sabato 18 febbraio 2012

Saggi di esegesi sul Vangelo della Trasfigurazione


Di seguito alcuni saggi di esegesi sul testo evangelico
 capitale di oggi, 18 febbraio, 
quello della Trasfigurazione del Signore.
  In ordine, gli autori dei 
saggi che presento sono:
Silvano Fausti
X. Leon Dufour
L. Sabourin
Lino Cignelli

* * *


Silvano Fausti. Messaggio e lettura del 

vangelo della Trasfigurazione di Matteo

Messaggio nel contesto
«Ascoltate lui!», dice la voce dal cielo. Infatti «Questi è il Figlio mio, l'amato,in cui mi compiacqui!». Il Padre parla solo due volte dicendo e ribadendo la stessa cosa: proclama Gesù come Figlio una prima volta dopo il battesimo (3,17) e una seconda qui (v. 5),dopo la predizione della sua morte e risurrezione (16,21). La trasfigurazione è la conferma della via intrapresa nel battesimo, anticipo della gloria di Pasqua. Alla sua luce «il Servo» inizia il cammino verso Gerusalemme. Il racconto è carico di reminiscenze bibliche. Nel Nazoreo infatti si compie ogni profezia (2,23). La scena richiama Mosè che sale sul monte con Aronne, Nadab e Abìu, e che al settimo giorno è chiamato da Dio nella nuvola (Es 24,1.9.15s).Ancora ricorda Mosè che scende dal monte con il volto splendente (Es 39,29-35), e che promette alla fine un profeta del quale dice: «Ascoltate lui»! (Dt 18,15). Le parole della «voce» riecheggiano il Salmo 2,7, che parla dell'intronizzazione del Messia; alludono inoltre al sacrificio di Isacco («il figlio amato»: Gen 22,2.12.16) e al primo canto del Servo («in cui mi compiacqui»: Is 42,1). Proprio in quanto servo dei fratelli, il Figlio dell'uomo è il Figlio amato, la Parola stessa da ascoltare, l'irradiazione della gloria del Padre, il Messia che ci salva. Il Padre conferma così quanto Gesù ha appena detto: riconosce colui che accetta di essere riconosciuto da Pietro come il Cristo e il Figlio di Dio (16,16), colui che afferma di essere il Servo sofferente che Pietro non accetta (16,21-23), colui che chiama al suo stesso cammino (16,24) e si dichiara il giudice del mondo (16,27). Davanti a tre uomini, il Figlio dell'uomo è proclamato dal Padre come suo Figlio. È la fine del dibattito su chi è Gesù, e l'inizio del suo cammino verso Gerusalemme. Il Padre ha una sola Parola, che lo rivela pienamente: il Figlio. A noi dice di ascoltarlo, perché, ascoltando lui, diventiamo come lui, figli. La trasfigurazione è l'esperienza fondamentale della vita di Gesù: la scelta fatta nel battesimo, che ora si concreta nella prospettiva della croce, è confermata come la via alla libertà e alla gloria di Dio. È una illuminazione interiore tanto forte che «trasforma» il suo stesso corpo in sole e luce. È importante anche per i discepoli averlo visto: quando sarà risorto, potranno capire che il Risorto è lo stesso Gesù che fu crocifisso.
La trasfigurazione del Figlio rappresenta anche l'anticipo di ciò che saremo. Il seme della nostra gloria divina è gettato quando decidiamo veramente di «ascoltare» lui e di fare la sua parola: questa è la «forma» che trasforma la nostra vita a immagine della sua, fino alla sua misura piena. Il brano presenta la salita sul monte dove avviene la trasfigurazione (vv. 1-8) e la discesa dove la si interpreta come anticipo della risurrezione che passa attraverso la croce. Gesù, nella sua umanità, mostra la divinità: i discepoli vedono il suo corpo che riluce della gloria del Figlio nel quale il Padre si compiace, raggio anticipato della risurrezione. La Chiesa è rappresentata dai tre apostoli che, a viso scoperto, riflettono come in uno specchio la gloria del Signore, e vengono trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore (cf. 2Cor 3,18).

Lettura del testo
v. 1: E dopo sei giorni. È il settimo giorno, compimento della creazione che tutta geme e soffre le doglie del parto in attesa di essere liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio (Rm 8,22.21). Questa indi-cazione di tempo dice che il fine della creazione non è la sua fine: essa non è destinata alla «sfigurazione» della morte, ma alla trasfigurazione. Nel Figlio dell'uomo,il creato è destinato ad assumere la forma del Figlio di Dio. La divinizzazione è il senso della creazione, fino a quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Gesù prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni. Mosè prese con sé Aronne,Nadab e Abiu, e salì sul monte, dove Dio rivelò la sua gloria (Es 24,9ss). Questi tre discepoli, che ora sentono il Padre che chiama il Figlio, nel Getsemani sentiranno il Figlio che chiama il Padre (26,37.39). Monte degli Ulivi e Tabor si richiamano a vicenda: qui l'umanità di Gesù rivela la sua divinità, là la divinità mostrala sua umanità.
v. 2: si trasformò davanti a loro. In greco c'è «metamorfosi», che significa cambiar forma, trasformarsi. Nelle metamorfosi pagane la divinità assume corpo e sembianze umane. Qui l'umanità assume forma e splendore divino: lascia trasparire la Gloria del Figlio. Questa è la destinazione di ogni uomo nel Figlio dell'uomo.
brillò il suo volto come il sole, ecc. In Luca l'aspetto del suo volto si «alterò»:diventò altro, il volto dell'Altro (Lc 9,29). In Matteo diventa raggiante come il sole,che «de te, Altissimo, porta significatione». Per Marco 9,3 le sue vesti diventano bianche in modo sovrumano, per Le 9,29 risplendenti come folgore, per Matteo bianche come la luce. La luce è il simbolo più appropriato di Dio: principio di creazione e conoscenza, fa essere ogni cosa quello che è e la fa vedere per quello che è. Ma è anche sorgente di gioia, segno dell'amore che rende luminosi. Il Figlio brilla della luce stessa di Dio, primizia della creazione nuova: come tutto è fatto attraverso lui, in lui e per lui, così tutto partecipa della sua medesima sorte nella luce (Cf. Col 1,16.12). Noi pure siamo chiamati a vedere il Signore faccia a faccia (1Cor 13,12), e riflettere «a viso scoperto» la sua gloria, fino ad essere trasformati in lui (cf. 2Cor3,18), configurati all'icona del Figlio, il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29).Siamo chiamati a rivestirci di luce e ad essere luce: «Sorgi, sii luce, perché viene la tua luce e la gloria del Signore brilla su di te» (Is 60,1). L'amore si realizza nello scambio di ciò che si ha e si è, così che l'amato diventa la forma di chi lo ama. L'incarnazione, che porta alla croce (battesimo), rende Dio uguale a noi; la trasfigurazione, caparra della risurrezione, rende noi uguali a lui. Non solo il nostro spirito, ma anche il nostro corpo è per il Signore, destinatoalla risurrezione (1Cor 6,13s).
v. 3: Mosè ed Elia che conversavano con lui. Il mediatore della legge e il padre dei profeti conversavano con lui: anzi, parlano di lui, parola stessa di Dio. Inoltre Mosè ed Elia non gustarono la morte: l'uno fu trasportato in cielo su un carro di fuoco (2Re 2,1ss);l'altro, che parlò con Dio faccia a faccia, secondo la tradizione fu rapito da un suo bacio sulla bocca.
v. 4: è bello per noi essere qui. Pietro ha capito che è bello! Sul volto del Figlio appare la bellezza originaria nella quale Dio ha creato il mondo. Qui è bello «essere». Altrove è brutto e non possiamo stare, perché non siamo ciò che siamo. Per questo l'uomo è viator, pellegrino in cerca del Volto, davanti al quale solo sta di casa e può sostare, perché ritrova il proprio volto. Altrove si sente fuori posto,come un osso slogato.
farò tre tende. È un'allusione alla festa delle capanne, in cui si commemora il dono della Parola (cf. Lv 23,27-34; Dt 16,13).
una per te, una per Mosè e una per Elia. La legge, data tramite Mosè, è la prima tenda di Dio tra gli uomini. La parola «tenda» in greco si dice skenè, che richiama l'ebraico: shekind, che è la gloria di Dio tra gli uomini. La profezia, iniziata con Elia, è la seconda tenda di Dio tra gli uomini. La carne di Gesù è la tenda defi-nitiva di Dio in mezzo a noi (Gv 1,14). In lui vediamo la sua gloria, come di unige-nito dal Padre (ivi). Infatti «chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).
v. 5: una nube luminosa. Di Dio non conosciamo il volto, ma la Parola. Non bisogna farsi immagini né di lui né dell'uomo, perché l'unica sua immagine è l'uomo stesso che ne ascolta la Parola. Chi lo ascolta infatti diventa suo figlio, col suo medesimo volto. La nube luminosa richiama Dio stesso che guidò Israele nel deserto(Es 14,20) ed è segno della sua presenza (Es 19,16; 24,15s; 40,34s; 2Mac 2,7s; 1Re8,10-12). La manifestazione di Dio è sempre oscura per eccesso di luce accecante quasi che rivelandosi Dio si veli, e velandosi si riveli, come sulla croce. La nube inoltre è principio dì vita: la pioggia è benedizione e fecondità.
una voce dalla nube (cf. 3,17). Dio è voce: la sua Parola è nota a noi nel Verbo incarnato. Chi ascolta Gesù, trasforma il suo volto nel Volto, splendente come il sole (v. 2), «irradiazione della gloria» (Eb 1,3).
questi. È l'uomo Gesù, che Pietro ha riconosciuto come il Cristo e il Figlio di Dio, ma non ancora come il Figlio dell'uomo sofferente.
è il Figlio mio (cf. 3,17). Richiama il salmo 2,7, che parla dell'intronizzazione regale. Gesù, che va a Gerusalemme e sarà crocifisso, è il Messia, il Figlio del Dio vivente.
l'amato. Richiama il sacrificio di Isacco (Gen 22,2.12.16). Gesù è il Figlio in quanto sarà sacrificato: conoscendo l'amore del Padre, darà la vita per i fratelli.
in cui mi compiacqui (cf. 3,17). Richiama il Servo di JHWH (Is 42,1). Il Padre riconosce Gesù come Figlio, proprio perché si fa servo dei fratelli.
ascoltate lui! «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me», disse Mosè: «Ascoltate lui!» (Dt 18,15). Gesù è il nuovo Mosè, che dà la Parola definitiva. Anzi: è lui stesso la Parola fatta carne, volto del Padre rivolto ai fratelli. Chi ascolta lui diventa come lui, figlio. Cosa sia la trasfigurazione, è difficile descriverlo, anche per i discepoli che l’hanno vista. Due cose però sono chiare: il fine e il principio. Il fine è dire: «È bello per noi essere qui!». Il principio è: «Ascoltate lui». La Parola dà forma al nostro corpo. Chi ascolta Gesù, diventa come lui, l'albero bello che fa il frutto bello (7,18).:,'ascolto della sua parola è l'accoglienza del seme, che cresce in noi e ci genera secondo la sua specie (cf. 1Pt 1,23), partecipi della natura divina (cf. 2Pt 1,4). La trasfigurazione comincia quando, invece di pensare e ascoltare noi stessi,ascoltiamo lui e pensiamo a lui. È la morte dell'uomo vecchio e la nascita dell'uomo nuovo. Questo ascolto fa passare dalle opere della carne al frutto dello Spirito (cf.3al 5,19-22). Il Padre ha una sola Parola: il Figlio. Quanto lui ha detto e fatto è l'esegesi del Padre (Gv 1,18), il racconto nel tempo del suo amore eterno. La «carne» di Gesù è il compimento della legge e dei profeti (7,12); la sua storia è la manifestazione sulla terra del Dio amore, che mai nessuno ha visto (Gv 1,18). Non possiamo e non dobbiamo conoscere nulla di più di lui, il Verbo del Padre.
v. 6: i discepoli caddero sul loro volto, ecc. È l'eccesso del divino.
v. 7: risvegliatevi, e non temete. Sono le parole di Gesù ai discepoli. Colui che hanno visto nella gloria, si avvicina a loro e li «risveglia». Quanto hanno visto non è in sogno, ma ciò che li risveglia da una vita morta: è la promessa della risurrezione, come dopo capiranno (v. 9). v. 8: non videro nessuno, se non lui, Gesù, solo. Colui che si è trasfigurato, il Figlio amato da ascoltare, è il «Gesù solo», in cammino verso Gerusalemme, che invita a seguirlo. Il Padre conferma la sua scelta: è il Figlio in quanto non si vergogna di chiamarsi nostro fratello (Eb 2,11), e, reso perfetto dalle cose che patì, diventerà ancora di eterna salvezza per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,8s).
v. 9: non dite a nessuno questa visione, ecc. Prima che Gesù sia «risvegliato dai morti», i discepoli non possono parlare della trasfigurazione. La Gloria infatti resta segreta prima della croce (16,28), che a sua volta è incomprensibile prima della risurrezione.

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Xavier Leon Dufour, La Trasfigurazione

Il presente Studio è stato abbozzato in Assemblées du Seigneur, n. 28 (1963) 27-44: « La Transfiguration de Jésus ». Esso deve essere sviluppato in un articolo tecnico che comparirà in una raccolta Vita Christi.

