giovedì 22 dicembre 2011

La tentazione della moglie di Lot

 

ROMA, 22 dicembre 2011 РAd ogni vigilia di Natale, il discorso che Benedetto XVI rivolge alla curia romana Рsempre scritto di suo pugno Рoffre al papa l'occasione per fare il punto sull'anno trascorso e sulle questioni maggiori che la Chiesa si ̬ trovata ad affrontare.

La questione capitale, questa mattina, papa Joseph Ratzinger l'ha così enunciata:

"Il nocciolo della crisi della Chiesa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci".

L'area del mondo in cui tale crisi è più evidente è l'Europa, ha detto il papa.

Mentre invece in Africa – meta di un suo viaggio in novembre – ha confessato di non aver percepito "alcun cenno di quella stanchezza della fede tra noi così diffusa, niente di quel tedio dell’essere cristiani da noi sempre nuovamente percepibile".

In Africa – ha spiegato il papa – si sperimenta "la gioia di essere cristiani, l’essere sostenuti dalla felicità interiore di conoscere Cristo e di appartenere alla sua Chiesa. Da questa gioia nascono anche le energie per servire Cristo nelle situazioni opprimenti di sofferenza umana, per mettersi a sua disposizione, senza ripiegarsi sul proprio benessere. Incontrare questa fede pronta al sacrificio, e proprio in ciò gioiosa, è una grande medicina contro la stanchezza dell’essere cristiani che sperimentiamo in Europa".

Ma oltre all'Africa, Benedetto XVI ha citato più ancora la Giornata Mondiale della Gioventù come esempio di "nuova evangelizzazione vissuta" e di "medicina contro la stanchezza del credere".

Ha dedicato la gran parte del discorso proprio ad illustrare il "modo nuovo, ringiovanito, dell’essere cristiani" da lui percepito nei giovani convenuti a Madrid. (S. Magister)
Di seguito il testo integrale del discorso.


DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AGLI EM.MI SIGNORI CARDINALI, ALLA CURIA ROMANA
E ALLA FAMIGLIA PONTIFICIA, PER LA PRESENTAZIONE
DEGLI AUGURI NATALIZI
Sala Clementina
Giovedì, 22 dicembre 2011


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!

