giovedì 15 marzo 2012

Cristo e il demonio muto


Di seguito il Vangelo di oggi, 15 marzo, giovedi della III settimana di Quaresima
con un commento e qualche testo per la meditazione.

 


Cristo è 'la mano' di Dio tesa all'umanità,
perché possa uscire dalle sabbie mobili della malattia e della morte,
rialzarsi in piedi sulla salda roccia dell'amore divino.

Benedetto XVI



Lc 11,14-23 


In quel tempo, Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: “È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni”. Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo.
Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni in nome di Beelzebul. Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino.
Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde”.



IL COMMENTO


Ammutoliti, inermi, presi tra i tentacoli dell'orgoglio. In silenzio. La porta sbarrata e una vita passata nel proprio mondo, con gli "altri" è troppo complicato, ingiustizie, incomprensioni. Meglio star soli che è già molto sopportare se stessi. Orgoglio allo stato puro, il demonio muto, demonio di questa generazione, come forse mai. Il mutismo che caratterizza le relazioni delegate a chat senza volti e voci, ove nascondersi, acconciarsi, ingannare: rapporti muti, infecondi, ripiegati su stessi, schiavi della paura e delle concupiscenze che ne derivano. Rapporti muti come i rapporti prematrimoniali, passione da soddisfare nell'attenzione a non "combinare il guaio", pervertendo radicalmente la sessualità che è dono attraverso il quale partecipare all'opera creativa di Dio: rapporti muti come i rapporti tra coniugi chiusi alla vita, tsunami d'egoismo contro la natura disegnata dal dito di Dio, amore che crea, che dà vita, la moltiplica, la colma, la conduce a perfezione. Rapporti muti come i rapporti omosessuali, vagiti infantili alla ricerca di nutrimento affettivo, schiacciati sul proprio io da soddisfare nel latente egoismo ben mascherato di altruismo e camuffato nei sentimenti che cercano, "orgogliosamente", diritti che, concessi, darebbero cittadinanza al suicidio. Perchè un rapporto muto è sempre un suicidio, lento, subdolo, inesorabile: esso attenta alla natura più profonda dell'uomo, che è creato per parlare lingue nuove, per entrare in una relazione d'amore con chi gli è posto accanto, uscendo da se stesso per apprendere il linguaggio di chi è diverso e altro da me, perdendo così la propria vita per ritrovarla moltiplicata e compiuta. Parlare l'amore rispettando il corpo e la vita di chi ancora non è carne della mia carne nel vincolo del matrimonio, rapporto fecondo che genera generosità e responsabilità che saranno sigillate nel sacramento nuziale; parlare l'amoreunendosi al coniuge nell'apertura alla feconda volontà di Dio, donandosi mutuamente il compimento santo della propria carne nella purezza originale che genera amore, e quindi vita destinata all'eternità.



Invece, come affermava Mons. Giussani, "Questo è l’importante per il mondo: impedire all’uomo di raggiungere la propria ferita, cioè di raggiungere sé stesso"Qualche tempo fa il professor Veronesi sentenziò sulla superiorità dell'amore omosessuale (amore?) nel nome di una sua presunta maggiore purezza. L'amore tra due uomini o tra due donne sarebbe più puro perchè non strumentale alla procreazione. Purezza da preservativo, per cui un omosessuale non "usa" l'altro per concepire una nuova vita: lo usa solo per se stesso, nell'assolutezza tragica dell'egoismo. Purezza claustrofobica, rinchiusa nello spazio esile del piacere ripiegato su sé stessi: scriveva Veronesi che "due gay si dicono: amo te perchè mi sei vicino nel pensiero; il tuo pensiero, la tua sensibilità e i sentimenti sono più vicini ai miei". L'altro è così trasformato in un clone di me stesso: quanto più vicino, tanto più amato; quanto meno differenze, tanto più amore. E' così descritto il demonio muto, che svela la grave infermità di cui soffre questa società, e anche il nostro cuore: impuro è ciò che procura sofferenza e dolore; la ferita inferta dall'alterità diviene la porta all'infelicità. La ferita aperta sulla costola di Adamo per dare la vita ad Eva. L'altro sesso costituito moglie o marito, con le sue incognite, con il carico di precarietà e inafferrabilità che porta in dote, è lo spazio dischiuso al rispetto e al dono di sè. Ma, spesso, l'altro, è visto e vissuto come un tumore. Ti afferra la carne, si infila tra le cellule, occupa i tuoi spazi. Ti fa debole, inerme, piccolo. L'altro ti spinge all'amore gratuito, a spiccare il volo in un cielo di cui non conosci le proporzioni, a dimenticare te stesso e i tuoi schemi. E questo significa dolore, amore segnato da una ferita.


Il demonio muto è l'artefice dell'inganno di una vita senza dolore, senza ferite, senza il difficile linguaggio che cerchi di comprendere, accogliere, amare davvero. Il demonio muto che schiaccia e frustra una relazione nella ricerca di una somiglianza e di una vicinanza che annullino le differenze e i rischi, le difficoltà, i sacrifici e il dolore, cortocircuita, in questa generazione, con il folle anelito ad una vita sempre più lunga e senza malattie. Il nesso tra la ricerca contro i tumori e la beatificazione dell'amore omosessuale è evidente. Si tratta dello stesso demonio muto perchè questi si ammanta di luce, si traveste e si annida nelle menti e nei cuori, nascosto nel cavallo di Troia dell'ideologia dominante, suadente e gravida di speranze per un domani senza dolore. Lotta ai tumori, eutanasia, selezione embrionale e amore gay sono parenti stretti, gemelli figliati dall'unica menzogna che ha chiuso il Cielo, il destino eterno cui ogni uomo è chiamato. E allora ecco le parodie del paradiso, porzioni di piacere su misura, perchè senza un destino di felicità dinanzi non si può vivere. Il Cielo trasformato in idolatria dell'ego, unica possibilità rimasta a chi ha cancellato il peccato, e con esso la ferita del male inferta dal principe di questo mondo. Il dolore, ogni dolore, cola da questa ferita primigenia, dall'invidia del demonio (cfr. Sap. 2,24). Impegnarsi per cancellarne gli effetti è quanto di più irragionevole vi sia, un vero attacco alla scienza e al buon senso. Accanirsi su un tumore senza ricercarne le origini è pura stoltezza. Per questo, di fronte alla sconfitta di una cura, l'unica via di uscita è l'omicidio, in versione aborto o eutanasia, demoni muti, senza parole di fronte al dolore, alla sofferenza dell'innocente, all'amore che richiede il dono totale. 


