venerdì 13 gennaio 2012

Ilario di Poitiers


Oggi 13 gennaio ricordiamo:


Ilario di Poitiers (*)
vescovo e dottore della Chiesa

(315?-367)

Riporto la catechesi del Santo Padre e qualche testo per la meditazione...

* * *
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 10 ottobre 2007

Sant’Ilario di Poitiers
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di un grande Padre della Chiesa di Occidente, sant’Ilario di Poitiers, una delle grandi figure di Vescovi del IV secolo. Nel confronto con gli ariani, che consideravano il Figlio di Dio Gesù una creatura, sia pure eccellente, ma solo creatura, Ilario ha consacrato tutta la sua vita alla difesa della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.
Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario. Le fonti antiche dicono che nacque a Poitiers, probabilmente verso l’anno 310. Di famiglia agiata, ricevette una solida formazione letteraria, ben riconoscibile nei suoi scritti. Non sembra che sia cresciuto in un ambiente cristiano. Egli stesso ci parla di un cammino di ricerca della verità, che lo condusse man mano al riconoscimento del Dio creatore e del Dio incarnato, morto per darci la vita eterna. Battezzato verso il 345, fu eletto Vescovo della sua città natale intorno al 353-354. Negli anni successivi Ilario scrisse la sua prima opera, il Commento al Vangelo di Matteo. Si tratta del più antico commento in lingua latina che ci sia pervenuto di questo Vangelo. Nel 356 Ilario assiste come Vescovo al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il «sinodo dei falsi apostoli», come egli stesso lo chiama, dal momento che l’assemblea fu dominata dai Vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo. Questi «falsi apostoli» chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di Poitiers. Così Ilario fu costretto a lasciare la Gallia durante l’estate del 356.
Esiliato in Frigia, nell’attuale Turchia, Ilario si trovò a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo. Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinse a lavorare strenuamente per il ristabilimento dell’unità della Chiesa, sulla base della retta fede formulata dal Concilio di Nicea. A questo scopo egli avviò la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: La Trinità. In essa Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre, non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore stesso: «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».
Il Padre e il Figlio sono della stessa natura. E se alcuni passi del Nuovo Testamento potrebbero far pensare che il Figlio sia inferiore al Padre, Ilario offre regole precise per evitare interpretazioni fuorvianti: alcuni testi della Scrittura parlano di Gesù come Dio, altri invece mettono in risalto la sua umanità. Alcuni si riferiscono a Lui nella sua preesistenza presso il Padre; altri prendono in considerazione lo stato di abbassamento (kénosis), la sua discesa fino alla morte; altri, infine, lo contemplano nella gloria della risurrezione. Negli anni del suo esilio Ilario scrisse anche il Libro dei Sinodi, nel quale riproduce e commenta per i suoi confratelli Vescovi della Gallia le confessioni di fede e altri documenti dei sinodi riuniti in Oriente intorno alla metà del IV secolo. Sempre fermo nell’opposizione agli ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo mi sembra caratteristico: lo spirito di conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo.