È sempre un momento particolarmente intenso quello che viviamo oggi. Il Santo Natale è ormai vicino e spinge anche la grande famiglia della Curia Romana a ritrovarsi insieme per compiere il bel gesto dello scambio degli auguri, che contengono l’auspicio reciproco di vivere con gioia e vero frutto spirituale la festa di Dio che si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi (cfr Gv 1,14). Per me questa è l’occasione non solo per porgervi il mio personale augurio, ma anche per esprimere a ciascuno di voi il ringraziamento mio e della Chiesa per il vostro generoso servizio; vi prego di trasmetterlo anche a tutti i collaboratori della nostra grande famiglia. Un grazie particolare lo rivolgo al Cardinale Decano Angelo Sodano, che si è fatto interprete dei sentimenti dei presenti e di quanti lavorano nei differenti Uffici della Curia, del Governatorato compresi quelli che svolgono il loro ministero nelle Rappresentanze Pontificie sparse in tutto il mondo. Tutti siamo impegnati affinché l’annuncio che gli angeli hanno proclamato nella notte di Betlemme, “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (Lc 2,14), risuoni in tutta la terra per portare gioia e speranza.
Alla fine dell’anno, l’Europa si trova in una crisi economica e finanziaria che, in ultima analisi, si fonda sulla crisi etica che minaccia il Vecchio Continente. Anche se valori come la solidarietà, l’impegno per gli altri, la responsabilità per i poveri e i sofferenti sono in gran parte indiscussi, manca spesso la forza motivante, capace di indurre il singolo e i grandi gruppi sociali a rinunce e sacrifici. La conoscenza e la volontà non vanno necessariamente di pari passo. La volontà che difende l’interesse personale oscura la conoscenza e la conoscenza indebolita non è in grado di rinfrancare la volontà. Perciò, da questa crisi emergono domande molto fondamentali: dove è la luce che possa illuminare la nostra conoscenza non soltanto di idee generali, ma di imperativi concreti? Dove è la forza che solleva in alto la nostra volontà? Sono domande alle quali il nostro annuncio del Vangelo, la nuova evangelizzazione, deve rispondere, affinché il messaggio diventi avvenimento, l’annuncio diventi vita.
La grande tematica di quest’anno come anche degli anni futuri è in effetti: come annunciare oggi il Vangelo? In che modo la fede, quale forza viva e vitale, può oggi diventare realtà? Gli avvenimenti ecclesiali dell’anno che sta per concludersi sono stati, in definitiva, tutti riferiti a questo tema. Ci sono stati viaggi in Croazia, in Spagna per la Giornata Mondiale della Gioventù, nella mia Patria, la Germania, e infine in Africa – Benin – per la consegna del Documento postsinodale su giustizia, pace e riconciliazione – un documento dal quale deve nascere una realtà concreta nelle varie Chiese particolari. Sono indimenticabili anche i viaggi a Venezia, a San Marino, ad Ancona per il Congresso eucaristico e in Calabria. E c’è stata, infine, l’importante giornata dell’incontro tra le religioni e tra le persone in ricerca di verità e di pace in Assisi – giornata concepita come un nuovo slancio nel pellegrinaggio verso la verità e la pace. L’istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione è, al contempo, un rimando in anticipo al Sinodo sullo stesso tema che avrà luogo nel prossimo anno. Rientra in tale contesto anche l’Anno della Fede nel ricordo dell’inizio del Concilio cinquant’anni fa. Ciascuno di questi eventi ha avuto le proprie accentuazioni. In Germania, il Paese d’origine della Riforma, naturalmente, la questione ecumenica con tutte le sue fatiche e speranze ha avuto un’importanza particolare. Inscindibilmente legata ad essa, sta sempre di nuovo al centro delle dispute la domanda: che cosa è una riforma della Chiesa? Come avviene? Quali sono le sue vie e i suoi obiettivi? Con preoccupazione, non soltanto fedeli credenti, ma anche estranei osservano come le persone che vanno regolarmente in chiesa diventino sempre più anziane e il loro numero diminuisca continuamente; come ci sia una stagnazione nelle vocazioni al sacerdozio; come crescano scetticismo e incredulità. Che cosa, dunque, dobbiamo fare? Esistono infinite discussioni sul da farsi perché si abbia un’inversione di tendenza. E certamente occorre fare tante cose. Ma il fare da solo non risolve il problema. Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci.
In questo senso, l’incontro in Africa con la gioiosa passione per la fede è stato un grande incoraggiamento. Lì non si percepiva alcun cenno di quella stanchezza della fede, tra noi così diffusa, niente di quel tedio dell’essere cristiani da noi sempre nuovamente percepibile. Con tutti i problemi, tutte le sofferenze e pene che certamente proprio in Africa vi sono, si sperimentava tuttavia sempre la gioia di essere cristiani, l’essere sostenuti dalla felicità interiore di conoscere Cristo e di appartenere alla sua Chiesa. Da questa gioia nascono anche le energie per servire Cristo nelle situazioni opprimenti di sofferenza umana, per mettersi a sua disposizione, senza ripiegarsi sul proprio benessere. Incontrare questa fede pronta al sacrificio, e proprio in ciò gioiosa, è una grande medicina contro la stanchezza dell’essere cristiani che sperimentiamo in Europa.
