domenica 11 dicembre 2011

Il Mistero dell'Avvento - Jean Danielou (1)


JEAN DANIÉLOU
IL MISTERO DELL' AVVENTO

MORCELLIANA 1958
Titolo originale dell'opera: LE MISTERE DE L'AVENT (Editions du Seuil, Paris)

INTRODUZIONEStoria e dramma



Dal momento in cui si comincia ad occuparsi di problemi missionari, sorge il problema del rapporto tra cattolicesimo e religioni non cristiane. La questione, in un senso più generale, appassiona gli uomini di oggi. Si può parlare di una trascendenza del cristianesimo nei confronti delle altre religioni?
È uno degli interrogativi che si ci pone più frequentemente, e davanti al quale, spessissimo, noi siamo come disarmati. Ci viene detto: voi stessi riconoscete che il buddismo, ad esempio, è un'altissima forza di saggezza: che l'Islam possiede un profondo e potente spirito religioso. Perché, allora, non ammettere che esiste sulla terra un certo numero di religioni, le quali, pur senza equivalersi in modo assoluto, corrispondono ciascuna a temperamenti, razze, paesi diversi? Voi riconoscete, d'altra parte, che le anime di buona volontà possono salvarsi anche al di fuori del cristianesimo, nelle religioni non cristiane. Conseguentemente, non si vede più ciò che costituisce, in senso proprio, la trascendenza del cristianesimo.
La questione si presenta, ugualmente, sul più pratico piano missionario.
Davanti a civiltà e religioni non cristiane, i missionari hanno difficile scelta tra due atteggiamenti diversi. Un atteggiamento ottimista, simpatizzante, considera in queste civiltà e religioni tutto ciò che vi ha di buono, tutto ciò che è un addentellato col cristianesimo, e che per conseguenza basterebbe prolungare e coronare col cristianesimo per portarle a compimento. Ma, viceversa, i missionari hanno profonda coscienza del fatto che quelle stesse religioni sono il grande ostacolo al cristianesimo e che, per esempio, la conversione d'un mussulmano non può attuarsi senza che egli, prima, rinunzi alla sua fede in tutto quanto essa ha di contrario al cristianesimo.
Merito del Kraemer (1) è l'aver messo in rilievo tale opposizione, spingendo al massimo l'atteggiamento pessimista: occorre persuadersi che il Vangelo è paradosso è paradosso puro, puro scandalo, per le civiltà e le religioni non cristiane; occorre non perdersi in tentativi di adattamento, ma piuttosto annunziare semplicemente il Vangelo nella sua integrità e fare assegnamento, per la sua efficacia, sulla potenza del Cristo e della grazia di Lui.
Il problema ci obbliga a riflettere più seriamente per precisare quali relazioni stabiliamo, noi, tra queste religioni non cristiane e il cristianesimo. Si tratta di una opposizione totale - come tra errore e verità - e per conseguenza la nostra visione del mondo è un conflitto tra cattolicesimo e religioni non cristiane? Oppure, al contrario, il cristianesimo compie e perfeziona ciò che in altre religioni troviamo allo stato rudimentale? E considerando il cristianesimo un prolungamento di quanto contengono le altre religioni, dove trovare la sua trascendenza, in che cosa esso rappresenta alcunché di superiore?
Le diverse correnti del pensiero missionario fluttuano spesso tra le due posizioni.
Vorrei dimostrare che tale contrasto si riscontra negli ambienti più diversi. Esiste, anzitutto, nell'atteggiamento preso dai Padri della Chiesa e dai primi cristiani di fronte alla contemporanee religioni pagane e al giudaismo. Ha la sua origine nel cuore stesso della Scrittura e dell' Antico Testamento.
