giovedì 26 gennaio 2012

27 Gennaio: Venerdi della III settimana del T.O. - Approfondimenti



 




Le parabole del Regno, il granello di senapa e il seme gettato. Commenti patristici




1. I tempi della semina e i tempi del bene

Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).

L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga...

Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!

Gregorio Magno, In Exod., II, 3, 5 s.


2. Il granello di senape (Lc 13,18-19)

"A che cosa somiglia il regno di Dio, a che cosa dirò che è simile? È simile a un granello di senape, che, preso e gettato da un uomo nel suo orto, crebbe ed è divenuto un albero, e gli uccelli del cielo si sono posati sui suoi rami" (Lc 13,18-19).

Questo passo ci insegna che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Vuoi esser certo che bisogna avere una grande fede? Leggi l’Apostolo: "E se avessi così tanta fede da trasportare le montagne" (1Co 13,2).

Orbene, se il regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il regno dei cieli, e il regno dei cieli è la fede. Quindi, chi ha la fede ha il regno dei cieli; e il regno dei cieli è dentro di noi come dentro di noi è la fede. Leggiamo infatti: "Il regno dei cieli è dentro di voi" (Lc 17,21); e altrove: "Abbiate la fede in voi" (Mc 11,22). E infine Pietro, che aveva tutta la fede, ricevette le chiavi del regno dei cieli, per aprirne le porte agli altri.

Consideriamo ora, tenendo conto della natura della senape, la portata di questo paragone. Il suo granello è senza dubbio una cosa modesta e semplice, ma si comincia a tritarlo, diffonde il suo vigore. E così la fede sembra semplice di primo acchito: ma triturata dalle avversità, diffonde la grazia della sua virtù, in modo da penetrare del suo profumo anche coloro che leggono o ascoltano.

Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabor e Vittore. Essi avevano il profumo della fede, ma li si ignorava. Venne la persecuzione; essi deposero le armi, porsero il collo e, abbattuti dal fendente della spada, diffusero la grazia del loro martirio per tutto il mondo, tanto da potersi dire giustamente: "La loro eco si è propagata per tutta la terra" (Ps 18,5).

Ma la fede talvolta è tritata, talvolta premuta, talvolta seminata.

Lo stesso Signore è un granello di senape. Egli non aveva subito ingiurie, ma, come il granello di senape, prima di essersi accostato a lui, il popolo non lo conosceva. Egli volle essere stritolato, in modo che noi potessimo dire: "Noi siamo per Dio il buon profumo di Cristo" (2Co 2,15); volle essere premuto, sicché Pietro disse: "La folla ti preme intorno" (Lc 8,45) ed infine volle essere anche seminato come il granello che fu «preso e gettato da un uomo nel suo orto». Infatti in un orto Cristo fu catturato e poi seppellito; in un orto crebbe, dove pure risorse. È divenuto un albero, così come sta scritto: "Come un albero di melo tra gli alberi della foresta, così è mio fratello tra i giovani" (Ct 2,3).

Dunque, anche tu semina Cristo nel tuo orto - l’orto è un luogo pieno di fiori e di frutti diversi - in modo che vi fiorisca la bellezza della tua opera e profumi l’odore vario delle diverse virtù. Là dunque sia Cristo, dove c’è il frutto. Tu semina il Signore Gesù: egli è un granello quando viene arrestato, un albero quando risuscita, un albero che fa ombra a tutto il mondo. È un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo...

Vuoi sapere che Cristo è il granello, e che è stato seminato? "Se il granello di grano non cade in terra e vi muore, esso resta solo: ma quando è morto produce molto frutto" (Jn 12,24). Non abbiamo dunque sbagliato dicendo ciò che egli stesso ha già detto. Egli è anche il granello di grano, perché fortifica il cuore degli uomini (Ps 103,14-15), e granello di senape, perché accende il cuore degli uomini. E, sebbene sia l’una che l’altra similitudine appaiano adatte, egli sembra tuttavia il granello di grano quando si tratta della sua risurrezione: egli è infatti il pane di Dio disceso dal cielo (Jn 6,33), affinché la parola di Dio e il fatto della risurrezione nutrano l’anima, accrescano la speranza e consolidino l’amore. È invece granello di senape, affinché sia più amaro e austero il discorso sulla passione del Signore: più amaro, perché spinga alle lacrime, più austero perché generi commozione. Così, quando leggiamo o ascoltiamo che il Signore ha digiunato, che il Signore ha avuto sete, che il Signore ha pianto, che il Signore è stato flagellato, che il Signore ha detto al momento della passione: "Vigilate e pregate per non entrare in tentazione" (Mt 26,41), noi, colpiti, per così dire, dall’aspro sapore di questo discorso, siamo spinti a moderare la troppo gradevole dolcezza dei piaceri del corpo.

Dunque, chi semina il granello di senape, semina il regno dei cieli.

Non disprezzare questo granello di senape: "È certamente il più piccolo di tutti i semi, ma diviene, una volta cresciuto, il più grande di tutti gli ortaggi" (Mt 13,32). Se Cristo è il granello di senape, in che modo egli è il più piccolo, e in che modo cresce? Non è nella sua natura, ma secondo la sua apparenza che cresce. Vuoi sapere in qual modo è il più piccolo? "Lo abbiamo visto e non aveva né bella apparenza né decorosa" (Is 53,2). Apprendi ora come è il più grande: "Risplendeva di bellezza al di sopra dei figli degli uomini" (Ps 44,3). Infatti colui che non aveva né bella apparenza né decorosa, è stato fatto superiore agli angeli (He 1,4), oltrepassando tutta la gloria dei profeti...

Cristo è il seme, in quanto è seme di Abramo: "Poiché le promesse furono fatte ad Abramo e al suo seme. Egli non dice: ai suoi semi, come parlando di molti; ma, come parlando di uno solo: al suo seme, che è il Cristo" (Ga 3,16). E non soltanto Cristo è il seme, ma è il più piccolo di tutti i semi, perché non è venuto né nella regalità, né nella ricchezza, né nella sapienza di questo mondo. Orbene, subito egli ha allargato, come un albero, la cima elevata della sua potestà, in modo che noi possiamo dire: "Sotto la sua ombra con desiderio mi sedetti" (Ct 2,3).