Eppure è proprio la ferita il luogo del riscatto: "dove è abbondato il peccato ha sovrabbondato la Grazia" (Rom. 5,20). Quella ferita originale di cui tutti sperimentiamo il dolore, si è aperta un pomeriggio di duemila anni fa nelle mani, nei piedi e nel costato di Gesù, sospingendolo nell'abisso del male e della morte. Ma da quell'antro oscuro è risorto, mostrando finalmente quelle ferite trasfigurate e radianti di luce. In esse vi è ogni nostra ferita. Da quel giorno la Croce è divenuta la porta del Cielo, l'accesso misterioso alla felicità autentica, ad un parlare la lingua dell'amore sconosciuta a chi è stato preda del demonio muto. Cristo crocifisso e risorto è la Parola che scioglie le catene del "grande peccato" e libera la lingua e riconsegna il cuore alla verità e all'autenticità. Il sepolcro d'una vita ripiegata sulla propria solitudine è finalmente spalancato. E' questa l'opera di Dio, che genera meraviglia. Perchè solo l'amore crocifisso è amore vero e degno, dono fecondo e libero, amore puro che sgorga dalla misericordia sperimentata e ridonata. Accogliere e amare il marito o la moglie esattamente come essi sono, senza sperare nulla, donando all'altro la vita che zampilla dalla sorgente inesauribile dell'amore risorto. Accogliere una malattia, laddove non si abbiano i rimedi per curarla, facendone un luogo di offerta e di amore. Raggiungere l'altro all'estremo opposto dell'orizzonte, senza chiedere e senza esigere, nella consegna totale e gratuita di sé. Restare crocifissi con Cristo nei dolori che umiliano un corpo che vorrebbe correre e vivere in pienezza, come in una liturgia che abbraccia l'universo e che offre ogni lacrima per un destino più grande. Amare e dare la vita, aprirsi alla fecondità che Dio ha pensato per ciascuno, sul talamo nuziale come sul letto della malattia. E figli, di carne e di fede, figli nati per la vita eterna.  


Si comprende allora la tanta invidia del demonio, è insopportabile per lui vedere uno schiavo liberato. Il Più Forte è arrivato, lo ha vinto, gli ha strappato l'armatura di menzogne, le stesse che costituivano l'appoggio di tante esistenze bruciate nel mutismo più oscuro. Il bottino, gli schiavi liberati, distribuiti nel mondo ad annunciare la Buona Notizia, una Parola capace di strappare la preda al demonio. Il demonio muto che governa il mondo si ribella, si fa pensiero malvagio, cultura di morte, negli intellettuali come, spesso, in ciascuno di noi. E allora processi, calunnie, menzogne, quelle di duemila anni fa come quelle di oggi, nel tentativo di ricacciare tutti nel mutismo che soffoca la verità. E Lui, il Signore, l'umile, l'amore spezzato, Lui considerato un demonio. E' la sua sorte, il mondo chiude le gabbie, e sigilla le labbra in un mutismo di morte e solitudine. Quello che sperimentiamo, che vediamo, che soffriamo. Perchè chi non è con Cristo è contro di Lui, non vi è spazio per la mediazione con il demonio! Esso è muto, non vuole parlare, non vuole uscire allo scoperto, si cela nei pensieri, illudendosi che Dio non lo scovi nell'abisso più profondo. Chi non raccoglie il suo amore disseminato nella storia disperde, come si disperde il seme nei rapporti muti, siano essi tra fidanzati, tra omosessuali, o chiusi alla vita tra i coniugi, siano quelli ancor più egoistici che si risolvono nella masturbazione. Rapporti muti nella sessualità come in ogni altro aspetto; disperdere l'amore, renderlo vano, prostituirlo e pervertirlo per saziare il proprio uomo vecchio, in famiglia, tra amici, nella missione e nella stessa Chiesa: è questo il demonio muto che ci afferra tutti. Il demonio che disperde il seme della Parola creatrice, e lo secca tra rovi, sassi, sul ciglio della strada della vita, negli inganni del mondo. Il demonio che ammutolisce la Parola capace di far crescere e dar frutto, la pazienza dell'amore, perchè il Signore non raccolga con noi i frutti pensati nel piano amorevole del Padre. Ma il Signore è più forte, conosce i nostri pensieri, il mutismo dove si nasconde l'inganno: ci conosce e ci conduce fuori, alla luce, ci libera nella verità, perchè il Suo amore crocifisso ha vinto il mondo. Il dito di Dio che ci ha creato giunge anche oggi, anche per noi, per toccarci e sanarci, per schiudere le labbra del nostro cuore, la lingua del nostro corpo, le corde del nostro spirito, perchè possiamo parlare le parole del Cielo, il suo amore che ha vinto l'egoismo e la morte, e raccogliere con Lui senza disperdere i frutti per la Vita Eterna.

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Sant'Amedeo di Lausanne (1108-1159), monaco cistercense, poi vescovo 
Omelia mariana ; SC 72


Il dito di Dio


        « Mi venga in aiuto la tua mano ! » (Sal 118, 173). Il Figlio unico del Padre, per mezzo del quale egli ha creato tutte le cose, è chiamato la mano di Dio. Questa mano ha operato quando si è incarnata, non soltanto nel fatto che non ha causato a sua madre nessuna ferita, ma anche, secondo la testimonianza del profeta, addossandosi le nostre malattie, caricandosi delle nostre sofferenze (Is 53, 4).
        Sicuramente, questa mano, piena di rimedi diversi, ha guarito ogni malattia. Ha respinto ogni causa di morte ; ha risuscitato dai morti ; ha frantumato le porte degli inferi ; ha incatenato l'uomo forte e gli ha strappato via le armi ; ha aperto il cielo ; ha elargito lo Spirito di amore nei cuori dei suoi. Questa mano libera i prigionieri e dona la vista ai ciechi ; rialza coloro che sono caduti ; ama i giusti e custodisce i forestieri ; accoglie l'orfano e la vedova. Strappa dalla tentazione coloro che sono in pericolo ; ristora, riconfortandoli, coloro che soffrono ; ridà gioia agli afflitti ; ripara sotto la sua ombra coloro che faticano ; scrive per coloro che vogliono meditare la sua Legge ; tocca e benedice il cuore di coloro che pregano ; li rafforza nell'amore, per mezzo del suo contatto ; li fa progredire e perseverare nella sua azione. Infine, li conduce alla patria ; li riporta al Padre.
        Infatti, si è fatta carne per attrarre l'uomo attraverso l'Uomo, unendo la nostra alla sua carne, per riportare, nel suo amore, la pecora smarrita a Dio, Padre onnipotente e invisibile. Poiché questa pecora, avendo lasciato Dio, era caduta « nella carne », era necessario che questa mano, fatta uomo, venisse a sollevarla « dalla sua carne » per riportarla al Padre (Lc 15,4s).