LA LITURGIA della Quaresima, con un istinto molto sicuro, propone il mistero della trasfigurazione di Gesú alla contemplazione del fedele che avanza lentamente verso la festa dì Pasqua, vale a dire verso il mistero, apparentemente dissociato ma profondamente uni-co, della Passione e della Risurrezione. Essa traspone cosí l'insegnamento dato dal Nuovo Testamento circa l'avvenimento del passato. L'analisi risalirà alle intenzioni degli autori situando l'episodio nel suo immediato contesto, definendo lo scopo dei tre racconti, e cercando di indagare il significato di ciascuno dei loro tratti simbolici. Infine, abbozzeremo la storia che è stato fissato nei differenti ambienti vitali della Chiesa nascente

IL CONTESTO DELL'EPISODIO
L'avvenimento appartiene al secondo periodo della vita di Gesú. Nei tre Sinottici la proclamazione messianica di Pietro a Cesarea segna una svolta nel ministero di Gesù è complèta la divisione che distingue i suoi contemporanei. Da una parte, questi hanno, in maggioranza, rifiutato di riconoscere in Gesú il Messia che attendevano dall'altra, alcuni discepoli seguono Gesú con la convinzione, espressa da Pietro, che egli sia il Cristo. Incompreso dalle folle che vorrebbero vedere in lui un Messia nazionalista, Gesú è disprezzato e respinto dalle autorità della nazione; egli dunque si ritira e si dedica all'istruzione dei discepoli che ha riunito attorno a sé.
A questo piccolo gruppo fedele, pieno di buona volontà, egli rivelerà progressivamente il mistero della sua persona attraverso il destino che deve accettare. Il Messia, proclamato dal loro portavoce è anche il Figlio dell'uomo che deve salire a Gerusalemme per morirvi e risorgervi.
Nella tradizione sinottica, tale salita è indicata da tre gruppi di pericopi, ognuna delle quali raggruppa per lo meno tre episodi apparentati.
LA SEQUENZA DEGLI ANNUNCI PASSIONE-RISURREZIONE
(A) ANNUNCIO (B) REAZIONE (C) INSEGNAMENTO EPISODI DIVERSI
Ciascun gruppo (A) inizia con un annuncio del destino di Gesú (Mt 16, 21; 17, 22-23a; 20, 17-19). A tale profezia, ogni volta fa eco (B), l'incomprensione dei discepoli: cosí, in Matteo, vi è prima la reazione scandalizzata di Pietro (16, 22-23), poi la costernazione dei discepoli (17, 23b), infine l'iniziativa intempestiva di Giacomo e Giovanni (20, 20-23). 
Questo tema dell'inintelligenza dei discepoli, posti in anticipo davanti alla Croce, è un dato della comune tradizione che ciascun evangelista sottolinea alla propria maniera. Marco, per esempio, descrive il gruppo in cammino, Gesú in testa che precede i discepoli che lo seguono,10, 32); il secondo di solito attenua la durezza dei rimproveri del Mastro, Gesú insiste sul secondo annuncio: « Tenete bene a mente queste parole! » (Lc 9, 44), ed il terzo, benché introdotto da una prova scritturale, non è meglio compreso (Lc 18, 31.34). Poteva Gesú lasciare l'ultima parola ai suoi ottusi discepoli? Segue dunque un terzo episodio (C) che, ogni volta, applica ai discepoli l'annuncio della sorte riserbata al Figlio dell'uomo. Nella prima sequenza, ecco l'insegnamento sulla necessità di portare la croce sei si vuole seguire Gesú ed entrare nella gloria (Mt 16,24-28); la seconda riferisce sotto forma di metodo attivo una lezione che, a discepoli ancora preoccupati di grandezza umana, propone paradossalmente l'imitazione del fanciullo (Mt 18, 1-4). Infine, nella terza, Gesú ricorda la legge del servizio e del sacrificio per la salvezza della moltitudine (Mt 20, 24-28). Tale è la trama sulla quale la tradizione sinottica ha disegnato la salita a Gerusalemme.
Ora, in ciascuna di queste tre sequenze, che si tratti del destino esemplare del Maestro o della sorte dei discepoli, il mistero è presentato nei suoi due aspetti, oscuro e glorioso. Ogni volta, i discepoli urtano contro l'aspetto oscuro della rivelazione; i discepoli non arrivano a comprendere ciò che Gesù ha fatto e detto in loro presenza, essi rimangono chiusi al piano di Dio, urtano contro il muro della sofferenza e della morte, incapaci di accettare la necessità di oltrepassarlo per incontrare Dio: tale esigenza non turba soltanto i loro istinti di uomini attaccati alla vita, ma contraddice i sistemi di Dio, quali sono stati rivelati nella storia dal modo con cui guida il suo popolo. 
Come eliminare lo scandalo? Mostrando come superarlo: è la sola via che Gesú apre davanti ai discepoli; nello stesso momento egli proclama e l'umiliazione e la gloria che la seguirà. Ogni volta, l'annuncio della morte ignominiosa è seguita dall’annuncio della Risurrezione nel terzo giorno (Mt 16, 21; 17, 23; 20, 19).Nella prima sequenza, il dovere di rinnegare se stesso e di portare la propria croce sfocia nella prospettiva della salvezza personale (Mt 16, 24-26) e dell'ingresso nella gloria: « Poiché il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni » (Mt 16, 27). Il discepolo sarà cosí ricompensato da quel Figlio dell'uomo di cui Gesú ha appena annunciato lo sconcertante destino, ma che, nell'ultimo giorno, ristabilirà ogni cosa. Morte e risurrezione, umiliazione e gloria: Gesú non separa idue aspetti del mistero della salvezza; le sue profezie non dividono i due avvenimenti futuri, per sé come peri discepoli. Ma, prima di Pasqua e della Pentecoste, finché Gesú non avrà subito lo scandalo, vivendolo in maniera tipica, finché lo Spirito Santo non sarà dato, questo insegnamento rimarrà inefficace;__prima del giorno che lo vedrà attraversare le tenebre della morte e sorgere nella luce della Risurrezione, Gesú non può realmente eliminare lo scandali. 
Ma il Padre può far intravedere la risposta e, prima dell'avvenimento pasquale, concedere a tre discepoli privilegiati di contemplare, in un istante fuggitivo, la gloria del suo Figlio. Tale esperienza non è forse misteriosamente annunciata nel versetto che serve da transizione tra l'insegnamento sulla necessaria compassione con Gesú e l'episodio della Trasfigurazione? « In verità vi dico; vi sono alcuni tra i presenti che non gusteranno la morte prima di vedere il Figlio dell'uomo venire con il suo Regno » (Mt 16, 28; cfr. Mc 9, 1). Mediante la visione anticipata della gloria del Figlio dell'uomo, Gesù promette un assaggio della ricompensa riservata all'ultimo giorno (escatologia tradizionale). Tutti i Sinottici hanno visto in questa frase enigmatica l'annuncio immediato della Trasfigurazione; cosí pure, sulla loro scia, molti Padri della Chiesa. Anche se, originariamente, la sentenza poteva riguardare la Parusia, essa è legata al nostro episodio per alcuni elementi letterari. In particolare, gli « alcuni » possono essere i tre discepoli privilegiati; la venuta futura del Figlio dell'uomo che « sarà visto » venire dal suo Regno, si realizza già simbolicamente nella « visione » sulla montagna (Mt 17, 9), in « ciò che avevano veduto » (Mc 9,9; Lc 9, 36); la sutura cronologica « sei giorni dopo » (Mt Mc; otto giorni: Lc), rara nel racconto della vita pubblica, sembra intenzionale per sottolineare e il legame tra l'annuncio e la sua realizzazione. A motivo del contesti in cui è inserita, la Trasfigurazione ha per scopo di anticipare agli occhi dei discepoli privilegiati la gloria dell'ultimo giorno, racchiusa già in quel Gesú che vive quotidianamente con loro. Ai discepoli timorosi, Dio parla: essi possono, debbono ascoltare ed obbedire, aver fiducia e seguire Gesú sulla via che sale a Gerusalemme, verso la gloria attraverso la croce.
LO SCOPO DEL RACCONTO
I racconti sinottici sono di una tale ricchezza che, se fanno la gioia del contemplativo, spesso mettono in imbarazzo l'esegeta e lo storico. I temi biblici che affiorano hanno una significazione cosí ampia che è necessario subordinarli allo scopo dei tre racconti attuali, vale a dire, secondo l'opinione comune, alla parola divina.
Mt 17
ed ecco una voce(uscente) dalla nube,che disse: Questi è il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!
Mc 9
ed una voce si fece sentire(uscente) dalla nube: Questi è il mio Figlio diletto. Ascoltatelo!
Lc 9
E una voce si fece sentire(uscente) dalla nube,che disse:Questi è mio Figlio, l'eletto. Ascoltatelo!
Questa parola divina che viene dal cielo, rinnova la manifestazione della voce del Padre all'occasione del battesimo di Gesti (Mt 3, 17**). Ma alla proclamazione della filiazione divina di Gesú, la voce celeste aggiunge qui un ordine che si rivolge ai discepoli: «Ascoltatelo! ». Essa rivela tre aspetti di Gesti: egli è il Figlio di Dio, il Servo in cui Dio ha posto le sue compiacenze,« il » Profeta per eccellenza. Prima di ritornare, nella III parte, sugli accostamenti tra le due manifestazioni,esaminiamo brevemente il senso e la portata di questa triplice proclamazione.
Gesú è il Figlio di Dio. L'espressione « figlio diletto » (agapètos) significa « figlio unico ». Per i redattori essa indica non soltanto il Messia, l'Eletto, ma il Figlio preesistente; senza avere la precisione concettuale delle definizioni conciliari, tale titolo proviene dall'interpretazione che la comunità apostolica dà al salmo 2,7; Marco e Luca lo citano nel racconto del battesimo: « Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato » (secondo i Settanta). Quale che fosse la comprensione dei discepoli riguardo a questa parola al momento della Trasfigurazione, sembra certo che, per gli evangelisti, essa proclamava la preesistenza di Gesú. È Dio che risponde all'annuncio della Passione che Gesú ha appena dato. Al momento del Battesimo, a Gesú che si era recato da Giovanni Battista nelle vesti di peccatore, come un israelita del suo tempo, Dio aveva affermato che egli era autenticamente il suo Figlio diletto. Al momento della Trasfigurazione, ai discepoli che hanno udito Gesú attribuirsi il destino del Servo sofferente, Dio attesta che egli è realmente suo Figlio.
Gesú è il Servo di Dio. In questo Figlio diletto, Dio si compiace. Attraverso questa seconda indicazione, Matteo ricorda la teofania del Battesimo; un accostamento simile è fatto da Luca, che aggiunge un altro titolo: «l'eletto». Tutti e due mostrano che Dio presenta in Gesú il Servo annunciato da Isaia: Ecco il mio servo, Giacobbe, io mi prenderò cura di lui; Israele, il mio eletto: il mio spirito ha fatto alleanza con lui (Is 42, 1).
Nel primo canto del Servo di Jahvé, è evocata non la passione, ma la missione del Servo. Matteo ne cita, con delle varianti, i primi quattro versetti, per spiegare la maniera in cui Gesú compi il suo ministero messianico,specialmente nei confronti dei suoi avversari: « La canna già rotta non spezzerà, né il lucignolo fumigante spegnerà » (Mt 12, 18-21). Designando Gesú come «l'eletto», colui che gode di tutte le sud compiacenze, la voce celeste appone il sigillo divino sul comportamento di questo Messia « dolce , ed umile di cuore » (11, 29), alla cui scuola ci si può mettere senza timore.
Gesú è « il » Profeta. Il comando: « Ascoltatelo! » caratterizza l'episodio in confronto a quello del Battesimo.
Esso applica a Gesú l'annuncio profetico del Deuteronomio citato in Atti 3, 22: « Il Signore nostro Dio vi farà sorgere un profeta come me tra i vostri fratelli; ascoltatelo in tutto quello che vi dirà » (Dt 18, 15). In quel discorso al popolo di Gerusalemme, Pietro mostra che risuscitando Gesú, Dio ha manifestato in quest'ultimo il nuovo Mosè, il profeta atteso per la fine dei tempi (cfr. At 7, 37; Gv 6, 14; 7, 40). Tale garanzia divina, Dio la dà a Gesú al momento della Trasfigurazione per mostrare ai discepoli che egli è oggi « il » Profeta e che bisogna ascoltarlo « sotto pena di essere sterminato di tra il popolo » (cfr. At 3, 23; Lv 23, 29): da lui dipende la salvezza, quella vita eterna che egli ha promesso a chiunqueporti la propria croce al seguito di Cristo. I discepoli debbono dunque aver fiducia in questo Gesú di Nazaret che vive con loro e di cui ogni giorno ascoltano gli insegnamenti. Lo scopo del racconto riassume e fonda su una manifestazione divina il senso che abbiamo visto scaturire dal contesto. Dio stesso proclama ai tre rappresentanti dei discepoli che Gesú, il suo Figlio diletto, l'Eletto, il Servitore in cui si compiace, è il Profeta che debbono ascoltare e di cui debbono mettere in praticale parole. Occorre aprirsi alle prospettive sconcertanti dell'insegnamento che egli ha « cominciato » (Mt 16,21; Mc 8, 31); occorre impegnarsi seguendolo sulla via della gloria attraverso la croce. Questa rivelazione, dato comune della tradizione sinottica, è messa in rilievo da ciascun redattore alla sua maniera: E sentendo [la voce dalla nube]i discepoli caddero bocconi con la faccia a terra e furono presi da grande paura. E Gesú si avvicinò, e, toccandoli, disse: Alzatevi, e non temete!. E levando gli occhi,non videro nessun altro se non il solo Gesú.
Mc 9
5 E Pietro: ...Faremo tre tende
6 perché non sapeva che dire, tanto erano spaventati.
Lc 9
... venne una nube,e li avvolse nella sua ombraE subito,volgendo attorno lo sguardo, non videro piú nessuno, se non il solo Gesú con loro.
e furono presi da paura quando entrarono nella nube.
E dopo che la voce si fece sentire Gesú rimase solo.
Due elementi sono comuni alle recensioni: la paura dei discepoli, la presenza del solo Gesú quando la visione ebbe fine. Davanti a Dio che lo visita, l'uomo è preso dal timore. Questo terrore sacro è introdotto nei i racconti in modi diversi. Luca associa il timore al momento in cui la nube ricopre i discepoli. Marco sembra voler spiegare, con la sua riflessione, il carattere incongruo della frase di Pietro. Matteo esplicita il senso di tale timore: riflesso religioso dell'uomo in presenza del sacro, esso s'impadronisce dei discepoli nel momento in cui odono la voce celeste, la quale dà il suo vero significato all'avvenimento e li obbliga all'obbedienza. Ma se Dio parla, non è per annientarli a terra nella prostrazione dell'uomo che, avendo visto Dio, si sente colpito a morte (Is. 6, 5). Nel racconto della teofania al fiume Kebar, è la voce stessa di Dio che strappa Ezechiele alla posizione dell'uomo folgorato dal divino: « ...tale era la visione dell'immagine della gloria di Jahvè,vidi e caddi prostrato a terra; quindi udii una voce che parlava. Mi disse: Figlio dell'uomo, in 28-2, 1). Nel racconto di Matteo, è Gesú stesso che opera la risurrezione simbolica dei tre discepoli prostrati, come morti. Sovrano della morte, egli si avvicina li tocca ed è la sua che ordina di alzarsi. Gesto ieratico di cui Matteo ama sottolineare il valore simbolico: col semplice tocco della mano, Gesú strappa l'uomo all'impero del demonio ed alla potenza della morte, per consacrarlo al servizio del Signore. Se non bisogna temere non è perché ci si deve abituare alla Parola di Dio e considerarla alla stregua degli avvenimenti di questo mondo; essa rimane sempre folgorante per colui che la ode; ma è perché Gesú è qui, solo vicino e familiare malgrado la sua gloria. L’ intero racconto converge su questa sua presenza.