Nel 360 o nel 361 Ilario poté finalmente tornare dall’esilio in patria e subito riprese l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma l’influsso del suo magistero si estese di fatto ben oltre i confini di essa. Un sinodo celebrato a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Negli ultimi anni di vita egli compose ancora i Trattati sui Salmi, un commento a cinquantotto Salmi, interpretati secondo il principio evidenziato nell’introduzione dell’opera: «Non c’è dubbio che tutte le cose che si dicono nei Salmi si devono intendere secondo l’annunzio evangelico, in modo che, qualunque sia la voce con cui lo spirito profetico ha parlato, tutto sia comunque riferito alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, alla sua incarnazione, passione e regno, e alla gloria e potenza della nostra risurrezione» (Istruzione sui Salmi 5). Egli vede in tutti i Salmi questa trasparenza del mistero di Cristo e del suo Corpo, che è la Chiesa. In diverse occasioni Ilario si incontrò con san Martino: proprio vicino a Poitiers il futuro Vescovo di Tours fondò un monastero, che esiste ancor oggi. Ilario morì nel 367. La sua memoria liturgica si celebra il 13 gennaio. Nel 1851 il beato Pio IX lo proclamò Dottore della Chiesa.
Per riassumere l’essenziale della sua dottrina, vorrei dire che Ilario trova il punto di partenza della sua riflessione teologica nella fede battesimale. Nel De Trinitate Ilario scrive: Gesù «ha comandato di battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr Mt 28,19), cioè nella confessione dell’Autore, dell’Unigenito e del Dono. Uno solo è l’Autore di tutte le cose, perché uno solo è Dio Padre, dal quale tutto procede. E uno solo il Signore nostro Gesù Cristo, mediante il quale tutto fu fatto (1 Cor 8,6), e uno solo è lo Spirito (Ef 4,4), dono in tutti ... In nulla potrà essere trovata mancante una pienezza così grande, in cui convergono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo l’immensità nell’Eterno, la rivelazione nell’Immagine, la gioia nel Dono» (2,1). Dio Padre, essendo tutto amore, è capace di comunicare in pienezza la sua divinità al Figlio. Trovo particolarmente bella la seguente formula di sant’Ilario: «Dio non sa essere altro se non amore, non sa essere altro se non Padre. E chi ama non è invidioso, e chi è Padre lo è nella sua totalità. Questo nome non ammette compromessi, quasi che Dio sia padre in certi aspetti, e in altri non lo sia» (ibid., 9,61).
Per questo il Figlio è pienamente Dio senza alcuna mancanza o diminuzione: «Colui che viene dal perfetto è perfetto, perché chi ha tutto, gli ha dato tutto» (ibid., 2,8). Soltanto in Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, trova salvezza l’umanità. Assumendo la natura umana, Egli ha unito a sé ogni uomo, «si è fatto la carne di tutti noi» (Trattato sui Salmi 54,9); «ha assunto in sé la natura di ogni carne e, divenuto per mezzo di essa la vite vera, ha in sé la radice di ogni tralcio» (ibid., 51,16). Proprio per questo il cammino verso Cristo è aperto a tutti – perché egli ha attirato tutti nel suo essere uomo –, anche se è richiesta sempre la conversione personale: «Mediante la relazione con la sua carne, l’accesso a Cristo è aperto a tutti, a patto che si spoglino dell’uomo vecchio (cfr Ef 4,22) e lo inchiodino alla sua croce (cfr Col 2,14); a patto che abbandonino le opere di prima e si convertano, per essere sepolti con Lui nel suo Battesimo, in vista della vita (cfr Col 1,12; Rm 6,4)» (ibid., 91,9).
La fedeltà a Dio è un dono della sua grazia. Perciò sant’Ilario chiede, alla fine del suo trattato sulla Trinità, di potersi mantenere sempre fedele alla fede del Battesimo. E’ una caratteristica di questo libro: la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione. Tutto il libro è un dialogo con Dio.
Vorrei concludere l’odierna catechesi con una di queste preghiere, che diviene così anche preghiera nostra: «Fa’, o Signore – recita Ilario in modo ispirato – che io mi mantenga sempre fedele a ciò che ho professato nel Simbolo della mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Che io adori te, nostro Padre, e insieme con te il tuo Figlio; che io meriti il tuo Spirito Santo, il quale procede da te mediante il tuo Unigenito... Amen» (La Trinità 12,57).