Sovente, credo, egli appariva contemporaneamente albero e granello. È granello quando si dice di lui: "Non è costui il figlio di Giuseppe l’artigiano?" (Mt 13,55). Ma, nel corso di queste stesse parole, egli subito è cresciuto, secondo la testimonianza dei giudei, perché essi non riescono neppure a toccare i rami di quest’albero divenuto gigantesco: "Donde gli viene" - essi dicono - "questa sapienza"? (Mt 13,54).

È dunque granello nella sua apparenza, albero per la sua sapienza. Tra le foglie dei suoi rami, l’uccello notturno nel suo nido, il passero sperduto sul tetto (Ps 101,8), colui che fu rapito in paradiso (2Co 12,4), e colui che dovrà essere trasportato sulle nubi in aria (1Th 4,17), hanno ormai un luogo sicuro dove riposare. Là riposano anche le potenze e gli angeli del cielo, e tutti coloro che per le azioni spirituali meritarono di volare. Vi riposò san Giovanni, quando reclinava la testa sul petto di Gesù, o meglio, egli era come un ramo nutrito dal succo vitale di quest’albero. Un ramo è Pietro, un ramo è Paolo "dimenticando ciò che sta dietro e tendendo a ciò che sta davanti" (Ph 3,13): e noi, che eravamo lontani, che siamo stati radunati dalle nazioni, che per lungo tempo siamo stati sballottati nella vanità del mondo dalla tempesta e dal turbine dello spirito del male, spiegando le ali della virtù, voliamo nel loro seno e come nei recessi della loro predicazione, affinché l’ombra dei santi ci protegga dal fuoco di questo mondo.

Così, nella tranquillità di un sicuro riposo, la nostra anima, che una volta era curva, come quella donna, sotto il peso dei peccati, «scampata come un uccello dalle reti dei cacciatori» (Ps 123,7) si è levata sui rami e i monti del Signore (Ps 10,1).

Ambrogio, Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186


3. Il seme più piccolo per l’evento più grande

"Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo" (Mt 13,31). Siccome Gesù aveva detto che i tre quarti della semente sarebbero andati perduti, che una sola parte si sarebbe salvata e che nella parte restante si sarebbero verificati tanti gravi danni, i suoi discepoli potevano bene chiedergli: Ma quali e quanti saranno i fedeli? Egli allora toglie il loro timore inducendoli alla fede mediante la parabola del granello di senape e mostrando loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra.

Sceglie per questo scopo un’immagine che ben rappresenta tale verità. "È vero che esso è il più piccolo di tutti i semi; ma cresciuto che sia, è il più grande di tutti i legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli dell’aria vengono a fare il nido tra i suoi rami" (Mt 13,32). Cristo voleva presentare il segno, la prova della loro grandezza. Così - egli spiega - sarà anche della predicazione della buona novella. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa in tutto il mondo.

Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 46, 2


4. La parabola del granello di senapa (Mt 13,31-32)

La fede quanto un granellin di senapa,

Simbolo del tuo Regno,

Io non l’ho accolta dentro la mia anima,

Perché le perverse montagne fossero spostate (Mt 17,20).

E neppure, come uccel del cielo,

Mi son posato sui rami del precetto,

Dove le anime pure si riposano,

Eredi del santo Tabernacolo dei cieli.

Né mi son reso aspro al palato,

O troppo duro alla bocca dei vermi;

Sbriciola i lor dentini, te ne prego,

Ricollocami sui rami dell’albero.

Nerses Snorhali, Jesus, 477-479


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Marco 4,26-34. Commento di san Beda Il Venerabile




