metter insieme un ragionamento. Sono, quindi, tanti i segni per capire la differenza di cui si parla, che ci si può ingannare una volta, non molte.

6. Aggiungo inoltre che, se un’anima è dotata d’esperienza e sta attenta, lo costaterà molto chiaramente perché, prescindendo dagli altri segni dai quali si vede ciò che ho detto, se le parole provengono da noi, non producono alcun effetto, né l’anima le accetta, mentre se vengono da Dio (anche se non vuole e sulle prime non vi dà credito), ritenendole vaneggiamenti dell’intelletto, quasi al modo stesso in cui non si farebbe caso di una persona di cui si sa che delira, è come se udisse una persona di gran santità e dottrina, di cui si sa che non ci può mentire. Ma il mio è un paragone grossolano perché queste parole, a volte, hanno in sé tale maestà che, pur non tenendo presente chi le dice, se sono di rimprovero, ci fanno tremare, e se sono di amore, ci fanno struggere di tenerezza. Per di più, come ho detto, sono cose che erano ben lontane dalla nostra mente, rivelatrici, in un solo istante, di così profonde verità che sarebbe stato necessario molto tempo per poterle concepire, e in nessun modo mi sembra che si possa pertanto ignorare che sono cose non provenienti da noi. Non c’è, quindi, motivo di dilungarmi di più, poiché mi sembrerebbe strano che una persona di esperienza possa ingannarsi, se essa stessa non si vuole deliberatamente ingannare.

7. Mi è accaduto molte volte, avendo qualche dubbio, di non credere a ciò che mi veniva detto e di pensare di essere vittima di qualche illusione (questo, dopo che tutto era finito, perché nel momento della grazia il dubbio è impossibile), e di veder poi adempiuta ogni cosa, passato molto tempo, in quanto le parole del Signore s’imprimono nella mente in modo tale che non si possono dimenticare, mentre quelle dell’intelletto sono come un lampo del pensiero, che passa e si dimentica. Avviene delle parole divine come di un fatto reale di cui, anche se col passare del tempo si dimentica qualcosa, non si perde del tutto la memoria: si ricorderà almeno che ci sono state dette, tranne che non sia passato molto tempo o siano parole di favore e di dottrina, ma le profezie mi pare non si possano dimenticare; almeno è così per me, benché abbia poca memoria.

8. Torno a dire che mi sembra impossibile, tranne che un’anima sia tanto priva di coscienza da voler fingere (il che sarebbe un gran male), affermando di udire rivolgersi parole, mentre non è così, che non veda chiaramente d’esser lei a mettere insieme e a pronunziare discorsi dentro di sé, se ha compreso lo spirito di Dio, altrimenti potrebbe rimanere tutta la vita in questo inganno, credendo di udire parlare, cosa del tutto inconcepibile. O quest’anima vuole intendere o no: se è così disfatta per quanto intende che, ad evitare mille timori e molte altre ragioni di turbamento, vorrebbe assolutamente non intendere nulla, desiderando starsene quieta nella sua orazione senza queste grazie, come potrebbe dar tanto agio all’intelletto di mettere insieme discorsi? Per far questo ci vuole tempo; qui, invece, senza alcun indugio, ci troviamo di colpo istruiti e intendiamo cose per concepire le quali credo sarebbe stato necessario un mese. Lo stesso intelletto e la stessa anima restano meravigliati nell’intendere alcune verità.

9. Così stanno le cose, e chi ne ha esperienza vedrà che tutto quanto ho detto risponde esattamente al vero. Ringrazio Dio di averlo saputo esporre in questo modo e termino col dire che, a mio giudizio, se queste parole sono dell’intelletto, quando lo vogliamo, possiamo udirle: ad esempio, ogni volta che stiamo in orazione potremmo immaginarci di udirle; invece non è così se sono parole di Dio, anzi si possono passare molti giorni in cui, benché si voglia sentire qualcosa, riesce impossibile, mentre altre volte, pur non volendolo, come ho detto, si è obbligati a udirle. Mi sembra che a chi volesse ingannare gli altri, dicendo di udire da Dio ciò che proviene da sé, costerebbe poco aggiungere che ha udito la voce di Dio con le orecchie del corpo. Proprio così, perché io non avevo mai pensato che ci fosse un altro modo di udire e d’intendere fino a che non l’ho costatato per esperienza, e l’esperienza, come ho detto, mi è costata molto cara.