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L. Sabourin. La Trasfigurazone

Nell'inno di giubilo (Mt 11:25-27), Gesù aveva rivelato in parole qualcosa del suo mistero personale, principalmente la conoscenza diretta che egli ha del Padre, il quale gli rivela il mistero del suo proprio essere divino. Nella Trasfigurazione la gloria segreta della vita di Gesù fu visibilmente manifestata ai tre discepoli, i quali sarebbero stati più tardi i testimoni intimoriti della lotta di Gesù in preghiera nel Getsemani. La connessione tra la Trasfigurazione e la passione di Gesù appare pure da altre circostanze: quella misteriosa rivelazione si verifica subito dopo la prima profezia della passione ed ha ovviamente lo scopo di rafforzare il coraggio e la fede dei discepoli, sommersi dallo stupore e dalla paura di fronte alla prospettiva della sofferenza e della morte violenta (cfr. Mc 10:32). La Trasfigurazione avrebbe ri-chiamato la loro attenzione verso l'altra faccia del mistero, verso il lato luminoso di esso. Se la gloria della vita divina illumina così la persona di Gesù durante il suo ministero sulla terra, quale splendore avrà quando il Maestro sarà passato, attraverso la morte, alla luce della Pasqua! Numerosissime monografie di valore sono state dedicate alla Trasfigurazione. Noi abbiamo ritenuto per il nostro scopo soltanto ciò che, a nostro parere, è giovevole a capire meglio i testi del Vangelo, e più particolarmente la versione di Mt. Per facilitare l'esposizione dividiamo il commentario in sezioni, che trattano divari argomenti suggeriti dalla stessa narrazione.
Introduzione (v. 1)
Per Marco e Matteo la trasfigurazione avvenne «dopo seigiorni », che apparentemente debbono essere calcolati a partire dalla confessione di Cesarea di Filippo o dalla prima profezia dellapassione24. Luca, che, oltre a Mc, segue in questo episodio un'altra fonte, forse giovannea, colloca l'episodio esplicitamente «circa otto giorni dopo questi detti » (9:28) (A. Serra cerca nella tradizione giudaica la spiegazione della divergenza tra Mc/Mt e Lc: «L'indicazione cronologica di Matteo e Marco riesce invece comprensibile, se ammettiamo che già al loro tempo fosse conosciuta la tradizione presente nel Pseudo-Jonathan, la quale divideva in otto giorni i fatti di Esodo 19e 24, fissando al sesto la rivelazione di Jahweh a Mosè e il dono della Legge. Quest'ipotesi spiega inoltre perché Luca scriva: . Circa otto giorni dopo questi discorsi... ' in 9,28» («Le tradizioni della teofania sinaltica nel Targum dello pseudo-Jonathan Es. 19,24 e in Giov. 1,19 - 2,12 In Marianum33, 1971, p. 12).
Se Matteo parla di «un'alta montagna», seguendo apparentemente Mc, può alludere al racconto della tentazione (4:8). Infatti qualche com-mentatore pensa che Gesù ricevette alla Trasfigurazione la definitiva conferma che avrebbe compiuto la sua missione come il servo sofferente . Comunque, la visione della Trasfigurazione potrebbe rappresentare per i primi due evangelisti almeno il parziale adempimento della profezia che precede immediatamente: « In verità vi dico, che alcuni di quelli che sono qui, non morranno prima di aver veduto il Figlio dell'uomo venire nel suo regno » (Mt 16:28). Può essere che inizialmente « dopo sei giorni » avesse a che fare con il contesto dell'esodo, insieme con la presenza di Mosè ed Elia, due figure connesse al Sinai. E' infatti soltanto « dopo sei giorni » che Jahvè chiama Mosè della nuvola che avvolge la montagna (Es 24:16). E' possibile che eis to oros, « sulla montagna », di Luca, rappresenti la tradizione più primitiva, e ciò ha un significato speciale. La Trasfigurazione avviene sulla montagna della rivelazione, come era il Sinai, non sul Monte Sion, al quale secondo Isaia le nazioni sarebbero affluite nei tempi messianici (Is 2:2s). Soprattutto per Matteo (cfr. 4:12-16), è in Galilea, non in Giudea, che la proclamazione del Vangelo (5:1) e della missione universale ha luogo (28:16). Lì, il Cristo risorto manda i suoi seguaci a chia-mare tutte le nazioni dall'osservanza della sua legge arruolandosi nel discepolato (28:17-20). Tutto ciò viene, in un certo modo, anticipato sulla montagna della Trasfigurazione, dove una voce dal cielo proclama: « Questi è il mio diletto Figlio, ascoltatelo».
Secondo At 2:36, Dio fece Gesù « e Signore e Cristo» con la sua resurrezione/esaltazione, Mediante questo ed altri testi in vista, H. I Ziesenfeld ha proposto di vedere nella Trasfigurazione un'anticipazione dell'Intronizzazione messianica di Gesù. Egli trova nell'episodio gli elementi che tradizionalmente accompa-gnavano il cerimoniale dell'intronizzazione regale, o che succes-sivamente la rievocheranno in diversi contesti: la gloria, glia biti sacri, la nuvola divina, la capanna, la montagna, come pure le sofferenze rituali e le umiliazioni attraverso le quali il re, e più tardi il Messia, doveva passare per arrivare all'intronizza-zione. E' lecito domandarsi, comunque, se l'antica festa dell'in-tronizzazione, se mai esistette, sia veramente sopravissuta fino al tempo di Cristo, in maniera tale da poter essere utilizzata come scenario tradizionale nella descrizione della (futura) investitura messianica di Cristo. Oltre a ciò, è possibile spiegare in altri modigli elementi scenografici della Trasfigurazione: alcuni, come la montagna e la nube, appartengono al quadro immaginario usuale delle teofanie, mentre altri possono essere riferiti alla figurazione delle realtà celesti.
«Si trasfigurò davanti a loro... (v. 2)
Tanto Marco quanto Matteo usano il termine metamorphein per esprimere il cambiamento che caratterizzò l'apparizione di Gesù. Forse Luca ha omesso questo termine per paura che potesse essere inteso male, nel senso delle metamorfosi simboliche eseguite nei misteri ellenìstìci per esprimere la liberazione dalla servitù corporale e l'entrata nella condizione gloriosa o divina (vedi Gr. Less. 7, 491s). Nei Vangeli la Trasfigurazione di Gesù appare come l'opera di Dio - vi si trova il passivo teologico -, che preannuncia l'adempimento di profezie apocalittiche,quali la seguente: « I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre » (Dn 12:3).
Marco descrive la trasformazione in riferimento alle vesti di Gesù, mentre per gli altri due Sinottici anche il suo volto prese un'altro aspetto (Le 9:29) e divenne splendente come il sole (Mt17:2)2T. I risplendenti abiti bianchi, di cui parlano tutti e tre gli evangelisti - e Matteo aggiunge « come luce » - evocano la condizione degli esseri celesti (cfr. Apoc 1:14;4:4), vittoriosi sul male organizzato (19:11,20:11). Luca ha compendiato la Cristofania in una parola: «Videro la sua gloria a», e questo ha indotto interpreti posteriori a porre la visione della doxa di Gesù come la punta saliente del racconto. Possibilmente questo non è corretto, anche se trova una buona connessione con l'attuale contesto evangelico, dopo la profezia di Gesù secondo cui il Figlio dell'uomo verrà con i suoi angeli nella gloria del Padre suo (Mt 16:26).Infatti, i tratti del Figlio dell'uomo glorioso non mancano nel racconto della Trasfigurazione. D'altra parte, alcuni Padri della Chiesa hanno interpretato correttamente la Trasfigurazione come una prefigurazione della resurrezione di Gesù stesso, e anche della nostra, applicando ad ambedue i misteri questa di-chiarazione di S. Paolo: « La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale
attraverso la risurrezione trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere ,a sè tutte le cose» (Ph 3:20s). (Può darsi che Matteo rimandi discretamente il lettore a Mosé, il cui volto secondo la tradizione sacerdotale fu anche trasfigurato dalla gloria raggiante del Signore (Cf. ES 34:29-35 e 2 Cor 3:7-18). Tuttavia, nell'apocalittica giudaica questa specie di cambiamento era atteso col dono della salvezza escatologica: a l'aspetto del loro volto sarà trasformato in una raggiante bellezza . (Baruch sir. 51:3). Già 2 Pt 1:16-18 intende la Trasfigurazione di Gesù come. un segno prolettico della sua imminente gloria, anche se l'immediato scopo del passo in 2 Pt era insieme quello di autenticare la lettera come fosse di Pietro e mostrare che la credenza nel ritorno di Gesù in potenza e gloria poggia su avvenimenti attestati storicamente. Volto splendente, bianche vesti lucenti, nube luminosa, timore dei testimoni, sono caratteristiche comuni di scene che circondano il Figlio dell'uomo apocalittico o lo stato degli uomini che diventano celestiali attraverso la risurrezione).
Mosè ed Elia (v. 3)
La trasformazione di Gesù è connessa organicamente con l'apparizione di Mosè ed Elia, in quanto egli è così promosso fisicamente ad un grado di trascendenza appropriato per poter con-versare con la scorta celeste. Abbiamo già notato che la presenza di queste due figure bibliche è da riferire evidentemente alla loro speciale connessione con il Sinai (per Elia vedi 1 Re 19). E' probabile che, almeno per quanto riguarda Mt, esse rappresentino la legge e i profeti (5:17;11:13), o più precisamente la rivelazione dell'A.T., mentre Gesù stesso è il Figlio di Dio per mezzo del quale d'ora in poi viene tutta la rivelazione (cfr. Ebr 1:2). Mosè è lì per un'altra ragione ancora: egli aveva annunziato l'avvento del profeta escatologico che avrebbe rivelato la volontà di Dio al popolo messianico (Dt 18:15). Inoltre, nella tradizione giudaica era atteso il ritorno di Ella, che non era morto (cfr. Mal 4:4s, dove anche Mosè è menzionato) ; egli sarebbe venuto, si diceva, come precursore del Messia. Questa speranza appariva a molti realizzata nella persona e nel ministero di Giovanni Battista (vedi su Mt3:4), una idea che venne attribuita anche a Gesù, come vedremonella prossima pericopa (17:13). Si racconta che R. Jochanan ben Zacchai abbia detto: «Dio disse a Mosè: quando invierò Elia il profeta, voi due verrete insieme» (Dt rabba 3, 201c). Secondo Mc/Mt la figura di Giovanni Battista sarà evocata nel dialogo di Gesù con i discepoli dopo la Trasfigurazione. Luca non ne parla, ma nota che Mosè ed Elia parlavano dell'exodos di Gesù, « del suo transito che doveva compiere a Gerusalemme» (9:31) (Il Secondo Pesi&ta Rabbati 35,4, «tre giorni dopo la venuta del Messia, Elia verrà e si fermerà sulle montagne di Israele, piangerà e si lamenterà su di esse». I due testimoni di Ap 11 probabilmente rappresentano Pietro e Paolo, ma anch'essi richiamano il ministero di Elia e Mosé, e la loro rappresentazione simbolica della Legge e dei Profeti. In At 13:24 Luca descrive come un esodos l'entrata di Gesù in questomondo (Cf. Ebr 10:5).
Mentre per Marco questo episodio deve rimanere misterioso fino a dopo la risurrezione, in esso appare come una chiara prefigurazione dell'uscita di Gesù da questo mondo, attraverso la morte, la resurrezione e l'ascensione. Esso costituisce una drammatica rappresentazione di quello che sarà il commento posteriore: «Non doveva il Messia tali cose patire e così entrare alla sua gloria?» (Le 24:26).
Le tre tende e la nuvola (vv. 4-5a)
Tende (capanne) e nuvola in un contesto biblico ovviamente rievocano primariamente realtà dell'esodo. E' difficile sapere che cosa storicamente Pietro disse in quell'occasione, dato che la tradizione evangelica ha ritenuto ciò che era teologicamente importante per l'interpretazione dell'episodio. Così, per Me la proposta di Pietro di costruire tre tende fu fatta alquanto stupidamente mentre, sconvolto dalla paura, non sapeva che cosa stava dicendo. Comunque, queste tende hanno un significato; esse evocano Es33:7-11, dove si parla della tenda del convegno: là Dio conversava con Mosè, mentre la colonna di nube restava all'ingresso della tenda. Anche esseri celesti, come la sapienza personificata, abitano in tende (cfr. Sir 24:4-8), e il Verbo nella sua incarnazione ha piantato le tende tra gli uomini (Gv 1:14; eskénsen), adempiendo l'attesa secondo cui Dio avrebbe in futuro preso dimora tra gli uomini (cfr. Sal 85:10; 2 Cor 6:16). Più generalmente skénai aidniai, « tende eterne », sembra designare le dimore dei santi (cfr. Le 16:9). (Secondo Crisostomo Pietro voleva stabilirsi nella sicurezza di questa felicità temporanea ed anche impedire così il discendere a Gerusalemme verso la croce (Hom. in Mt, PG 58, c. 552). Per H. Riesenfeld, • è bene per noi stare qui • di Pietro esprime l'anapausis escatologica (Cf. Ebr 3-4), che era prefigurata nella Festa delle Capanne).
La nuvola menzionata nel racconto della Trasfigurazione non è quella che trasporta esseri celesti, come il Figlio dell'uomo (Dn7:13), ma la nuvola della presenza divina, o della tenda nel deserto (Es 40:33), o del tempio (1 Re 8:10-12)14. Questo simbolo del luogo dove Dio abita divenne nel giudaismo un appellativo, la shekinuh, un nome che indica la presenza divina, e perfino Dio stesso. Così, un'operazione divina, quale l'incarnazione,ha potuto essere descritta come « adombramento» (episkiazein), alla maniera di una nube che fa ombra. Solo Luca dice esplicitamente che i discepoli « entrarono nella nube » (9:34), mentre questo viene soltanto supposto nella altre versioni del racconto. Ciò può simbolicamente far pensare che, nel riunire una comunità attorno a Gesù, è la congregazione escatologica del popolo di Dio che sta formandosi, come era stato profetizzato da alcuni testi. n base al secondo libro dei Maccabei, Dio riunirà «la totalità del suo popolo... e si rivelerà la gloria del Signore nella nube, come appariva nel tempo di Mosè » (2:7s). (La Festa delle Capanne = è chiamata in aramaico • Festa dimetalayya. (• Festa di rifugi). La versione aramaica della sezione biblica in cui è istituita la Festa delle Capanne (Cf. Targ. Lev 23:34) mostra quanto strettamente sono associate le idee della capanna del giubilo e la divina presenza nella nube (vedi D. Daube, The New Testament and RabbinicJudaism, London 1956, p. 30).
La Voce dal Cielo (5b-8)
La punta saliente e la componente più significativa del racconto sono da ricercare nella voce dal cielo, in cui Dio proclama che Gesù, suo Figlio amato, il Servo nel quale si diletta (cfr. n.25), è il profeta escatologico che deve essere ascoltato e obbedito,anche quando insegna la dottrina della croce. Secondo Matteo, già al momento del battesimo di Gesù la dichiarazione della voce celeste era stata una proclamazione rivolta in terza persona non tanto a Gesù quanto a coloro che erano testimoni dell'avvenimento. L'aggiunta della parola « ascoltatelo » nella Trasfigurazione indica che Gesù non è soltanto il Figlio di Dio e il Servo ma anche il profeta escatologico, il cui avvento era stato annunciato. Il riferimento al Servo in ambedue i casi (vedi su 3:16) è fatto attraverso l'uso delle parole « in cui io mi compiaccio », citate da Is 42:1. Perciò la figura evocata non è precisamente il Servo sofferente (Is 53), ma più generalmente il Servo come modello nel compimento della missione di Dio (cfr. Mt 12:18-21). E' soltanto più tardi, in prossimità della passione,. che Matteo riferirà le parole con le quali Gesù interpreta la sua morte come offerta per molti, nei termini del Servo (20:28; 26:28). E' il suono della voce dal cielo che, per Matteo, fece sì che i discepoli si prostrassero per la paura. E Gesù li toccò dicendo: « Levatevi, e non temete». Questi tratti del racconto seguono uno schema apocalittico simile, per esempio, a ciò che troviamo in Dn10: mentre contemplava la sua visione - un uomo il cui volto brillava come un lampo -, Daniele udì la sua voce e cadde a terra privo di sensi. Poi una mano lo toccò e una voce disse: « Non temere». Non è possibile determinare quale ruolo tale modello letterario abbia avuto nella formazione del racconto della Trasfigurazione che è giunto a noi, ma questo non è un motivo per negare che si tratti di un avvenimento storico
Matteo accentua il fatto che quando essi si alzarono e si guardarono intorno, i discepoli non videro nessun altro che Gesù. Non hanno bisogno di nessun altro, hanno con loro il portatore della rivelazione di Dio, il. Figlio di Dio incarnato. Per compiere la volontà di Dio devono ascoltarlo e conformare la loro vita alla sua, seguendolo nel discepolato sulla via della croce.