APPROFONDIMENTI

Opera ( Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento)

I vocaboli raggruppati sotto le parole chiave opera azione servono ad esprimere tutti gli aspetti attivi dell'azione: mentre (prasso) indica l'agire l'essere occupato, in senso largo — spesso con un sottotono negativo (poiéó) pone l'accento sull'attività qualificata, finalizzata e creatrice (nel NT prasso è usato 39 volte, mentre poiéò 465). Del gruppo di vocaboli che fanno capo ad(ergàzomai), è usato soprattutto il sostantivo (ergorì), che sottolinea il carattere personale dell'azione. Di fronte ad esso, nel NT, il lavoro materiale ( póièma) passa iti] secondo piano.
ergàzomai, lavorare, agire, operare; ergon, attività, azione, opera, cosa (plurale: storia); ergasìa,lavoro, occupazione; ergàtès, uno che fa qualcosa, lavoratore; enérgheia, attività, efficacia, forza,potenza; agire, far qualcosa; energhés, attivo, efficace; enérghèma, l'operato, l'azione;euerghesia, il beneficio, il bene operato; euerghetéò, beneficare, fare del bene; euerghétés, il benefattore; synergós, collaboratore, aiuto, assistente; synerghéò, collaborare, agire con, aiutare, favorire.
I 1) a) II verbo ergàzomai, derivato dal sostantivo érgon, nella forma
intransitiva, ha il significato di lavorare, agire; usato in forma transitiva — per es. assieme adergon — significa creare, operare, compiere oppure anche elaborare (per es. una materia prima).
b) ergon indica — a cominciare dal greco miceneo — l'opera, l'azione (in opposizione all'inattività oppure alle semplici parole). Può riguardare un'attività specifica di una professione oppure di un ufficio (per es. il lavoro nei campi o l'attività bellica), e significare, a seconda delle situazioni, azione, opera e, in senso peggiorativo, cosa, oggetto. Nel plurale, ergon può voler dire anche storia.
e) Simile, anche se più limitato, è il contenuto di ergasìa, che può significare lavoro, occupazione, elaborazione, opera (soprattuttto di un'opera d'arte), oppure acquisto.
d) II sostantivo ergàtès indica o, genericamente, colui che fa qualcosa, oppure il lavoratore,come membro di una classe sociale (molto spesso gli schiavi) oppure di una professione (soprattutto i contadini).
I II verbo ergàzomai e il sostantivo érgon si possono trovare già nel periodo ! miceneo, in Omero ed Esiodo, nel loro significato fondamentale; ergasìa invece si trova per la prima volta in Pindaro; ed ergàtes è usato a cominciare dal 5 sec. a.C. I (nei tragici e in Erodoto).
Ir e) enérgheia si trova già al tempo dei presocratici per indicare l'attività. Va tradotto conattività, efficacia, potenza (forza). Per cui energhéo, all'intransitivo, indica essere all'opera, operare;al transitivo significa, più o meno, agire, effettuare; energhès I è una forma secondaria posteriore (a cominciare da Aristotele) dell'aggettivo energós, attivo, operoso, enérghèma indica ciò che è stato fatto, l'aito.
Questi vocaboli, se nell'ellenismo e in Filone servono a indicare forze cosmiche e fisiche, nei LXX (come anche nel NT) indicano « quasi sempre l'azione di forze divine o demoniache » (G. Bertram, ThW II, 649). Però si incontrano solo in 1 e 2Mac e in Sap.
f) Al precedente gruppo di sostantivi appartiene anche euerghesìa, il beneficio, il bene operato,assieme al verbo euerghetéo, beneficiare, fare del bene e il sostantivo euerghétés, il benefattore,euerghesìa è in uso già presso Omero; il verbo si trova nei tragici, ed euerghétés in Pindaro.euerghétés acquista, nei circoli culturali ellenistici e romani, il significato di un titolo onorifico, dato a persone benemerite, soprattutto ai re.
g) synergós (a cominciare da Pindaro) indica il collaboratore, l'aiutante. Da questo, al tempo di Euripide, viene formato il verbo synerghéd: collaborare, agire con, aiutare, favorire.
2) Già in Esiodo il lavoro viene considerato significativo dal punto di vista morale: « Col lavoro (ex ergon) gli uomini si arricchiscono di bestiame e di beni. E coloro che si danno da fare sono molto più cari agli immortali (dèi). Non bisogna, per niente, vergognarsi di lavorare. La pigrizia invece è una cosa vergognosa » (Op. 307ss). L'uomo si qualifica dal suo ergon. Da questo deriva, per es. in Senofonte, una locuzione particolare che dice: l'uomo si conosce ek fon ergon, dalle (sue) opere. In Piatone (Polit. 352d-353e) ergon è messo in stretto rapporto con -» virtù (mete). Questo rapporto è sviluppato in modo sistematico nell'etica nicomachea di Aristotele: è compito dell'arene completare Yergon di un organo per es. della vista per l'occhio). Spesso il valore etico di un'azione o opera (erga) viene espresso per mezzo di predicati come kalà, bella;agathà, buona; oppure negativamente per mezzo di , kakà, cattiva; àdika, ingiusta; panerà, malvagia.
II Nei LXX questo gruppo di vocaboli viene usato in tutti i significati del greco profano; spesso serve a tradurre i termini ebraici 'asah, fare, creare; pà'al, fare, agire; 'abad, lavorare, servire.Come sinonimi di érgon si trova spesso il gruppo di vocaboli che fa capo a poiéo, e più raramente pressò. Tutto ciò che di nuovo hanno questi termini, nei confronti del greco profano, è dovuto alla particolare fede in Dio di Israele.