10. Quando opera il demonio, non solo non lasciano buoni effetti, ma ne lasciano di cattivi. Questo mi è accaduto non più di due o tre volte e subito sono stata avvisata dal Signore che si trattava del demonio. Tralasciando la grande aridità che resta, l’anima prova un’inquietudine al modo stesso di quella che io ho provato molte altre volte in cui il Signore ha permesso che subissi grandi tentazioni e sofferenze di diversa natura, e benché mi tormenti ancora spesso, come più avanti dirò, è un’inquietudine che non si riesce a capire da dove venga. Sembra che l’anima resista, si agiti e si affligga, senza sapere di che, non essendo cattivo ciò che il demonio dice, ma buono. Forse dipende dal fatto che uno spirito sente la presenza dell’altro. Il piacere e la gioia che il demonio produce sono, a mio parere, molto diversi; egli potrebbe ingannare chi non ne abbia o non ne abbia mai avuti da Dio.

11. Chiamo propriamente piacevole una ricreazione soave, forte, penetrante, gioiosa e tranquilla, mentre certe devozioncelle fatte di lacrime e di piccoli sentimenti – fiorellini che appassiscono al primo venticello di persecuzione – non le chiamo devozioni. Anche se ispirate da buoni principi e santi sentimenti, non sono però tali che bastino a distinguere gli effetti dello Spirito buono da quelli dello spirito cattivo. È bene, pertanto, procedere sempre con grande cautela, perché le persone che non sono andate più avanti di questo stadio nell’orazione potrebbero facilmente cadere in inganno se avessero visioni o rivelazioni… Io non ebbi mai alcuna di queste ultime grazie fino a che Dio, per sua bontà, non mi concesse l’orazione di unione, eccetto quella prima volta che ho detto, in cui molti anni fa vidi Cristo. E, se fosse piaciuto a Sua Maestà che avessi capito allora, come ho capito dopo, che quella era una vera visione, m’avrebbe giovato non poco. Nessuna dolcezza resta nell’anima per le parole del demonio, ma una specie di spavento e un gran disgusto.

12. Sono perfettamente sicura che Dio non permetterà mai al demonio d’ingannare un’anima che in nessuna cosa si fida di sé ed è così forte nella fede da sentirsi disposta, per un punto di essa, a subire mille morti. E con questo amore per la fede che Dio infonde subito e che è fede viva e incrollabile, l’anima cerca sempre di procedere in conformità della dottrina della Chiesa, interrogando ora gli uni, ora gli altri, come chi ha già così salda base in queste verità che tutte le rivelazioni che si possono immaginare non la smuoverebbero d’un punto da ciò che insegna la Chiesa, neanche se vedesse aperto il cielo. Se qualche volta, invece, il suo pensiero sembrasse vacillare e si soffermasse in cuor suo a dire: «Infine, se Dio mi dice questo, può anche essere vero, come lo era quello che rivelava ai santi» (non dico che ella ci creda, ma che il demonio comincia a tentarla con un primo impulso di dubbio e che fermarsi in esso sarebbe evidentemente un gravissimo male; però anche questi impulsi molte volte nella presente circostanza non ci saranno, se l’anima mantiene quella forza che il Signore dà a colui al quale elargisce queste grazie, anzi le sembrerà di essere capace di stritolare i demoni in difesa anche della più piccola tra le verità insegnate dalla Chiesa). [13.] Se, dunque, non sentisse in sé questa risoluta fermezza e la devozione o le visioni non l’aiutassero a ritrovarla, non si ritenga sicura, perché il danno, pur non avvertendosi subito, a poco a poco potrebbe diventare grande. Per quel che vedo e so per esperienza, la convinzione che si tratti di un favore di Dio è data dalla sua conformità alla sacra Scrittura; e non appena abbia a discostarsene, credo che lo riterrei come opera del demonio con una certezza incomparabilmente maggiore di quella con cui ritengo che è opera di Dio, per quanto grande sia questa certezza. In tal caso, non è necessario andare in cerca di prove né investigare di quale spirito si tratti, poiché è così chiaro questo segno per credere che si tratta del demonio, che se allora tutto il mondo mi assicurasse che si tratta di Dio, non lo crederei. Sta di fatto che, quando è il demonio, sembra che tutti i beni si nascondano e fuggano dall’anima, a giudicare da come essa resta disgustata, agitata, priva di ogni buon effetto, perché anche se par che il demonio le ispiri desideri, non sono forti; l’umiltà che lascia in essa è falsa, inquieta e senza dolcezza. Credo che chi abbia esperienza dello spirito buono lo capirà.