* * *


Dal Trattato "Sulla Trinità" di sant'Ilario di Poitiers
(III,20; VII,12. PL 10,87-88. 209).

Porgo ascolto al Signore e credo alle cose che sono state scritte. Perciò so che, subito dopo la risurrezione, Cristo spesso si offrì in corpo alla vista di molti ancora increduli. E precisamente si fece vedere a Tommaso, che non voleva credere se non avesse potuto toccare con mano le sue ferite, così come disse: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò. Il Signore si adatta alla nostra debole mente e, per chiarire i dubbi di chi non riesce a credere, opera un miracolo caratteristico della sua invisibile potenza.
Tu che indaghi minuziosamente le realtà celesti, chiunque tu possa essere, spiegami il modo con cui avviene questo fatto. I discepoli erano in un ambiente chiuso e tutti quanti insieme tenevano una riunione in un luogo appartato. Ed ecco il Signore, per rendere ferma la fede di Tommaso, accetta la sfida, si presenta e offre la possibilità di palpare il suo corpo, di toccare con mano la sua ferita. Naturalmente, poiché doveva essere riconosciuto per le sue ferite, egli dovette mostrarsi con il corpo che aveva ricevuto le ferite.
All'incredulo io domando attraverso quali parti dell'abitazione che era chiusa, Cristo, dotato di corpo com'era, poté penetrare. Con molta precisione l'Evangelista annota infatti: Venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro. Forse che, penetrando nella struttura delle pareti e nella compattezza delle parti in legno, attraversò la loro natura impenetrabile? Infatti, eccolo lì in mezzo a loro con un corpo reale, non sotto apparenze simulate o false.
Segui, dunque, con gli occhi della tua mente la via battuta da lui nel penetrare, accompagnalo con la vista dell'intelletto mentre entra nell'abitazione chiusa.
Tutte le aperture sono intatte e sbarrate, ma ecco compare in mezzo colui al quale tutto è accessibile in virtù della sua potenza. Tu vai cavillando sui fatti invisibili, io a te domando la spiegazione di fatti visibili. Non viene meno in alcun modo la compattezza e il materiale ligneo e pietroso non lascia passare cosa alcuna attraverso gli elementi che lo compongono, per una specie di infiltrazione impercettibile. Il corpo del Signore non perde la sua natura fisica per poi riprenderla dal nulla: eppure di dove viene colui che si ferma in mezzo? A queste domande si arrendono pensiero e parola, e il fatto nella sua verità supera l'umana capacità di intendere.
Tommaso esclama: Mio Signore e mio Dio! Dunque, colui che egli confessa come Dio è il suo Dio. Senza dubbio Tommaso non ignorava le parole del Signore: Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.Come la fede di un Apostolo, professando Cristo come Dio, poté dimenticare il massimo precetto che ordina di vivere nella confessione dell'unità divina? Ma la potenza della risurrezione fece intendere all'Apostolo il mistero della fede nella sua pienezza. Già sovente egli aveva udito le parole di Gesù: Io e il Padre siamo una cosa sola. Tutto quello che il Padre possiede è mio. Io sono nel Padre e il Padre è in me. Ormai, senza pericolo per la fede, Tommaso può attribuire a Cristo il nome che designa la natura divina.
La sua fede schietta non esclude di credere nell'unico Dio Padre proclamando la divinità del Figlio di Dio. Infatti, egli crede che il Figlio di Dio non possiede una natura diversa da quella del Padre.
E la fede nell'unica natura non correva il rischio di trasformarsi in empia confessione di un secondo Dio, perché la perfetta nascita di Dio non aveva portato una seconda natura divina. Pertanto, fu con piena conoscenza della verità contenuta nel mistero evangelico che Tommaso confessò il suo Signore e il suo Dio. Qui non si tratta di un titolo d'onore, ma del riconoscimento della sua natura. Egli credette che Cristo era Dio nella piena realtà della sua sostanza e della sua potenza.
Il Signore confermò che l'affermazione di Tommaso non era un semplice riconoscimento di onore, ma atto di fede, dicendo: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!
Infatti, Tommaso credette perché vide. Ma tu mi puoi domandare: Che cosa ha creduto? Che cosa poté credere se non ciò che ha dichiarato: Mio Signore e mio Dio? Nessuna natura, se non quella divina, avrebbe potuto risorgere per propria virtù dalla morte alla vita; e la sicurezza di una fede ormai certa fa professare a Tommaso questa verità, cioè che è Dio.
Non possiamo pensare che il nome Dio non indichi una natura reale. Infatti quel nome non è forse stato pronunziato in base a una fede nella natura divina fondata su prove? Sicuramente quel Figlio, devoto al Padre suo, che faceva non la sua volontà, ma quella di colui che lo aveva mandato e cercava non la propria gloria, ma quella di colui dal quale era venuto, avrebbe ricusato nei propri confronti l'onore implicito in un nome del genere, per non distruggere l'unità divina che aveva proclamato.
Ma in realtà, egli conferma il mistero espresso dalla fede dell'Apostolo e accetta come suo il nome che indica la natura del Padre; così egli insegnò che erano beati coloro che, pur non avendo visto quando risorgeva dai morti, afferrando il senso della risurrezione avevano creduto che egli era Dio. 
* * * 