1) Difatti i LXX fin dall'inizio usano érgon per descrivere l'azione creatrice di Dio (Gn 2,2.3). Però, riferendosi all'azione di Dio che si compie attraverso la parola (cf. 4Esd 4 (6), 38, 43), non si nota l'opposizione tra parola e azione di cui si è parlato più sopra. In questo contesto si usa più spesso ergon (per es. Sai 8,4.7; 90,16; 138,8; Gb 14, 15; Is 29,23; Eb 1, 10; 4,3.4) per esprimere l'opera del creato, che include il cielo e la terra e gli uomini (spesso: opere delle tue mani, erga cheiròn sou) Inoltre ergon sta ad indicare l'azione di Dio al di là della creazione, e indica soprattutto le azioni di Dio nella storia, per mezzo delle quali egli dimostra la sua fedeltà all'alleanza con Israele (cf. per es. la citazione del Sai 8 in Eb 3, 9). In questi casi il concetto diergon assume talvolta il significato di prodigio (cf. per es. Dt 11,3; Sir 48,14). Naturalmente l'azione di Dio non significa solo conservazione e salvezza, ma anche giudizio (per es. Is 28,21; cf. At 13,41).
2) Quando ergon si riferisce all'attività dell'uomo, nell'ambito dei LXX, può avere uno di questi tre significati:
a) Nella maggioranza dei casi ha un significato positivo, allorché viene usato per indicare l'esecuzione, da parte dell'uomo di un compito che gli era stato assegnato
da Dio (cf. Gn 2, 15). Tra le azioni significative, dal punto di vista religioso, sono i sideralè le attività cultuali come il servizio nel tempio o il sacrificio (cf. Nm 8,1 Ma anche nella vita quotidiana il lavoro viene valutato positivamente, perché è come un ubbidiente adempimento della volontà divina e della -> legge (cf. Es e Dt 5, 13s, dove, nel quadro del decalogo, viene collocato il significativo alteri di lavoro e riposo). Questo riguarda sia la semplice attività professionale (cf. Dt : 14,29; Gb 1,10; Sai 90,17), come anche particolari attività comandate dalla le$ (per es. Ne 13, 14: atti di bontà; Sai 15, 2: giustizia; Sof 2, 3; cf. Sai 7, 4s; 18,21sse
b) Nel racconto del peccato originale ergon indica il lavoro nel senso di fatj peso e maledizione (cf. Gn 3, 17ss; 4, 12; 5, 29; Dt 26, 6). Tale concezione è presi soprattutto nel giudaismo ellenistico.
e) In altri passi dei LXX ergon — certamente sotto l'influsso del giudaisi ellenistico — ha il senso di azione cattiva, riprovevole e che separa da Dio, do« -» peccato (cf. per es. Gb 11, 11; 21, 16; 24, 14). Naturalmente, in questi casi, noni tratta tanto di un'attività che sia riprovevole in se stessa, quanto piuttosto di qualci che è dovuto alla cattiveria dell'uomo (per es. Pro 11,18). Dio osserva le opere di empi e dei malvagi, che operano nelle tenebre (Is 29,15); « in una notte li travet e vengono stritolati » (Gb 34,25), perché « le loro sono opere inique » (Is Questo giudizio sulla futilità dell'operato umano « acquista nella teologia del NT carattere fondamentale» (G. Bertram, ThW II, 642).
3) Nel tardo giudaismo viene sviluppata costruita la concezione delle necessarie per l'adempimento della legge e della -> giustizia (5txawxruvrj, dikaiosyn Ai giudei viene indicata, in modo casuistico, la via della pietà, in una serie di prèsi zioni della —> legge, da mettere in atto. Si pensi, per es., al precetto del sabato opp alle prescrizioni riguardanti le purificazioni, con le quali Gesù o i suoi discepoli • nero in conflitto. Poiché non tutti seguono conscguentemente questa strada, si distiri tra giusti e pii mediocri (soprattutto nell'ApocBar [syr] e in 4Esd). Questa distinzio riceve il suo approfondimento escatologico (cf. già Is 3, lOs) per mezzo del conci della ricompensa e del merito (-» ricompensa), visti in rapporto al giudizio Un giorno Dio renderà agli uomini secondo le loro opere. Gli empi riceveranno la la punizione, mentre i giusti potranno morire senza timore, perché « hanno presso il privilegio delle loro opere, che viene conservato nello scrigno » (ApocBar [syr] 12; cf. Mt 6,20; Le 12,33; ITm 6, 19). Alcuni detti anche se ben formulati, il' contenuto anticipa Le 17, 10 (per es. Abot 1,3; « Non siate come i servi che ubf scono al padrone per la paga, ma siate come quei servi che ubbidiscono al padro senza pensare alla paga! »), non riescono a cancellare l'impressione di una teolo che da largo spazio alla giustizia fondata sulle opere.
Accanto a questo, il giudaismo parla anche delle opere di Dio. La lode dell opere del creatore ha un posto particolare, ma anche le azioni salvifiche di Dio nella storia e alla fine dei tempi sono oggetto della lode (per es. negli inni di Qumran). I
III Troviamo ergàzomai, lavorare, agire, operare 41 volte nel NT I
(Paolo 17 volte), ergon, opera, azione 157 volte (in Paolo 43 volte; Gv 32; Ap 19; Gè 15; lettere pastorali 14; sinottici 11; Eb 10; At 8; Pt 4; Gd 1 volta), ergasìa, lavoro 6 volte (di cui 4 negli Atti) ed ergàtès, lavoratore, 16 volte (di cui 10 nei sinottici). Il significato fondamentale di questo gruppo di vocaboli, nel NT, corrisponde a quello spie- i gato al I, 1 (vedi sopra). Da notare Ap 18, 17: « quelli che lavorano per mare» = navigare (BC traduce: «quanti commerciano per mare»)! ergon, come sta accanto a (logos), parola (per es. Le 24, 19; At7, 22; 2Ts 2, 17; 2Cor 10, 11), così sta con (houle) (At 5,38: piano progetto). Per indicare le opere che il credente compie, si può usare ergo come sinonimo di (karpós, —sfrutto). Più di una volta è usatali locuzione ergon erga ergàzesthai = fare un lavoro (Mt 26, 10 par.;] Gv 3,21; 6,28; 9,4; At 13,41; ICor 16,10). Altra forma sinonima èli