14. Ciò nonostante, il demonio può sempre tramare molti inganni; pertanto, a questo riguardo non vi sarà mai nulla tanto sicuro quanto temere continuamente, procedere sempre con cautela, avere un maestro che sia dotto e non nascondergli nulla; così facendo, non ci potrà venire alcun danno, anche se a me ne sono venuti molti per certi timori esagerati che nutrono alcune persone. Mi accadde specialmente una volta in cui si erano riuniti molti servi di Dio che stimavo molto – e con ragione – giacché, sebbene io ormai non trattassi se non con uno, e solo quando egli me lo comandava parlassi ad altri, essi, amandomi molto e temendo che potessi essere ingannata, discutevano di frequente tra di loro circa il modo di venirmi in aiuto. Io stessa avevo un grandissimo timore, quando non stavo in orazione, mentre quando vi stavo e il Signore mi faceva qualche grazia, subito mi rassicuravo. Credo che fossero cinque o sei, tutti gran servi di Dio e il mio confessore mi disse che dichiaravano concordemente trattarsi del demonio. Non dovevo, quindi, comunicarmi tanto spesso e dovevo cercare di distrarmi in modo da evitare la solitudine. Io, come ho detto, ero estremamente timorosa e vi contribuiva anche il mal di cuore, tanto che non osavo molte volte star sola in una stanza neppure di giorno. Quando vidi che tante persone affermavano quello che io non riuscivo a credere, fui presa da grandissimo scrupolo, sembrandomi segno di poca umiltà da parte mia, perché tutti erano di una vita senza confronto più santa della mia, ed erano persone dotte, alle quali non v’era ragione di non credere. Mi sforzavo quanto potevo di convincermi di quanto dicevano pensando che, in base alla mia misera vita, essi dovevano certo dire la verità.

15. Uscita dalla chiesa con questa afflizione, entrai in un oratorio, dopo che da più giorni mi avevano tolto la comunione e proibito la solitudine, che erano il mio unico conforto, e non avevo una persona con cui trattare, perché tutti mi erano contrari. Mi sembrava che alcuni si burlassero di me quando parlavo di questo, come se vaneggiassi; altri consigliavano il confessore di guardarsi da me, altri dicevano chiaramente che ero vittima del demonio. Soltanto il confessore, pur condividendo il loro pensiero, per mettermi alla prova, come venni a sapere in seguito, cercava sempre di consolarmi e mi diceva che anche se fossi vittima del demonio, non recando io offesa a Dio non mi avrebbe potuto far nulla; tutto sarebbe finito, e che di ciò pregassi molto Dio, come facevano anche lui, tutte le persone che egli confessava e molte altre. Io m’impegnavo con tutte le mie forze nella preghiera e mi raccomandavo a quanti sapevo essere servi di Dio, affinché Sua Maestà mi conducesse per un altro cammino. E in queste continue suppliche al Signore rimasi per circa due anni.

