giovedì 16 febbraio 2012

Venerdi 17...manco a dirlo!

Di seguito il Vangelo di oggi, 17 febbraio, venerdi della VI settimana del T.O., con un
commento e qualche testo di approfondimento.




Desiderare di rassomigliare più effettivamente a Lui,
la povertà con Gesù povero piuttosto che la ricchezza,
le ingiurie con Gesù, che ne è ricolmo, piuttosto che gli onori,
e preferire essere stimato stupido e pazzo per Gesù,
che per primo fu ritenuto tale, anziché saggio e prudente in questo mondo

S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali



Dal Vangelo secondo Marco 8,34-38.9,1.Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà. Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima? Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi». E diceva loro: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza».


IL COMMENTO




SINTESI

Gesù convoca la folla insieme ai suoi discepoli, le sue parole sono per tutti, anche per gli indecisi, anche per chi gli s oppone. "Se qualcuno vuole venire dietro a me", e obbliga tutti a guardarsi dentro e a scoprire le carte, e decidere se davvero lo vogliamo seguire. Gesù scuote la nostra libertà come in uno scrutinio: quel "se" si impone alle nostre abitudini, si incunea dentro le nostre acquisizioni fatte di riti quotidiani, ripetuti stancamente. Lavoro, casa, svaghi, studio, la nostra esistenza segue un ritmo, un incedere, segue qualcosa, qualcuno, ma chi? Chi, che cosa ho deciso di seguire?


Per questo è necessario ammettere che la vergogna spesso ci domina e genera in noi la paura. E' l'esperienza primordiale, il frutto amaro del peccato originale, la solitudine espressa dalla vergogna. In una profonda e illuminante catechesi il Beato Giovanni Paolo II rilevava come in Principio "tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. La «nudità» significa il bene originario della visione divina.... L'originario significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza di visione... La chiameremo «sponsale»" ( Giovanni Paolo II, catechesi sull'amore e sul corpo).


Il Vangelo di oggi ci rivela la natura più profonda della nostra vita, la suafondamentale vocazione sponsale. Nelle parole di Gesù vi è, come in filigrana, la trama di un consenso matrimoniale. Seguire il Signore significa essere con Lui, in Lui, una sola carne, un solo spirito. Ma la vergogna svela le intenzioni autentiche del nostro cuore, che ci conducono a vivere in contrasto con la vocazione nella quale siamo stati creati. L'esperienza della vergogna procede infatti dalla rottura della relazione con Dio che conduce alla conseguente rottura con l'altroLa vergogna innalza le barriere che frapponiamo in ogni nostra relazione, a difesa del nostro "io", dei nostri pensieri, dei progetti, delle nostre cose; esprime la paura che ci assale quando gli eventi ci chiamano a donarci, ad amare.


Se davvero abbiamo deciso di seguirlo ciò significa innanzi tutto lasciarci amare da Lui. Prendere ogni giorno la propria croce, lasciare che il mondo e le sue concupiscenze siano crocifisse nella storia quotidiana, nei progetti infranti, nelle incomprensioni, nelle delusioni, nelle malattie, nelle sofferenze. Seguire Gesù significa dire no a noi stessi, rinnegare l'opera del demonio, lasciare che il Signore, passo dopo passo, ci spogli dell'uomo vecchio per rivestire il nuovo, nell'appartenenza a Lui, il Nuovo Adamo che non prova vergogna, che, sulla Croce, nudo, spogliato delle sue vesti, ci ha sposato ridonandoci, la dignità perduta. Rinnegare se stessi significa essere ogni giorno con Lui crocifissi, attirati dalla Sua Grazia sull'altare che ci consegna, senza difese, ad ogni uomo, anche ai nemici, a chi trama di toglierci la vita, l'onore, il denaro, il posto di lavoro, le nostre cose. Il Signore viene oggi a liberarci dalla vergogna d'essere discepolo di un crocifisso, di seguire le Sue folli parole d'amore, dalla paura di morire per amore. E ci chiama a seguirlo nel cammino verso Gerusalemme, portando con Lui il Suo "obbrobrio", la Sua vergogna, la croce. La croce di oggi, che purifica i nostri occhi in un'innocente purezza capace di vedere Dio in ogni fatto, in ogni persona. 




COMMENTO APPROFONDITO

Gesù convoca la folla insieme ai suoi discepoli, le sue parole sono per tutti, anche per gli indecisi, anche per chi gli s oppone. "Se qualcuno vuole venire dietro a me", e obbliga tutti a guardarsi dentro e a scoprire le carte, e decidere se davvero lo vogliamo seguire. Gesù scuote la nostra libertà come in uno scrutinio: quel "se" si impone alle nostre abitudini, si incunea dentro le nostre acquisizioni fatte di riti quotidiani, ripetuti stancamente. Lavoro, casa, svaghi, studio, la nostra esistenza segue un ritmo, un incedere, segue qualcosa, qualcuno, ma chi? Chi, che cosa ho deciso di seguire?

Forse è una questione che non ci siamo mai posti, abbiamo ricevuto una scelta fatta da altri, spalmando la vita su una fetta di mode e abitudini che ci garantiscono un galleggiare neanche male tra le onde dei giorni. Come una vita telecomandata illudendoci di esserne al timone. O abbiamo scelto di seguire Gesù, cercando di essere coerenti, e ci stanchiamo e ci sentiamo sconfitti. O forse no, siamo contenti di quel che abbiamo realizzato, lo attribuiamo al Signore, e siamo in pace.