In Marci evangelium expositio,I,4 PL 92,172-174.
L'uomo getta il chicco nel terreno, quando affida al suo cuore generose risoluzioni. Poi dorme, perché riposa già nella speranza di un'opera buona. Tuttavia, egli si alza di notte e di giorno, perché deve procedere in mezzo a circostanze felici o avverse.
Il seme germoglia e viene su senza che egli sappia come, giacché la virtù, una volta concepita, progredisce senza che sia possibile misurarne l'avanzamento.
La terra da se porta frutto, perché la grazia preveniente di Dio aiuta l'uomo a far spuntare buone opere.
La terra dapprima produce erba, poi la spiga, e infine il grano pieno nella spiga. L'erba rappresenta i teneri inizi del bene; la spiga significa che la virtù concepita nell'animo sta facendo progressi; il grano maturo vuoi dire che l'impianto della virtù è abbastanza robusto per compiere un lavoro consistente e accurato.
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Quando il frutto Ã¨ pronto, subito si mette mano alla falce, perché Ã¨ venuta la mietitura.
Allorché l'Onnipotente ha fatto maturare il grano, vale a dire quando dirige ognuno verso la sua perfezione, da mano alla falce, pronunziando il suo giudizio e mettendo termine alla vita mortale; poi miete per ammassare il frumento nei granai del cielo.
Quando concepiamo buoni desideri, gettiamo in terra il chicco; dando inizio al bene, siamo erba; crescendo nelle buone opere diventiamo spiga, e consolidandoci nella perfezione arriviamo ad essere la spiga turgida di chicchi.
Se dunque noti qualcuno ancora incerto nel bene, come grano in erba, non lo canzonare, perché in lui sta spuntando il frumento di Dio.Gesù dice ancora: A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso e come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra. e il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra.
Il regno di Dio rappresenta la predicazione del vangelo e la conoscenza delle Scritture, che sono la via verso la vita. Gesù parlava di questo allorché affermò ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo: Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.1( Mt 21,43 ) Il Regno è perciò davvero simile a un granellino di senapa che il seminatore getta nel suo campo.
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Solitamente si dice che il seminatore della parabola raffigura Cristo Salvatore, perché egli semina la salvezza nell'anima dei fedeli. Un'altra interpretazione vede nel seminatore l'uomo stesso che getta il chicco nel terreno del suo cuore.
La nostra anima riceve il grano della predicazione, lo semina nel cuore, lo conserva in vita e lo fa moltiplicare grazie al calore della fede.
Questo seme è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra.
La predicazione del vangelo è la più modesta di tutte le dottrine filosofiche. Essa annunzia lo scandalo della croce, e in priorità insegna la fede nella morte e nella risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, uomo e Dio.
Se paragoni questa dottrina a quella dei filosofi, ai loro sistemi, al loro volumi, allo splendore dell'eloquenza e allo sfoggio di cultura dei loro discorsi, vedrai subito come il vangelo sia il più piccolo fra tutti i semi.
Eppure tutte quelle dottrine non hanno nulla di vivo, di concreto o di essenziale, ma si esauriscono facilmente, diventando flaccide e marce come ortaggi e verdure che avvizziscono e sono gettati via.
La predicazione evangelica, al contrario, pur sembrando minuscola in apertura, spuntando contemporaneamente nell'anima del fedele e nel mondo intero, non secca come l'erba ma cresce a misura di albero.
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Il chicco di senape, seminato in terra o nel campo del Signore, non da un ortaggio ma cresce e si trasforma in albero. Il suo sviluppo supera in altezza, dimensione e longevità tutte le piante ortofruttifere.
Lalbero della predicazione evangelica si pianta, elevando gli spiriti degli ascoltatori e facendo loro desiderare le realtà suprerme. Quest'albero stende lunghi rami, perché i predicatori annunziano il vangelo nel mondo intero. Esso eccelle per durata di vita, dato che la verità che i predicatori annunziano non avrà mai fine.
Sotto la sua ombra nidificano gli uccelli del cielo, perché le anime dei fedeli sono avvezze a volare verso l'alto con il desiderio e a fissare lassù il cuore, dimentiche di quello che passa, secondo questa parola del salmista: Sotto le sue ali troverai rifug io. 2 ( Sal 90,4 )
Lo stesso la sposa del Cantico dei cantici cioè la Chiesa, composta dalle anime dei santi proclama con fierezza: Alla sua ombra., cui anelavo mi siedo e dolce e il suo frutto al mio palato. 3 ( Ct 2,3 ) Cio significa in altri termini:
Abbandonando ogni consolazione, mi sono posta sotto la protezione di Dio che desideravo vedere. E' tale l'allegrezza di vederlo e la sua presenza è cosi dolce al mio cuore che forzatamente devo disprezzare, anzi rigettare, tutto quello che non è l'amato.


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LA SENAPE

da “La vita in Cristo e nella Chiesa” – Anno LVII, n°9.


Nell'alimentazione umana hanno sempre avuto molta
importanza tutte quelle sostanze che, aggiunte in minime
quantità, permettono di migliorare il sapore delle vivande.
Un gruppo di piante speziali (spezie) come la senape, i
capperi o l'erba cipollina contengono composti di zolfo, i
quali determinano un sapore particolarmente piccante. Di
origine esotica, questi prodotti vegetali giungevano sui
mercati europei attraverso l'Asia e il Medio Oriente.
La senape è originaria dell'Asia, dove cresceva
spontanea. Si pensa che sia stata coltivata per la prima
volta nel 3000 a.C. in India, e poi esportata in Occidente
come spezia pregiata. Era infatti già nota ai Greci e ai
Romani, i quali utilizzavano i semi pestati da cospargere
sui cibi per renderli più appetitosi.
Tutte le varietà di senape appartengono alle «crocifere»,
famiglia molto numerosa, comprendente generi e specie
di piante erbacee coltivate come ortaggi (rape, ravanelli
ecc.) e come erbe aromatiche e medicinali (la senape
appunto).
Esse hanno fiori con quattro sepali e quattro petali,
disposti a croce e un frutto tipico detto siliqua, un
bacinelle affusolato diviso da un lungo setto centrale che
separa il vano interno in due settori dove alloggiano i
semi.
I semi vengono piantati in primavera e producono un fiore
giallo a giugno. Il frutto che si sviluppa è un baccello che
contiene i semi, che vengono raccolti a fine estate.
Esistono diversi tipi di senape: quelle utilizzate in cucina
sono la «senape bianca» (Sinapis alba), che produce
semi più grossi e bianchi e la «senape nera» (Sinapis
nigra), i cui semi sono marroni-nerastri. In entrambi i casi
i semi sono molto piccoli (1-2 mm di diametro).
Triturando i semi si produce la farina di senape o senape
in polvere che, opportunamente trattata, emana un odore pungente, dal sapore aspro e irritante. I precotti a base di senape sono dette senapi o più propriamente mostarde. Con il termine «senape», infatti, si intende solo la farina di senape che di solito è formata da una miscela dei due tipi di semi. Plinio, nella sua «Historia naturae» (20,236-240), annovera la senape tra le piante coltivate ma, a differenza di altre erbe medicinali, essa non abbisogna di alcuna coltura. Oltre ai semi, si mangiavano anche le foglie bollite, come verdura. La senape nera è stata ben nota nell'antichità anche per le sue proprietà farmaceutiche: gli impiastri di senape venivano applicati sui malati in caso di bronchiti; l'azione revulsiva di senapismi applicati sulla pelle e sugli organi malati attiva la circolazione del sangue. Una terza variante di senape, la Sinapis arvensis, cresce spontaneamente ed è considerata infestante dal contadino.


UNITA' DI MISURA

La senape era, in un certo modo, anche una unità di misura. Sebbene l'Antico Testamento non menzioni mai questa pianta, la senape, come attesta la letteratura tardogiudaica, era ben nota in Palestina.
Essa non era considerata semplicemente una pianta da orto, ma veniva coltivata anche nei campi. Al momento della raccolta, veniva messa in cesti, che quindi risultavano pieni di questi piccolissimi granelli.
I rabbini, che discutevano quanto dovesse durare il periodo del nazireato, erano soliti dire: «Se qualcuno ha fatto voto di nazireato (di 30 giorni) a cesto pieno - cioè di osservare il nazireato tante volte quanti sono gli oggetti che un cesto può contenere - si consideri allora (quale possibilità più rigorosa) che il cesto sia pieno di semi di senapa: in questo caso sarà nazireo per tutta la vita».