Una medicina contro la stanchezza del credere è stata anche la magnifica esperienza della Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid. È stata una nuova evangelizzazione vissuta. Sempre più chiaramente si delinea nelle Giornate Mondiali della Gioventù un modo nuovo, ringiovanito, dell’essere cristiani che vorrei tentare di caratterizzare in cinque punti.
1. C’è come prima cosa una nuova esperienza della cattolicità, dell’universalità della Chiesa. È questo che ha colpito in modo molto immediato i giovani e tutti i presenti: proveniamo da tutti i continenti, e, pur non essendoci mai visti prima, ci conosciamo. Parliamo lingue diverse e abbiamo differenti abitudini di vita, differenti forme culturali, e tuttavia ci troviamo subito uniti insieme come una grande famiglia. Separazione e diversità esteriori sono relativizzate. Siamo tutti toccati dall’unico Signore Gesù Cristo, nel quale si è manifestato a noi il vero essere dell’uomo e, insieme, il Volto stesso di Dio. Le nostre preghiere sono le stesse. In virtù dello stesso incontro interiore con Gesù Cristo abbiamo ricevuto nel nostro intimo la stessa formazione della ragione, della volontà e del cuore. E, infine, la comune liturgia costituisce una sorta di patria del cuore e ci unisce in una grande famiglia. Il fatto che tutti gli esseri umani sono fratelli e sorelle è qui non soltanto un’idea, ma diventa una reale esperienza comune che crea gioia. E così abbiamo compreso anche in modo molto concreto che, nonostante tutte le fatiche e le oscurità, è bello appartenere alla Chiesa universale, alla Chiesa cattolica, che il Signore ci ha donato.
2. Da questo nasce poi un nuovo modo di vivere l’essere uomini, l’essere cristiani. Una delle esperienze più importanti di quei giorni è stata per me l’incontro con i volontari della Giornata Mondiale della Gioventù: erano circa 20.000 giovani che, senza eccezione, avevano messo a disposizione settimane o mesi della loro vita per collaborare alle preparazioni tecniche, organizzative e contenutistiche della Giornata Mondiale della Gioventù e proprio così avevano reso possibile lo svolgimento ordinato del tutto. Con il proprio tempo l’uomo dona sempre una parte della propria vita. Alla fine, questi giovani erano visibilmente e “tangibilmente” colmi di una grande sensazione di felicità: il loro tempo donato aveva un senso; proprio nel donare il loro tempo e la loro forza lavorativa avevano trovato il tempo, la vita. E allora per me è diventata evidente una cosa fondamentale: questi giovani avevano offerto nella fede un pezzo di vita, non perché questo era stato comandato e non perché con questo ci si guadagna il cielo; neppure perché così si sfugge al pericolo dell’inferno. Non l’avevano fatto perché volevano essere perfetti. Non guardavano indietro, a se stessi. Mi è venuta in mente l’immagine della moglie di Lot che, guardando indietro, divenne una statua di sale. Quante volte la vita dei cristiani è caratterizzata dal fatto che guardano soprattutto a se stessi, fanno il bene, per così dire, per se stessi! E quanto è grande la tentazione per tutti gli uomini di essere preoccupati anzitutto di se stessi, di guardare indietro a se stessi, diventando così interiormente vuoti, “statue di sale”! Qui invece non si trattava di perfezionare se stessi o di voler avere la propria vita per se stessi. Questi giovani hanno fatto del bene – anche se quel fare è stato pesante, anche se ha richiesto sacrifici –, semplicemente perché fare il bene è bello, esserci per gli altri è bello. Occorre soltanto osare il salto. Tutto ciò è preceduto dall’incontro con Gesù Cristo, un incontro che accende in noi l’amore per Dio e per gli altri e ci libera dalla ricerca del nostro proprio “io”. Una preghiera attribuita a san Francesco Saverio dice: Faccio il bene non perché in cambio entrerò in cielo e neppure perché altrimenti mi potresti mandare all’inferno. Lo faccio, perché Tu sei Tu, il mio Re e mio Signore. Questo stesso atteggiamento l’ho incontrato anche in Africa, ad esempio nelle suore di Madre Teresa che si prodigano per i bambini abbandonati, malati, poveri e sofferenti, senza porsi domande su se stesse, e proprio così diventano interiormente ricche e libere. È questo l’atteggiamento propriamente cristiano. Indimenticabile rimane per me anche l’incontro con i giovani disabili nella fondazione di San José in Madrid, dove nuovamente ho incontrato la stessa generosità di mettersi a disposizione degli altri – una generosità del darsi che, in definitiva, nasce dall’incontro con Cristo che ha dato se stesso per noi.