Leopold Sabourin, Il Vangelo di Matteo, Marino, 1977, pp. 792-800

* * * 

Lino Cignelli. La Trasfigurazione di Gesù

Questa volta la meta del nostro pellegrinaggio spirituale è il Monte Tabor. Siamo chiamati a rivivervi un Mistero glorioso di cui si ha sempre bisogno. Da esso ci viene la forza necessaria per camminare, "dietro" a Gesù, sulla via della croce che porta alla gloria finale della Risurrezione (Mt 16, 21 ss).

1. Generalità.

Il Monte Tabor è una grandezza biblica. Viene ricordato più volte nell'Antico Testamento (cf. Gdc 4,6.12.14; 1Sam 10,3), dove compare come monte sacro e luogo di culto (Dt 33,18s; Os 5,1). Un salmista canta: Il Tabor e l'Ermon nel tuo nome esulteranno" (Sal 88,13 sec. Lxx). Una profezia della futura Trasfigurazione del Signore? Ad ogni modo è questo Mistero cristologico che ha reso famoso il Tabor.

Nel nuovo testamento il monte Tabor non è mai ricordato espressamente; però un'antica tradizione, attestata fra gli altri da S. Cirillo di Gerusalemme (Cat 12,16) e da S. Girolamo (Ep. 46,13), lo indica come il luogo del mistero della Trasfigurazione. Un'altra tradizione lo identifica col "monte" della Galilea su cui il Maestro parlò agli Apostoli dopo la risurrezione (Mt 28,7.16). Nel sec. IV‑V S. Giro]amo, residente in Palestina, pensava che il Tabor fosse anche il "monte" dove Gesù ha pronunciato il suo discorso inaugurale, detto appunto "Discorso della montagna" (Mt 5,1ss); ma questa opinione è rimasta senza seguito.

All'inizio del sec. XII un devoto pellegrino russo, Egumeno Daniil (=Daniele), scriveva: "Il monte Tabor è stato

plasmato da Dio in modo meraviglioso e straordinario, (è) di una bellezza indescrivibile, è stato disposto in modo

splendido ed è molto alto e grande..." (Itinerario in T. S., Città Nuova1991, 149). La descrizione risente,

evidentemente, dell'esperienza mistica che il devoto pellegrino ha avuto visitando "quel santo monte" (ivi, 
150).A sua volta il Beato Frédéric Janssoone ofm, pellegrino e guida esemplare del secolo scorso, sentiva il Tabor come luogo di "ritiro" e di contemplazione per le anime che hanno fame e sete del mondo divino (Pages choisies.... par R. Légaré, Québec 1972, 75). Nello stesso senso si era già espresso un omileta greco anteriore al sec. XI.

Tra queste anime che anelano a Dio vogliamo esserci anche noi. Faremo un pellegrinaggio spirituale al Tabor, "sul monte santo" (2Pt 1,18), allo scopo di capire e accogliere meglio il Mistero glorioso che vi è perennemente attuale. Anch'esso "è stato scritto per nostra istruzione" (Rm 15,4). Ce lo ricorda S. Girolamo: "Ogni cosa fatta da Gesù è mistero, è nostra salvezza" (In Mare. 11, 1 ‑ 10). Uniamoci dunque ai primi spettatori della Trasfigurazione e affidiamoci alla guida di S. Matteo(17,1‑9) e, tramite lui, dello "Spirito di verità" che, solo, può rivelarci la persona e l'opera divina del Cristo.

Sul Tabor fu eretta per tempo una chiesa‑basilica a ricordo del mistero della Trasfigurazione. Così ce ne parla, nel sec.

X, Eutichio d'Alessandria: "La chiesa del monte Tabor sta a renderetestimonianza che Cristo salì su quel monte assieme a tre dei suoi discepoli, figli di Zebedeo, e che fu trasfigurato davanti a loro nella luce della sua divinità, sì che il suo volto divenne come il sole e le sue vesti candide come la luce...» (Libro della Dimostrazione, n. 323; tr. B. Pirone, SOC 
Collectanea 23, 1990, 33s).Entriamo in questa chiesa‑santuario, col Vangelo alla mano, per rivivere nella nostra "carne" il Mistero di gloria che vi è racchiuso e che ci attende tutti. La pagina evangelica relativa è come la voce del Luogo Santo, il suo messaggio vivificante (Gv 6,63). La vogliamo rileggere insieme. La lettura del Vangelo ‑ lo sappiamo ‑ ci fa contemporanei presenti ai Misteri o atti salvifici del Dio‑Uomo: la fede ce ne fa ‑ deve farcene ‑ partecipiCon la fede, atto supremo della nostra libertà, si accoglie e si vive il Mistero, si passa dalla teoria alla pratica, dalla conoscenza astratta alla conoscenza concreta e nutriente dell'evento di grazia che c'interpella.

Eccoci dunque anche noi sul Tabor davanti al Cristo trasfigurato, cioè totalmente bello e beato nella sua umanità personale. Lasciamoci coinvolgere nel Mistero. Questa l'intenzione ultima dell'evangelista stesso e, soprattutto, dello Spirito Santo che ci parla tramite lui. I Santi Padri ce lo ricordano con forza. Per es., Macario il Persiano (sec. IV) si rivolge al singolo fedele in questi termini: "Se Lo cerchi sul monte, ve lo trovi con Elia e Mosè" (Hom. 12,12). S. Girolamo, scrivendo ad amici romani, così li coinvolge nell'evento: «Saliremo sul Tabor, e sotto la tenda del Salvatorenoi lo contempleremo in compagnia del Padre e dello Spirito Santo..." (EP 46,13).

Diamo prima il contesto e poi una lettura e commento del Vangelo della Trasfigurazione secondo Matteo.
Lino Cignelli, ofm)

2. Contesto della Trasfigurazione

L'episodio è legato con quanto precede e ne è lo sviluppo logico. Lo notava già S. Leone Magno (sec. V): "Con l'illuminazione della grazia divina raggiungeremo più facilmente tale comprensione ‑ del "grande Mistero" ‑, se facciamo attenzione al contesto evangelico che precede immediatamente" (Tr. 51,1). Per papa Leone il contesto in questione incomincia dalla confessione di Pietro (Mt 16,13ss). La Trasfigurazione fa quindi luce tanto sulla persona quanto sull'opera di Colui che è "il Cristo, il Figlio del Dio vivente".

Il Mistero del Tabor si compie "sei giorni dopo" (Mt 17, 1) la grande svolta nella vita pubblica di Gesù, svolta determinata dall'annuncio della Passione e dalla proposta della croce da parte del Maestro "ai suoi discepoli" (Mt 16,21 ss). Precisiamo i passi di questa svolta che segna "il culmine del ministero pubblico di Gesù" (Giovanni Paolo II, Omelia 11‑3‑1990, n. 2).

In Mt 16,21 il Maestro fa il primo annuncio del Mistero pasquale (passione ‑ morte ‑ risurrezione), sottolineando la fase negativa (molte sofferenze e uccisione da parte dei capi religiosi del popolo). La profezia suscita un'audace e... goffa reazione nel capo degli Apostoli (Mt 16,22). "La protesta di Pietro: 'Questo non ti accadrà mai" (Mt 16,22) ‑annota Giovanni Paolo Il ‑ si ripete anche oggi da parte di chi vorrebbe che la sofferenza non fosse presente nel destino umano".

Gesù respinge energicamente il tentativo del suo vice di distoglierlo dalla via tracciatagli da Dio Padre (Mt 16,23) e, per giunta, inculca ai discepoli il dovere sacrosanto di seguirlo sulla stessa via: la croce salva se è condivisa (Mt 16,24ss). Il discepolato cristiano si gioca precisamente su "la parola della croce": o la croce o la "perdizione"! (1Cor 1,18; Fil 3,18s; cf. Mt 10,38s; Lc 14,27). Ma dal contesto risulta che i discepoli, con Pietro a capo,

non si sono lasciati convincere dal Maestro. A questo punto e in questa situazione si verifica l'evento della Trasfigurazione, con l'intervento decisivo di Dio Padre.
Lino Cignelli, ofm)

3. Lettura e commento di Mt 17,1-9

Dal contesto passiamo al testo. Per forza di cose ci limitiamo ai dati principali, aderendo per quanto possibile alla lettera.

17, 1. "Sei giorni dopo (il primo annuncio della Passione) Gesù prese(lett. prende) con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse (lett. conduce) in disparte su un alto monte". Il presente storico ("prende", "conduce") serve all'attualizzazione, cioè a suscitare negli ascoltatori interesse e partecipazione all'evento salvifico che viene proclamato. 

"Pietro, Giacomo e Giovanni": sono gli Apostoli prediletti, quelli a cui "Jesù... fè più carezza", al dire di Dante (Par 25,33). Il Signore dona e si dona "a ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,15).

"in disparte": il Mistero si compie in un luogo solitario, in un ambiente di ritiro e di preghiera, come specifica S. Luca (9,28s). La teofania, la rivelazione divina, è atto d'amore e, come tale, esige raccoglimento e intimità amicale: non ci si ama e dona in vetrina, sotto gli occhi di tutti... Origene precisa che, oggi come ieri, la visione di Gesù "nella forma o natura divina" è riservata "ai figli della luce" (In Math. com. 2,64; cf. 6,77).

"su un alto monte": secondo la tradizione è il Tabor, come si è detto all'inizio (v. M.T. Petrozzi, Il M. Tabor e dintorni, Jerusalem 1976, 73ss). Nella Bibbia, il monte "è il luogo classico dell'autorivelazione divina e della preghiera (Lc 6,12; Mt 14,23)", annota J. Ernest (Il Vangelo sec. Luca 1,Morcellania 1985, 416).

17,2. "E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce". S. Luca aggiunge un particolare importante: "mentre pregava" (9,29). La preghiera è trasfigurante, fonte di bellezza e di gioia divina (Es 34,29). Suor Amata racconta di S. Chiara d'Assisi che "quando essa tornava da la orazione, la faccia sua pareva più bianca e più bella che 'l sole" (FF, n. 3002).

"Fu trasfigurato": è un passivo teologico, il completamento d'agente sottinteso è "da Dio (Padre)". E' lui il protagonista, invisibile ma presentissimo, di questo evento salvifico come degli altri eventi della vita terrena del Figlio fatto uomo (2Pt 1,17; Gv 8,29; 12,28). La Trasfigurazione è una prima, provvisoria, risposta del Padre buono alla fedeltà del Figlio diletto che predica e pratica per primo "La parola della croce" (1Cor 1,18). L'uomo Gesù diventa, per qualche istante, come sarà un giorno, e per sempre, dopo la Risurrezione: "il più bello tra i figli dell'uomo" (Sal 45,3), "riconoscibile fra mille e mille" e "tutto delizie" (Ct5,10.16), l'icona perfetta dell'umanità redenta, ossia liberata e promossa al divino.

Anticipo della Risurrezione in un momento critico, la Trasfigurazione ci rivela insieme la misericordia e il senso pedagogico del Fratello maggiore e, in definitiva, del Padre celeste: dietro il Figlio c'è sempre il Padre (Gv 14,9ss). Loro sanno che noi uomini abbiamo bisogno di sentire e vedere qualcosa per poterci innamorare e impegnare, e così ci regalano quest'ora di paradiso, ci fanno gustare qualche preludio di cielo, in modo che possiamo dire con S. Paolo: "... le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà rivelarsi in noi" (Rm 8,18), e col Poverello d'Assisi: "Tanto è quel bene ch'io aspetto / che ogni pena m'è diletto!".