16. Al pensiero che il demonio potesse venirmi a parlare tanto spesso, non c’era per me alcun conforto possibile. Ora che non mi ritiravo mai in solitudine neppure per pregare, il Signore mi faceva entrare in raccoglimento anche in mezzo alle conversazioni e, senza ch’io potessi evitarlo, mi diceva tutto quello che gli piaceva, e dovevo ascoltarlo, mio malgrado.

17. Me ne stavo dunque sola, senza avere una persona con cui consolarmi, incapace di pregare e di leggere, come sgomenta da tanta tribolazione e dal timore di poter essere ingannata dal demonio, tutta sconvolta e spossata, senza sapere cosa fare di me. Mi sono vista in questa afflizione altre volte, anzi molte volte, anche se non mi sembra d’essere mai giunta a questo estremo. Rimasi così quattro o cinque ore, senza che per me ci fosse alcun conforto né dal cielo né dalla terra, lasciata dal Signore a patire nel timore di mille pericoli. Oh, mio Signore, quale vero amico voi siete, e quanto potente, poiché potete ciò che volete, e non smettete mai di amare chi vi ama! Vi lodino tutte le creature, Signore dell’universo! Oh, poter gridare al mondo intero quanto voi siete fedele ai vostri amici! Tutte le cose mancano, ma voi, Signore di tutte, non mancate mai! È poco ciò che lasciate patire a chi vi ama. Oh, mio Signore, con quanta delicata cura, con quanta dolcezza li sapete trattare! Oh, felice chi non ha mai esitato ad amare altri che voi! Sembra, o Signore, che voi mettiate rigorosamente alla prova chi vi ama, affinché nell’eccesso del patimento si intenda l’eccesso ancor più grande del vostro amore. Oh, Dio mio, potessi avere ingegno, dottrina, e disporre di parole nuove per esaltare le vostre opere come lo sente l’anima mia! Mi manca tutto, mio Signore, ma se voi non mi lasciate senza la vostra protezione, io non mancherò a voi. Si levino pure contro di me tutti i dotti, mi perseguitino tutte le creature, mi tormentino tutti i demoni, ma non mancatemi voi, Signore, perché ho già fatto esperienza del guadagno che si ricava dal confidare solo in voi.

18. Mentre, dunque, ero in così grande angoscia (fino allora non avevo cominciato ad avere nessuna visione), bastarono queste sole parole per dissiparla e acquietarmi del tutto: «Non aver paura, figlia mia, sono io e non ti abbandonerò, non temere». Mi sembra, tenuto conto dello stato in cui ero, che sarebbero state necessarie molte ore per indurmi a calmarmi e che nessuno vi sarebbe potuto riuscire. Ed eccomi, grazie a queste sole parole, così tranquilla, piena di forza, di coraggio, di sicurezza, di pace e di luce, che in un istante sentii la mia anima trasformata, e credo che avrei potuto sostenere contro tutti che quelle grazie erano opera di Dio. Oh, com’è buono Dio! Oh, com’è potente e misericordioso il Signore! Non solo ci dà il coraggio, ma ci porge anche il rimedio. Le sue parole sono opere. Oh, Dio mio, come si rafforza la fede e cresce l’amore!