Ma oggi il Signore ci convoca per aiutarci a scoprire la nostra vocazione autentica illuminando un'esperienza che facciamo sovente: la vergogna spesso ci domina e genera in noi la paura. E' l'esperienza primordiale, il frutto amaro del peccato originale, la solitudine espressa dalla vergogna. In una profonda e illuminante catechesi il Beato Giovanni Paolo II rilevava come in Principio "tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. A questa pienezza di percezione «esteriore», espressa mediante la nudità fisica, corrisponde l'«interiore» pienezza della visione dell'uomo in Dio, cioè secondo la misura dell'«immagine di Dio»... La «nudità» significa il bene originario della visione divina.... L'originario significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza di visione, nella quale la comprensione del significato del corpo nasce quasi nel cuore stesso della loro comunità-comunione. La chiameremo «sponsale»" ( Giovanni Paolo II, catechesi sull'amore e sul corpo).

Il Vangelo di oggi, parlandoci della vergogna, ci rivela la natura più profonda della nostra vita, la sua fondamentale vocazione sponsale. Nelle parole di Gesù vi è, come in filigrana, la trama di un consenso matrimoniale. Seguire il Signore significa essere con Lui, in Lui, una sola carne, un solo spirito. Ma la vergogna che ci assale è la conseguenza della perdita dell'innocenza, della "pienezza di visione" di cui ci parlava Giovanni Paolo II, della decisione del cuore di non seguire Gesù ma piuttosto noi stessi. La vergogna svela le intenzioni autentiche del nostro cuore, che ci conducono a vivere in contrasto con la vocazione nella quale siamo stati creati. L'esperienza della vergogna procede infatti dalla rottura della relazione con Dio che conduce alla conseguente rottura con l'altro. La vergogna innalza le barriere che frapponiamo in ogni nostra relazione, a difesa del nostro "io", dei nostri pensieri, dei progetti, delle nostre cose. La vergogna esprime la paura che ci assale quando gli eventi ci chiamano a donarci, ad amare. La vergogna della nudità, debolezza, fragilità, impotenza che sperimentiamo quando appare nella nostra vita e sembra che tutto sia perduto. La vergogna, figlia della malizia originaria del peccato, muove i nostri goffi tentativi di trovare e salvare la vita, tutti irrimediabilmente destinati al fallimento. Le persone e le cose divengono oggetti di cui fruire e offrire a se stessi. Il mondo intero diventa territorio di conquista e la vita un'interminabile partita di Risiko. Che perdiamo. Sempre.

Per questo oggi il Signore ci guarda e ci scruta. Se davvero abbiamo deciso di seguirlo ciò significa innanzi tutto lasciarci amare da Lui. Prendere ogni giorno la propria croce, lasciare che il mondo e le sue concupiscenze siano crocifisse nella storia quotidiana, nei progetti infranti, nelle incomprensioni, nelle delusioni, nelle malattie, nelle sofferenze. Seguire Gesù significa dire no a noi stessi, rinnegare l'opera del demonio, i suoi inganni, lasciare che il Signore, passo dopo passo, apra di nuovo i nostri occhi, ci spogli dell'uomo vecchio per rivestire il nuovo, creato nella vera santità, l'appartenenza a Lui, l'intima unione, sponsale, con Lui. Il Nuovo Adamo che non prova vergogna, che, sulla Croce, nudo, spogliato delle sue vesti, ci ha sposato ridonandoci, nel suo obbrobrio, la dignità perduta. Rinnegare se stessi significa abbandonarci all'amorosa opera di Dio, che ci fa nudi, piccoli, innocenti, incapaci di vergognarsi della propria nudità, la stessa di Gesù in croce. Essere ogni giorno con Lui crocifissi, attirati dalla Sua Grazia sull'altare che ci consegna, senza difese, ad ogni uomo, anche ai nemici, a chi trama di toglierci la vita, l'onore, il denaro, il posto di lavoro, le nostre cose.

Nudi della Sua nudità, immagine dell'amore totale, sino alla fine. Il Signore viene oggi a liberarci dalla vergogna d'essere discepolo di un crocifisso, di seguire le Sue folli parole d'amore, dalla paura di morire per amore. E ci chiama a seguirlo nel cammino verso Gerusalemme, portando con Lui il Suo "obbrobrio", la Sua vergogna, la croce. La croce di oggi, che purifica i nostri occhi in un'innocente purezza capace di vedere Dio in ogni fatto, in ogni persona. Senza vergogna, con gioia, la gioia piena di chi vede il Signore, ogni giorno, vivo e potente nelle proprie debolezze.



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Cardinale Joseph Ratzinger [Papa Benedetto XVI]
Meditationen zur Karwoche, 1969

« Mi segua »

I sacramenti della Chiesa sono, come pure la Chiesa stessa, i frutti del chicco di grano che muore (Gv 12,24). Per riceverli dobbiamo entrare nello stesso movimento da cui essi provengono. Questo movimento consiste nel perdere se stessi, altrimenti non ci si può trovare : « Chi vorrà salvare la propria vita la perderà ; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà ». Questa parola del Signore è la formula fondamentale di una vita cristiana. Credere, in definitiva, è dire di sì a questa santa avventura della « perdita di se stessi » ; nella sua quintessenza, la fede non è altro che il vero amore. Per cui la forma caratteristica della vita cristiana le viene dalla croce. L’apertura cristiana al mondo, tanto esaltata oggi, non può trovare il suo vero modello se non nel fianco aperto del Signore (Gv 19,34), espressione di quell’amore radicale, il solo capace di salvare.