Lo ritroviamo, infine, studiando il rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Vedremo come tale rapporto sia da un lato, storico, nel senso che tra cristianesimo e le altre religioni vi è una relazione «cronologica », nella misura in cui esso costituisce ciò a cui tutto il resto conduce: ma si tratta al tempo stesso di una relazione «drammatica », giacché se è vero che il cristianesimo completa, bisogna ammettere anche che distrugge, e per conseguenza le religioni pagane da un lato si espandono in esso raggiungendo così la pienezza, e dall'altro muoiono per fargli posto. Avvicinandone i due aspe1ti porremo in una prospettiva veramente totale il problema dell'evangelizzazione delle varie civiltà.
Colpisce vivamente rilevare come davanti al mondo che li circonda, i primi cristiani si sono trovati nella identica situazione in cui oggi vivono i nostri missionari in paesi pagani: una esigua minoranza di uomini portatrice d'un messaggio nuovo in un mondo totalmente chiuso ed ostile. Quando S. Paolo - per esempio - andò la prima volta ad Atene e cominciò nell' Areopago la predicazione del Vangelo, si trovò nella medesima situazione di quei missionari che, primi, andarono in Cina o in Giappone e parlarono ai sapienti di laggiù.
Quale fu l'atteggiamento dei primi cristiani verso le religioni pagane! Con gran e sorpresa vediamo precisamente, presso un certo numero, un profondo ottimismo, molto somigliante a quello di alcuni nostri contemporanei nei confronti delle religioni orientali.
Penso a due scrittori del II secolo: S. Giustino e Clemente d'Alessandria. In ambedue troviamo l'idea che nelle filosofie pagane vi è una certa presenza del Verbo, del Logos, una certa luce divina che illumina gli uomini, e comunica loro quella parte di verità da essi posseduta. Quindi, un Platone e un Socrate non hanno potuto dire senza una certa illuminazione dall’alto ciò che di vero hanno detto. Dunque vi è in essi già una certa presenza del Verbo, che nel cristianesimo si comunicherà con pienezza.
Quanto si afferma delle civiltà pagane si deve dire a maggior ragione del giudaismo. Se nelle religioni pagane vi è già una certa presenza del Verbo, a fortiori vi è un'azione di Dio e una parte di verità nel popolo ebreo. Sottolineo la cosa perché proprio attualmente viene contestata da alcuni i quali pongono cristianesimo e giudaismo in un'opposizione assoluta, radicale.
Marcione, nel II secolo, portava già agli estremi l'antitesi. Si era preso gusto ad estrarre dall' Antico Testamento tutte le espressioni antropomorfiche più brutali, più scandalose, su Dio, tutti i passi nei quali entrava in causa la gelosia di Dio, la vendetta di Dio, l'odio contro questo o quel popolo; e a dimostrare come al Dio giusto e severo dell'Antico Testamento si opponeva il Dio di Amore del Nuovo Testamento, al Dio particolari sta dell'Antico Testamento che s'interessava di un solo popolo e odiava gli altri, il Dio universalista, il Padre degli uomini del Nuovo Testamento. Così pretendeva. aver dimostrato che tra cristianesimo e giudaismo esisteva un'opposizione totale, che essi erano opera di due diversi Dei, che tutti gli sforzi fatti dai primi cristiani per affermare l'esistenza di una dottrina comune erano illusori e vani. Bisognava ammettere che il cristianesimo era novità totale, senza che nulla, assolutamente nulla di quanto lo aveva preceduto avesse con esso un qualsiasi rapporto. Prima di esso, tutto era male, il mondo Infelice era governato da un Dio malefico: con l'avvento del Cristo entriamo in una nuova epoca, nel mondo dell'amore e della misericordia. Naturalmente, per Marcione, questo antagonismo esisteva ancora di più tra il cristianesimo e le religioni pagane.