erga poiéin compiere un lavoro (Mt 23,3.5; Gv 5,36; 7,21; 8,31; 10, 37; 14, 10.12; 15, 24; 2Tm 4, 5; 3Gv 10; Ap 2, 5; cf. Gc 1, 25: poietés, colui che fa); in un passo c'è erga pràssein (Àt 26,20).
1) a) Nei sinottici non è facile individuare un uso teologicamente finalizzato di questo gruppo di vocaboli, ergàzesthai indica semplicemente [il lavorare (cf. Le 13,14; Mt 21,28: nella vigna), il compiere un'opera Hper es. Mt 26, 10 par.). Una sfumatura particolare ha il termine ergasìa in Le 12, 58, che conviene tradurre con « darsi da fare ». Il termine ergàtes, [Usato abbastanza spesso, indica, in linea con il suo significato fondamentale, l'operaio che lavora per la paga (Mt 20, 1.2.8), poi i testimoni, a servizio di Cristo, che sono mandati nel mondo (Mt 9, 37.38 par.), ma anche l'empio (ergàtes adikìas), che non sarà in grado di sostenere il giudizio (Le 13,27; cf. Mt 7,23). Mentre i farisei vengono biasimati da Gesù, perché compiono le loro opere « per essere visti dagli uomini » (Mt 23, 5), l'azione della donna che unge d'unguento viene definitaergon kalón, bella azione (Mt 26, 10 par.) e i discepoli vengono esortati: « fate splendere la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e lodino il Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,16; cf. IPt 2, 12). Però i sinottici insistono sul fatto che l'uomo, davanti a Dio, non può avanzare nessuna pretesa di una ricompensa precisa (cf. Le 17, 10; Mt 20, Isspar.); e tuttavia, nello stesso tempo c'è la precisa richiesta dei frutti della fede. « La parenesi sinottica libera l'azione dei discepoli dalla securitas dell'orgoglio del merito, non però dal timore di meritare o perdere la salvezza » (W. Joest, Gesetz una Freiheìt, 160).
ergon è riferito all'attività di Cristo in Mt 11,2 e Le 24, 19, in cui si tratta dell'efficacia della sua opera e della sua parola.
b) Nel vangelo di Giovanni questi vocaboli sono usati specialmente per illustrare l'attività specifica di Gesù, che si aggancia in modo indissolubile all'opera di Dio Padre, com'è detto per es. in Gv 5, 17: « Mio Padre opera fino a questo momento e anch'io opero » (cf. Gv 4, 34; 17, 4). Gesù vede le sue azioni come adempimento della sua missione divina (cf. Gv 9,4; 5,36; 10,25), che ha come fine quello di risvegliare la fede in colui che è stato mandato a rivelare Dio (cf. Gv 6,29). A questo fine devono servire anche i miracoli operati da Gesù (—» miracolo, art.; Gv 14, 11; cf. 10,25). Di fronte all'azione rivelatrice di Gesù, che è contemporaneamente « l'azione di un giudice » (R. Bultmann, KEK II, 184), si dividono gli animi (cf. Gv 3,19-21; 15,24): l'incredulo non ha più alcuna possibilità di decisione per i suoi peccati (Gv 15, 22ss). Al credente invece è fatta la promessa che compirà opere ancor più grandi di quelle operate da Gesù (Gv 14, 12). Alle opere compiute in Dio ( en theó) (Gv 3,21), si oppongono le èrga panerà, le opere cattive (Gv 3, 19; 7, 7; cf. IGv 3, 12), che vengono compiute con l'aiuto del demonio (Gv 8,41. 44; cf. IGv 3, 8). In questo modo il concetto di attività raggiunge in Giovanni il suo contenuto teologico specifico nelle motivazioni cristologiche e nel legame con l'attività rivelatrice di Gesù.
e) Paolo invece si ricollega di più alla concezione del tardo giudaismo, dove le opere sono intese come qualcosa che è compiuto dall'uomo, per poter polemicamente dire: non c'è alcuna giustizia davanti a Dio, frutto dell'attività umana; c'è solo una giustizia che deriva dalla grazia donata, La via della salvezza non viene indicata dalla —> legge, ma da Gesù, che è « la fine della legge »; « è giusto colui che crede in lui » (Rm 10, 4). Paolo rigetta decisamente le opere della legge, che nel giudaismo avevano un ruolo così importante, perché ai suoi occhi « sono un surrogato dell'uomo al posto della vera —> obbedienza della fede » (O. Michel, KEK, IV, p. 87 )hypakoé pìsteòs (cf. Rm 1,5; 16, 26). « La giustificazione non è... frutto dell'osservanza dei comandamenti, ma si compie in Cristo, mediante la fede in lui » (H. Schlier, KEK VII, 57). Per Paolo conta « solo » la vera fede, che ha in Abramo il suo modello (Rm 4, Iss; Gai 3, 6ss). Questa visione, della inconciliabilità soteriologica tra opere della legge (ergon nomou) e —> grazia ( charis) o —> fede pistis), forma il perno della teologia paolina (cf. Rm 3, 20.27s; 4, 6; 9,12. 32; 11,6; Gai 2, 16; 3,2.10).
Se da un lato le opere, intese come via della salvezza, vengono condannate, dall'altro ci sono, anche in Paolo, passi nei quali le opere hanno un significato positivo. Se conosce una legge aberrante, egli conosce anche la legge di Cristo (cf. ICor 9,21; Gai 6,2); così accanto alle opere delle tenebre erga tou skotous) (Rm 13, 12) o alle opere della carne (erga tés sarkós) (Gai 5, 19) ci sono le èrga positive. Per esempio, l'opera missionaria è presentata come un érgon kyrìou, opera del Signore (ICor 16, 10; 15, 58; cf. Fil 2, 30), compiuta da Cristo, per mezzo degli apostoli (cf. Fil 1,6). Per cui Paolo chiede retoricamente ai Corinti: « non siete voi, forse, la mia opera nel Signore? » (ICor 9,1). Nel campo dell'etica, secondo Paolo, vale per i cristiani l'imperativo di compiere il bene nei confronti di ogni persona (Gai 6, 10; cf. Rm 2,10; 2Ts 2, 17). Anche in rapporto al giudizio finale vale per Paolo il pensiero delle buone opere. Nel giorno « della manifestazione del giusto giudizio », Dio, senza distinzione di persone, « renderà a ognuno secondo le sue opere » (Rm 2, 5s); e non saranno giudicate solo le opere dei pagani, ma anche quelle dei cristiani (ICor 3, 11 ss; cf. IPt 1, 17; Ap 2,23). «Naturalmente Paolo sa e afferma che le azioni del cristiano, in base alle quali si svolgerà il giudizio finale, non costituiscono alcun kàuchéma, (—> vanto). Eppure è in base a queste opere — che vengono pur sempre considerate come azione di « un servo inutile » — « che Dio giudica, premia e punisce » (W. Joest, Gesetz und Freiheit, 175).