Dal "Commento ai Salmi" di sant'Ilario di Poitiers 
 
 Sappiamo bene che molti hanno opinioni differenti sul libro dei Salmi, dagli scritti stessi che ci hanno lasciato. Difatti alcuni tra gli Ebrei vogliono che essi siano divisi in cinque libri, in modo che fino al salmo quarantesimo formerebbero il libro primo, dal quarantesimo al settantunesimo il libro secondo, fino all’ottantesimo il libro terzo, fino al centocinquesimo il libro quarto, e il motivo sarebbe che tutti questi salmi recano nella conclusione l’espressione: Sia fatto, sia fatto; infine il libro quinto si concluderebbe con il salmo centocinquantesimo. Altri poi hanno pensato che essi dovrebbero portare il titolo ”Salmi di Davide”, e con ciò vogliono intendere che tutti i salmi siano stati composti da Davide. Ma noi, seguendo l’autorità degli Apostoli, li chiamiamo e scriviamo “libro dei Salmi”. Ricordiamo che negli Atti degli apostoli si dice: “E’ scritto infatti nel libro dei Salmi: “La sua dimora diventi deserta, e il suo incarico lo prenda un altro”. Perciò non bisogna parlare né di cinque libri secondo alcuni ebrei, né dei Salmi di Davide, secondo l’ingenuità di molti; li si conosca piuttosto come “libro dei Salmi”, secondo l’autorità degli apostoli.
Molti sono gli scrittori di questi salmi. Ad alcuni infatti si premette come autore Davide, ad altri Salomone, ad altri Asaf, ad altri Iduthun, ad altri i figli di Core, a qualcuno Mosè. Sarebbe certamente assurdo chiamarli “Salmi di Davide”, dal momento che nei titoli stessi sono menzionati i loro autori. Si parli più esattamente di “libro dei Salmi”, in quanto furono raccolte in un solo volume profezie differenti, di epoche e autori diversi. È sembrato poi ad alcuni che nelle intestazioni di qualche salmo siano premessi i nomi di Geremia, Aggeo, Zaccaria, mentre nei libri autentici dei Settanta traduttori nulla di ciò si trova riportato. Così pure in moltissimi codici latini e greci si presentano semplicemente i titoli dei salmi, senza alcun riferimento a questi nomi. Per quei salmi che si trovano senza i nomi degli autori nelle diverse intestazioni, c’è la seguente tradizione degli antichi: a partire da quel salmo nel cui titolo è posto il nome dell’ autore, bisogna attribuire a lui tutti i salmi che seguono senza alcuna indicazione di autore, fino a quel salmo in cui si fa il nome di un autore diverso. Così, se nell’intestazione di un salmo si trova salmo di Davide, quelli che seguono senza titolo si riterranno di Davide, finchè non comparirà nell’intestazione il nome di un altro autore; da questo e fino al salmo in cui si fa il nome di un altro profeta, tutti i salmi intermedi, privi di titolo, si devono attribuire a colui che nel titolo del salmo precedente si è incominciato a riportare come autore…
Non c’è dubbio che le cose dette nei salmi sono da intendersi secondo l’annuncio evangelico, in modo che, con la voce di qualunque persona lo spirito profetico abbia parlato, tutto sia riferito in ogni caso alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo – incarnazione, passione e regno- e alla gloria e potenza della nostra resurrezione. Tutte le profezie sono chiuse e sigillate per l’intelligenza e la sapienza del mondo… tutte le parole sono intessute di significati allegorici e metaforici, per mezzo dei quali si rende manifesto ogni mistero che riguarda il Figlio unigenito di Dio, presente in un corpo: la nascita, la passione, la morte, la risurrezione, il regno eterno e il giudizio che egli condividerà con quanti saranno stati glorificati insieme con lui, perché avranno creduto in Lui… Nessuno fornirà la chiave di questa comprensione, se non colui nel quale tali cose sono state profetizzate e compiute…
“E vidi nella mano destra di colui che era seduto sul trono un libro scritto all’interno e all’esterno, sigillato con sette sigilli; e vidi un altro angelo forte, che proclamava a gran voce: chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli? Nessuno, né in cielo, né in terra, né sottoterra, poté aprire il libro e leggerlo. E io piangevo perché non si era trovato nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei vegliardi mi disse: Non piangere. Ecco ha vinto il leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli” ( Ap. 5, 1-5 )…