17,3. "Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia che conversavano con lui". S. Luca specifica l'oggetto della conversazione: "La sua dipartita (lett. il suo esodo) che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme" (9,31), cioè il Mistero pasquale di Gesù. "Mosè" simboleggia la Legge (Toràh), ed "Elia" i Profeti dell'antico testamento, spiegano i Padri della Chiesa. "La Legge e i Profeti ‑ che Gesù è venuto a completare (Mt 5,17) ‑ annunciano la Passione di Cristo", commenta S. Girolamo (In Marc. 9,4), e così S. Cirillo di Gerusalemme (Cat. 12,16) e tanti altri.

Effettivamente l'Antico Testamento preannuncia il Messia prima sofferentepoi glorioso (Is 52s; Sal 22), e si trova così in pieno accordo con la predicazione di Gesù. Non si può quindi rifiutare l'insegnamento del Cristo in nome dell'Antico Testamento. Il Mistero pasquale di Passione e Risurrezione predicato da Gesù non solo non è contro l'Antico Testamento, ma ne costituisce il messaggio essenziale (Lc 24,26s; 1Cor15,3s).

17,4. "Pietro allora prese la parola e disse a Gesù: Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia". S. Luca aggiunge finemente: "Egli non sapeva quel che diceva" (9,33; cf. Me 9,6), E' la verità. Altrettanto succede a noi: davanti alla sublimità di Gesù non siamo che dei nani e dei Gervasi...

Il Maestro sa dare alle cose l'importanza che hanno e perciò lascia cadere la proposta di Pietro. S. Agostino rileva che l'apostolo "voleva stare bene..." e non aveva ancora la "carità" pastorale (Serm. 78,3s).


17,5. "Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolge con la sua ombra". La "nuvola luminosa" è segno della presenza divina (Shekinàh) e della sua gloria (Es 24,15ss, 34,5). S. Ambrogio vede in questa "nuvola" un simbolo dello Spirito Santo (In Luc. exp. 7,19), e così Giovanni Paolo II (Omelia 11‑3‑1990, n. 2). In base a questa esegèsi, la teofania del Tabor risulta essere un evento trinitario (cf. Mt 3,16s).

‑ "Ed ecco una voce che diceva dalla nuvola: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!". Siamo nel cuore del Mistero. Questo intervento di Dio Padre segna il vertice della teofania del Tabor e dell'intero Vangelo di Matteo. il protagonista supremo della Storia della salvezza, il "Padre e Signore del cielo e della terra" come lo chiama il Figlio stesso (Mt 11,25), rompe di nuovo il silenzio e si fa sentire con forza. Sul Tabor Dio Padre "non solo conferma l'attestazione del Giordano: ‑ Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto(Mt 3,17), ma aggiunge perentoriamente: Ascoltatelo! (Mt 17,5). Sempre. Anche quando parla della Croce"

La voce del Padre è veramente il fatto centrale del Mistero che stiamo rivivendo. Come si è ricordato, la Trasfigurazione avviene in un Momento critico: i discepoli di Gesù, con Pietro a capo, reagiscono all'annuncio della Passione redentrice, cioè al vero messianismo predicato e attuato dal Figlio diletto. Vorrebbero la Risurrezione, il trionfo e la gloria, senza la sofferenza e la morte violenta, più o meno come quei "nemici della croce di Cristo" contro cui insorgerà S. Paolo minacciando loro "La perdizione" eterna (Fil 3,18s). Interviene allora Dio Padre, la suprema autorità, a rompere ogni resistenza. La sua "voce" è chiara, precisa, potente come un "tuono" (Gv 12,28s; Es 19,19), e non ammette repliche: il messaggio e l'esempio del Figlio diletto vanno accettati in pieno, senza storie e senza smorfie, come spiega S. Agostino (In lo. tr. 34,8s). Un messianismo buontempone,

festaiolo, senza virtù e doveri è un assurdo, anzi è satanismo (Mt 16,23). Dio Padre e il Figlio diletto non ci salvano a modo nostro, ma a modo loro,unicamente a 
modo loro...Questa "voce" ammonitrice è sempre attuale. Il Padre ce la fa sentire ogni volta che rifiutiamo l'esempio e la parola del Figlio diletto per accodarci a maestri abusivi che vendono un vangelo più o meno "scontato" e accomodato alle pretese della "carne" o uomo vecchio (Gal 5, 19ss). Lui ci vuole e ci mette alla scuola del Fratello maggiore, nostro Maestro e modello unico (Mt 23,8‑10); ci vuole "conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29). E per noi accettare tanto Maestro e modello è dovere e soprattutto interesse,osserva acutamente S. Leone Magno (Tr. 51,6s). Chi infatti non ha quest'unico Maestro, ne avrà parecchi, e tutti più o meno interessati e oppressori, "ladri e briganti" (Gv 10,8). La storia, remota e recente, parla chiaro.

17,6. "All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore". La teofania dà le vertigini, ricorda Origene citando Esodo 33,20 (In Math. 12,43), come pure S. Cirillo di Gerusalemme(Cat. 10,7) e S. Cromazio di Aquileia (In Math. tr. 54A,8).

17,7. 'Ma Gesù si avvicinò e, toccandoli, disse: Alzatevi e non temete". Davanti alla prostrazione e allo spavento dei discepoli Gesù si comporta da fratello buono e delicato (cf. Es 20,20). Lo rileva bene S. Girolamo: "Siccome quelli stavano a terra e non potevano alzarsi, Lui dolcemente siavvicina e li tocca. Così, toccandoli, li libera dalla paura e ridà vigore alle membra debilitate..." (In Math. 17,7). Quello di Gesù è un tocco consolatore e guaritore (cf. In Marc. 1,30s; 8,22‑25).

17,8. "Sollevando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo". La teofania è bell'e finita. Il Maestro è tornato normale, non è più trasfigurato e sfavillante, ma è sempre Lui, "L'incomparabile" al dire di S. Ambrogio (De virg. 1,66), colui con il quale si ha "tutto" (Col 2,3; 3,11). S. Girolamo lo chiama appunto "il nostro tutto" (Ep. 66,8) e ne esalta il fascino e l'importanza assoluta, unica.

17,9. "E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: Non parlate a nessuno di questa visione finché il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti". La Trasfigurazione è in rapporto con la futura Risurrezione, ne è un saggio. Gesù, umile e realista, proibisce ai tre discepoli di far conoscere, prima del tempo, la visione goduta sul Tabor. Essi "credettero prestando ascolto ed ubbidendo a Cristo ", commenta Eutichio (o.c., n. 323). Ormai non rifiutano più "La parola della croce" (1Cor 1,18), anche se, fino alla Pentecoste, non riescono a portarla alla perfezione, come rileva S. Bernardo.

Lino Cignelli ofm dello S.B.F


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TERMINI NOTEVOLI


La Voce

La voce del Signore, che echeggia nel giardino di Eden, provoca lo spavento di Adamo e della sua compagna. Impauriti dalla propria nudità, essi si affrettano a nascondersi tra gli alberi: Udirono poi la voce del Signore Iddio che passeggiava. nel giardino alla brezza del giorno; allora l'uomo e la sua donna si nascosero dalla vista del Signore Iddio (Gen. 3.8). Il versetto è stato, per la tradizio-ne giudaica, una vera croce interpretativa, giacché la voce sembra qui avere una sua natura indipendente, astratta da qualsiasi parola. Sarà solo nel passo successivo, infatti, che la Scrittura menzio-nerà il discorso divino: Ma il Signore Iddio chiamò l'uomo: Dove sei? (Gen. 3.9). Se il Signore doveva ancora rivolgersi ad Adamo, cos'era dunque la voce che risuonava nel giardino? Per rimediare a questo paradosso, gli esegeti ebrei individuarono nella voce il soggetto della frase, immaginando che fosse il suo suono, quasi una forma ipostatica della divinità, a «camminare» nell'Eden. Tale interpretazione - fondata sull'uso traslato del verbo hlk, «camminare», che, nella Bibbia, viene impiegato anche per indicare il diffondersi di un rumore - non risolve tuttavia completamente. l'interrogativo del testo. Nel suono che si avverte prima ancora che Iddio abbia parlato è infatti adombrata la forte sinestesia che caratterizza la nozione ebraica di qol. Il termine, che designa non solo un suono articolato ma anche un rumore indistinto (come quello che si leva da una folla), pare definire una qualità intrinseca della persona o della cosa a cui viene riferito.
Con gol l'ebraico denomina cioè l'onda emotiva che emana da un'entità e che l'osservatore può cogliere con uno sguardo, ancor prima di percepire un suonoLa voce è infatti intesa, nella Scrittura, anche come qualità visibile, quasi che il suo echeggiare faccia sorgere, anziché una reazione uditiva, uno stimolo visivo. La contaminazione tra visione e suono è uno dei tratti decisivi dell'intero simbolismo giudaico e costituisce uno dei fondamenti espressivi dell'aniconismo. Nella tradizione ebraica vige infatti il divieto di raffigurare la divinità e di costringerne la natura incommensurabile entro le linee materiali di un'immagine. Questo diniego, che il giudaismo rabbinico ha difeso con particolare impegno, lascia in realtà spazio a una sorta di compensazione sensoriale, in cui la carica espressiva che altre culture religiose affidano alle figure viene trasferita all'astratta forza evocatrice dei suoni. Ciò accade in virtú della possibilità simbolica dì mutare le percezioni visive in sonore e viceversa, mantenendo aperto, tra i due ambiti sensoriali, un continuo scambio espressivo. La cultura ebraica è cioè consapevole non solo di come sia possibile «vedere» una voce ma anche del fatto che si possa restituire la complessità di un oggetto attraverso la sua qualificazione sonora, non in quanto puro sostituto verbale bensí come frutto di una piú profonda percezione. E significativo che la seconda menzione scritturale del termine qol, che segue di non molti versetti quella della voce divina nel giardino, si riferisca a un oggetto di per sé muto: Che hai fatto? - chiede il Signore a Caino - La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra (Gen. 4. ro). In questo passo è evidentemente l'immagine indelebile del sangue a gridare verso l'alto, ed è il suo qol, la voce emotiva, a giungere ben distinto sino a Dio. Nei racconti biblici la manifestazione di Dio è d'altra parte talora accompagnata dall'apparizione della voce, che è «veduta» dal popolo. Cosí accade quando viene enunciato il decalogo, nel ventesimo capitolo dell'Esodo: Ora tutto il popolo vedeva le voci, il suono della tromba e il monte fumante: il popolo vide, tremò e se ne stette a distanza (Es. 2o. r8). Nel passo prevale lo scambio semantico tra visione e suono, giacché due dei tre attributi teofanici hanno sostanza puramente sonora e non possono essere veduti che interiormente: l'effetto espressivo che ne risulta accentua l'emozione per il manifestarsi del nume. Il testo piú importante per la ricostruzione dell'antico simbolismo della voce di Dio è senza dubbio il salmo 29, nel quale il sintagma la voce del Signore (qol Yhwh) ricorre per ben sette volte"': la voce del Signore sopra le acque ... la voce del Signore è potenza, la voce del Signore è maestà, la voce del Signore schianta i cedri ... la voce, del Signore sprizza lingue di fuoco. La voce del Signore fa turbinare il deserto ... la voce del Signore scuote le querce e sfronda le selve(Sal. 29.3-9). La possibilità di vedere il suono è qui espressa dal rimbombo, che si accompagna al moto delle acque, dal fulmine,anticipato dal tuono, e dai vortici del vento: qol rappresenta allora quell'unione di qualità visibili e sonore che meglio d'ogni altra caratteristica allude al divino; la voce dei portenti fisici con la quale. Dio si manifesta è un suono inarticolato che viene prima della parola e che, rispetto a questa, conserva un'energia piú ricca e profonda. In questo salmo, la voce è dunque l'anima segreta di ogni moto e le sette voci si susseguono con gli accenti di un'arcaica sapienza innodica, grazie alla quale il suono divino circonda l'orante da ogni parte. Il numero sette - che evidenzia l'integrità dì un ciclo - simboleggia poi la completezza dell'inventario delle voci visibili della natura, la cui concezione deriva probabilmente dalle rappresentazioni teofaniche diffuse nella letteratura delle antiche culture vicino-orientali. Il motivo delle sette voci fragorose (hepta brontai) è ripreso già in Apoc. 10.3-4: E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero sentire le loro voci. E quando ebbero parlato i sette tuoni, io stavo per scrivere, ma udii una voce dal cielo. Un parallelo significativo al testo biblico si ritrova per esempio in una formula divinatoria accadica, nella quale è descritto l'apparire, a un tempo visivo e sonoro, di Adad, il dio mesopotamico della tempesta: «Il fulmine balena da sud e nord verso est e ovest, il fulmine balena sette volte. Adad tuona una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte». Le manifestazioni della divinità attraverso le voci della natura, corredo degli inni religiosi pagani, vennero pertanto ammesse nella poesia biblica, che le riferí al Dio d'Israele, e furono accolte dall'ebraismo per la loro qualità astratta e per la capacità di evocare, senza alcuna figurazione, la forza trascendente del numinoso. La tradizione post biblica rimase fedele a questa nozione della preminenza del suono indistinto delle origini, che si sarebbe in seguito stemperato sino a trasformarsi nel discorso articolato degli uomini. In un passo del midras Genesi rabbah, Abba bar Kahana,un maestro vissuto alla fine del in secolo, racconta una parabola sulle acque primordiali: «All'inizio della creazione del mondo -egli narra - la lode dell'Onnipotente saliva dalle acque ... Il Santo, sia Egli benedetto, disse: Se queste, che non hanno bocca né facoltà di parola, mi lodano, quanto piú sarò lodato una volta che verrà creato l'uomo ... ma la generazione del diluvio si levò, ribellandosi contro di lui ... Il Santo, sia Egli benedetto, disse allora: Siano questi cancellati e al loro posto ripristinate le acque, come è detto: E la pioggia cadde sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti (Gen. 7.12)». Nel prosieguo del racconto, la lode espressa dal rumore dell'abisso è paragonata a un encomio di cor-tigiani sordi che celebrano il loro re a gesti, mentre la ribellione dell'uomo viene assimilata a sapienti oratori i quali, anziché lodare il loro Signore, ne vogliono usurpare il merito. Per il maestro della haggadah il rumore delle acque è piú adatto a esprimere la gloria di Dio di quanto lo siano le insincere parole dell'uomo e il linguaggio non verbale è di molto superiore a un eloquio forbito. Nel pensiero cabbalistico, il simbolismo della voce fu applicato alle differenti gradazioni dell'energia divina, rappresentate dalle sefirot. Nel Sefer hazohar (Il libro dello splendore) - il cui autore, alla fine del Duecento, rielaborò con perizia letteraria le riflessioni dei primi mistici ebrei - compare un'organica presentazione di qol come metafora del trascendente. Mentre le sette sefirot inferiori, da hesed a malkut, vengono definite «sette voci», la loro origine superna è detta «voce grande ... voce interiore che non può udirsi», in accordo con la concezione che fa corrispondere al minimo di articolazione verbale il grado massimo di forza numinosa. L'autore si dilunga inoltre sulla natura della voce interna, «che sussiste nel pensiero, ma non si mostra e non può essere ascoltata. Quando esce si rivela appena in un sussurro, che ancora non s'ode: è la voce grande, tenue sospiro». Il discorso mistico procede qui per antitesi, contrapponendo la grandezza dvina della voce alla sua flebile materia sonora. La lettera scelta per rappresentarla è la he, che, nella lingua ebraica, viene pronunciata con una rapidissima e quasi impercettìbìle aspirazione: «Quando sale nella gola - leggiamo ancora nello Zobar - [la voce interiore] produce una he, in un sussurro, e poi continua a fluire, senza interruzioni ». È dal suono inarticolato che trae dunque origine, secondo lo Zohar, la voce percepibile del reale. In maniera opposta a quanto avviene nel simbolismo della luce - in cui il fulgore superno si depotenzia in scintille sempre piú fioche quanto piú scende verso il mondo materiale -, nella descrizione cabbalistica dell'emanazione attraverso la voce il grado piú alto e piú vicino alla divinità è un silenzio innominabile che, a poco a poco, si trasforma in un suono continuo ma lievissimo. Solo alla fine di tale processo l'immedesimarsi della voce celeste nelle realtà sensibili darà vita al linguaggio articolato, chiaramente udibile ma al tempo stesso ormai lontano dall'energia creativa di quel primo sibilo. Nella riflessione dei mistici ebrei, il suono inarticolato dei primordi diviene allora il soffio inarrestabile che dà origine alla realtà, un vento incessante che risuona nella voce del mondo.