Nel Nuovo Testamento, il termine di paragone «come granello di senape» è adoperato dai sinottici per illustrare due diversi concetti teologici: il primo è inserito nel discorso parabolico (Mc 4,1-34; Mt 13,1-52; Lc 13,18-20) che pone Gesù seduto davanti alla folla, intento a spiegare ai suoi uditori il mistero del regno; mentre il secondo è incentrato sulla fede, la quale, pur microscopica, se autentica ha la forza di sradicare anche un albero (Lc 17,5-6; Mt 17,14-20): «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò?
È simile a un granellino di senape, che un uomo ha preso e gettato nell'orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto» (Lc 13,18-19a).
Per illuminare concetti astratti. Gesù prende spunto dall'esperienza agraria ben conosciuta all'epoca. Il regno di Dio paragonato a un granello di senape mette in risalto il contrasto tra la piccolezza del chicco e lo stadio finale della sua crescita. Il regno di Dio non ha apparenza eclatante, eppure esso è già vicino e presente ma nell'aspetto insignificante di un granello di senape. Proprio a partire da quella minuscola entità si sviluppa una grande realtà di vita. Dio opera cose mirabili servendosi di strumenti e materiali umili che portano in sé
un potenziale e un dinamismo travolgente. La parabola poteva terminare con l'immagine dell'albero anche senza alcun ulteriore rinforzo, ma Gesù continua: «... e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami» (Lc 13,19b).
Più di ogni altro arbusto, nel caso della senape, colpisce la proporzione che prende la pianta: essa diventa un albero reale, dal rifugio sicuro per i volatili. L'immagine dell'albero sui cui rami gli uccelli fanno il nido è classico nei profeti, per designare l'uno o l'altro dei grandi regni del loro tempo. Gesù aggiunge questo «di più», alludendo chiaramente all'apologo del cedro di Ez 17,22-24 che descrive la prosperità e l'estensione universale del regno di Dio: «Dice il Signore Dio: lo prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami
coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sul monte alto d'Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all'ombra dei suoi rami riposerà».
In Cristo ogni predizione di salvezza dell'Antico Testamento ha trovato la sua realizzazione. Il regno di Dio diventa iperbolicamente un arbusto dalle dimensioni gigantesche e giungerà ad abbracciare e salvare i popoli del mondo intero. Attraverso questa parabola Gesù spiega che il regno ha una logica diversa e superiore a quella umana e che esso si manifesta in modo imprevedibile e inesorabile, accompagnato dalle sue parole e opere. Il granello di senape, ossia la predicazione di Gesù, non è appariscente, eppure reca in sé il mistero dell'agire divino, di ampiezza universale.

«L'agire divino non è misurabile con criteri umani dell'efficienza e del successo. Dio fa storia con il piccolo resto operando in forma oscura e inferiore, sollecitando gli uomini a fargli credito anche contro le apparenze. È un chiaro invito alla fiducia e alla speranza» (Ravasi).



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J. Ratzinger. Il Regno di Dio e la nuova evangelizzazione

GIUBILEO DEI CATECHISTI E DEI DOCENTI DI RELIGIONE
INTERVENTO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
DURANTE IL CONVEGNO DEI CATECHISTI
E DEI DOCENTI DI RELIGIONE
Domenica, 10 Dicembre 2000



Per il regno di Dio e così per l'evangelizzazione, strumento e veicolo del regno di Dio, vale sempre la parabola del grano di senape (cfr Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Nuova evangelizzazione non può voler dire: Attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa. No - non è questa la promessa della nuova evangelizzazione. Nuova evangelizzazione vuol dire: Non accontentarsi del fatto, che dal grano di senape è cresciuto il grande albero della Chiesa universale, non pensare che basti il fatto che nei suoi rami diversissimi uccelli possono trovare posto - ma osare di nuovo con l'umiltà del piccolo granello lasciando a Dio, quando e come crescerà (Mc 4, 26-29). Le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri. Nella sua visione del processo dell'evoluzione Teilhard de Chardin parla del "bianco delle origini" (le blanc des origines): L'inizio delle nuove specie è invisibile ed introvabile per la ricerca scientifica. Le fonti sono nascoste - troppo piccole. Con altre parole: Le realtà grandi cominciano in umiltà. Lasciamo da parte, se e fino a che punto Teilhard ha ragione con le sue teorie evoluzioniste; la legge delle origini invisibili dice una verità - una verità presente proprio nell'agire di Dio nella storia: "Non perché sei grande ti ho eletto, al contrario - sei il più piccolo dei popoli; ti ho eletto, perché ti amo..." dice Dio al popolo di Israele nell'Antico Testamento ed esprime così il paradosso fondamentale della storia della salvezza: Certo, Dio non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell'agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia - successi del tipo offerto da Satana al Signore: Tutto questo - tutti i regni del mondo - ti do... (Mt 4, 9). Certo, Paolo alla fine della sua vita ha avuto l'impressione di aver portato il Vangelo ai confini della terra, ma i cristiani erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri secolari. In realtà furono il germe che penetra dall'interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo (cfr Mt 13, 33). Un vecchio proverbio dice: "Successo non è un nome di Dio". La nuova evangelizzazione deve sottomettersi al mistero del grano di senape e non pretendere di produrre subito il grande albero. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell'impazienza di avere un albero più grande, più vitale - dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano. Nella storia della salvezza è sempre contemporaneamente Venerdì Santo e Domenica di Pasqua...