3. Un terzo elemento, che in modo sempre più naturale e centrale fa parte delle Giornate Mondiali della Gioventù e della spiritualità da esse proveniente, è l’adorazione. Rimane indimenticabile per me il momento durante il mio viaggio nel Regno Unito, quando, in Hydepark, decine di migliaia di persone, in maggioranza giovani, hanno risposto con un intenso silenzio alla presenza del Signore nel Santissimo Sacramento, adorandolo. La stessa cosa è avvenuta, in misura più ridotta, a Zagabria e, di nuovo, a Madrid dopo il temporale che minacciava di guastare l’insieme dell’incontro notturno, a causa del mancato funzionamento dei microfoni. Dio è onnipresente, sì. Ma la presenza corporea del Cristo risorto è ancora qualcosa d’altro, è qualcosa di nuovo. Il Risorto entra in mezzo a noi. E allora non possiamo che dire con l’apostolo Tommaso: Mio Signore e mio Dio! L’adorazione è anzitutto un atto di fede – l’atto di fede come tale. Dio non è una qualsiasi possibile o impossibile ipotesi sull’origine dell’universo. Egli è lì. E se Egli è presente, io mi inchino davanti a Lui. Allora, ragione, volontà e cuore si aprono verso di Lui e a partire da Lui. In Cristo risorto è presente il Dio fattosi uomo, che ha sofferto per noi perché ci ama. Entriamo in questa certezza dell’amore corporeo di Dio per noi, e lo facciamo amando con Lui. Questo è adorazione, e questo dà poi un’impronta alla mia vita. Solo così posso anche celebrare l’Eucaristia in modo giusto e ricevere rettamente il Corpo del Signore.
4. Un altro elemento importante delle Giornate Mondiali della Gioventù è la presenza del Sacramento della Penitenza che appartiene con naturalezza sempre maggiore all’insieme. Con ciò riconosciamo che abbiamo continuamente bisogno di perdono e che perdono significa responsabilità. Proveniente dal Creatore, esiste nell’uomo la disponibilità ad amare e la capacità di rispondere a Dio nella fede. Ma proveniente dalla storia peccaminosa dell’uomo (la dottrina della Chiesa parla del peccato originale) esiste anche la tendenza contraria all’amore: la tendenza all’egoismo, al chiudersi in se stessi, anzi, la tendenza al male. Sempre di nuovo la mia anima viene insudiciata da questa forza di gravità in me, che mi attira verso il basso. Perciò abbiamo bisogno dell’umiltà che sempre nuovamente chiede perdono a Dio; che si lascia purificare e che ridesta in noi la forza contraria, la forza positiva del Creatore, che ci attira verso l’alto.
5. Infine, come ultima caratteristica da non trascurare nella spiritualità delle Giornate Mondiali della Gioventù vorrei menzionare la gioia. Da dove viene? Come la si spiega? Sicuramente sono molti i fattori che agiscono insieme. Ma quello decisivo è, secondo il mio parere, la certezza proveniente dalla fede: io sono voluto. Ho un compito nella storia. Sono accettato, sono amato. Josef Pieper, nel suo libro sull’amore, ha mostrato che l’uomo può accettare se stesso solo se è accettato da qualcun altro. Ha bisogno dell’esserci dell’altro che gli dice, non soltanto a parole: è bene che tu ci sia. Solo a partire da un “tu”, l’“io” può trovare se stesso. Solo se è accettato, l’“io” può accettare se stesso. Chi non è amato non può neppure amare se stesso. Questo essere accolto viene anzitutto dall’altra persona. Ma ogni accoglienza umana è fragile. In fin dei conti abbiamo bisogno di un’accoglienza incondizionata. Solo se Dio mi accoglie e io ne divento sicuro, so definitivamente: è bene che io ci sia. È bene essere una persona umana. Dove viene meno la percezione dell’uomo di essere accolto da parte di Dio, di essere amato da Lui, la domanda se sia veramente bene esistere come persona umana non trova più alcuna risposta. Il dubbio circa l’esistenza umana diventa sempre più insuperabile. Laddove diventa dominante il dubbio riguardo a Dio, segue inevitabilmente il dubbio circa lo stesso essere uomini. Vediamo oggi come questo dubbio si diffonde. Lo vediamo nella mancanza di gioia, nella tristezza interiore che si può leggere su tanti volti umani. Solo la fede mi dà la certezza: è bene che io ci sia. È bene esistere come persona umana, anche in tempi difficili. La fede rende lieti a partire dal di dentro. È questa una delle esperienze meravigliose delle Giornate Mondiali della Gioventù.
Porterebbe troppo lontano parlare adesso in modo dettagliato anche dell’incontro di Assisi, così come meriterebbe l’importanza dell’avvenimento. Ringraziamo semplicemente Dio perché noi – rappresentanti delle religioni del mondo e anche rappresentanti del pensiero in ricerca della verità – abbiamo potuto incontrarci quel giorno in un clima di amicizia e di rispetto reciproco, nell’amore per la verità e nella comune responsabilità per la pace. Possiamo quindi sperare che da questo incontro sia nata una nuova disponibilità a servire la pace, la riconciliazione e la giustizia.
Infine, vorrei ringraziare di cuore tutti voi per il sostegno nel portare avanti la missione che il Signore ci ha affidato come testimoni della sua verità, e auguro a tutti voi la gioia che Dio, nell’incarnazione del suo Figlio, ha voluto donarci. Buon Natale a tutti voi! Grazie.