La stessa cosa ha attestato il Signore dopo la resurrezione, dicendo: “Poiché è necessario che si compiano in me tutte le cose scritte nella legge di Mosè, nei Profeti, nei Salmi” ( Lc. 24,44 )
Da queste realtà quindi ogni libro profetico rimane chiuso e sigillato; ma se si crederà a quanto si è realizzato per mezzo di lui, saranno aperte e svelate tutte le verità ivi chiuse e sigillate…
La profezia è stata fatta con quello strumento chiamato in greco “salterio”, in ebraico “nabla”, che è il più diritto di tutti gli strumenti musicali, non ha nulla di irregolare e ricurvo, e non è mosso dal basso per emettere il suono di un accordo musicale. È invece uno strumento diritto, senza piegatura o curvatura, disposto nella forma del corpo del Signore; strumento toccato dall’alto e messo in movimento per cantare una dottrina superiore e celeste, non echeggiante di un soffio basso e terreno, come gli altri strumenti della terra…
Non bisogna ignorare che presso gli Ebrei i salmi erano in numero indistinto ed erano riportati per iscritto senza indicazione di ordine. Non erano allora contrassegnati come primo, secondo, terzo, cinquantesimo, o centesimo, ma erano mescolati senza alcuna distinzione, né di ordine né di numero. Esdra infatti, come riferiscono le tradizioni antiche, trovandoli disordinati e dispersi in una varietà di autori e di epoche li raccolse e trascrisse in un unico volume. Ma i Settanta anziani, addetti nella Sinagoga, alla custodia della Legge e alla dottrina, secondo la tradizione di Mosè, dopo aver ricevuto l’incarico dal re Tolomeo di tradurre il testo dell’intera Legge dall’ebraico in greco, penetrando i significati dei salmi con una scienza spirituale e celeste, assegnarono ad essi un ordine e un numero; servendosi dei singoli numeri perfetti a seconda della loro proprietà ed eccellenza, fissarono l’ordine di quelli perfetti e significativi…
Il motivo per cui la legge dell’Antico Testamento è divisa in ventidue libri è che tale numero corrisponde alle lettere dell’alfabeto. Secondo le tradizioni degli antichi, essi si calcolano in questo modo: Mosè comprende cinque libri, Giosuè il sesto, i Giudici e Rut il settimo, il primo e il secondo dei Regni formano il nono, i due dei Paralipomeni costituiscono il decimo, i discorsi dei giorni di Esdra l’undicesimo, il libro dei Salmi il dodicesimo; i Proverbi di Salomone, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici formano il tredicesimo, il quattordicesimo, e il quindicesimo, l’insieme dei dodici Profeti il sedicesimo; vengono poi Isaia, Geremia, unito con le Lamentazioni e la Lettera; Daniele, Ezechiele, Giobbe ed Ester completano a loro volta il numero dei ventidue. Ad alcuni è sembrato opportuno, aggiungendo Tobia e Giuditta, contare ventiquattro libri secondo il numero delle lettere dell’alfabeto greco, accogliendo anche i suggerimenti della lingua romana che sta in mezzo tra Ebrei e Greci; difatti soprattutto in queste tre lingue vengono annunciati il mistero della volontà di Dio e l’attesa del regno beato. Di qui il fatto che Pilato ordinò di scrivere in queste tre lingue che il Signore Gesù Cristo è il re dei Giudei. Sebbene molti popoli barbari siano pervenuti alla conoscenza di Dio seguendo la predicazione degli apostoli e la fede delle Chiese che oggi colà permangono, l’insegnamento del Vangelo tuttavia si fermò in modo speciale nell’Impero romano, sotto il quale sono compresi Ebrei e Greci… oltre ai salmi che sono contrassegnati dai nomi degli autori o dalle indicazioni relative a cause ed epoche, ce ne sono altri il cui titolo è “per la fine”; altri ancora che recano soltanto “salmo del cantico o cantico del salmo”. Devono pur esserci dei motivi diversi per intestazioni diverse… fine è ciò di cui tutte le altre cose sono causa; esso poi non funge da causa a nient’altro. Tutto infatti è per il fine, e al di là di esso non c’è altro. Si tende verso il fine, e con esso si arriva al termine. Così il fine è la perfezione delle cose antecedenti e, senza protendersi verso qualcos’altro, è in sé piena realizzazione di se stesso. Perciò i salmi che portano l’iscrizione “per la fine” dovranno essere intesi come originati dalla speranza e dagli insegnamenti perfetti ed assoluti dei beni eterni. Verso i loro contenuti si proietta il cammino della nostra fede, e in essi, senza possibilità di maturazione ulteriore, trova riposo come nel suo fine, quello della beatitudine desiderata e raggiunta…