Di fronte a questa concezione radicale i Padri della Chiesa hanno dovuto cercare una definizione del principio che regolava il rapporto del cristianesimo con quanto lo aveva preceduto. Questo principio scoprirono nell'idea d'un progressivo piano di Dio. Per Sant'Ireneo il piano di Dio fu sempre uno solo; ossia Egli non ebbe mai altro disegno che «instaurare omnia in Christo ». L'uomo è dapprima un essere carnale, al quale sono estranee le cose divine, e che resterebbe accecato da una chiarità troppo vivida. Dio deve adattarsi alla debolezza dell'uomo e prenderlo come un bambino, col quale bisogna parlare, inizialmente, dicendogli delle cose molto semplici. Non, si deve uccidere, non si deve rubare, si devono onorare i genitori. Sono le cose molto semplici che ritroviamo, per esempio, nella sapienza della Cina. Così, progressivamente, seguendo quasi un metodo educativo, una pedagogia, secondo le espressioni adoperate da S. Paolo per primo quando dice che «la legge è il nostro pedagogo verso il Cristo », e in seguito assiduamente ripetute dai Padri - Dio ha condotto l'umanità a essere capace di sostenere la rivelazione divina, a essere, in certo qual modo, matura per il Cristo; fu così che, come si esprime la Scrittura, il Cristo venne nella pienezza dei tempi. Doveva esservi tutta una preparazione, e il Cristo sarebbe venuto quando questa preparazione avesse raggiunto il momento culminante.
Tale prospettiva lascia vedere chiaramente dove è la continuità: esiste difatti una reale continuità fra giudaismo e cristianesimo, fra civiltà pagane e cristianesimo, nel senso che essi rientrano in un piano unico, sono l'opera d'un unico Dio. Marcione aveva torto a parlare di due mondi, reciprocamente impermeabili. Lo stesso Verbo è all'opera oscuramente nel mondo non-cristiano e nel mondo ebreo, e dopo aver adattato l'uomo a Sé, ha in seguito adattato Se stesso all'uomo.
Occorreva - secondo il bel pensiero di S. Ireneo -, che l'uomo prendesse costumi divini e Dio costumi umani, giacché l'Incarnazione stessa è cosa non improvvisata, e tutto nell'azione di Dio si compie entro il quadro del tempo.
Questo è vero anche per l'educazione di ciascuna delle nostre anime, che riproduce la stessa storia dell'umanità e presenta questo progressivo adattamento alle cose divine.
Ma vi è pure una discontinuità: tra il momento in cui il Cristo è dato e il momento in cui era soltanto preparato e annunziato, si interpone un abisso. Qui tocchiamo la differenza essenziale che separa cristianesimo, giudaismo e religioni non cristiane. Per i Padri la differenza non riguarda soprattutto la dottrina: una grande parte della Rivelazione era già nel giudaismo. Secondo essi, inoltre, alcuni filosofi pagani avevano già avuto una certa conoscenza di Dio: un Sant' Agostino ci dice che, a parer suo, Platone aveva conosciuto il mistero della. Santa Trinità.
L'abisso esistente tra Antico e Nuovo Testamento è l'abisso che esiste tra l'annunzio di una qualche cosa e la realtà della cosa stessa.
Questo ci fa una volta ancora persuasi che il cristianesimo è essenzialmente una Vita e non essenzialmente una filosofia. Essere cristiani significa esistere divinamente, avere la grazia e avere familiarità con Dio. E questa è una novità totale.
Sant'Ireneo scrive in un bellissimo passo: « Sappiate che, donando se stesso, Egli, già annunziato, ha apportato una novità totale. La venuta d'un re è annunziata ai sudditi dai suoi messi perché si preparino a riceverlo: ma quando viene il re, e tutti sono ripieni della gioia che era stata annunziata, e gustano la libertà portata da Lui, e hanno parte della visione di Lui, odono le sue parole e godono dei suoi doni, quale uomo sensato domanderebbe ancora che cosa vi è di nuovo in rapporto a quanto era stato solo annunziato? ». Ecco come, per un pensatore quale Ireneo, le discontinuità esistono realmente, come vi è nel cristianesimo qualche cosa di radicalmente nuovo, e come tuttavia questa novità radicale non impedisce che esso rientri in una continuità e in una unità con tutto ciò che lo precedette.