d) La dialettica vivace, che in Paolo è caratterizzata dal rifiuto di ogni giustizia derivante dalle opere, e da una uguale convinzione dell'assurdità di una fede senza le opere, comincia già a smorzarsi nelle lettere pastorali. In queste viene accentuato un aspetto, quello delle buone opere (ITm 5, 10.25; 6, 18; Tt 1, 16; 2,7.14; 3,8.14; cf. IPt 2, 12).
e) Se, da una parte, Paolo accentua la fede come elemento decisivo, dall'altra, in Giacomo, è chiaramente presente la richiesta delle opere, richiesta che deriva dalla legge della libertà (nomos tès eleutherias, Gc 1,25). Senza opere, la fede è morta (Gc 2, 17), e solo per mezzo delle opere diventa perfetta (Gc 2,22.24). Questa concezione, così vivacemente difesa da Giacomo, deve essere spiegata in base alla sua situazione. Mentre Paolo combatteva in primo piano il malinteso giudaizzante, secondo il quale le azioni umane portano alla giustizia, Giacomo si getta contro « l'errore concreto di una ortodossia morta, che si fonda esclusivamente sulla confessione » (F. Hauck, NTD 10, p. 20). In questo modo egli contribuisce a circoscrivere il terreno, nel quale l'azione salvifica di Dio opera per suscitare la fede negli uomini, fede che ha come elementi strutturali — » obbedienza (hypakoè), -» speranza ( elpìs) Q -» amore ( agape).
2) a) enérgheia, operosità, si trova 8 volte nel NT (solo nel corpo paolino), energhéó, agire, far qualcosa, 21 volte (18 in Paolo, 2 in Mt, 1 in Gc), enérghèma, azione, 2 volte nella ICor eenerghès, operante, 3 volte (2 in Paolo e 1 in Eb). Questo gruppo di vocaboli si riferisce, di solito, all'azione di Dio (per es. ICor 12,6; Ef 1, 11) oppure del suo avversario Satana (2Ts 2,9; cf. Rm 7,5; Eb 2,2), che però alla fine è sempre dipendente da Dio (2Ts 2, 11), analogamente alla — » morte, che viene presentata come una potenza (2Cor 4, 12). Viene messa particolarmente in risalto la potenza operante di Dio, per mezzo della quale egli ha risuscitato Gesù Cristo (Ef 1,20; Col 2,12). Questa potenza divina è operante sia in Cristo (Fil 3,21; cf. Mt 14,2), sia nello Spirito santo (cf. ICor 12, 11, in cui lo Spirito santo viene presentato come la vera origine operante dei doni divini). Per mezzo di essa gli apostoli vengono resi idonei al loro ministero (Ef 3,7; Col 1,29), così come la parola, per mezzo di essi, si trasforma in forma misteriosa che scruta e giudica « i pensieri e i sentimenti del cuore » (Eb 4, 12). Ad essa, però, partecipano anche le membra del corpo di Cristo (Ef 4, 16; cf. ICor 12, 10). Dio, in qualità di energón, colui che opera, stimola la loro volontà ( thélein) e la loro azione (energhéin, Fil 2, 13), la quale assume la propria fisionomia nell'amore dei credenti (cf. Gai 5,6).
b) euerghétès, nell'unica citazione del NT (Le 22, 25), ha il significato di un titolo onorifico (vedi sopra I, If), che, in ogni caso, viene respinto in modo categorico. I discepoli di Gesù non devono farsi chiamare, come i signori del mondo, « benefattori » (cf. il rifiuto del titolo di rabbi, di padre e di maestro in Mt 23, 7ss); da Cristo, i discepoli sono chiamati a -» servire (Le 22,26; cf. Mt 23, 11).
Il verbo euerghetéin, fare del bene (solo in At 10, 38) si riferisce ai benefici operati da Gesù, e testimoniati dai suoi apostoli. Con euerghesia At 4, 9 indica una guarigione di malati per mano degli apostoli. Lo stesso termine, in ITm 6, 2, caratterizza il comportamento evangelico di un padrone cristiano, nei confronti dei suoi schiavi.
e) Nel NT si trova 5 volte il verbo synerghéò, cooperare, e 12 volte (di cui 1 1 in Paolo) synergós, collaboratore. In Rm 8, 28 Paolo affronta un « insegnamento », che deriva dalla tradizione tardo-giudaica. Afferma che « per coloro, che amano Dio, tutte le cose concorrono al bene »; cioè, che per essi tutto, anche le sofferenze, le avversità, gli enigmi della fede tornano utili. In Gc 2, 2 si parla della necessaria collaborazione tra fede e opere.
Nei casi rimanenti, i vocaboli si riferiscono alla situazione missionaria. Me 16,20 parla della collaborazione del Signore, che «convalidava con segni di conferma » la parola dei discepoli. Questa collaborazione accreditante di Dio è l'aspetto decisivo in ogni attività missionaria; però è unvero « lavorare-con », solo se l'uomo, chiamato da Dio a testimoniare, nell'opera di evangelizzazione non è solo uno strumento inerte, ma un servo che realmente collabora con Dio. Per cui Paolo può arrivare a dire: theoù gar esmen synergói, noi siamo, infatti, collaboratori di Dio (ICor 3,9; cf. 2Cor 6, 1). La collaborazione apostolica viene maggiormente precisata nel contenuto in ITs 3, 2 (« nel vangelo di Cristo », secondo alcuni manoscritti), Col 4, 11 («per il regno di Dio»), 3Gv 8 («per la [diffusione della] verità) e 2Cor 1,24 («della vostra gioia»).