San Francesco Saverio (1506-1552), missionario gesuita
Lettere ; 10 maggio 1546, 30 gennaio 1548

Un grande missionario pronto a perdere la propria vita

Nell'espormi a ogni sorta di pericoli di morte, ripongo tutta la mia fiducia e la mia speranza in Dio Nostro Signore, col desiderio di conformarmi, a seconda delle mie povere capacità, alla parola di Cristo, nostro Redentore e nostro Signore : « Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà ; ma chi perderà la propria vita per causa mia la salverà ». Benché il senso generale di questa parola del Signore sia facile da capire, tuttavia quando si esamina il proprio caso personale e ci si dispone a volere perdere la propria vita per Dio, allora i pericoli si presentano alla nostra immaginazione. Si presenta il fatto che si potrebbe perdere la vita... Tutto diviene così oscuro, che il latino [del testo biblico], pur chiarissimo in sè, viene anch'esso ad oscurarsi.

Infatti, secondo me, in tal caso, qualunque sia la propria scienza, ciascuno potrà capire soltanto se Dio Nostro Signore, nella sua infinita misericordia, si degna di spiegarglielo, nel suo caso particolare. Allora si riconosce la condizione della nostra carne, e quanto essa sia debole...

Tuttavia, in queste isole, le consolazioni spirituali abbondano ; perché tutti questi pericoli, queste sofferenze abbracciate volontariamente per il solo amore e il solo servizio di Dio Nostro Signore sono dei tesori e delle fonti inesauribili di grandi gioie spirituali. Non ricordo di essere stato altrove così largamente e continuamente consolato come lo sono qui.



La vergogna frutto del peccato. Catechismo 


"Dio ha creato l'uomo a sua immagine e l'ha costituito nella sua amicizia. Creatura spirituale, l'uomo non può vivere questa amicizia che come libera sottomissione a Dio... L'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è consistito il primo peccato dell'uomo. In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà. Con questo peccato, l'uomo ha preferito se stesso a Dio, e, perciò, ha disprezzato Dio: ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione di creatura e conseguentemente contro il suo proprio bene. Costituito in uno stato di santità, l'uomo era destinato ad essere pienamente « divinizzato » da Dio nella gloria. Sedotto dal diavolo, ha voluto diventare « come Dio » (Gn 3,5), ma « senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio. La Scrittura mostra le conseguenze drammatiche di questa prima disobbedienza. Adamo ed Eva perdono immediatamente la grazia della santità originale. Hanno paura di quel Dio di cui si sono fatti una falsa immagine, quella cioè di un Dio geloso delle proprie prerogative. L'armonia nella quale essi erano posti, grazie alla giustizia originale, è distrutta; la padronanza delle facoltà spirituali dell'anima sul corpo è infranta; l'unione dell'uomo e della donna è sottoposta a tensioni; i loro rapporti saranno segnati dalla concupiscenza e dalla tendenza all'asservimento. Infine, la conseguenza esplicitamente annunziata nell'ipotesi della disobbedienza si realizzerà: l'uomo tornerà in polvere, quella polvere dalla quale è stato tratto. La morte entra nella storia dell'umanità.» ( Catechismo della Chiesa Cattolica, nn 396-400). 



La nudità e l'innocenza. Giovanni Paolo II

In Principio "tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. A questa pienezza di percezione «esteriore», espressa mediante la nudità fisica, corrisponde l'«interiore» pienezza della visione dell'uomo in Dio, cioè secondo la misura dell'«immagine di Dio». Secondo questa misura, l'uomo «è» veramente nudo («erano nudi»: Gen 2,25), prima ancora di accorgersene (cf. Gen 3,7-10).... l'uomo e la donna vedono se stessi quasi attraverso il mistero della creazione; vedono se stessi in questo modo, prima di conoscere «di essere nudi». Questo reciproco vedersi, non è solo una partecipazione all'«esteriore» percezione del mondo, ma ha anche una dimensione interiore di partecipazione alla visione dello stesso Creatore - di quella visione di cui parla più volte il racconto del capitolo primo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). La «nudità» significa il bene originario della visione divina.... L'originario significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza di visione, nella quale la comprensione del significato del corpo nasce quasi nel cuore stesso della loro comunità-comunione. La chiameremo «sponsale». L'uomo e la donna in Genesi 2,23-25 emergono, al «principio» stesso appunto, con questa coscienza del significato del proprio corpo...." ( Giovanni Paolo II, catechesi sull'amore e sul corpo).

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APPROFONDIMENTI


MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II
IN OCCASIONE DELLA
XV
I GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ 