Il primo aspetto del pensiero dei Padri della Chiesa è dunque questo ottimismo col quale hanno notato la continuità tra il cristianesimo e le altre religioni. Ma, parallelamente, noi troviamo presso i Padri una visione in apparenza contraddittoria che dà rilievo all'altro aspetto della questione, il suo aspetto drammatico. Il cristianesimo qui non è più considerato come sviluppo d'un piano svolgentesi con una specie di infallibile sicurezza, e col quale Dio mano a mano attua progressivamente l'opera di unificazione di tutte le cose nel Cristo; appare invece come un conflitto tra il Cristo e le forze del male, conflitto del quale l'umanità è, insieme, attore e vittima.
Il Vangelo anzitutto e in seguito il pensiero dei Padri, ci offrono questa visione del cozzo fra il Cristo e queste potenze misteriose che rappresentano, allo sfondo dell'umanità, tutto un mondo infedele a Dio, ostile all'uomo e del quale l'uomo è preda e vittima; di modo che - e questo ha grande importanza nel pensiero dei Padri - l'uomo appare più vittima che malvagio, una preda di forze inique, dalle quali il Cristo viene anzitutto a liberarlo, più che un colpevole bisognoso di espiazione. Questa idea di espiazione non manca, ma è secondaria. I Padri hanno principalmente in alto grado il sentimento di quanto contiene di spaventevole l'attuale condizione umana; compito del Cristo è quello di liberarcene.
Da questo punto di vista le religioni non cristiane si mostreranno, subito, in una prospettiva del tutto diversa, non più come preparazioni e tappe verso il cristianesimo, ma come forze ostili che urtano contro di esso: il rapporto del cristianesimo con quelle religioni sarà non più una continuità ma un cozzo. E a questo riguardo, è da ricordare in quanti testi i Padri insegnano che il Battesimo significa essenzialmente per il pagano la rinuncia alle pompe, alle opere di Satana, termini coi quali si designa precisamente l'idolatria, ossia la religione pagana. Questa viene considerata come vero e proprio culto di Satana, al quale il nuovo cristiano deve rinunciare per entrare nel cristianesimo.
In quale modo allora, i Padri della Chiesa giunsero a ravvicinare le due posizioni? Distinguendo - ciò che noi facciamo tuttora - i due aspetti del mondo non cristiano: riconoscendo cioè in esso dei valori - come un Giustino, un Clemente, un Sant'Agostino riconobbero per la filosofia dei Greci e per Platone - e insieme degli atti, culti idolatrici, pratiche magiche, che sono effettivamente, in senso proprio, demoniaci, per mezzo dei quali l'umanità è schiava di forze ostili a Dio.
Ne viene di conseguenza l'ambiguità di questa posizione. È interessante vedere che tali contrasti furono, sin dal principio, nel fondo stesso del cristianesimo e che tale antinomia, oggi costantemente avvertita da noi, esisteva pienamente sin da allora.
Così è, giacché davanti a noi sta un'opposizione che è costitutiva della rivelazione cristiana e forma uno degli aspetti essenziali della Bibbia. Vi è nella Bibbia una nozione capitale, idea madre della Bibbia stessa, che spesso non comprendiamo: è quella di alleanza. Il termine appare mal scelto: traduce l’ebraico berith, che significa patto, impegno; il greco lo esprime col vocabolo diatheke - disposizione di qualcuno a favore d'un altro - o con synthéke, contratto bilaterale. Preciso queste nozioni perché hanno importanza relativamente al seguito. Il latino, a sua volta, traduce foedus, contratto bilaterale, o testamentum. Quest'ultimo termine è quello adoperato da noi quando si parla di Antico e di Nuovo Testamento, ossia in realtà di Antica e Nuova Alleanza.