Gesù predicava di giorno, di notte pregava - questo non è tutto. La sua intera vita fu - come lo mostra in modo molto bello il Vangelo di s. Luca - un cammino verso la croce, ascensione verso Gerusalemme. Gesù non ha redento il mondo tramite parole belle, ma con la sua sofferenza e la sua morte. Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà forza alla sua parola.
Il Signore stesso - estendendo ed ampliando la parabola del grano di senape - ha formulato questa legge di fecondità nella parola del chicco di grano che muore, caduto in terra (Gv 12, 24). Anche questa legge è valida fino alla fine del mondo ed è - insieme col mistero del grano di senape - fondamentale per la nuova evangelizzazione. Tutta la storia lo dimostra. Sarebbe facile dimostrarlo nella storia del cristianesimo. Vorrei ricordare qui soltanto l'inizio dell'evangelizzazione nella vita di s. Paolo. Il successo della sua missione non fu frutto di una grande arte retorica o di prudenza pastorale; la fecondità fu legata alla sofferenza, alla comunione nella passione con Cristo (cfr 1 Cor 2, 1-5; 2 Cor 5, 7; 11, 10s; 11, 30; Gal 4, 12-14). "Nessun segno sarà dato, se non il segno di Giona profeta" ha detto il Signore. Il segno di Giona è il Cristo crocifisso - sono i testimoni, che completano "quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1, 24). In tutti i periodi della storia si è sempre di nuovo verificata la parola di Tertulliano: È un seme il sangue dei martiri.
Sant'Agostino dice lo stesso in modo molto bello, interpretando Gv 21, dove la profezia del martirio di Pietro e il mandato di pascere, cioè l'istituzione del suo primato sono intimamente connessi. Sant'Agostino commenta il testo Gv 21, 16 nel modo seguente: "Pasci le mie pecorelle", cioè soffri per le mie pecorelle (Sermo Guelf. 32 PLS 2, 640). Una madre non può dar la vita a un bambino senza sofferenza. Ogni parto esige sofferenza, è sofferenza, ed il divenire cristiano è un parto. Diciamolo ancora una volta con parole del Signore: Il regno di Dio esige violenza (Mt 11, 12; Lc16, 16), ma la violenza di Dio è la sofferenza, è la croce. Non possiamo dare vita ad altri, senza dare la nostra vita. Il processo di espropriazione sopra indicato è la forma concreta (espressa in tante forme diverse) di dare la propria vita. E pensiamo alla parola del Salvatore: "...chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà..." (Mc 8, 36).


2. Il Regno di Dio
Nella chiamata alla conversione è implicito - come sua condizione fondamentale - l'annuncio del Dio vivente. Il teocentrismo è fondamentale nel messaggio di Gesù e dev'essere anche il cuore della nuova evangelizzazione. La parola-chiave dell'annuncio di Gesù è: Regno di Dio. Ma Regno di Dio non è una cosa, una struttura sociale o politica, un'utopia. Il Regno di Dio è Dio. Regno di Dio vuol dire: Dio c'è. Dio vive. Dio è presente e agisce nel mondo, nella nostra - nella mia vita. Dio non è una lontana "causa ultima", Dio non è il "grande architetto" del deismo, che ha montato la macchina del mondo e starebbe adesso fuori - al contrario: Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia. Nella sua conferenza di congedo dalla sua cattedra nell'università di Münster il teologo J.B. Metz ha detto delle cose inaspettate dalla sua bocca. Metz in passato ci aveva insegnato l'antropocentrismo - il vero avvenimento del cristianesimo sarebbe stata la svolta antropologica, la secolarizzazione, la scoperta della secolarità del mondo. Poi ci ha insegnato la teologia politica - il carattere politico della fede; poi la "memoria pericolosa"; finalmente la teologia narrativa. Dopo questo cammino lungo e difficile ci dice oggi: Il vero problema del nostro tempo è la "Crisi di Dio", l'assenza di Dio, camuffata da una religiosità vuota. La teologia deve ritornare ad essere realmente teo-logia, un parlare di Dio e con Dio. Metz ha ragione: L'"unum necessarium" per l'uomo è Dio. Tutto cambia, se Dio c'è o se Dio non c'è. Purtroppo - anche noi cristiani viviamo spesso come se Dio non esistesse ("si Deus non daretur"). Viviamo secondo lo slogan: Dio non c'è, e se c'è, non c'entra. Perciò l'evangelizzazione deve innanzitutto parlare di Dio, annunciare l'unico Dio vero: il Creatore - il Santificatore - il Giudice (cfr il Catechismo della Chiesa cattolica).
Anche qui è da tener presente l'aspetto pratico. Dio non si può far conoscere con le sole parole. Non si conosce una persona, se si sa di questa persona solo di seconda mano. Annunciare Dio è introdurre nella relazione con Dio: Insegnare a pregare. La preghiera è fede in atto. E solo nell'esperienza della vita con Dio appare anche l'evidenza della sua esistenza. Perciò sono così importanti le scuole di preghiera, di comunità di preghiera. C'è complementarità tra preghiera personale ("nella propria camera", solo davanti agli occhi di Dio), preghiera comune "paraliturgica" ("religiosità popolare") e preghiera liturgica. Sì, la liturgia è innanzitutto preghiera; la sua specificità consiste nel fatto che il suo soggetto primario non siamo noi (come nella preghiera privata e nella religiosità popolare), ma Dio stesso - la liturgia è actio divina, Dio agisce e noi rispondiamo all'azione divina.
Parlare di Dio e parlare con Dio devono sempre andare insieme. L'annuncio di Dio è guida alla comunione con Dio nella comunione fraterna, fondata e vivificata da Cristo. Perciò la liturgia (i sacramenti) non è un tema accanto alla predicazione del Dio vivente, ma la concretizzazione della nostra relazione con Dio. In questo contesto mi sia permessa una osservazione generale sulla questione liturgica. Il nostro modo di celebrare la liturgia è spesso troppo razionalista. La liturgia diventa insegnamento, il cui criterio è: farsi capire - la conseguenza è non di rado la banalizzazione del mistero, la prevalenza delle nostre parole, la ripetizione delle fraseologie che sembrano più accessibili e più gradevoli per la gente. Ma questo è un errore non soltanto teologico, ma anche psicologico e pastorale. L'onda dell'esoterismo, la diffusione di tecniche asiatiche di distensione e di auto-svuotamento mostrano che nelle nostre liturgie manca qualcosa. Proprio nel nostro mondo di oggi abbiamo bisogno del silenzio, del mistero sopra-individuale, della bellezza. La liturgia non è l'invenzione del sacerdote celebrante o di un gruppo di specialisti; la liturgia (il "rito") è cresciuta in un processo organico nei secoli, porta in sé il frutto dell'esperienza di fede di tutte le generazioni.
Anche se i partecipanti non capiscono forse tutte le singole parole, percepiscono il significato profondo, la presenza del mistero, che trascende tutte le parole. Non il celebrante è il centro dell'azione liturgica; il celebrante non sta davanti al popolo nel nome proprio - non parla da sé e per sé, ma "in persona Cristi". Non contano le capacità personali del celebrante, ma solo la sua fede, nella quale si fa trasparente Cristo. "Egli deve crescere, e io invece diminuire" (Gv 3, 30).