"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso,
 prenda la sua croce e mi segua
(Lc 9, 23)
Carissimi giovani!
1. Mentre mi rivolgo a voi con gioia ed affetto per questo nostro consueto appun­tamento annuale, conservo negli occhi e nel cuore l'immagine suggestiva della grande "Porta" sul prato di Tor Vergata, a Roma. La sera del 19 agosto dello scorso anno, all'inizio della veglia della XV Giornata Mondiale della Gioventù, mano nella mano con cinque giovani dei cinque continenti, ho varcato quella soglia sotto lo sguardo del Cristo crocifisso e risorto, quasi ad entrare simbolicamente insieme con tutti voi nel terzo millennio.
Voglio qui esprimere, dal profondo del cuore, un grazie sentito a Dio per il dono della giovinezza, che per mezzo vostro permane nella Chiesa e nel mondo (cfr Omelia a Tor Vergata, 20 agosto 2000).
Desidero, altresì, ringraziarlo con commozione perché mi ha concesso di accompagnare i giovani del mondo durante i due ultimi decenni del secolo appena concluso, indicando loro il cammino che conduce a Cristo, "lo stesso, ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8). Ma, al tempo stesso, Gli rendo grazie perché i giovani hanno accompagnato e quasi sostenuto il Papa lungo il suo pellegrinare apostolico attraverso i Paesi della terra.
Che cosa è stata la XV Giornata Mondiale della Gioventù se non un intenso momento di contemplazione del mistero del Verbo fatto carne per la nostra salvezza? Non è stata forse una straordinaria occasione per celebrare e proclamare la fede della Chiesa, e per progettare un rinnovato impegno cristiano, volgendo insieme lo sguardo al mondo, che attende l'annuncio della Parola che salva? I frutti autentici del Giubileo dei Giovani non si possono calcolare in statistiche, ma unicamente in opere di amore e di giustizia, in fedeltà quotidiana, preziosa pur se spesso poco visibile. Ho affidato a voi, cari giovani, e specialmente a quanti hanno preso parte direttamente a quell'indimenticabile incontro, il compito di offrire al mondo questa coerente testimonianza evangelica.
2. Ricchi dell'esperienza vissuta, avete fatto ritorno alle vostre case e alle abituali occupazioni, ed ora vi apprestate a celebrare a livello diocesano, insieme con i vostri Pastori, la XVI Giornata Mondiale della Gioventù.
Per questa occasione, vorrei invitarvi a riflettere sulle condizioni che Gesù pone a chi decide di essere suo discepolo: "Se qualcuno vuol venire dietro a me - Egli dice -, rinneghi se stesso, pren­da la sua croce e mi segua" (Lc 9, 23). Gesù non è il Messia del trionfo e della potenza. Infatti non ha liberato Israele dal dominio romano e non gli ha assicurato la gloria politica. Come autentico Servo del Signore, ha realizzato la sua missione di Messia nella solidarietà, nel servizio, nell'umiliazione  della morte. E' un Messia al di fuori di ogni schema e di ogni clamore, che non si riesce a "capire" con la logica del succes­so e del potere, usata spesso dal mondo come criterio di verifica dei propri progetti ed azioni.
Venuto per compiere la volontà del Padre, Gesù rimane fedele ad essa fino in fondo e realizza così la sua missione di salvezza per quanti credono in Lui e Lo amano, non a parole, ma concretamente. Se è l'amore la condizione per seguirlo, è il sacrificio che verifica l'autenticità di quell'amore (cfr Lett. ap.Salvifici doloris, 17-18).
3. "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Lc9, 23). Queste parole esprimono la radicalità di una scelta che non ammette indugi e ripensamenti. E' un'esigenza dura, che ha impressionato gli stessi discepoli e nel corso dei secoli ha trattenuto molti uomini e donne dal seguire Cristo. Ma proprio questa radicalità ha anche prodotto frutti mirabili di santità e di martirio, che confortano nel tempo il cammino della Chiesa. Oggi ancora questa parola suona scandalo e follia (cfr 1 Cor 1, 22‑25). Eppure è con essa che ci si deve confrontare, perché la via tracciata da Dio per il suo Figlio è la stessa che deve percorrere il discepolo, deciso a porsi alla sua sequela. Non ci sono due strade, ma una soltanto: quella percorsa dal Maestro. Al discepolo non è consentito di inventarne un'altra.
Gesù cammina davanti ai suoi e domanda a ciascuno di fare quanto Lui stesso ha fatto. Dice: io non sono venuto per essere servito, ma per servire; così chi vuol essere come me sia servo di tutti. Io sono venuto a voi come uno che non possiede nulla; così posso chiedere a voi di lasciare ogni tipo di ricchezza che vi impedisce di entrare nel Regno dei cieli. Io accetto la contraddizione, l'essere respin­to dalla maggioranza del mio popolo; posso chiedere anche a voi di accettare la contraddizione e la contestazione, da qualunque parte vengano.
In altre parole, Gesù domanda di scegliere coraggiosamente la sua stessa via; di sceglierla anzitutto "nel cuore", perché l'avere questa o quella situazione esterna non dipende da noi. Da noi dipende la volontà di essere, in quanto è possibile, obbedienti come Lui al Padre e pronti ad accettare fino in fondo il progetto che Egli ha per ciascuno.