19. Per questo, certamente molte volte ricordavo quando il Signore comandò ai venti di acquietarsi allorché in mare infuriava la tempesta e dicevo: «Chi è questi a cui obbediscono tutte le mie potenze, che in un momento fa luce in una così grande oscurità, rende tenero un cuore che sembrava di pietra e fa piovere un’acqua di dolci lacrime dove sembrava che dovesse esserci a lungo siccità? E perché? Io desidero servire questo Signore; non pretendo altro se non contentarlo; non voglio gioia né riposo né alcun bene se non fare la sua volontà» (giacché ben certa di questo, a mio parere, lo potevo affermare). Se, dunque, questo Signore è così potente, come io vedo e so, se i demoni sono suoi schiavi – e di ciò non si può dubitare, perché è verità di fede – essendo io serva di questo Re e Signore, che male possono essi farmi? Perché io non debbo aver forza di combattere contro tutto l’inferno? Prendevo in mano una croce e mi sembrava davvero che Dio me ne desse il coraggio; in breve spazio di tempo, infatti, mi vidi così trasformata che non avrei temuto di lottare con essi a corpo a corpo, sembrandomi facile, con quella croce, poterli sgominare tutti. Pertanto, gridavo loro: «Venite ora avanti tutti, poiché, essendo io serva del Signore, voglio vedere che cosa mi potete fare».

20. E davvero mi parve ch’essi mi temessero, perché io rimasi tranquilla e talmente priva di timore nei loro riguardi che scomparvero totalmente le paure che mi solevano tormentare, e anche se alcune volte li vedevo come dirò in seguito, non solo quasi non ne avevo più paura, ma mi sembrava che i demoni l’avessero di me. Mi rimase un tale dominio su di essi, dono certamente del Signore di noi tutti, da non dar loro ormai più importanza che se fossero mosche. Mi sembra che siano così codardi che, vedendosi disprezzati, restano senza forza. Tali nemici non sanno attaccare di fronte se non coloro che vedono pronti ad arrendersi, o quando Dio permette che tentino e tormentino i suoi servi per il maggior bene di questi. Piacesse a Sua Maestà che temessimo ciò che dobbiamo temere e capissimo che può venirci maggior danno da un peccato veniale che da tutto l’inferno messo assieme, perché è proprio così.

21. Questi demoni ci incutono tanto spavento, in quanto siamo noi a volerci spaventare con il nostro attaccamento agli onori, alle ricchezze e ai piaceri, perché allora essi, trovando i loro alleati in noi che siamo nemici di noi stessi, amando e desiderando ciò che dovremmo aborrire, ci causano un gran danno, in quanto con le nostre stesse armi li facciamo combattere contro di noi, ponendole nelle loro mani, mentre dovremmo difenderci con esse. E questo è davvero un peccato. Se, invece, noi disprezziamo tutto per amor di Dio, ci stringiamo alla croce e cerchiamo di servirlo veramente, il demonio fugge da queste pratiche nel cammino della verità come dalla peste. È amico della menzogna e menzogna lui stesso; non verrà mai a patti con chi cammina nella verità. Ma, quando vede che l’intelletto è offuscato, si adopera come meglio può per accecarlo del tutto; perché, accorgendosi che uno è tanto cieco da riporre il suo appagamento in cose vane, come lo sono le cose di questo mondo che sembrano un gioco da bambini, si convince che costui è un bambino, lo tratta quindi come tale e osa lottare con lui una e più volte.

22. Piaccia al Signore che io non sia di costoro, ma che Sua Maestà mi doni la grazia d’intendere per riposo ciò che è riposo, per onore ciò che è onore, per diletto ciò che è diletto e non tutto il contrario. Un gesto di disprezzo verso tutti i demoni e avranno paura di me. Non capisco le paure di chi grida: Demonio! demonio! mentre potremmo dire: Dio! Dio! e far tremare tutti gli spiriti maligni. Sì, perché sappiamo ormai che non possono muoversi se il Signore non lo permette. Perché, dunque, nutrire questi timori? È fuor di dubbio che io ormai ho più paura di chi ne ha tanta del demonio, che del demonio stesso, perché lui non mi può far nulla, mentre costoro, specialmente se sono confessori, possono arrecarmi gran turbamento. Infatti ho trascorso alcuni anni in così grande sofferenza che ora mi meraviglio di come l’abbia potuto sopportare. Sia benedetto il Signore che mi ha prestato il suo valido aiuto!