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LA CLELIA BARBIERI, PARABOLA EVANGELICA SULLA UMILTÀ. Paolo VI

SOLENNE BEATIFICAZIONE DI CLELIA BARBIERI
OMELIA DI PAOLO VI
Domenica, 27 ottobre 1968
LA PARABOLA EVANGELICA SULLA UMILTÀ
«A che cosa paragoneremo il regno di Dio? O con quale similitudine lo figureremo? Esso è simile a un granello di senapa, il quale, quando si semina in terra, è più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma, seminato che sia, cresce e diventa più grande di tutti. gli erbaggi e fa dei rami così grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Marc. 4, 30-32).
A queste parole del Signore correva il Nostro pensiero, mentre porgevamo ora il Nostro atto di venerazione alla nuova Beata, sembrando a Noi, come supponiamo che quanti oggi la onorano vadano pensando, di ravvisarle riflesse tali parole evangeliche nell’umile ed eletta figura di Clelia Barbieri. Perché la prima impressione che la sua vita offre al nostro sguardo, abituati, come tutti siamo, a osservare e misurare gli uomini secondo la loro statura nel contesto storico e sociale, è quella della piccolezza. Qual è la sua storia? Si dura fatica a rintracciarla e a descriverla per la scarsezza di dati di cui si compone, per un primo motivo, quello della brevità del suo soggiorno terreno: di soli ventitre anni! Vero è che nei fasti della santità Clelia Barbieri non è sola a raggiungere il paradiso in così giovane età; a raggiungerlo, diciamo, con i segni anche a noi visibili della gloria. Non consideriamo ora il caso di bambini e di fanciulli e di giovani che giungono alla salvezza proprio in virtù dell’integrità della grazia battesimale e della loro naturale innocenza, senza aver subito alcuna profanazione, che una più lunga durata della loro terrena esistenza e una più piena esperienza delle avversità del pellegrinaggio nel mondo avrebbero forse loro arrecata. Ma ciò che ora interessa la nostra attenzione è il fatto che la brevità della vita sia illustrata in alcuni casi da uno straordinario complesso di virtù personali, di grazie spirituali e di circostanze biografiche da conferire alla giovane vita l’aureola più gloriosa e più difficile a conseguirsi quella della santità.
MERAVIGLIE DELLA GIOVINEZZA CONSACRATA AL SERVIZIO DI DIO
La santità nella giovinezza sembra a Noi un fenomeno umano ed agiografico degno del più grande interesse, per la sua precocità (non è una delle curiosità moderne quella dei «fanciulli-prodigio», o dei giovanissimi atleti, o artisti, o scienziati, o eroi, che, superando gli indugi dello sviluppo e i ritmi del tempo, raggiungono in anticipo una pienezza naturale sbalorditiva?); e sembra un fenomeno mirabile per la ricchezza di doni soprannaturali, che l’acerbità stessa dell’età mette in evidenza. Chi non ricorda, ad esempio (e restiamo nel giardino femminile), l’elogio di S. Ambrogio per Agnese, la giovinetta vergine e martire da lui magnificata: «Ella, come si narra, aveva dodici anni quando subì il martirio» (Haec duodecim annorum martyrium fecisse traditur - De virgin. 1, 7).
Voi Bolognesi, subito in Cuor vostro commentate: anche la nostra beata Imelda Lambertini, fiore della santa Eucaristia, aveva tredici anni. Potremmo ricordare che Giovanna d’Arco chiuse la sua vita avventurosa, mistica, militare ed eroica a diciannove anni, A trentatré Santa Caterina da Siena. E Santa Bartolomea Capitanio, ch’ebbe una vita sotto molti aspetti simile alla nostra Clelia Barbieri, pochi decenni prima, meritò ella pure d’essere fondatrice d’una fiorente famiglia religiosa nel breve spazio di ventisei anni. Ricordiamo tutti che S. Teresa del Bambin Gesù mori a ventiquattro anni. Potremmo continuare. Ma ora ci basta fermare lo sguardo sulla nostra Beata, traendo conferma dalla brevità stessa del suo passaggio nel tempo che la santità, anche quella meritevole del suffragio ufficiale della Chiesa, è possibile alla gioventù; ed inoltre, a tutto ben considerare, quando i carismi della grazia e l’intelligenza del Vangelo le siano assicurati, potremmo dire che meglio si addice la perfezione cristiana alla giovane età che non ad altro periodo dell’umana esistenza.
CRISTO NEI SUOI SEGUACI PIÙ GENEROSI E FEDELI
Ma la giovane età segna indubbiamente un limite di piccolezza, se non al valore, alla storia d’una breve vita. Ed altro limite riscontriamo in Clelia nella scena umana in cui quella vita si svolge: l’umiltà dell’ambiente, quello d’una modesta ed ignota Parrocchia rurale, le Budrie di S. Giovanni in Persiceto, dove all’occhio curioso di valori culturali e civili nulla appare di notevole, e dove invece è giustamente notata la deficienza economica e sociale, propria delle popolazioni rurali di quel tempo.
Certo, un occhio più attento ai valori morali e religiosi può scoprire le meraviglie di quel quadro umano, in cui la nostra civiltà cristiana ha modellato, composto, ornato il costume degnissimo dell’umile gente, dove la laboriosità, la sobrietà, l’onestà, la modestia, la bontà, il senso del dovere, il timor di Dio, il rispetto per tutti sono così penetrati nella mentalità e nelle abitudini della tranquilla e travagliata popolazione contadina da trarne stupendi e quasi campestri fiori di gentilezza, di abnegazione, di candida semplicità, di sensibilità morale, di spiritualità cristiana, che indarno cercheremmo in tanti altri ambienti più evoluti, e ormai prevalenti nella nostra moderna società. Occorre finezza manzoniana per apprezzare simile scena, gusto francescano, e, diciamo pure, senso evangelico.