Nelle arti musicali la varietà delle funzioni e dei generi è la seguente: si ha il salmo quando, cessando la voce, si ode soltanto il tocco dell’organo che suona; il cantico quando il coro dei cantori, in piena libertà e senza essere vincolato all’accordo con l’organo, esulta nell’inno della sola voce armoniosa. Si ha poi il cantico del salmo quando si ode la voce del coro che canta seguendo ed emulando l’organo che ha già iniziato a suonare , e imita i ritmi del salterio con le modulazioni della voce. Si ha invece il salmo del cantico  quando l’abilità dell’organo che suona  si mette in armonia con le voci dell’inno che già si innalza, e il salterio si accorda con pari dolcezza alle loro modulazioni che lo precedono. A questi quattro generi di arte musicale sono state adattate le intestazioni corrispondenti ai singoli salmi. Dai significati dei salmi e dalla varietà della teoria musicale emerge il motivo di ciascuna intestazione…
Questa quadruplice varietà dell’arte musicale è adattata alla diversa natura dei salmi: il salmo consiste nella menzione delle opere compiute mediante i movimenti dello strumento che è il corpo; nel cantico invece si trova la scienza dell’insegnamento tramite la conoscenza della sapienza. Si ha poi il cantico del salmo quando al merito previo delle opere è offerta la conoscenza della sapienza; si ha invece il salmo del cantico, quando, per mezzo della conoscenza già raggiunta della sapienza, si iniziano e si compiono le opere della fede. Attraverso queste proprietà delle intestazioni si dovrà ricercare l’intelligenza dei salmi, perché nei titoli propri di ciascun genere di profezia si adatta un corrispondente genere di confronto musicale. Occorrerà poi intendere che quei salmi che si trovano senza un titolo di qualche significato, come il primo, il secondo e molti altri, sono stati cantati, secondo l’insegnamento dello Spirito Santo, per la conoscenza spirituale della sapienza in generale, in modo che ciascuno potesse cercare in essi una forma di intelligenza spirituale, seguendo la sincerità della propria fede…
Occorre sapere che il “diapsalma”, interposto in moltissimi salmi, indica che sta iniziando un mutamento o di persona o di senso, sotto la forma di un mutamento del ritmo musicale. Così quando interverrà un diapsalma, bisognerà intendere che o si dice qualcosa di diverso, o è un altro a parlare, oppure si canta con un’altra modulazione musicale.
Bisogna garantire un discernimento accurato e ponderato nella esposizione di ciascun salmo, per arrivare a conoscere con quale chiave aprire la comprensione propria di ciascun salmo, per arrivare a conoscere con quale chiave aprire la comprensione propria di ciascuno di essi. Difatti l’intero libro dei Salmi è simile a una bella e grande città, con molte e svariate case, le cui porte si chiudono con chiavi appropriate e diverse tra di loro. Queste, se ammucchiate e confuse, presentano grandissima difficoltà a chi vuole aprire ciascuna casa, ignorando la chiave corrispondente. La persona esperta sceglie subito la chiave ben nota in quella massa varia e confusa; l’inesperto, invece, si affanna molto a trovare la chiave adatta e corrispondente per aprire le singole porte, perché la forma e la configurazione delle chiavi non permettono di adattare le chiavi appropriate a serrature diverse. Perciò, noi che abbiamo l’intenzione di trovare la chiave per comprendere ogni salmo secondo la misericordia del Signore, apriamo subito l’accesso a questo primo salmo con la sua chiave giusta.
 * * *

(*): V. a. su sant'Ilario in questo blog il post pubblicato il 13 gennaio dell'anno scorso