4. "Rinneghi se stesso". Rinnegare se stessi significa rinunciare al proprio pro­getto, spesso limitato e meschino, per accogliere quello di Dio: ecco il cammino della conversione, indispensabile per l'esistenza cristiana, che ha portato l'apostolo Paolo ad affermare: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).
Gesù non chiede di rinunciare a vivere, ma di accogliere una novità e una pienezza di vita che solo Lui può dare. L'uomo ha radicata nel profondo del suo essere la tendenza a "pensare a se stesso", a mettere la propria persona al centro degli interessi e a porsi come misura di tutto. Chi va dietro a Cristo rifiuta, invece, questo ripiegamento su di sé e non valuta le cose in base al proprio tornaconto. Considera la vita vissuta in termini di dono e gratuità, non di conquista e di possesso. La vita vera, infatti, si esprime nel dono di sé, frutto della grazia di Cristo: un'esistenza libera, in comunione con Dio e con i fratelli (cfr Gaudium et spes, 24).
Se vivere alla sequela del Signore diventa il valore supremo, allora tutti gli altri valori ricevono da questo la loro giusta collocazione ed importanza. Chi punta unicamente sui beni terreni risulterà perdente, nonostante le apparenze di successo: la morte lo coglierà con un cumulo di cose, ma con una vita mancata (cfr Lc 12, 13‑21). La scelta è dunque tra essere e avere, tra una vita piena e un'esistenza vuota, tra la verità e la menzogna.
5. "Prenda la sua croce e mi segua". Come la croce può ridursi ad oggetto ornamentale, così "portare la croce" può diventare un modo di dire. Nell'insegnamento di Gesù quest'espressione non mette, però, in primo piano la mortificazione e la rinuncia. Non si riferisce primariamente al dovere di sopportare con pazienza le piccole o grandi tribolazioni quotidiane; né, ancor meno, intende essere un'esaltazione del dolore come mezzo per piacere a Dio. Il cristiano non ricerca la sofferenza per se stessa, ma l'amore. E la croce accolta diviene il segno dell'amore e del dono totale. Portarla dietro a Cristo vuol dire unirsi a Lui nell'offrire la prova massima dell'amore.
Non si può parlare di croce senza considerare l'amore di Dio per noi, il fatto che Dio ci vuole ricolmare dei suoi beni. Con l'invito *seguimi+ Gesù ripete ai suoi discepoli non solo: prendimi come modello, ma anche: condividi la mia vita e le mie scelte, spendi insieme con me la tua vita per amore di Dio e dei fratelli. Così Cristo apre davanti a noi la *via della vita+, che è purtroppo costantemente minacciata dalla "via della morte". Il peccato è questa via che separa l'uomo da Dio e dal prossimo, provocando divisione e minando dall'interno la società.
La "via della vita", che riprende e rinnova gli atteggiamenti di Gesù, diviene la via della fede e della conversione. La via della croce, appunto. E' la via che conduce ad affidarsi a Lui e al suo disegno salvifico, a credere che Lui è morto per manifestare l'amore di Dio per ogni uomo; è la via di salvezza in mezzo ad una società spesso frammentaria, confusa e contraddittoria; è la via della felicità di seguire Cristo fino in fondo, nelle circostanze spesso drammatiche del vivere quotidiano; è la via che non teme insuccessi, difficoltà, emarginazioni, solitudini, perché riempie il cuore dell'uomo della presenza di Gesù; è la via della pace, del dominio di sé, della gioia profonda del cuore.
6. Cari giovani, non vi sembri strano se, all'inizio del terzo millennio, il Papa vi indica ancora una volta la croce come cammino di vita e di autentica felicità. La Chiesa da sempre crede e confessa che solo nella croce di Cristo c'è salvezza.
Una diffusa cultura dell'effimero, che assegna valore a ciò che piace ed appare bello, vorrebbe far credere che per essere felici sia necessario rimuovere la croce. Viene presentato come ideale un successo facile, una carriera rapida, una sessualità disgiunta dal senso di responsabilità e, finalmente, un'esistenza centrata sulla propria affermazione, spesso senza rispetto per gli altri.
Aprite però bene gli occhi, cari giovani: questa non è la strada che fa vivere, ma il sentiero che sprofonda nella morte. Dice Gesù: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà". Gesù non ci illude: "Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?" (Lc 9, 24‑25). Con la verità delle sue parole, che suonano dure, ma riempiono il cuore di pace, Gesù ci svela il segreto della vita autentica (cfrDiscorso ai giovani di Roma, 2 aprile 1998).
Non abbiate paura, dunque, di camminare sulla strada che il Signore per primo ha percorso. Con la vostra giovinezza, imprimete al terzo millennio che si apre il segno della speranza e dell'entusiasmo tipico della vostra età. Se lascerete operare in voi la grazia di Dio, se non verrete meno alla serietà del vostro impegno quotidiano, farete di questo nuovo secolo un tempo migliore per tutti.
Con voi cammina Maria, la Madre del Signore, la prima dei discepoli, rimasta fedele sotto la croce, da dove Cristo ci ha affidati a Lei come suoi figli. E vi accompagni anche la Benedizione Apostolica, che vi imparto di gran cuore.
Dal Vaticano, 14 Febbraio 2001
IOANNES PAULUS II