Ma la piccolezza rimane la misura del quadro, anche sotto un altro aspetto, che, per altro verso, grandeggia di meravigliosa irradiazione spirituale, vogliamo dire quello della vita religiosa. Anche questa è semplice, popolare e ordinaria; essa è formata alle fonti più accessibili della preghiera comune; alimentata da letture che di poco si estendono oltre i primi elementi della dottrina cristiana, e dal Manuale di Filotea, allora assai in voga, del Can. Riva di Milano. Suoi maestri sono due Parroci di campagna, magnifici Sacerdoti, ottimi pastori, assai virtuosi, il Setanassi e il Guidi, ma entrambi senza pretese di vasta cultura e di pensiero originale. Anche il nome, che definirà la Famiglia religiosa fondata da Clelia Barbieri, metterà in evidenza la dimensione scelta, sull’esempio e in onore d’un grande umilissimo Santo, Francesco da Paola, per caratterizzare l’istituzione delle «Suore Minime dell’Addolorata». Minime.
Ma questa esatta impressione di piccolezza non dice tutto della nuova Beata, anzi non dice le ragioni dell’esaltazione, che meritamente la Chiesa oggi le tributa. Un’altra impressione succede, quella della scoperta. Avviene spesso nella vita dei Santi. I titoli della loro vera personalità bisogna scoprirli, e perciò bisogna cercarli. Quelli che credono che la santità abbia come manifestazione ordinaria il miracolo spesso si illudono. Il miracolo potrà verificarsi, e costituire il segno di virtù e di carismi straordinari, e quindi santità meritevole di speciale onore e di fiducioso credito. Ma questa santità dev’essere cercata in altre sue manifestazioni, le quali esigono nell’osservatore particolari condizioni di spirito, che sono poi quelle che da un lato rendono a lui benefico il culto dei Santi e dall’altro lo giustificano; cioè dev’essere cercata nella somiglianza, che il Santo riflette su di sé, di Cristo, il modello, il maestro, il vero Santo. Il culto dei Santi è una ricerca di Cristo in alcuni suoi seguaci, più fedeli e più favoriti.
LA VIA REGALE DELLA NUOVA CITTADINA DEL CIELO
E allora pare a Noi di riudire la voce del Signore fare l’apologia dei suoi eletti; ed ora di questa sua fedelissima Beata; la voce, diciamo, di Lui, rimpicciolito perfino sotto il nostro livello (cfr. Phil. 2, 7-8), di Lui, fattosi povero quand’era la ricchezza stessa (cfr. 2 Cor. 8, 9), diventato fratello a tutti noi per essersi definito «il Figlio dell’uomo» (Matth. 8, 20 ecc.) e ritenuto socialmente il «Figlio del fabbro» (Matth. 13, 55); di Lui, che effondendo al Padre l’amarezza e la dolcezza insieme del suo cuore, posto a contatto con gli uomini ribelli e con quelli fedeli, svela il piano segreto della sua rivelazione: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così Ti è piaciuto!» (Matth. 11, 25-26).
IL CANDORE DELL’ANIMA FONDAMENTO D’OGNI EROISMO
E dove Ci conduce la Nostra ricerca di Cristo nella Beata di cui appunto stiamo celebrando la somiglianza con Cristo, sulla quale la Chiesa fonda la sua certezza di dichiararla cittadina del Cielo? Oh! se Noi abbiamo avuto una prima impressione di piccolezza, adesso, ravvisando nell’umile sua figura, nella breve sua vita, nella silenziosa sua opera i tratti del volto evangelico del Signore, un’impressione di ‘meraviglia e di letizia in Noi, un’impressione di bellezza e un’impressione di grandezza invece a lei relative inonderebbero il Nostro animo, se volessimo soffermarci ad uno studio così delicato e così attraente, cioè se volessimo tessere l’elogio della Beata o narrarne la biografia. Altri, e primo fra questi un’alta figura di Pastore, il Cardinale Gusmini, Arcivescovo di Bologna, dal 1914 al 1921, lo hanno fatto, e voi che Ci ascoltate tutto sapete in proposito; né più vi diremo, se non per confidarvi, correndo, ciò che al Nostro spirito ha recato maggiore edificazione, e più benefico incanto, mentre, in ordine a questa beatificazione, C’informavamo della Serva di Dio da dichiarare Beata.
Piacque specialmente a Noi l’innocenza di questa singolare creatura, quella purità che lascia trasparire nel volto e negli atti il candore interiore; il candore, che suppone ed alimenta un continuo, quasi connaturato colloquio con quel Dio meglio conosciuto per via d’amore, che di ansiosa speculazione; Ci pareva d’ascoltare S. Agostino ragionare della verginità: «in carne corruptibili incorruptionis perpetua meditatio» (De sancta Virg., c. 13; P. L. 40, 401), una meditazione continua della Purezza incorrotta in un essere tuttora corruttibile. E da così limpida bellezza Ci pareva ovvio di vedere sgorgare una bontà semplice, affettuosa, attraente; quella che quasi spontaneamente dapprima, e poi urgentemente cercò di farsi indotta e sapiente maestra comunicativa del proprio interiore tesoro di amorosa verità e di sperimentare, fino alla dedizione materna, incantevole in una così giovane vita, l’ansia di servire la propria Parrocchia, di educare gli altri, di formarsi un cerchio di sorelle e di amiche, con cui pregare e lavorare, e poi costituirsi in «ritiro», in cenacolo religioso qualificato all’orazione e al servizio dei poveri e dei sofferenti, come appunto fanno le figlie di Clelia Barbieri, le ottime Suore Minime dell’Addolorata.
PARTECIPAZIONE PATERNA ALLA ESULTANZA DI BOLOGNA