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Sukkah - Capanna

Sukkah (pl. sukkot) è reso dai Settanta con skéné e da Girolamo con tabemacufum.Nei Targumim aramaici viene invece impiegato il termine metalalta (mefalleta). "" Cfr. anche Lev. 23.33-44 e Num. zq. rz-39. Entrambi questi testi menzionano un ottavo giorno di «assemblea solenne» ('aseret): tale occasione è considerata una festa a sé dalla tradizione rabbinica (p.es. in bSukkah 48a), ed è celebrata con il nome di gemini
Ultima delle tre grandi ricorrenze legate al calendario ebraico, Sukkot, la festa delle Capanne, celebrava il raccolto autunnale ed era considerata, nell'antico Israele, la solennità piú importante dell'anno. Fa la festa delle Capanne per sette giorni - prescrive il Deuteronomio (r6. r3-14) - quando avrai raccolto i frutti dell'aia e del tino, e gioisci nella tua festa, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita, il forestiero, l'orfano e la vedova che sono entro le tue città". In questa ricorrenza, che coinvolgeva l'intera popolazione, la gioia collettiva, i balli e i canti esprimevano il senso di soddisfazione della comunità, ormai sicura dell'abbondanza. Denominata anche he-hag, la «festa per eccellenza », Sukkot pare derivare da un modello cananaico, ispirata com'è alla cultura delle genti sedentarie. La Scrittura narra infatti che anche gli abitanti non ebrei di Sichem celebravano la vendemmia con banchetti`, mentre le fanciulle di Siloe erano solite eseguire le loro danze (Giud. 2 r.2 i) tra i vigneti. L'uso ebraico di accompagnare le celebrazioni tenendo in una mano rami di palma, salice e mortella, legati assieme (il cosiddetto lulav), e stringendo nell'altra il cedro (etrog), ricorda poi il costume di altre popolazioni mediterranee, come per esempio quello greco delle feste Pianepsie, quando «veniva recato in processione un ramo d'olivo» - a cui si dava il nome di eiresióné «legato con lana e coronato di ogni sorta di frutta, per significare che la scarsità e la sterilità erano finite» Almeno dopo il ritorno dall'esilio babilonese, la ricorrenza giudaica fu tuttavia caratterizzata dalla costruzione di provvisorie sukkot, nelle quali gli ebrei abitavano per sette giorni, lasciando le proprie dimore. Secondo il Levitico, questi ripari temporanei dovevano ricordare agli israeliti la vita nel deserto, ma, in realtà,il collegamento con l'esodo pare la tardiva storicizzazione di un'usanza legata al ciclo stagionale delle colture. Nella Gerusalemme antica, le capanne venivano drizzate tra le case, sui tetti, nei cortili del Tempio e nelle piazze, con un intervento sul paesaggio urbano la cui forza evocativa doveva essere già allora assai rilevante. La consuetudine di erigere capanne - che è stata conservata durante tutta la successiva vicenda della diaspora, fino ai tempi moderni - ha per altro mantenuto nei secoli la capacità di segnalare una sorta di anacronismo simbolico tra l'ambito cittadino e un passato ritenuto esemplare, cosí da rendere manifesto lo iato tra il presente e l'archetipo religioso. La celebrazione festiva comprendeva poi numerose pratiche accessorie che, sebbene non prescritte dalla Bibbia, furono tramandate dalla letteratura rabbinica. Mentre infatti la Scrittura ordina semplicemente di prendere, nel primo giorno, frutti di alberi speciali, rami di palme, fronde di piante folte, salici dei corsi d'acqua (Lev. 23.40), nei testi giudaici postbiblici si conserva la memoria dell'uso di tenere in mano le fronde durante alcune fasi dell'ufficio nel Tempio, per tutti i sette giorni della festa. I maestri ebrei stabilirono cosí che i quattro elementi vegetali, denominati arba `ahminim, «quattro specie »1181- cioè i tre tipi di fronde legate nel lulav a cui si aggiunge l'etrog, il cedro -, dovessero accompagnare ari-che la liturgia sinagogale, tenuti in mano dai fedeli durante la recitazione dello Hallel (Sal. 113-18) e agitati all'inizio del salmo 118 e in corrispondenza della lettura del venticinquesimo versetto. All'unione dei quattro elementi veniva attribuito un grande significato simbolico, nel quale si rifletteva tanto il piano divino quanto quello archetipico dei patriarchi e quello dell'esperienza comunitaria d'Israele; il cedro, per esempio, fu addirittura considerato simbolo di Dio e, allo stesso tempo, di Abramo, mentre i rami di palma si pensava raffigurassero Isacco, quelli di mirto Giacobbe e i salici Giuseppe. Secondo altre interpretazioni, l'etrog sarebbe invece stato un'allusione a Israele, oppure l'insieme dei quattro generi avrebbe raffigurato le parti del corpo umano: «Il ramo della palma assomiglia alla spina dorsale dell'uomo, il mirto corrisponde all'occhio, il salice alla bocca e il cedro al cuore». All'epoca del Tempio risaliva anche la consuetudine di girare attorno all'altare una volta al giorno e sette volte il settimo giorno, accompagnando la circumambulazione con le parole: «O Signore salva, fa prosperare! », oppure, secondo altri: «Ani wa-hu,salva! »`". Anche quest'uso fu mantenuto in sinagoga, dove diede vita a una processione attorno alla bimah il pulpito, ripetuta sette volte nell'ultimo giorno della festa, detto Hosa`na rabbah. Le circumambulazioni attorno all'altare durante Sukkot dovevano far parte del significato simbolico piú profondo della ricorrenza e, secondo una leggenda, sarebbero state introdotte da Abramo, nel momento stesso in cui il patriarca istituí la festa. Nel Libro dei giubilei, scritto probabilmente alla fine del II secolo a.C., si legge infatti che Abramo «costruí un altare al Signore e tende per sé e per i suoi servi e celebrò per primo la festa delle capanne ... Prese germogli di palma e frutti di alberi belli e, ogni giorno, girava intorno all'altare coi rami, sette volte al giorno e, all'alba, lodava e confidava con gioia ogni cosa al suo Signore» (Anche Giacobbe avrebbe celebrato la festa delle Capanne: Giubilei XXXI. pp 4.9).
Un altro rito collegato a Sukkot era la libazione con l'acqua,eseguita dal sacerdote nel Santuario: di essa non vi è menzione nella Bibbia, ma era seguita con grandissima partecipazione popolare e consisteva nel versare il contenuto di una boccia d'oro, riempita alla sorgente di Siloe, in un catino sull'altare; da qui il liquido defluiva mescolandosi con una libazione di vino, e scorreva attraverso un passaggio sotterraneo verso il torrente Qidron. Lo scopo della cerimonia - che era avversata da alcuni esponenti della classe sacerdotale - sembra essere stato quello di propiziare le piogge per l'inverno successivo, in modo da garantire la fertilità delle colture, come ricorda anche un passo del Talmud babilonese, nel quale Dio si rivolge ai fedeli affermando: «Versate l'acqua al mio cospetto durante la festa, cosí che siano benedette per voi le piogge durante l'anno». Anche la costruzione della capanna era connessa con la pioggia, per la quale doveva costituire un riparo, sebbene non fosse obbligatorio restare nella sukkah in caso di violente precipitazioni.«Se viene la pioggia, quand'è che si può sgombrare? - ci si domanda infatti nella Misnah - Quando essa può guastare una zuppa ... A cosa assomiglia? A un servo che sta per porgere al suo signore un bicchiere di vino e questi gli riversa in faccia un catino d'acqua». I maestri stabilirono inoltre che la capanna dovesse avere almeno tre fianchi e un tetto, cosí che vi fosse piú ombra che sole, ed era obbligatorio cenarvi almeno la sera del primo giorno. Tale dovere religioso riguardava i maschi ebrei, dall'età in cui «un bimbo non ha piú bisogno della madre», mentre «donne,schiavi e bimbi piccini» ne erano assolti. Si riteneva che costruire la sukkah significasse compiere un atto di pietà verso il Signore, quasi che essa fosse un tabernacolopronto ad accoglierne la presenza: «Fate una capanna per il guardiano che deve custodirvi», afferma a questo proposito il Signore nel midras Esodo rabbaht'92. Incambio, Iddio avrebbe. protetto i giusti d'Israele nell'età messianica, sotto la sukkah della sua gloria, secondo un simbolismo ricorrente, che vedeva nella capanna terrestre un'allusione alla tutela protettiva della Sekinah (In Genesi rabbahLVI si afferma che «Il Santo, sia Egli benedetto, si fece una sukkah per pregare in essa»). .
Nell'esegesi giudaica medievale si giunse a un’ enunciazione del parallelo tra i giorni di Sukkot e il diletto dei beati nel mondo a venire. Nel suo Commento alla Torah, Ya'aqov ben Aser, vissuto tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, riferisce infatti che, «in cambio dei sette giorni in cui dimorano nelle capanne, gli ebrei meritano i sette baldacchini, vale a dire: nuvola, fumo, splendore, fuoco, fiamma, gloria della Sekinah e capanna del Leviatano». Il repertorio dei materiali dei padiglioni celesti combina qui, in maniera singolare, ricordi della storia dell'Esodo (come il fumo e il fuoco della colonna divina) con altri topoi dell'immaginario escatologico, come la menzione del Leviatano, la cui pelle sembra addirittura trasformata in un riparo, forse ancora piú prezioso di quello offerto dalla gloria divina, che lo precede nell'elenco. Sebbene la leggenda di una serie di baldacchini offerti ai giusti nell'Eden fosse già attestata nel Talmud e anche nella letteratura haggadica d'età altomedievale, Ya'aqov ben Aser ne propose un importante sviluppo teorico, ricollegandola all'idea della sukkah festiva, che fu cosí trasformata, per simmetria simbolica, in una struttura immateriale. La serie numerica del sette venne utilizzata anche dai cabbalisti, che misero in relazione la festa di Sukkot col gruppo delle sefirot inferiori, da hesed (clemenza) a malkut (regno). Nell'ultimo scorcio del XII secolo, l'autore del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore) adottò, per esempio, la sukkah come simbolo della sefirah del regno, che poteva accogliere in sé gli altri sei gradi successivi dell'emanazione. In questo caso il processo di aggregazione mistica dipendeva principalmente dal devoto, la cui dimora nella capanna significava innanzitutto l'unione dell'uomo col grado divino di malkut. Forte di questa comunione con la decima e ultima sefirah, l'israelita doveva - secondo lo Zohar - disporsi ad accogliere le altre sefirot e a intrattenerle come un ospite, con una procedura iniziata dalla figura leggendaria di rav Hamnuna Sava,il quale, dopo essere entrato nella sukkah, « si rallegrava e si andava a mettere alla porta, dicendo: Invitiamo i nostri ospiti, prepariamo la tavola ... sedetevi, invitati celesti, prendete posto, ospiti di fede». La discesa delle sefirot era infatti immaginata come l'ingresso di sei personaggi biblici, «Abramo e cinque altri giusti», vale a dire Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne e Giuseppe, ciascuno identificato con un grado divino, in cui la dimora in capanne durante l'esodo è fatta corrispondere alla protezione delle «nuvole della gloria divina», in base a un implicito parallelismo con il rituale di Sukkot. Il rituale aveva lo scopo di arrecare gioia sul piano terreno e, allo stesso tempo, di allietare le sfe-re celesti «cosí che il fedele potesse provare diletto sia in questo mondo sia in quello a venire » Nella letteratura zoharica, la capanna non fu tuttavia solo uno strumento di contatto col divino ma anche una forma di protezione, in grado di difendere attivamente l'ebreo dagli influssi ester-ni. Come ricorda il compilatore del Ra'aya mehemna (Il pastore fidato), «la sukkah ripara Israele» e può essere per questo parago-nata all'arca di Noè, che, secondo i cabbalisti, aveva salvato il patriarca dalle forze del male. Compito specifico della capanna sarebbe stato quello di scampare gli occupanti dall'influsso «di tutte le genti e dei loro principi», garantendo agli ebrei la possibilità di mantenersi fedeli ai precetti. I «principi» a cui accenna il testo sono infatti gli spiriti angelici delle nazioni idolatre e, primotra tutti, il loro arconte, il malvagio Samma'el, desideroso di mescolarsi agli israeliti per renderne vana la celebrazione festiva. Nei Tiqqune bazobar (Gli ornamenti dello splendore), che, agliinizi del Trecento, segnarono il completamento della raccolta zoharica, lo statuto simbolico della sukkah si arricchí di un richiamo alla sefirah binah (intelligenza), alla quale, nell'albero sefirotico, è attribuita la funzione di tutela. La capanna assunse cosí un doppio valore referenziale e indicò tanto binah quanto il suo riflesso inferiore in malkut: «La madre superna [binab] corrisponde al riparo di pace (sukkat-salom) ma vi è anche una sukkah inferiore ... la madre terrena [malkut]» Prendendo l'avvio da quest'ultimo esito metaforico, il cabbalista cinquecentesco Yishaq Luria inserí la sukkah all'interno della sua lettura cosmologica, in cui ogni gesto del rito ebraico rappresentava un quadro della storia dei mondi. Nella sistemazione del pensiero luriano offerta da Hayyim Vital - l'allievo piú rappresentativo del maestro di Séfat - la capanna venne allora integrata nella dinamica del propagarsi della luce divina, prima per linee rette e poi in forma di involucro: «Ecco che la sukkah corrisponde alla luce avvolgente che s'indirizza verso la Femmina [malkut] per l'influsso delle clemenze della madre [binah]».
La discesa dell'energia luminosa da binab verso malkut è, un atto essenziale per il buon equilibrio dell'emanazione, che può essere attivato attraverso la costruzione della ca-panna, ovvero con un intervento del fedele, il quale influisce cosí direttamente sulla propagazione delle forze celesti: « Noi ebrei ...figli di malkut ... facciamo la sukkah per dimorare all'ombra dellaluce avvolgente, che in essa si diffonde, andandole attorno e circondandola come una capanna: in tal modo quella luce curva s'irraggerà su di noi». Le forme protettive della sukkah si fannodunque tutt'uno con la tutela della luce sefirotica, tanto che il piano mondano e quello teosofico si sovrappongono fino a identificarsi: la sukkah terrena, realizzata con materiali precari, ha acquisito un doppio celeste ed è divenuta teofania provvisoria di luce.