Che cos'è questa alleanza, questo testamento? È la promessa che Dio fece ad Abramo, di tre cose: anzitutto egli introdurrà il suo popolo nella Terra Promessa, la terra di Chanaan; in secondo luogo dalla sua razza nascerà colui dal quale sarà salvato il mondo; infine, tutte le nazioni si raduneranno intorno alla sua discendenza. Bisogna notare che tale alleanza non è la prima. La Bibbia ha un passo di straordinario interesse per gli orizzonti che ci apre sul pensiero biblico: è il racconto del diluvio. In questo racconto Dio, dopo il diluvio, dice a Noè che ormai Egli stringerà alleanza con lui: che Egli s'impegna a non sconvolgere più l'ordine naturale, e segno di tale promessa sarà l'arcobaleno: tutte le volte che Dio lo vedrà esso gli ricorderà l'alleanza, e cesserà la pioggia.
Quando più tardi gli ebrei vorranno ricordare a Dio l'alleanza con loro, ossia la promessa da Lui fatta, cominceranno sempre così: «Tu, che per la Tua fedeltà mantieni l'ordine del mondo, che sei fedele quindi alla promessa già fatta a Noè, sii allo stesso modo fedele alla promessa che facesti al tuo popolo, alla promessa che facesti ad Abramo ». In altri termini, si afferma che come Dio è fedele nell'ordine naturale - era questo il pensiero degli ebrei: se il sole sorge tutti i giorni non avviene in virtù d'un sedicente determinismo fisico, ma in virtù della fedeltà divina, perché non vi ha nulla di impersonale nella creazione - così, ecco il punto essenziale, Dio è fedele al piano che ha stabilito nell'ordine' della grazia, che si compirà irrevocabilmente, e che nulla, assolutamente nulla, può modificare.
Contro tale piano, gli uomini nulla possono. La libertà umana non vi sostiene alcuna parte, giacché l'effettuazione di tale piano è indipendente dalla fedeltà dell'uomo. Se tra Dio e noi esistesse un contratto - qui si ripresentano le nozioni di cui dicevamo più sopra – e se per conseguenza uno dei contraenti fosse sciolto dai suoi obblighi nella stessa misura in cui l'altro non li ha adempiuti, l'alleanza sarebbe da lungo tempo rotta. Giacché l'uomo non mantiene i propri impegni, Dio sarebbe svincolato dalla parola data. Ma S. Paolo ei dice, ed è importantissimo a sapersi, che ci unisce a Dio non un contratto bilaterale come ritenevano i Farisei, ma una promessa unilaterale, e quindi la promessa divina non è in balia delle infedeltà nostre: meglio, lo è nella misura in cui le infedeltà nostre impediscono che noi profittiamo dei frutti della promessa, ma non mai in misura che tale promessa possa essere revocata. Possiamo metterei nella incapacità di profittarne in quanto siamo in peccato: essa è tanto irrevocabile quanto l'ordine naturale al quale Dio si è obbligato. Da tale punto di vista la concezione cristiana risulta d'un fondamentale ottimismo.
Simultaneamente però, nell' Antico Testamento, di fronte alla fedeltà di Dio, incontriamo un'altra realtà, l'infedeltà del popolo. Se da un lato nulla può impedire al piano divino di attuarsi, dall'altro al tempo stesso esiste il terribile potere che la libertà umana ha di mettere in scacco quel piano, impedendogli di portare i suoi frutti. Questo aspetto della situazione è personificato dalla storia di Israele, nell'a quale Dio chiama incessantemente a servirlo il suo popolo e il popolo gli è incessantemente infedele sottraendosi con le infedeltà proprie alle grazie divine. Sono noti i mirabili passi dei profeti, Ezechiele specialmente, che rimproverano al popolo i suoi traviamenti e lo esortano a divenire migliore. Qui, nel cuore stesso della Bibbia, abbiamo dunque quel doppio aspetto di continuità storica e insieme di tragica opposizione.