* * *

 Il commento che segue è di Massimo Introvigne.

Per Benedetto XVI da qualche anno l'incontro annuale con la Curia Romana per gli auguri di Natale è l'occasione per un riassunto dei temi centrali del suo Magistero nell'anno trascorso. Questi discorsi costituiscono ormai un vero e proprio nuovo genere letterario, utilissimo a chi vuole seguire sistematicamente il Magistero.

Il 22 dicembre il Papa è partito da un insegnamento ripetuto più volte durante l'anno: la radice della crisi economica è la crisi morale. In particolare, «l’Europa si trova in una crisi economica e finanziaria che, in ultima analisi, si fonda sulla crisi etica che minaccia il Vecchio Continente. Anche se valori come la solidarietà, l’impegno per gli altri, la responsabilità per i poveri e i sofferenti sono in gran parte indiscussi, manca spesso la forza motivante, capace di indurre il singolo e i grandi gruppi sociali a rinunce e sacrifici. La conoscenza e la volontà non vanno necessariamente di pari passo. La volontà che difende l’interesse personale oscura la conoscenza e la conoscenza indebolita non è in grado di rinfrancare la volontà».

Ma dietro la crisi morale c'è una crisi ancora più fondamentale, che è la crisi della fede. Dalla crisi economica e morale «emergono domande molto fondamentali: dove è la luce che possa illuminare la nostra conoscenza non soltanto di idee generali, ma di imperativi concreti? Dove è la forza che solleva in alto la nostra volontà? Sono domande alle quali il nostro annuncio del Vangelo, la nuova evangelizzazione, deve rispondere, affinché il messaggio diventi avvenimento, l’annuncio diventi vita».

Tutti i viaggi internazionali di quest'anno - Croazia, San Marino, Spagna, Germania, Bénin  - così come l'incontro interreligioso di Assisi - che si è svolto, ha sottolineato Benedetto XVI, all'insegna dell'«amore per la verità» -, l'indizione dell'Anno della Fede e i discorsi per l'avvio dei lavori del nuovo Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione vanno, ha detto il Papa, nella stessa direzione. Partono da un dato che riguarda soprattutto la vecchia Europa: «Con preoccupazione, non soltanto fedeli credenti, ma anche estranei osservano come le persone che vanno regolarmente in chiesa diventino sempre più anziane e il loro numero diminuisca continuamente; come ci sia una stagnazione nelle vocazioni al sacerdozio; come crescano scetticismo e incredulità».

Che fare? «Esistono infinite discussioni sul da farsi perché si abbia un’inversione di tendenza. E certamente occorre fare tante cose. Ma il fare da solo non risolve il problema. Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci».

E tuttavia ci sono segni di speranza. Anzitutto, «l'incontro in Africa con la gioiosa passione per la fede è stato un grande incoraggiamento. Lì non si percepiva alcun cenno di quella stanchezza della fede, tra noi così diffusa, niente di quel tedio dell’essere cristiani da noi sempre nuovamente percepibile», ma s'incontrava una Chiesa viva, gioiosa, in crescita, «una grande medicina contro la stanchezza dell’essere cristiani che sperimentiamo in Europa».

Ma «una medicina contro la stanchezza del credere è stata anche la magnifica esperienza della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) a Madrid. È stata una nuova evangelizzazione vissuta». «Sempre più chiaramente - ha detto il Papa - si delinea nelle Giornate Mondiali della Gioventù un modo nuovo, ringiovanito, dell’essere cristiani che vorrei tentare di caratterizzare in cinque punti».
Questi cinque punti, ha spiegato il Pontefice, sono emersi sia dalla Giornata Mondiale di Madrid sia, in modi diversi, dagli altri viaggi.