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Matta el Meskin (1)
Rinnegare se stessi 

Il monachesimo è la via della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi.  Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il monaco l'arena in cui si sottopone alla morte a se stesso. Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere in Cristo, le porte dell'Amore divino si spalancano davanti a lui. Quando l'amore divino s'accende nel suo cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la comunità monastica è diventata per voi un luogo di amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della vostra chiamata e la nuova vita. "Il nostro unico compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest'amore".  Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte  agli ordini  delle  vostre guide, agli errori dell'anziano e ai peccati del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra vocazione e ridiventare monaci da capo.
La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare a se stessi e dall'abbandono pronto, spontaneo e senza esitazione della propria volontà.  Questa era la via seguita dai Padri nell'istruire i novizi. Dalla vita di Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale gli insegnò a dire: "Sì", "Volentieri" e "Ho peccato", tutte espressioni piene di significato. Alcuni Padri avevano l'abitudine di dare ai loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è più importante del successo in un qualsiasi compito.
Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita, sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli elementi che aiutano la graduale distruzione della volontà propria e delle passioni – come il sopportare l'ingiustizia, le offese e lo scherno, la noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che incontri nella vita – proprio questi elementi accendono l'amore divino e ne alimentano il fuoco. Le porte dell'amore divino sono spalancate per il monaco che vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce la forza dell'amore, perché il Signore si rivela solo nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui totalmente e completamente. "Se uno vuol essere mio discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mc 8,34).
Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il dio dell'uomo naturale è il suo proprio io; quest'uomo è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri desideri.  Di conseguenza quando si intraprende la vita monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo. Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua persona.
Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei confronti del proprio io; vi può essere un'autentica lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo là dove c'è l'odio di se stessi, cioè l'odio della volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le abitudini e le gioie dell'ingannevole schiavitù di questo mondo.
Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall'inizio alla fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale, non apparente; esiste infatti una morte parziale che inganna e una morte esteriore che è falsa.
Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di morte del proprio io, perché l'io è pieno di tranelli e inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì che la morte si presenti come illusione o come forma esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al posto di quest'ultimo. Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il petto!
L'io è davvero morto quando accetta la propria morte apertamente e segretamente. Questa condizione è chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna volontà propria, ha abbandonato ogni polemica, ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello, inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera; non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per il suo bene e la sua edificazione.  Tutto questo diventa naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare la divina verità che egli sta avanzando saldamente e sicuramente lungo la via della morte a se stesso. 
D'altra parte, se l'io rifiuta di sperimentare segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo sulla strada dell'auto-rinnegamento, così da sembrare morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri, ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.
1.   Il primo falso sentiero è quello che potremmo chiamare il grande inganno. In questo stato l'io, apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre in inganno il suo "padrone" nel compimento meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell'incitarlo a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato che non è morto, gli è impossibile prestare culto a Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono considerevolmente.
Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l'anima infatti è completamente asservita, crede di rendere culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al proprio io.
Abbiamo chiamato questo sentiero "il grande inganno", proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell'illusione di rendere culto a Dio, illusione creata dall'inganno del proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se prende atto delle tante specie di peccati segreti che commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo essere l'opera di un uomo veramente morto a  se stesso e che vive nell'amore divino, formando un solo spirito con Cristo.
2.   Il secondo falso sentiero può essere chiamato l'inganno esplicito.  Qui l'io non può convincere il suo "padrone" a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori, ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti.  Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata, in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se stessa, è consapevole delle proprie infamie e accondiscende all'inganno di fronte agli altri.  Qui  l'io inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e morto al mondo, ma non inganna il suo "padrone".
Questo è il motivo per cui l'abbiamo chiamato il sentiero dell'inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato il primo "il grande inganno", dato che in quel sentiero l'io inganna anche il suo "padrone".
In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell'io che rifiuta di morire per volontà propria è quello di venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto di se stessi e un'usurpazione del diritto esclusivo di Cristo alla gloria e all'onore.
3.   Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore manifesto. Qui l'io non può convincere l'individuo a intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l'io preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto, lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l'io non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno dell'adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di tutti i diritti che l'uomo è tenuto a riconoscergli.  Qui il rifiuto dell'amore di Cristo e la rinuncia ai nostri obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e aperti. L'io qui è smascherato davanti a se stesso e a tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del maligno.
"Le vostre parole sono state dure contro di me – dice il Signore –. Ora voi dite: «Come abbiamo parlato contro di te?».  Avete detto:  «È inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti? D'ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e  li ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi saranno miei – dice il Signore degli eserciti – mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra il giusto e l'empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve" (Mal 3, 13-18).
Nella vocazione monastica non c'è quindi possibilità di scelta tra il morire o il non morire a noi stessi: infatti o c'è la morte a se stessi, oppure c'è il fallimento completo nella vita monastica, che terminerà con la condanna e l'inimicizia da parte di Dio.  O moriamo a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, mentre il suo amore arde in noi finché raggiungiamo il cielo;  oppure non moriamo a noi stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io, onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a onore dell'io, facendo cosi allontanare per sempre il vero Cristo dall'anima.  Verrà allora il giorno in cui il monaco si renderà conto di aver invano faticato nella sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non era altro che il proprio io, che adorava e al quale rendeva culto.
L'autentico monachesimo è la pratica della morte radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le strade che conducono al proprio io, così che non possa mai più risorgere e rivivere.
Se la morte a se stessi fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe impossibile da realizzare, perché l'io è più forte della ragione e della volontà e le pone a suo servizio. Inoltre l'io coincide con l'uomo stesso quando questi lascia via libera agli istinti naturali.
Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un processo compensativo: come prima cosa riceviamo in anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa forza è la forza della croce, cioè della morte volontaria a se stessi.  È una grande forza mistica, che Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise come un libero dono di grazia. Così per essa noi sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa dell'amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due elementi di supporto: la forza della croce, per far morire l'io facilmente, e la pregustazione della vita eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci nel faticoso processo della morte dell'io. La morte a se stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo. Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore la morte a noi stessi?
Nessuno pensi che il processo della morte dell'io sia complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può essere! È estremamente semplice, non è altro che la determinazione della persona di affidare l'intera sua vita in ogni particolare, il passato insieme al presente e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo, rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un bambino affida con amore al padre quanto di più caro possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora migliore. Consegnamo a Cristo il nostro "io" impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e al loro posto riceviamo l'Io stesso e la vita di Cristo, mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa volontà.
Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi! Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso tutto: l'io è, per così dire, tutto ciò che appartiene all'uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece di doverglisi sottoporre – prima o poi – contro la propria volontà.