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La voce dal cielo (Bat Qól) nei Targum

Abbiamo visto che nel giudaismo « la voce » (Bat Qól) è un sinonimo di « Santo Spirito », di Dibbîtra e Dibbéra. Così, per es., mentre il Sifra del Levitico 10, 4 (46 a 1) dice:« Lo Spirito santo rispose loro », il passo parallelo in Bar.,Kerithot 5b, dice: « Una voce (Bat Qól) uscì e disse ». In realtà, in molti passi, in rapporto a « la Parola »(Dibbîtra, Dibbéra) o « lo Spirito », il testo ebraico sottostante parla della voce (QSl) di Dio (cf. Es 33, 11; Nm 7,89). Lo « Spirito santo », come anche Dibbéra, significa la voce di Dio dal cielo. Bat Qól (letteralmente: « la figlia di una voce ») significa « eco »; ma è usata estensivamente nella letteratura giudaica e anche nei targum nel senso di una misteriosa voce divina dal cielo. È usata anche da Giuseppe che la designa semplicemente « una voce » (f óné; Antichità Giudaiche, 13, 10, 3, § 282). La parola di Dio giungeva a Israele attraverso i profeti; cessata la profezia, il cielo comunicava solo raramente con la terra e, in questo caso, mediante una voce dal cielo (Bat Qól). Così dice la Tosefta: Quando gli ultimi profeti, Aggeo, Zaccaria e Malachia, morirono, lo Spirito santo venne meno in Israele; ciononostante fu concesso loro di udire comunicazioni da parte di Dio mediante una Bat Qòl (Sota 13, 2).
Si possono trovare riferimenti frequenti alla Bat 061 intutti i periodi della storia di Israele, sia nella letteratura rabbinica che nei targum. Quando Isacco stava per essere sacrificato, « in quel momento una voce venne (npqt bt qwl) dal cielo e disse: Vieni a vedere due persone singolari che sono nel mio mondo » (Gn 22, 10, Neofiti). Quando Giuda confessò la sua colpa con Tamar, « una voce venne (qlh ... npqt) dal cielo e disse: Ambedue sono giusti » (Gn 38, 35, Neofiti). In tre diverse occasioni venne dal cielo una voce a confermare il ministero di Gesù: al momento del battesimo (Mt3, 17 e par.), alla trasfigurazione (Mt 17, 5 e par.) e prima della sua passione (Gv 12, 28.39).

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RADICI NELL'EBRAISMO

Festa delle Capanne

La festa delle Capanne (delle Tende o dei Tabernacoli - Sukkôth) si celebra sei mesi dopo la Pasqua al tempo della vendemmia (settembre-ottobre, dopo la festa di capodanno). Originariamente si trattava della festa del raccolto d'autunno, poi è divenuta la commemorazione dei quarant'anni nel deserto. La festa si svolge in un clima molto gioioso: essa viene subito dopo il Kippur, e deve esprimere la gioia della misericordia di Dio sperimentata nel perdono e la rinnovata comunione con Lui. Allo stesso tempo esprime fattivamente la avvenuta conversione e la profonda adesione alla Legge, che è il modo giusto di vivere nella terra. Come è sempre stato per le feste di tipo agricolo, anche qui il far dono al Signore dei frutti della terra (insieme agli animali in olocausto) ha lo scopo di ringraziamento e dichiara la consapevolezza della propria dipendenza da Dio. In questa festa viene particolarmente esaltata la memoria del tempo del deserto. Il tempo del deserto è un tempochiave per l'identità diIsraele come popolo di Dio: è nel deserto, lì dove Israele non aveva di che procurarsi da vivere, lì dove Israele era in costante pericolo di morte, che ha sperimentato la vera e tenera vicinanza di Dio. Tale vicinanza, simboleggiata nei racconti esodali, con la nube e la colonna di fuoco, si rendeva particolarmente efficace quando si trattava di nutrire e dissetare il popolo. È nel deserto che Israele sperimenta il prodigio dell'acqua che sgorga dalla roccia, o della manna e delle quaglie. Il popolo ha bisogno e mormora, e Dio, che vuol dargli la vita, fa miracoli per lui, dimostrandogli che, anche in un luogo in cui Israele non può fare niente per darsi la vita da solo, c'è Dio che gliela dà. Per Israele ricordarsi del deserto è fondamentale per poter vivere nella Terra, luogo dove invece scorrono latte e miele. Qui, infatti, Israele è sottoposto alla tentazione di credere che, siccome può procurarsi cibo e acqua da solo, lavorando la terra ed intervenendo sulla natura, la vita venga solo da lui e non abbia più bisogno di Dio.È un enorme illusione, perché di fatto conduce a perdere la terra. Infatti, condizione per possedere davvero la promessa di Dio è ricordarsi che viene solo da Lui. Nel momento in cui Israele dimentica il deserto, perverte il suo rapporto con la terra, diventa ingordo, dimentica la condivisione col povero e va in esilio. Deve sperimentare che è Dio che dà ogni bene. Questo ci dice quanto sia fondamentale questa festa delle capanne. Nel nostro testo è detto che ogni israelita per tutta la durata della festa deve abitare in capanne, come accadeva nel deserto. Ancora oggi, le capanne si costruiscono sui tetti o sui balconi, e vengono arredati con frutti e rami. In un periodo più tardivo, fino alla alla distruzione delTempio, un rito particolare accompagnava questa festa: un sacerdote riempiva d'acqua un'anfora d'oro, risaliva verso il Tempio e ne cospargeva l'altare. Ciò richiamava non solo il ringraziamento per l'acqua, senza la quale niente può fiorire e maturare, ma anche il prodigio dell'acqua scaturita dalla roccia nel deserto e l'acqua vivificante che, secondo Ezechiele, sarebbe scaturita dal Tempio nuovo e definitivo. Ciò ci aiuta a capire cosa vuol dirci Giovanni nel suo Vangelo al c. 7, in cui Gesù, recatosi di nascosto a Gerusalemme proprio per la festa delle capanne, l'ultimo giorno della festa, quello più solenne, proclama, citando il profeta Isaia: Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Gesù, reinterpretando il rito festivo, si presenta egli stesso come colui da cui attingere l'acqua viva e vivificante: come quella che ridà la vita nel deserto (luogo di morte certa), come quella che sgorga dal Tempio Nuovo e fa fiorire il deserto e guarisce tutte le malattie.
David Gianfranco Di Segni

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Sukkot (La festa delle Capanne)

Sukkot. « E vi rallegrerete nelle vostre feste » (Lev. 23). La Torà istituisce la festa di Sukkot, come giorni di ringraziamento e di gioia, giorni dedicati alla manifestazione di gioia interiore ed esaltazione.
L'osservanza della festa di Sukkot e delle sue colorite Mitzvot (buone azioni), che segue così da vicino i grandiosi giorni di pentimento e di espiazione - le solenni festività di Rosh Hashanà e di Yom Kippur =, mostra che subito dopo che ci è stato accordato un buon anno e siamo stati iscritti da D-o nel libro della vita, ci occupiamo attivamente di adempiere ai Suoi comandamenti: entriamo così in un periodo di festa, veramente « un tempo di gioia », in cui manifestiamo il nostro ringraziamento e la nostra gioia.
Storicamente, Sukkot ricorda le capanne che i nostri antenati costruirono durante la loro permanenza nel deserto, come riferisce la Torà (Lev. 23): « Nelle capanne risiederete per sette giorni... perché le vostre generazioni sappiano che in capanne ho fatto stare i figli d'Israele, quando li ho trattati dalla terra d'Egitto ».
NUVOLE DI GLORIA. La Succà ci ricorda anche le « nuvole di gloria » protettrici che circondavano il popolo ebraico nel suo peregrinare per quaranta anni nel deserto, nel viaggio verso la Terra Promessa.
Anche se la liberazione dalla schiavitù e i miracoli relativi sono ricordati soprattutto nella festa di Pesar, tuttavia costruiamola Succà in autunno, per mostrare che non è solo per convenienza stagionale (in primavera) che ci trasferiamo in una capanna, ma piuttosto per ricordare e testimoniare il miracolo di D-o e la Sua provvidenza divina.
Le nuvole di gloria possono aver lasciato il popolo ebraico dopo il suo ingresso nella Terra d'Israele, ma la protezione dell'Onnipotente non ci lascia mai.
IL RACCOLTO DEL PRODOTTO. La festa di Sukkot viene anche dalla fine della stagione agricola, quando i significati agricoli sono molto evidenti e lo spirito di un ringraziamento profondamente sentito permea l'aria. D'altra parte, se il lavoro di qualcuno è stato vano, e la terra non gli ha dato i suoi frutti,
egli può ritrovare forza e speranza nella Succà, nel ricordo che D-o sostenne il popolo ebraico nel deserto per quaranta anni.
« ... Quando raccoglierai il prodotto dai tuoi granai e dai tuoi tini » (Deut. 16). II prodotto dei campi, dei frutteti, delle vigne è raccolto in granai, silos, magazzini. In questo periodo di raccolto, quando il sudore e il lavoro di molti mesi è ampiamente ricompensato dai generosi frutti della terra, l'uomo potrebbe ingrassare e dimenticare D-o « Fu la mia forza e la potenza della mia mano che mi procurò tutta questa ricchezza » (Deut. 8). Per non diventare arroganti a causa di tutto il bene che D-o ci ha accordato, lasciamo le nostre case e conduciamo un'esistenza semplice e vìcino alla terra, sfidando gli elementi e sentendoci vicini a D-o, poiché sappiamo che Egli è la fonte del bene, il dispensatore di doni, il motore della natura e l'autore della sua legge.
IN TUTTE LE VOSTRE AZIONI LO CONOSCERETE. Per sette giorni l'ebreo sposta tutte le sue attività dalla sua casa alla Succà, manifestando Bifachon (fede) nell'Onnipotente, che anche in questa fragile capanna D-o lo proteggerà e lo farà prosperare. In questo modo adempiamo una Mitzvà singolare, poiché mentre ogni Mitzvà richiede l'uso di un arto o organo del corpo (es. la bocca e lo stomaco mangiano il cibo casher, il braccio e la testa indossano i teffillin, la mente studia la Torà, il cuore sente l'amore per un compagno ebreo), la Mitzvà di Sukkot coinvolge la persona nella sua interezza: ogni arto e cellula della persona nella Succà sta adempiendo una Mitzvà, ed ogni arto e cellula è nella Mitzvà, completamente immerso, circondato, coinvolto. Ma non è santificato soltanto il corpo nella sua interezza, perché è nella Mitzvà, ma anche ogni azione che si compie nella Succà diventa parte dell'adempimento della Mitzvà. Pertanto, quando si mangia nella Succà, il mangiare diventa una Mitzvà, e quando si dorme, cammina, parla ecc., tutte queste semplici azioni umane diventano vere Mitzvot, perchè compiute nella Succà.
II grande aforisma idealistico di Re Salomone (Prov. 3:6) « Bechol Derachecha Daehu »: « Lo riconoscerai in tutte le tue vie » diventa all'improvviso reale ed immediato, perché in ogni singola azione fisica ci facciamo più vicini a D-o e alla Divinità.
LE QUATTRO SPECIE. In questo suggestivo insieme di abbondanza e di umiltà, di generosità e di ringraziamento, D-o ci dice di portare le quattro specie (Lev. 23): « E porterete nel primo giorno un frutto dell'albero Hadar e rami di palma e un ramo dell'albero di mirto e salici del ruscello e vi rallegrerete davanti al Signore vostro D-o per sette giorni ».
Noi mettiamo insieme queste piante, che rappresentano il mondo della flora, per dimostrare il nostro attaccamento a D-o e alle Sue leggi. L'« Etrog » o cedro, frutto dell'albero « Hadar » ha un buon gusto e fragrante odore. II « Lulav » è un ramo di palma da dattero, il cui frutto è delizioso, ma non ha odore, ma non un gusto particolare; i salici sono privi di gusto e profumo. Ciascuna delle quattro specie deve essere perfetta e completa in tutti gli aspetti: colore, misura, struttura forma. Nel compiere la Mitzvà noi leghiamo insieme il Lulav (palma), I'Hadas (mirto) e I'Aravà (salice) e li teniamo stretti insieme con I'Etrog. Dicendo la benedizione, scuotiamo questo mazzo in tutte le direzioni, per significare l'onnipresenza di Do e per assolvere i Suoi desideri.
Siccome la festa viene subito dopo i giorni del Giudizio, noi portiamo trionfanti il nostro mazzo di frutta e piante, per mostrare che siamo riusciti vincitori nel Giudizio davanti a D-o.
Discutendo questo aspetto di Sukkot, il Midrash riferisce: « Questo è paragonabile a due uomini che vengono davanti ad un giudice e noi non sappiamo chi ha ragione. Quando uno si allontana portando in mano uno « scettro », sappiamo che egli è stato giudicato retto. Allo stesso modo anche Israele e le nazioni affrontano il giudizio di D-o a Rosh Hashanà; quando gli ebrei escono a Sukkot portando lo « scettro » - Lulav e Etrog - sappiamo che Israele ha vinto » (Vaiykrà Raba 30).
Se cerchiamo una ragione specifica per questa Mitzvà, troviamo che la Torà non ne dà nessuna per le quattro specie. Eppure, simbolicamente, essa ci insegna un'importante lezione di unità e fratellanza, perché il Midrash spiega il significato delle quattro specie in questo modo:
« Come I'Etrog presenta sia gusto delizioso sia aroma fragrante, così allo stesso modo ci sono ebrei istruiti nella Torà e osservanti delle Mitzvot. Così come il Lulav (dattero) è di buon gusto, ma non ha fragranza, così ci sono in mezzo a Israele persone immerse nella Torà, ma incapaci di dare rilevanza alle buone azioni. Come il mirto non ha gusto, ma produce una meravigliosa fragranza, così ci sono ebrei che anche se sono ignoranti sono occupati in buone azioni. E come il salice non ha né gusto né odore, così ci sono Ebrei ignoranti della Torà e privi di Mitzvot.
Solo quando tutti questi ebrei stanno insieme e sono legati strettamente come uno solo, possiamo rallegrarci davanti a D-o.
Quando l'ebreo dotto e osservante troverà il suo posto vicino all'ignorante e al non osservante, allora potremo veramente servire D-o con armonia e purezza di cuore.