Di questa opposizione biblica il pensiero contemporaneo ci presenta una immagine degradata, mostrandoci a un tempo due prospettive: l'una ottimista e storica, l’altra disperata, drammatica.
Notiamo da una parte una Immensa fede nel progresso materiale che suscita un movimento come il comunismo. Il fondo del pensiero comunista, al di fuori di tutti gli esteriori affari politici, come si trova nella filosofia marxista che ne costituisce la base, è l'affermazione che attraverso la storia si attua irrevocabilmente un progresso. Possono esservi crisi, rivoluzioni. Tutto ciò si perde dentro questo divenire che scorre per centinaia e migliaia di anni e attraverso il quale il progresso si opera. Quindi, non resta che dar fede alla storia, confidare nel progresso: noi potremo anche non veder lo, ma l'importante è che si compia.
Siamo qui davanti alla degradazione d'una grande idea cristiana: è la fede cristiana in una città beata, fede sostenuta dalla promessa di Dio, nel comunismo degenera nella speranza d'una città temporale perfetta, risultante dagli sforzi dell’uomo. Perciò, quando sottoponiamo alla critica un pensiero come quello dei comunisti, bisogna essere molto accorti per respingere ciò che è perversione e non respingere ciò che è eredità e scadimento del nostro pensiero cristiano. La fede in un senso della storia, questo profondo credere che attraverso tutte le rivoluzioni, tutti i drammi nostri, vi è qualche cosa in maturazione, qualche cosa che si forma e cammina in direzione del bene, è visione di carattere essenzialmente cristiano.
A noi oggi, in mezzo a tutte le disperazioni e gli apparenti insuccessi, incombe il dovere di tener saldo questo fondamentale ottimismo: di custodirlo non solo come gli altri, ma più che gli altri, perché meglio di chiunque noi sappiamo come, attraverso tutti i drammi, la Città di Dio viene misteriosamente edificandosi, con sistemi che non sono i nostri, ma con indistruttibile certezza, perché Dio è fedele alla promessa. Noi sappiamo che il Verbo di Dio agisce nel mondo attuando il suo piano, e che tale piano è irrevocabilmente in via di compimento, e che tutte le nazioni saranno un giorno radunate nel regno del Padre.
Nello stesso tempo - ecco il paradosso - un'altra corrente del pensiero contemporaneo procede in senso inverso. Per essa il mondo è essenzialmente assurdo, ed unico atteggiamento possibile risulta quello d'una specie di disperato umanesimo il quale, convinto dell'assurdità di tutto, rinuncia a ogni illusoria speranza, tentando invece di industriarsi per salvare un minimum di felicità umana. È quanto cerca, ad esempio, un Camus. Evidentemente, l'apparenza del mondo in cui viviamo giustifica sotto molti punti di vista un pensiero simile: la situazione del nostro mondo è certo eminentemente assurda, e ci troviamo irretiti in contraddizioni e complessità che nulla hanno di razionale. Risulta comprensibile come alcuni trovino in una filosofia dell'assurdo e della disperazione l'espressione stessa di questa realtà.
Qui ancora siamo in presenza di un'idea cristiana degradata: il pessimismo cristiano di Pascal e di Kierkegaard, la coscienza del disordine nel mondo. Ma per il cristiano tale disordine non costituisce la natura delle cose, ha la propria causa nella colpevole libertà dell'uomo, con la quale egli introduce il male nell'armoniosa opera di Dio. Gli esistenzialisti fanno efficacissima critica ai marxisti affermando che l'ottimismo comunista pecca di ingenuità, perché ignora totalmente questa realtà fondamentale che è la terribile potenza della libertà umana. Gli elementi materiali non bastano a determinare il destino dell'uomo. La libertà dell'uomo è indipendente dalla causalità materiale: in ciò sta la sua grandezza, essa è qualche cosa di divino, ha la terribile possibilità di fare il male o il bene. Costituisce dunque un elemento imponderabile, il solo precisamente che non rientri nella prospettiva comunista, ma che basta a farla crollare. Su questa libertà, una sola cosa può aver presa: un'altra libertà superiore, alla quale essa non possa rifiutare nulla senza rinnegarsi.