L'io che non è morto chiede sempre di essere innalzato al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve anche della carità, dell'offerta di doni, della cortesia, dell'adulazione e della difesa degli oppressi in modo da distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l'io le dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da apparire più virtuoso di loro.
Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente. Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la gratificazione personale, l'essere onorati e rispettati dalla gente.
L'io che non è morto cerca sempre di evitare le occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la sua debolezza. Si trattiene perciò dall'accostarsi a tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la mancanza di esperienza, l'inadeguatezza dei fratelli o la malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e non lasciar trasparire i propri difetti.
Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l'occasione di purificare le vostre infermità, anche se sono all'inizio; chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per sempre di mezzo l'orgoglio. Chi invece nasconde i propri difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò subire la vergogna in questa vita che non nell'altra, davanti agli angeli e ai santi!
L'io che non è morto non può sopportare di essere disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito.  Se lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da un padre, da un fratello, da un superiore o da un inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l'amore di Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore.  L'uomo infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo  ed  è morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto, scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera ardentemente.
L'io che non è morto non può sopportare di ricevere ordini o direttive da uno che gli è inferiore per cultura, età o stato;  questo infatti gli sembra un attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo rango.  L'uomo il cui io è morto, invece, si considera all'ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né posizione sociale.
L'io che non è realmente morto a se stesso trova da un lato molto facile scegliere per sé l'ultimo posto, ma, d'altro lato, non può sopportare che altri gli assegnino un posto appena inferiore a quello che lui considera come la sua giusta posizione.
Questo io vive palesemente in modo conforme a un falso vangelo: per lui infatti l'adempimento del comandamento sta nel servire i propri interessi e non nell'obbedienza ai comandamenti di Cristo.
Ricordate sempre che chi sceglie l'ultimo posto è provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco il Siro, "colui che umilia se stesso per essere onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà".
Il segno invece che l'io è morto è il suo amore e il suo desiderio per l'ultimo posto: egli non lo ricerca, per timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato dagli altri!
Se l'io che non è morto non è onorato dai membri della comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non quello di Dio o l'amore di Cristo. Si vede così quanto può essere falso il culto a Dio!
Quanto invece all'io che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore, vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L'anima che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo alla comunità.
Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a morte il proprio io e  così essere incapace di trovare la via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza; quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per quel che legge che per quel che ascolta, tanto più diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere. Ciò accade perché l'io sa bene che il compimento delle vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed egli non vuole morire! L'io inganna il monaco e lo illude, facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non appena sente parlare di qualche virtù o opera buona pensa di possederne anche di migliori, perché l'io fa suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per sé.  Quest'uomo si inebria dell'amore di sé, loda se stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi. Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al proprio padre spirituale. Se commette un errore senza essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare critiche e chiede scusa solo per conservare la propria posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui una debolezza e lo scusarsi una vergogna.
Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento della vostra vita monastica di mettere in atto, sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che può metterlo sotto il potere della croce, perché questa è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via della virtù attraverso la porta della croce e non attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò che avete sperimentato, non di quello che avete letto o di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, "Noi ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui" (2Cor 10,15); "Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi" (2Cor 3,5); "Perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me" (2Cor 12,6); "Perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda" (2Cor 10,18).
È possibile anche che un monaco perda la capacità di mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada, dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito, cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole seno di Dio e quella semplicità che introdusse i pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato. Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi, perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre perché l'io si è gonfiato a causa del sapere. Così, pensando che tornare sui propri passi è così difficile da sembrare impossibile, s'inoltra di giorno in giorno lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso. Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si ricorda della propria debolezza e dell'umiltà di un tempo. Ama l'onore, ma non vi trova alcun conforto. Le cattedre dell'insegnamento sono estremamente allettanti, ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a causa dell'amaro rimorso per il passato di umiltà. L'io si rende conto che la volontà propria mette radici e che questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza dell'albero della ribellione non lasciano vedere le loro conseguenze. E così l'io assapora lo smarrirsi lontano da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per constatare di essere completamente fuori strada, lontano dall'albero della vita e anche dall'albero della conoscenza.
Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati dal desiderio della gloria mondana, se non volete precipitare, ancora giovani, nell'abisso.
Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo difficile da portare, arso com'è dalla fama mondana a basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo insistentemente a diventare un ladro al servizio del proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti, le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso, così da essere lodato per cose che non gli appartengono. Si illude di dar gloria a Dio. "Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? [...]. Come alcuni [...] ci calunniano dicendo che noi [così] affermiamo" (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto, lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune, mentre appare agli altri un ministro della virtù e un rappresentante della rettitudine.
Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni.  Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!
Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere. Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni dell'io, in complicità con le sue passioni e le sue aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi fossero reali. L'individuo si sveglia solo per credere di essere diventato un santo durante la notte! Comincia a dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così si illude ancor di più, convinto com'è che sia tutto vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all'animo debole dall'ambizioso io. Questi costringe la mente a rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a tal punto che l'io sembra possedere una natura superiore a quella delle altre persone e soddisfà così la sua ambizione. Quando l'io non riesce a tenere sotto controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue brame con opere, parole e capacità pratiche, lo costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e risorse pratiche e così che l'io sia glorificato in ogni modo e a ogni costo. 
Siate dunque attenti e vigilanti fin dall'inizio. State in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell'io e le sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando a tutti i talenti dell'anima e della mente di lavorare per la sua definitiva lode e glorificazione quale io soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni che dei sogni può impedirgli di procedere su questa strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire lungo la stretta via della salvezza, è possibile che visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura spirituale è elevata e la cui salvezza non corre pericolo.
L'io che non è morto odia ed evita la confessione, perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l'io che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella confessione e la ricerca con gioia, superando ogni ostacolo, perché nella confessione viene purificato e purificato nuovamente, fino a diventare candido.
L'io che non è stato messo a morte, se decide di non morire, nasconde i propri difetti nella confessione. Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti della confessione e del suo confessore, accusandolo di ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di esporre i propri difetti.
L'io che non è stato messo a morte e che ha deciso di non morire non trova vantaggio nelle parole o nei consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole diventano per lui un peso insopportabile. Ma l'io che è morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono dolci come il miele.
* * *
Coraggio, fratelli!  Ecco, lo Sposo – che amiamo ma non possiamo vedere – viene come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci. Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che Egli troverà vigilante.(2)
* * *