Il primo punto è «una nuova esperienza della cattolicità, dell’universalità della Chiesa». Quando ci troviamo tra cattolici veniamo «da tutti i continenti, e, pur non essendoci mai visti prima, ci conosciamo. Parliamo lingue diverse e abbiamo differenti abitudini di vita, differenti forme culturali, e tuttavia ci troviamo subito uniti insieme come una grande famiglia. Separazione e diversità esteriori sono relativizzate». La grande unità del genere umano e della Chiesa «Ã¨ qui non soltanto un’idea, ma diventa una reale esperienza comune che crea gioia».

Secondo punto: «Da questo nasce poi un nuovo modo di vivere l’essere uomini, l’essere cristiani».  Come hanno dimostrato i volontari della GMG, «con il proprio tempo l’uomo dona sempre una parte della propria vita. Alla fine, questi giovani erano visibilmente e "tangibilmente" colmi di una grande sensazione di felicità: il loro tempo donato aveva un senso; proprio nel donare il loro tempo e la loro forza lavorativa avevano trovato il tempo, la vita».  Guardando i volontari  e i tanti giovani che avevano fatto grandi sacrifici per andare alla GMG,  il Pontefice ha pensato - ha confidato - che essi «avevano offerto nella fede un pezzo di vita, non perché questo era stato comandato e non perché con questo ci si guadagna il cielo; neppure perché così si sfugge al pericolo dell’inferno. Non l’avevano fatto perché volevano essere perfetti. Non guardavano indietro, a se stessi».

Benedetto XVI ha voluto evocare « l’immagine della moglie di Lot che, guardando indietro, divenne una statua di sale. Quante volte la vita dei cristiani è caratterizzata dal fatto che guardano soprattutto a se stessi, fanno il bene, per così dire, per se stessi! E quanto è grande la tentazione per tutti gli uomini di essere preoccupati anzitutto di se stessi, di guardare indietro a se stessi, diventando così interiormente vuoti, "statue di sale"! Qui invece non si trattava di perfezionare se stessi o di voler avere la propria vita per se stessi. Questi giovani hanno fatto del bene – anche se quel fare è stato pesante, anche se ha richiesto sacrifici –, semplicemente perché fare il bene è bello, esserci per gli altri è bello», Tutti possono vivere questa gioia, non solo chi è stato alla GMG. «Occorre soltanto osare il salto. Tutto ciò è preceduto dall’incontro con Gesù Cristo, un incontro che accende in noi l’amore per Dio e per gli altri e ci libera dalla ricerca del nostro proprio "io"».  E lo stesso spirito - afferma il Papa - si ritrova in tanti aspetti della giovane cristianità africana del Bénin.

Il terzo elemento, che «in modo sempre più naturale e centrale fa parte delle Giornate Mondiali della Gioventù e della spiritualità da esse proveniente, è l’adorazione». Già nel viaggio del 2010 in Gran Bretagna a Hyde Park «migliaia di persone, in maggioranza giovani, hanno risposto con un intenso silenzio alla presenza del Signore nel Santissimo Sacramento, adorandolo. La stessa cosa è avvenuta, in misura più ridotta, a Zagabria e, di nuovo, a Madrid dopo il temporale che minacciava di guastare l’insieme dell’incontro notturno, a causa del mancato funzionamento dei microfoni». Questo non è poco significativo. «Dio è onnipresente, sì. Ma la presenza corporea del Cristo risorto è ancora qualcosa d’altro, è qualcosa di nuovo». «L’adorazione è anzitutto un atto di fede – l’atto di fede come tale. Dio non è una qualsiasi possibile o impossibile ipotesi sull’origine dell’universo. Egli è lì. E se Egli è presente, io mi inchino davanti a Lui. Allora, ragione, volontà e cuore si aprono verso di Lui, a partire da Lui. In Cristo risorto è presente il Dio fattosi uomo, che ha sofferto per noi perché ci ama. Entriamo in questa certezza dell’amore corporeo di Dio per noi, e lo facciamo amando con Lui. Questo è adorazione, e questo dà poi un’impronta alla mia vita».