Godiamone tutti. Voi, sì, per prime, Suore pie e gentili, che traducete in opere di carità lo spirito della Beata; voi, che date testimonianza di ciò che può in una comunità ecclesiale l’esempio, l’ardore, l’azione della gioventù femminile affascinata dal volto di Cristo, trasportata dalla sua grazia e compresa di quanti bisogni soffrono i fratelli e di quanto bene essi siano capaci rincorrendo, lo slancio giovanile della purezza apostolica; voi, che offrendo al Signore la vostra vita tutto perdete e tutto guadagnate nell’esercizio assiduo ed eroico della carità.
E goda Bologna di questa sua Figlia, che la Chiesa celebra nell’ineffabile gloria del misterioso mondo celeste, e solleva davanti a quello terrestre come degna di ammirazione, d’imitazione, di fiducia. Noi sentiamo il dovere di congratularci con Lei, caro e venerato Signor Cardinale Lercaro, che per il compimento dei voti rivolti a questa gloriosa giornata ha prodigato le sue cure sagge ed assidue, e che può ben allietarsi di vedere oggi coronato col suo il desiderio dell’amatissima Arcidiocesi Bolognese. E sentiamo il bisogno di condividere con Bologna e con il suo presente e degno Arcivescovo Monsignor Poma la gioia di vedere questo nuovo fiore di fede e di santità testimoniare la perenne e moderna vitalità d’una secolare tradizione cattolica, che in Clelia Barbieri attesta le antiche virtù d’un popolo forte e cristiano, e dice al mondo come ancor oggi il Vangelo, ed oggi più che mai, si manifesta non solo sensibile e comprensivo degli umani bisogni, ma là, dove la giustizia, dove la fratellanza, dove l’indigenza reclamano chi li soccorra e li serva con pieno e silenzioso sacrificio di sé, esso, il Vangelo, ha pronto un suo dono generoso e misterioso di vite consacrate ed immolate.
Ed il Nostro invito a godere dell’avvenimento, che oggi è stato celebrato, vuol essere espresso a quanti sono qua accorsi per essere non solo spettatori, ma partecipi: tali sono certo le Autorità civili e politiche di Bologna e della terra emiliana e romagnola, alle quali siamo lieti, nel nome di Clelia Barbieri, di porgere il Nostro deferente saluto ed il Nostro voto augurale di prosperità e di pace.
PREZIOSI INSEGNAMENTI PER TUTTI I DISCEPOLI DI CRISTO
Così salutiamo le personalità ecclesiastiche del Clero Bolognese, Mons. Vicario Generale, i Reverendi Canonici e i Parroci della Città e dell’Arcidiocesi, fra questi quelli specialmente delle Budrie, e di San Giovanni in Persiceto, i rappresentanti del Laicato cattolico, i parenti ed i congiunti della nuova Beata e quelli che hanno goduto della sua miracolosa intercessione; e poi tutti i pellegrini e i visitatori e i fedeli presenti d’ogni provenienza, affinché abbiano tutti nella Nostra riconoscente e paterna benedizione il pegno della protezione della nuova celeste cittadina e sentano tutti, con l’impegno ch’ella ci affida a seguirne gli esempi e a tenerne desto lo spirito, l’impulso gioioso degli interiori carismi capace di rendere possibile e facile e felice la moderna militante sequela di Cristo.
Ma non possiamo congedarci da questa entusiasmante assemblea senza rivolgere un pensiero specialissimo ai gruppi di Alunni, con i loro Superiori e Maestri, dei vari Seminari, che abbiamo la fortuna di vedere d’intorno a Noi, specialmente quelli del Seminario Regionale «Benedetto XV» delle Diocesi di Bologna, Ravenna, Bertinoro, Cesena, Comacchio, Forlì, Sarsina, Rimini e Montefeltro, le quali così salutiamo nei pegni più preziosi delle loro spirituali speranze; poi quelli del Seminario arcivescovile di Bologna; quelli dell’«Onarmo»; quelli del Pre-seminario di Borgo Capanne; e quanti altri nelle rispettive Diocesi, nella Nostra di Roma ovviamente, ovvero nelle loro Famiglie religiose, maschili e femminili, si preparano a far dono a Cristo e alla sua Chiesa, della loro freschissima vita. A voi, giovani, l’augurio che possiate pienamente godere della presente glorificazione dell’umile virtù; a voi, l’esortazione che abbiate l’intuito sapiente di ciò che oggi più occorre alla Chiesa e alla moderna società, il fatto esistenziale cioè della santità.
Di santi ha bisogno la Chiesa, di santi il mondo. Di santi, diciamo, dei quali l’imitazione di Cristo e la tradizione ecclesiastica c’insegnano le vie aspre e soavi; di santi, che nel tumulto delle esperienze moderne, delle ideologie correnti, delle contestazioni di moda, sanno essere, ad un tempo, personali e sociali, liberi cioè dal mimetismo collettivo, e spontaneamente, fermamente consacrati al servizio di Dio e dei fratelli. Fate, carissimi figli, della vostra vita un esperimento totale di santità; non fermatevi a metà, non contentatevi di compromessi mediocri, non lasciatevi suggestionare dalle formidabili fatuità di cui è piena la nostra atmosfera; siate veramente discepoli del Maestro, veramente membra vive ed operanti della Chiesa di Dio, veramente esaltati ed umili della vostra scelta, fra tutte la più difficile e fra tutte la più dolce, fra tutte l’ottima per la vita presente e quella futura, la scelta della santità. Così vi parli nel cuore la nuova Beata; così vi attragga e vi avvalori quel Cristo nostro Signore di cui oggi, celebrando la festa della sua regalità, la Chiesa ci ricorda essere Lui l’unico a orientare le nostre speranze, l’unico a unire i nostri cuori, l’unico a salvare i nostri destini.