I principi di cui disponiamo a questo punto possono permetterci di sciogliere il problema posto, sul rapporto del cristianesimo con le altre religioni.
Tale rapporto è doppio, storico e drammatico. Anzitutto, riguardo a queste civiltà, il cristianesimo è essenzialmente novità. Vaillant-Couturier diceva: «Il comunismo è la giovinezza del mondo ». Abbiamo ancora qui la degradazione d'una grande idea cristiana. Penso si possa difficilmente trovare più esatta definizione del cristianesimo: il cristianesimo è l'eterna giovinezza del mondo.
Certe anime oggi si domandano angosciosamente se il cristianesimo sia superato, se non invecchiato. Il dubbio tocca certe strutture del tutto esteriori del cristianesimo, ma non la sua essenza: il cristianesimo è e sarà sempre giovinezza del mondo, giacché sta proprio cronologicamente al termine dello sviluppo della Storia. E il vero suo rapporto con tutte le altre religioni consiste proprio nel fatto che tali religioni sono nei confronti di esso anteriori, scadute.
Non dico siano false in tutti i punti: il giudaismo non è falso, il buddismo non tutto è falso, né lo sono le civiltà feticiste: sono invecchiate, ossia in rapporto al cristianesimo sono in stato di anteriorità cronologica e, in certo modo, delle sopravvivenze: il cristianesimo è venuto a completar le, e ormai tutto ciò che in esse vi ha di buono ha raggiunto compiutezza nel cristianesimo. Tra il cristianesimo ed esse abbiamo la sovrapposizione nello spazio di cose che sono storicamente successive, ed è fatto strano questo rapporto di simultaneità fra realtà il cui rapporto essenziale è un rapporto di successione.
Come ciò? Per il giudaismo, risulta chiaro. Evidentemente il giudaismo era tutto orientato verso il cristianesimo. Per le religioni non cristiane, dobbiamo ripetere sostanzialmente un'affermazione analoga. Esse sono essenzialmente deficienti, incompiute.
Ricordiamo Sant'Ireneo: Dio ha familiarizzato l'uomo con verte verità naturali, con un certo senso del divino. Ma queste civiltà rimasero allo stadio iniziale e non si aprirono alla pienezza della Rivelazione. Altre civiltà, come l'Islam, sarebbero piuttosto un regresso sullo stato iniziale: esse hanno abbandonato alcuni aspetti del cristianesimo, quasi si fosse voluto andare troppo in fretta e, per riprendere l'idea di una pedagogia, quasi fossero razza o uomini ancora incapaci di ricevere nella sua pienezza la Rivelazione.
Caratteristica del cristianesimo è una certa totalità: vi è in esso la verità piena. Per conseguenza nella misura in cui tale pienezza si sviluppò progressivamente, ciò che lo caratterizza nei confronti delle altre religioni, è che esso segna una più avanzata tappa di evoluzione, l’ultimo momento dell’evoluzione stessa. Tale considerazione è senz'altro capitale, per renderci coscienti di questo carattere di compimento delle altre religioni e delle altre civiltà, proprio del cristianesimo, per rivelarci di esso questa novità perenne celebrata da un Sant' Agostino e da tanti altri. Il cristianesimo è e sarà sempre ciò che vi è di più nuovo.
«L'uomo più moderno siete voi, Papa Pio X », diceva Guillaume Apollinaire prima del 1914, con una certa intuizione della perenne novità che il cristianesimo contiene.