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Le “mani” di Dio. F. G. Claudio Bottini

Se Dio è uno nella natura divina e trino nelle Persone, ne segue che tutta l’attività di Dio e il suo piano, che riguardano la creazione, la redenzione e il compimento della storia, sono opera comune delle Persone divine. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “Tutta l’Economia divina è l’opera comune delle tre Persone divine. Infatti, la Trinità, come ha una sola e medesima natura, così ha una sola e medesima operazione... «Uno infatti è Dio Padre, dal quale sono tutte le cose; uno il Signore Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose; uno è lo Spirito Santo, nel quale sono tutte le cose»...” (n. 258).
La fede della Chiesa non esita ad affermare che le prime parole della Bibbia: “In principio, Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1), illuminate e spiegate da altre parole della Scrittura, devono essere riferite non solo a Dio, come Padre e Creatore unico di tutte le cose, ma anche al Figlio e allo Spirito Santo.
Dell’opera creatrice del Figlio il testo sublime del Prologo di S. Giovanni dice: “In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio... Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto” (Gv 1,1). E in un bellissimo testo S. Paolo afferma: “Per mezzo di lui [il Figlio diletto] sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra... Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono” (Col 1,16-17).
Con altrettanta chiarezza la Chiesa professa l’azione creatrice dello Spirito Santo affermando che egli è “datore di Vita”, Signore e “sorgente di ogni bene”. In un un celebre inno, che accompagna i momenti importanti della sua vita, la Chiesa lo invoca: “Vieni, Spirito Creatore”.
Anche la rivelazione di questo mistero dell’azione creatrice del Figlio e dello Spirito Santo è avvenuta progressivamente. Ciò che nel Nuovo Testamento è chiaramente espresso e affermato, nell’Antico è lasciato intravvedere oppure preannunciato o prefigurato. Citando un bel testo di S. Ireneo, Padre della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega: “«Non esiste che un solo Dio:... egli è il Padre, è Dio, il Creatore, l’Autore, l’Ordinatore. Egli ha fatto ogni cosa da se stesso, cioè con il suo Verbo e la sua Sapienza», «per mezzo del Figlio e dello Spirito», che sono come «le sue mani»” (n. 292).
Si tratta evidentemente di un simbolo adoperato per esprimere insieme l’apporto proprio e la collaborazione del Figlio e dello Spirito Santo nel piano della salvezza divina. E’ una suggestiva metafora o immagine che ha il suo fondamento nella Bibbia stessa.
La mano di Dio nella Bibbia
E’ noto che la Bibbia per farsi comprendere, quando parla di Dio, spesso usa un linguaggio che viene detto “antropomorfico” e che consiste nell’attribuire a Dio tratti e comportamenti umani. Tale linguaggio vuole sottolineare anche il carattere personale di Dio e la sua partecipazione alla storia del mondo e degli uomini. Così si parla di mano, braccio, dito di Dio. Questi sono organi dell’agire umano con i quali l’uomo può distruggere e uccidere, ma anche soccorrere e benedire. In non pochi passi della Bibbia mano, braccio, dito vengono adoperati per indicare che Dio crea, agisce, soccorre, salva, ma anche che egli giudica, condanna e punisce. Questo antropomorfismo, noto anche alla letteratura dell’Oriente antico extrabiblico, ricorre non meno di trecento volte nell’Antico Testamento. Sembra proprio che questo simbolo sia la più felice espressione di quel movimento che fa incontrare Dio e l’uomo.
Alcuni testi parlano della mano di Dio come simbolo della sua potenza nella creazione e provvidenza e nella liberazione di Israele: “Così dice il Signore: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi (...). Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie»” (Is 66,1-2); “Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte” (Gb 10,8); “Tutti da te aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, tu apri la tua mano, si saziano di beni” (Sal 104,27-28); “Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso” (Dt 5,15; vedi anche 4,34; Es 13,3-14).
Ma la mano è simbolo anche dell’amore di Dio per i buoni: “La mia mano è il suo sostegno, il mio braccio è la sua forza” (Sal 89,22); “Certo egli ama i popoli; tutti i santi sono nelle sue mani” (Dt 33,3; vedi anche Sap 3,1; Gb 5,18). La mano di Dio compare nei suoi interventi straordinari sui profeti: “La mano del Signore fu sopra Elia” (1Re 18,46); “La mano del Signore fu sopra Eliseo” (2Re 3,15); “Poiché così il Signore mi disse, quando mi aveva preso per mano” (Is 8,11); “Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo” (Ez 2,9). Altre volte però la mano è simbolo della giustizia punitiva di Dio: “Ebbene cadiamo nelle mani del Signore, perché la sua misericordia è grande, ma che io non cada nelle mani degli uomini!” (2Sam 24,14; vedi anche 1Sam 5,9; Gb 1,11; 19,21); “Per questo è divampato lo sdegno del Signore contro il suo popolo, su di esso ha steso la sua mano per colpire” (Is 5,25; vedi anche Sal 21,9; 32,4). Durante il banchetto sacrilego di Baldassàr Dio mandò una “mano d’uomo” le cui “dita” scrissero le parole misteriose e terribili che solo Daniele seppe interpretare (Dn 5,5.24).
A questi e ad altri passi simili dell’Antico Testamento si possono aggiungere quelli in cui si parla della “destra” di Dio per indicare l’autorità, la potenza o la gloria stessa di Dio: “La tua destra, Signore, terribile per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico” (Es 15,6; vedere anche v. 12); “Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16,11). In un celebre salmo al messia re e sacerdote il Signore dice: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi” (110,1). Come per la mano, anche della destra di Dio si afferma che essa compie prodigi (Sal 118,15-16), libera gli oppressi (Sal 17,7), soccorre i credenti (Sal 44,4; 60,7; 63,9; 108,7; Is 41,10.13), punisce i nemici (Sal 21,9). Un testo del libro della Sapienza parlando del destino glorioso dei giusti sintetizza bellamente immagini e significato: “Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalla mano del Signore, perché li proteggerà con la sua destra, con il braccio farà loro da scudo” (5,17).
Vi sono infine nell’Antico Testamento alcuni testi molto suggestivi dove si parla del “dito di Dio”. Il Salmista, colto da stupore dinanzi all’opera dellla creazione, canta: “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate...” (Sal 8,4). In due passi l’immagine del dito è riferita a Dio per indicare che egli ha scritto le tavole della Legge: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul Monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” (Es 31,18; vedi anche Dt 9,10). Secondo il racconto di Esodo al dito di Dio sono attribuiti i prodigi compiuti da Mosè: “Allora i maghi dissero al faraone: «E’ il dito di Dio!». Ma il cuore del faraone si ostinò e non diede ascolto, secondo quanto aveva predetto il Signore” (Es 8,15).