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La festa delle capanne II

“Perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d'Egitto. Io sono YHWH vostro Dio”. Lv 23,43
Concluso il raccolto della frutta, delle olive e finita la vendemmia, si celebra la festa delle Capanne (Sukkot). Ciò segna la fine dell'anno agricolo. La designazione corrente «festa delle Capanne» traduce soltanto parzialmente l'ebraico sukkot che significa semplicemente «capanne»; «in paesi atlantici con boschi frondosi si risvegliano false associazioni». Un'altra designazione di questa festa autunnale è «festa del Raccolto» (Es 23,16). Alla radice della festa delle Capanne ci fu una festa autunnale, nella quale le famiglie si recavano in pellegrinaggio a santuari locali per offrirvi sacrifici, come racconta la storia di Anna, la madre di Samuele, all'inizio dei libri di Samuele. Il nome «festa delle Capanne» si riferisce probabilmente all'usanza di pernottare, durante la vendemmia, nelle vigne e negli uliveti, dove servivano appunto capanne. Durante il tempo della mietitura, queste capanne erano usate come dispensatrici di ombra, che offrivano un riparo sia a lavoratori/trici, sia a chi faceva la guardia (per es. 2Sam 11,11; 1Re 20,12.16 [la CEI riporta «tende»]). La festa inizia il quindicesimo giorno del settimo mese; dura otto giorni. In questi otto giorni non si compiono lavori pesanti; sono considerati giorni di adunanza. La festa delle Capanne una festa per YHWH, ma è anche «la tua festa», una festa, quindi, gli uomini e la loro gioia. Al duro lavoro nell'agricoltura segue il piacere. Per il Deuteronomio questa gioia è il senso della festa. Durante la festa delle Capanne vanno offerti sacrifici, che in Nm 28 sono elencati esattamente per ogni giorno della festa. Secondo Lv 23,40 vengono inclusi nella festa anche frutti e rami. Lv 23 non riporta lo scopo dei rami; nella descrizione della festa delle Capanne della comunità post-esilica in Gerusalemme, i rami sono usati per costruire delle capanne; in 2Mac 10,7 (come in Flavio Giuseppe, Ant. 111,10) essi sono portati in mano. «Il ramo verde era già nella religione cananea un importante simbolo della dea e delle sue adoratrici [...]. Ma anche Baal tiene spesso in mano un ramo come scettro e viene adorato con rami dai suoi adepti [...]. Il ramo è simbolo della forza rigeneratrice che è insita nella terra e nelladonna. Nella festa delle Capanne sopravviveva, così, un elementofondamentale del culto cananeo delle dee. Forse è per questo che la festa delle Capanne viene messa in evidenza come festa di YHWH, e essa era la festa popolo Ashera» Anche qui, l dunque, un'usanza l per sé essa dipendente dal ciclo dell'anno agricolo fa da culla a una festa che non ha perduto questo carattere, ma che, storicizzandoli, riferisce i suoi elementi fondamentali all'evento dell'esodo e della peregrinazione nel deserto. Il momento della storicizzazione collega la festa delle Capanne al fatto che le israelite e gli israeliti durante la peregrinazione nel deserto abitarono in capanne. Nel periodo persiano la festa delle Capanne acquisisce un riferimento alla Torah come corpus scritto. In Ne 8,18 Esdra legge, per la festa, dal libro della Legge di Dio, vale a dire dalla Torah, che proprio in quel tempo era stata raccolta, canonizzata e proclamata come legge dell'impero persiano. Più esattamente: la festa stessa viene aperta con la lettura della Torah. Esdra infatti dà lettura e,quando arriva al passo dove si parla della festa delle Capanne, i presenti eseguono le istruzioni, e successivamente ogni giorno si fa lettura della Torah. Già il Deuteronomio collega la festa delle Capanne alla lettura della Torah. In Dt 31,10-13 Mosè dà al popolo l'istruzione di leggere dalla Torah ogni sette anni, nell'anno del condono, alla festa delle Capanne. Anche qui la lettura - come nel contesto della festa di Pesach la narrazione - serve soprattutto all'istruzione delle generazioni future. I bambini sono tenuti ad ascoltare in modo particolare. Nella tradizione giudaica questa festa ha assunto molto presto un'importanza particolare. È proprio la festa delle Capanne a essere menzionata quando sì parla di riunioni solenni, per es. in 2Mac1,9.18; sembra quasi essere diventata il paradigma della festa gioiosa, quando l'introduzione della festa di Chanukkah è descritta «come nella festa delle Capanne» (2Mac 10,6). I simboli principali della festa delle Capanne, lulav (generalmente un germoglio di palma) ed etrog (un genere di agrume), sono rappresentati anche su antichi pavimenti di sinagoghe, e vi indicano il calendario delle feste. Subito dopo la festa delle Capanne, il 23 di tishri, si celebra la festa post biblica della Gioia della Torah (Simchat Torah). L'usuale danza che si svolge in questo giorno manifesta la gioia e la passione alle quali è connesso lo studio della Torah.
LA FESTA DELLE CAPANNE NEL PROTOGIUDAISMO
Gv 7,2 menziona per la prima volta nel Vangelo di Giovanni la prossimità della festa delle Capanne, che poi farà da sfondo al c. 7. Insieme alla festa di Pesach e alla festa delle Settimane, la festa delle Capanne è, nel protogiudaismo, la terza grande festa di pellegrinaggio. Durava sette giorni (15-21 di tishri; fine settembre/primi di ottobre) e nell'ottavo veniva conclusa con un giorno di grandi celebrazioni. Era celebrata come festa di ringraziamento per la vendemmia, il raccolto della frutta e delle olive ed era così chiamata per le capanne di fronde nelle quali i partecipanti alla festa abitavano in ricordo dell'esodo (Lv 23,42s). È considerata «la festa del Signore» in assoluto (Lv 23,39), la festa della gioia che già Abramo si diceva avesse celebrato (Jub 16,21-27). È caratterizzata in particolare dai riti dell'aspersione dell'acqua di giorno e della celebrazione della luce di notte nel tempio. Ogni mattina della festa i sacerdoti versavano l'offerta dell'acqua all'altare degli olocausti, a ciò si univa la preghiera per una pioggia apportatrice di fertilità. Le luci venivano accese nel tempio di sera, nell'atrio delle donne vicino alla camera del tesoro (Gv 8,20) ed erano espressione della grande gioia per la festa.

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Le capanne di nuvole

Durante la festa di Sukkot si abita per sette giorni in capanne precarie fatte di frasche, rami di palma e canne: si mangia in esse e, clima permettendo, ci si dorme. Per una settimana si esce dalla propria casa e ci si trasferisce nella sukkà , nella capanna. L'origine di questa festa è nella Torà, dove è scritto: Per sette giorni abiterete nelle capanne. Ogni cittadino d'Israele abiterà nelle capanne, affinché le vostre generazioni sappiano che Io, il Sig-ore D-o vostro, ho fatto risiedere i figli d'Israele nelle capanne quando li feci uscire dalla terra d'Egitto " ( Levitico 23: 42-43).
La festa di Sukkot è quindi collegata con l'uscita dall'Egitto. Se è così, si sono chiesti i nostri Maestri, perché Sukkot capita in autunno invece che in primavera, la stagione in cui gli ebrei uscirono dall'Egitto? Per quale motivo l'ordine di costruirsi le capanne non si mette in pratica a Pesach, la festa primaverile che ricorda, appunto, l'uscita dall'Egitto? Si risponde che in primavera, quando arriva la bella stagione, è normale che la gente esca dalle proprie case e vada a vivere all'aperto e al fresco, al riparo di semplici capanne. D'autunno, invece, colui che va ad abitare sotto una capanna rende chiaro a tutti che l'unico motivo per cui ci sta andando è per adempiere un comandamento divino.
Il Chidà (il famoso rabbino Chayim Yosef David Azulai, nato nella terra d'Israele ma venuto a vivere in Italia, a Livorno, nella seconda metà del '700) scrisse che uno dei significati della festa di Sukkot è sottolineare la precarietà di questo mondo e della nostra vita. Il mondo in cui viviamo non è che una capanna provvisoria e instabile. Non è un caso che Sukkot venga a distanza di soli cinque giorni dopo Kippur, il digiuno d'espiazione, che a sua volta capita dieci giorni dopo Rosh ha-Shanà, il capodanno che è anche il Giorno del Giudizio. Nel capodanno il giudizio è emesso per ciascuno di noi, e questo è poi suggellato nel giorno di Kippur; dunque, uscire dalla propria casa per andare ad abitare in una capanna è come dire: "Siamo pronti ad andare in esilio, siamo pronti ad accettare questo decreto, se così è stato stabilito nel Tribunale celeste, sia come singoli che come collettività".
Abbiamo detto sopra che secondo la Torà il motivo per cui si abita nelle sukkot per sette giorni è per ricordare che il Sig-ore fece stare gli ebrei, usciti dall'Egitto, sotto le capanne, durante i 40 anni di peregrinazioni nel deserto del Sinai. A questo proposito c'è un'interessante discussione nel Talmud ( Sukkà 11b) fra Rabbi Eliezer e Rabbi Akivà: di che erano fatte le capanne nel deserto? Secondo un'opinione le sukkot del deserto erano delle vere e proprie capanne, fatte di canne e frasche. Secondo l'altra opinione, invece, le sukkot erano capanne fatte di "nuvole", di nuvole della Gloria Divina ( ananè ha-Kavòd ). In altre parole, secondo la prima opinione noi oggi ci costruiamo una capanna di frasche per ricordare le capanne di frasche che i nostri antenati si fecero nel deserto; secondo l'altra opinione noi, con la capanna di frasche che facciamo oggi, ci ricordiamo della sukkà fatta di nuvole, ci ricordiamo della protezione divina che accompagnava gli ebrei. Queste due opinioni non sono in realtà esclusive l'una dell'altra, tanto è vero che non si sa esattamente neanche chi dei due rabbini abbia dato questa o quella interpretazione. In effetti, la sukkà possiede sia una valenza materiale che una spirituale. Sicuramente gli ebrei nel deserto abitavano sotto capanne precarie fatte di materia, ma senza la protezione delle sukkot fatte di "nuvole divine" difficilmente sarebbero potuti sopravvivere.
Una delle caratteristiche specifiche della cultura ebraica è quella di non considerare il dominio dello spirito separato e scisso da quello della materia, bensì di fonderli insieme, di creare una sintesi armoniosa in cui il materiale è compenetrato dallo spirituale e viceversa. È questo un aspetto che ricorre in quasi tutte le mitzwot , ma che risalta in modo particolare nella festa di Sukkot.
La mitzwà di abitare nella sukkà coinvolge tutta una serie di operazioni estremamente fisiche e materiali, con una notevole dose di lavoro manuale necessario per costruire la capanna, come segare assi di legno, inchiodarle, martellare ecc. Una volta fatta la sukkà , si adempie alla mitzwà entrando fisicamente, con tutto il corpo, dentro la sukkà e mangiando al suo interno. È quindi forse la mitzwà più materiale fra tutti i precetti della Torà, quella che più coinvolge il corpo e la materia. D'altra parte, però, lo scopo di questa mitzwà è di "sapere": come dice il verso della Torà citato sopra, l'ordine di abitare nelle sukkot viene dato affinché le generazioni future sappiano che gli ebrei usciti dall'Egitto risiedettero per 40 anni sotto le capanne.
Altre mitzwot hanno come scopo il "ricordare", come la festa di Pesach, il precetto del talled e dei tefillin e alcune altre. Ma Sukkot è l'unica mitzwà , oltre allo Shabbat, il cui scopo è "sapere". È interessante notare che di Shabbat, per definizione, ci si deve astenere dall'operare nel mondo della materia, dal "costruire"; di Sukkot, al contrario, bisogna avere a che fare con la materia e costruire. Entrambe queste mitzwot hanno come scopo il "sapere": lo Shabbat, il giorno della non-materia, serve per sapere che D-o creò il mondo della materia; Sukkot, la festa della materia, ha come scopo il sapere che D-o agisce nella storia e nel mondo dello spirito.
La materia serve per raggiungere la consapevolezza intellettuale di quanto successe più di 3000 anni fa, per sapere che noi discendiamo, in senso culturale e non necessariamente biologico, da coloro che furono liberati dalla schiavitù d'Egitto. La materia è un mezzo per un'identificazione esistenziale con la nostra storia, per entrare nei "panni" e nel corpo, per così dire, di coloro che, schiavi, furono liberati e condotti da Mosè verso la terra promessa.
Ottobre 2000 - Pubblicato su Shalom