Il quarto elemento della GMG e dei viaggi pontifici in genere è «la presenza del Sacramento della Penitenza che appartiene con naturalezza sempre maggiore all’insieme». Quando in questi grandi eventi ci confessiamo, «riconosciamo che abbiamo continuamente bisogno di perdono e che perdono significa responsabilità. Proveniente dal Creatore, esiste nell’uomo la disponibilità ad amare e la capacità di rispondere a Dio nella fede. Ma proveniente dalla storia peccaminosa dell’uomo (la dottrina della Chiesa parla del peccato originale) esiste anche la tendenza contraria all’amore: la tendenza all’egoismo, al chiudersi in se stessi, anzi, la tendenza al male. Sempre di nuovo la mia anima viene insudiciata da questa forza di gravità in me, che mi attira verso il basso. Perciò abbiamo bisogno dell’umiltà che sempre nuovamente chiede perdono a Dio; che si lascia purificare e che ridesta in noi la forza contraria, la forza positiva del Creatore, che ci attira verso l’alto».

Quinta caratteristica della GMG e di altri grandi eventi è la gioia. «Da dove viene? Come la si spiega? Sicuramente sono molti i fattori che agiscono insieme. Ma quello decisivo è, secondo il mio parere, la certezza proveniente dalla fede: io sono voluto. Ho un compito nella storia. Sono accettato, sono amato». Il Papa cita il filosofo Josef Pieper (1904-1997), il quale, «nel suo libro sull’amore, ha mostrato che l’uomo può accettare se stesso solo se è accettato da qualcun altro. Ha bisogno dell’esserci dell’altro che gli dice, non soltanto a parole: è bene che tu ci sia. Solo a partire da un "tu", l’"io" può trovare se stesso. Solo se è accettato, l’"io" può accettare se stesso. Chi non è amato non può neppure amare se stesso».

Oggi si parla molto di accoglienza, talora riducendola a un'idea astratta o a un'ideologia. In realtà «questo essere accolto viene anzitutto dall’altra persona. Ma ogni accoglienza umana è fragile. In fin dei conti abbiamo bisogno di un’accoglienza incondizionata». Abbiamo bisogno di essere accolti da Dio. «Solo se Dio mi accoglie e io ne divento sicuro, so definitivamente: è bene che io ci sia. È bene essere una persona umana».

Qui si gioca la partita decisiva. «Dove viene meno la percezione dell’uomo di essere accolto da parte di Dio, di essere amato da Lui, la domanda se sia veramente bene esistere come persona umana non trova più alcuna risposta. Il dubbio circa l’esistenza umana diventa sempre più insuperabile. Laddove diventa dominante il dubbio riguardo a Dio, segue inevitabilmente il dubbio circa lo stesso essere uomini. Vediamo oggi come questo dubbio si diffonde. Lo vediamo nella mancanza di gioia, nella tristezza interiore che si può leggere su tanti volti umani». Alla fine, «solo la fede mi dà la certezza: è bene che io ci sia. È bene esistere come persona umana, anche in tempi difficili». L'uomo di fede lo sa. Per evitare la disperazione, dobbiamo tutti tornare a essere uomini di fede.


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L'articolo che segue è di Giacomo Samek Lodovici