Adesso vedremo chiaramente anche dove si produce il rapporto drammatico tra cristianesimo e civiltà non-cristiane; l'opposizione tra quello e queste esiste nella misura in cui esse rifiutano di lasciarsi oltrepassare. Con mirabile espressione, Origene diceva a proposito della resistenza degli ebrei al Cristo: «È la figura che, per sopravvivere, si oppone alla realtà che la termina ». Questo vale per noi stessi quando ci rifiutiamo di aprir ci ai successivi richiami della grazia, e il nostro peccato è sempre di immobilizzarci, di ripiegarci su noi stessi.
Caratteristica di queste civiltà, è il loro essere ripiegate su di sé, il rifiuto ad aprirsi. Il popolo ebreo ha rifiutato di ricevere il Cristo: ha ricusato questa morte che l'avrebbe aperto a un più ampio superamento, si è ripiegato sulle sue ricchezze, rendendosi così incapace di ricevere una ricchezza nuova. E difatti, in simile rinunzia vi è qualche cosa di estremamente difficile per una civiltà.
In un bellissimo testo, Sant'Ireneo giustifica la necessità di questa accettazione di essere oltrepassato: «Come il sarmento non è fatto per sé ma per il grappolo che vi sboccia sopra, tanto che quando H grappolo è maturo si taglia e si getta via ciò che ha cessato di essere utile, così ormai Gerusalemme. Essa portava su di sé il giogo della schiavitù e quando il frutto della libertà è apparso, ha maturato, è stato vendemmiato e raccolto, giustamente fu abbandonata e relegata colei che ormai aveva portato il suo frutto ». La civiltà d'Israele aveva portato il suo frutto, questo frutto era il Cristo, e quando il frutto è là, perché conservare il ramo? Quando il grappolo è maturo e si possono assaporare gli acini, il sarmento allora diviene inutile, giacché tutto ciò che in esso aveva valore è passato nel grappolo. E che conta Gerusalemme, quando la figura di questo mondo intero deve passare nel tempo fissato, affinché il grano sia raccolto? Il mondo stesso intero è fatto per maturare un grappolo, precisamente la città di Dio; e quando questo grappolo sarà maturato, allora questo mondo potrà passare ed essere riposto come un abito vecchio, come la crisalide, quando la farfalla mette le ali, lascia cadere il bozzolo.
Questo è vero in particolare per le civiltà pagane: aprirsi al Cristo sarà precisamente, per esse, portare frutto e quindi, in certo modo, tagliare il sarmento.
In esse vi sono molte forme periture, di cui dovrebbero accettare di spogliarsi: dunque tutto un mistero di morte accanto al mistero della vita, tutto un mistero di rinuncia, e in realtà mistero di decrepitezza, accanto a un mistero di novità. Bisognerebbe che esse accettassero la vita: solo la vita getta luce sugli angoli morti, il vino rompe i vecchi otri, noi lo sappiamo per ciascuna delle anime nostre, il vino nuovo della grazia fa continuamente scoppiare i vecchi otri nei quali noi tentiamo chiuderla, ci obbliga a uscire da noi stessi - che ci costruiamo senza posa una specie di conformismo - e ad avanzare verso una tappa nuova.
Quanto è vero dell'educazione di ogni anima lo è ugualmente della educazione di ogni popolo. Proprio questo risulta difficile ad accettarsi, e allora avviene quel ripiegamento su di sé, sulla propria vecchiaia, sulla propria avarizia, che in realtà è il grande ostacolo alla grazia.
Vi ha sempre un problema di crescita e un problema di vita: quello della vita di Dio che cerca di lavorare l'umanità e delle resistenze dell'umanità che rifiuta di vivere, si oppone alla propria crescita, e così non si sviluppa in pieno. Questi vasti orizzonti possono aiutarci a conoscere, anzitutto, il rapporto tra il cristianesimo e le porzioni non cristiane dell'universo. Riuscendo a conoscerlo potremo forse, in seguito, vedere meglio come servire efficacemente il piano divino.

[1] Le message chrétien dans un monde. non-chrétien, 1938.