(1): Matta el Meskin è il rinnovatore della vita monastica nel deserto di Wadi el Natrun in Egitto, è il padre spirituale molto conosciuto e stimato dall'intera chiesa copta e da tutti i cristiani presenti in Egitto. Dopo anni di vita eremiticaha inizio il suo irradiamento, giungono molti discepoli e ora attorno a lui, al monastero di S. Macario a Scete, cristiani di ogni estrazione accorrono per ascoltare il suo insegnamento spirituale, frutto di contemplazione, di preghiera e di ascesi.
Il lettore di questa meditazione non si trova di fronte a parole, bensì a un'esperienza di fede. Questa meditazione è indirizzata esplicitamente a quanti hanno abbracciato la vocazione monastica ricevuta da Dio, ma il suo contenuto, così come la parola di Cristo da cui prende lo spunto  ("Se uno vuol essere mio discepolo rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua") si rivolgono a  ogni cristiano che nel battesimo ha accettato di morire con Cristo per risorgere con Lui.

NOTA
sul  Monastero  di  san  Macario


Il monastero di S. Macario - che è stato abitato ininterrottamente dai monaci dal IV secolo fino a oggi - ha conosciuto una sorprendente rinascita spirituale dopo il 1969, e oggi accoglie ormai più di un centinaio di monaci che il carisma di paternità spirituale di Matta el Meskin ha generato a Cristo nella vita monastica.
Questa vita ha come fondamenti innanzitutto la Parola di Dio, nutrimento di ogni giorno, cibo che rinvigorisce per la lotta, consolazione che sostiene la speranza della meta: il regno di Dio. A un discepolo che chiedeva a Matta el Meskin  di insegnargli a pregare, questi rispose: "Dammi la tua Bibbia". Aprì il libro, cercò l'inizio della lettera agli Efesini, si alzò, levò gli occhi al cielo e disse: "Prega così" e, dopo aver letto ad alta voce il primo versetto, tacque, ripeté ogni parola due volte e rilesse tutto daccapo; poi, al versetto seguente, alzò la voce, supplicò Dio di perdonarlo, canticchiò lo stesso versetto, biascicò, alzò le mani, pianse... e così fece per tutto il capitolo! Nel frattempo si era totalmente dimenticato della presenza del discepolo, rimasto seduto accanto a lui.
Ma la Scrittura giunge attraverso una Tradizione, e perciò accanto ad essa gli esempi deipadri del deserto e gli scritti dei padri della Chiesa sono per i monaci di Scete cibo quotidiano nella lettura, nello studio, nella contemplazione. Matta el Meskin a questo proposito avverte: "Quando leggiamo un apoftegma dei padri a noi deve succedere questo: prima lo Spirito ci convince che la loro esperienza è vera, poi dobbiamo lottare per far nostra questa loro esperienza, perseverando nella lotta fino alla morte, cioè pronti a morire per rimanere fedeli al comandamento che lo Spirito ci ha dato. Morire per mettere in pratica nello Spirito un comandamento del Signore, questo è il vero martirio. Ma colui che è pronto a morire sarà salvato dal Signore e non morirà, perché il Signore stesso è morto per noi. Se il monaco, prima ancora di ricevere l'abito, è pronto a rimanere incondizionatamente fedele, fino alla morte, se non ha paura della morte allora la sua vita monastica sarà  un successo spirituale. Ma se teme per il suo corpo, se rifiuta di correre rischi, allora la sua vita monastica sarà molto penosa; peggio, sarà assai difficile per lui essere trasformato dallo Spirito in un uomo nuovo e gustare veramente la vita eterna".
Accanto alla parola di Dio e alla tradizione dei padri del deserto, in una fedeltà che si consolida e si rinnova giorno dopo giorno, c'è la figura del  Padre Spirituale.  Il padre insegna sia a tutta la comunità sia a ognuno individualmente. Quando ritiene che sia il momento opportuno, spesso in occasione di una grande festa liturgica, egli raduna dopo l'ufficiatura tutti i monaci nella chiesa e parla per una, due ore. Ma i monaci vengono anche separatamente a chiedergli un consiglio: lo si può vedere allora verso sera seduto sulla soglia della sua cella, mentre un altro monaco è seduto ai suoi piedi e un terzo, un quarto aspettano a una certa distanza. L'unica regola per i monaci infatti è l'amore di Gesù crocifisso ed è questo spirito di amore che anima tutto. La funzione del padre spirituale è di distinguere nettamente come ognuno dei suoi figli deve concretamente realizzarla. Egli è la regola vivente, che si adatta a ogni vocazione, che si rinnova costantemente e che percorre con ognuno dei suoi figli la strada verso Dio. Perciò il padre si ritira spesso: perché egli stesso deve vivere nello Spirito e rinnovarsi nello Spirito, affinché questi possa operare per mezzo di lui: non è infatti il padre spirituale che introduce i suoi figli nell'intimità di Dio, ma solo lo Spirito.   (E.B.)

(2): La presente meditazione è estratta dall’antologia di scritti di Matta el Meskin
dal titolo Comunione nell’Amore curata dalla Comunità di Bose ( pagg. 127-140 )
Edizioni Qiqajon 1986 - Magnago VC
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