È stato, come di consueto, molto interessante e profondo il tradizionale discorso di Benedetto XVI alla Curia per la presentazione degli auguri natalizi.
Il Papa ha per esempio sottolineato che in Africa la Chiesa vive un momento di slancio, mentre l’Europa è attanagliata da un grave crisi di fede: «Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme [della Chiesa] rimarranno inefficaci».
Viceversa, ha proseguito il Papa, durante il suo viaggio in Africa, pur «con tutti i problemi, tutte le sofferenze e pene che certamente proprio in Africa vi sono, si sperimentava tuttavia sempre la gioia di essere cristiani, l’essere sostenuti dalla felicità interiore di conoscere Cristo e di appartenere alla sua Chiesa». Ora, «incontrare questa fede pronta al sacrificio, e proprio in ciò gioiosa, è una grande medicina contro la stanchezza dell’essere cristiani che sperimentiamo in Europa».
Ma, in generale, da dove viene la gioia dell’essere cristiani? Il Papa (che qui fa sovvenire Dionigi l’Aereopagita - un autore del V secolo - per questo suo riflettere sull’amore umano  e su quello divino), ha risposto che le radici della gioia sono molte, ma quella principale risiede nel credere di essere voluti e amati da un Amore. Citando il filosofo Joseph Pieper (che a sua volta attingeva da Tommaso d’Aquino), Benedetto XVI ha sottolineato che «l’uomo può accettare se stesso solo se è accettato da qualcun altro. Ha bisogno dell’esserci dell’altro che gli dice, non soltanto a parole: è bene che tu ci sia. Solo a partire da un “tu”, l’“io” può trovare se stesso. Solo se è accettato, l’“io” può accettare se stesso. Chi non è amato non può neppure amare se stesso».
In quest’ottica viene in mente la celebre espressione di Fichte (fatte le debite differenze): «l’uomo diventa uomo solo fra uomini; […] se ci debbono essere uomini è necessario che ci siano più uomini». Infatti, «senza lo sguardo di un altro che ci accoglie quando veniamo al mondo (lo sguardo della madre è questo sguardo, o lo sguardo di chi svolge comunque funzioni materne), noi non riusciamo a sopravvivere […] siamo nutriti da questo sguardo accogliente ancor più che dal cibo» (Carmelo Vigna). Ci può aiutare ulteriormente una metafora di Francesco Botturi: «l’uomo viene alla luce in un altro uomo». Questa metafora, al di là del significato biologico, indica che l’uomo esige il riconoscimento del proprio valore per riuscire ad «attivare pienamente le proprie capacità affettive e intellettuali e per raggiungere il senso della propria identità: chi non si sente affettuosamente accolto, non riesce ad accogliersi; chi non sa accogliersi non ha la carica affettiva sufficiente per esplicare le sue capacità fondamentali». Anche Tommaso spiega che i genitori devono fornire ai figli non solo un grembo fisico, ma anche un «grembo spirituale». In altri termini, l’amore realizza una sorta di procreazione spirituale: fin dalla più tenera infanzia l’uomo ha bisogno della confermazione nell’essere veicolata nell’affetto altrui, ha bisogno di sentirsi «giustificato di esistere» (l’espressione è di Sartre, nichilista ma attento fenomenologo).
Ora, per tornare al Papa, «questo essere accolto viene anzitutto dall’altra persona». Ma «ogni accoglienza umana è fragile. In fin dei conti abbiamo bisogno di un’accoglienza incondizionata. Solo se Dio mi accoglie e io ne divento sicuro, so definitivamente: è bene che io ci sia».
Il problema, però, come il Papa ha rilevato già nella Spe salvi, è che noi europei viviamo da venti secoli con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso. Per questo, nella Spe salvi Benedetto XVI racconta la vicenda di Giuseppina Bakhita (che è stata canonizzata dal suo amato predecessore) per aiutare a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Bakhita era nata nel 1869 in Sudan, e a soli nove anni venne rapita da alcuni trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta per cinque volte sui mercati del Sudan. Passando da un padrone all’altro arrivò nella casa di un generale, dove ogni giorno veniva frustata a sangue; per questo motivo le restarono per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata dal console italiano Callisto Legnani che stava tornando in Italia. Presso questo console Bakhita scoprì il cristianesimo e il Dio di Gesù Cristo.
Così, scrive il Papa, «dopo “padroni” così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un “padrone” totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava “paron” il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo». Infatti, «Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un “paron” al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal “Paron” supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa». Di più, «questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava “alla destra di Dio Padre”». Ora Bakhita finalmente gioiva, perché sperimentava questo essere amata dall’Amore, perché pensava: «io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona».
Similmente, nel discorso alla Curia romana, il Papa ha detto: «Dove viene meno la percezione dell’uomo di essere accolto da parte di Dio, di essere amato da Lui, la domanda se sia veramente bene esistere come persona umana non trova più alcuna risposta. […] Laddove diventa dominante il dubbio riguardo a Dio, segue inevitabilmente il dubbio circa lo stesso essere uomini. Vediamo oggi come questo dubbio si diffonde. Lo vediamo nella mancanza di gioia, nella tristezza interiore che si può leggere su tanti volti umani. Solo la fede mi dà la certezza: è bene che io ci sia. È bene esistere come persona umana, anche in tempi difficili. La fede rende lieti a partire dal di dentro».