In sintesi si può dire che al braccio, alla mano e al dito di Dio sono attribuite tutte le azioni e perfezioni divine e che in fondo attraverso le immagini si vuole indicare tutta la persona di Dio, non per materializzarla, ma per renderla all’uomo più vicina e familiare. Questo antropomorfismo non solo è il più usato, ma è anche quello che ha ispirato l’interpretazione trinitaria di non pochi passi in cui esso ricorre.
Il Figlio e lo Spirito Santo “mani” di Dio
I Padri della Chiesa e gli antichi esegeti spiegando gli antropomorfismi biblici si preoccuparono anzitutto di inculcare nei fedeli che vivevano in ambiente pagano, la natura spirituale e la trascendenza di Dio. Tuttavia nella ricerca delle “tracce” del mistero della Trinità nell’Antico Testamento ben presto essi utilizzarono anche questa immagine. Nella mano divina essi videro l’azione della seconda Persona della Trinità, il Figlio di Dio come Verbo preesistente già prima dell’Incarnazione. S. Ireneo, seguito poi da tanti altri, affermava: “Il primo uomo fu fatto dalla mano di Dio, cioè dal Verbo di Dio”. S. Cipriano metteva insieme un grappolo di passi di Isaia per dimostrare che “Cristo è la mano o il braccio di Dio”.
Dinanzi poi ai testi biblici che parlano al plurale delle mani divine essi quasi naturalmente arrivavano a includere anche la terza Persona della Trinità, lo Spirito Santo. Lo stesso S. Ireneo spiegava: “L’uomo è una mescolanza di anima e di carne modellata ad immagine di Dio e plasmata dalle mani di Dio, cioè dal Figlio e dallo Spirito, ai quali disse: «Facciamo l’uomo» [Gen 1,26]”. Dopo di lui questa interpretazione divenne comune. Basti citare S. Eucherio il quale sinteticamente diceva: “Per braccia di Dio Padre si intendono il Figlio e lo Spirito Santo”.
Lo Spirito Santo “dito” di Dio
Quanto all’identificazione del “dito di Dio” con lo Spirito Santo una parola di Gesù riferita da Matteo e da Luca è illuminante e fondamentale. Dove infatti il terzo evangelista porta: “Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, di conseguenza è giunto a voi il regno di Dio” (Lc 11,20), il primo dice: “Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12,28). Nel commentare l’immagine del “dito di Dio” i Padri illustrano il mistero della Trinità. Considerando infatti che le dita sono il compimento e la perfezione ultima della mano, essi scoprono nella mano divina insieme col dito un’immagine della vita e delle ineffabili relazioni tra le Persone divine. S. Eucherio diceva: “Per dito di Dio si comprende lo Spirito Santo (...). Come infatti [il dito] con la mano e il braccio e a loro volta la mano e il braccio sono uno con il corpo, così il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono tre Persone, ma una sola natura divina”.
La riflessione sulle molteplici attività possibili alle dita della mano conduce i Padri ad approfondire la spiegazione delle opere compiute dalla Trinità fuori di sé. Sono molti infatti i testi di Padri sia greci che latini - certamente anche per l’influsso del detto di Gesù sopra ricordato - nei quali il dito di Dio viene con tutta naturalezza identificato con lo Spirito Santo e visto all’opera nella creazione, nel dono della Legge, nei segni prodigiosi. S. Ireneo, per citare ancora una volta un esempio antico e autorevole, scrive: “E nel deserto Mosè riceve da Dio le leggi; le dieci sentenze su tavole di pietra, scritte col dito di Dio; e il dito di Dio è quello che è steso dal Padre allo Spirito Santo”. Al riguardo si può rileggere anche un testo molto bello di S. Ambrogio: “Quando infatti cielo e terra venivano creati, lo Spirito vi aleggiava sopra. A proposito dello Spirito, poi, lo stesso David dice in un altro salmo: «Manda il tuo Spirito e saranno creati» [Sal 103,30]; e ancora altrove: «Vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita» (Sal 8,4). Certo Dio non creò il cielo e la terra con dita corporee, ma con la grazia dello Spirito settiforme, con quel dito di cui trovi scritto nel Vangelo (...). Se allora lo Spirito è il dito di Dio, visto che il Figlio ne è il braccio, lo Spirito, cooperando col Padre e col Figlio nell’unità della loro azione, ha collaborato alla creazione del cielo e della terra. Il Figlio chiamò «dito» lo Spirito per indicare l’unità della divinità attraverso la metafora dell’unità delle membra del corpo”.
Così dal simbolo si passa naturalmente alla riflessione teologica. I Padri della Chiesa Orientale, per esempio, considerando le operazioni delle Persone divine parlano del Padre come del soggetto agente, del Figlio come della sua potenza operativa e dello Spirito come dell’azione che ne risulta. Nello Spirito infatti il Padre tocca il mondo. Lo Spirito Santo procede dalla natura del Padre, di cui è l’effetto agente. Procede anche dal Figlio perché l’azione risulta dalla potenza; procede inoltre dal Padre attraverso il Figlio, perché il Padre porta ad esecuzione l’azione attraverso la potenza. Lo Spirito rivela la Trinità in quanto è l’azione divina che comunica al mondo le grazie di Dio.
Questa tematica che può sembrare tutta teologica e sottile ha trovato vasta eco anche nell’arte. Chi non conosce il celebre inno “Veni Creator Spiritus” composto nel secolo nono ma nel quale sono condensate tanta sapienza teologica ed esperienza spirituale della Chiesa? In esso lo Spirito Santo è invocato tra l’altro come “Dextrae Dei tu digitus = Tu dito della destra di Dio”. Oppure chi non ha mai visto una riproduzione del celebre affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina dove il dito di Dio Padre si tende verso quello di Adamo e lo crea a sua immagine?
Ciò che la Bibbia dice con le immagini, la liturgia proclama nel canto e la teologia spiega con il linguaggio argomentativo, l’arte lo ha espresso con le figure e i colori. Non si contanto infatti le raffigurazioni in pittura e scultura che presentano la mano divina simbolo della presenza di Dio, per lo più il Padre, che agisce o parla. Non mancano però anche le raffigurazioni nelle quali la mano rappresenta il Figlio o lo Spirito Santo. Per quest’ultimo gli studiosi indicano in particolare alcune rappresentazioni della scena di Pentecoste dove da una mano escono raggi che si spandono sugli apostoli e due scene di battesimo dove invece della colomba, simbolo abitualmente adoperato per lo Spirito Santo, si trova una mano e la scritta “destra di Dio”.
Giustamente quindi il Catechismo della Chiesa Cattolica tra i numerosi simboli dello Spirito Santo accanto a l’acqua, l’unzione, il fuoco, la nube e la luce, il sigillo, la mano, la colomba ricorda anche il dito: “«Con il dito di Dio» Gesù scaccia i «demoni» (Lc 11,20). Se la Legge di Dio è stata scritta su tavole di pietra dal «dito di Dio» (Es 31,18), «la lettera di Cristo», affidata alle cure degli Apostoli, è «scritta con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne dei... cuori» (2Cor 3,3). L’inno «Veni Creator Spiritus» invoca lo Spirito Santo come «digitus paternae dexterae - dito della destra del Padre” (n. 700).
E bello pensare che le meraviglie della creazione e della redenzione del mondo sono opere che il Padre ha compiuto e incessantemente mantiene in vita con le mani del Figlio e dello Spirito Santo. E’ ancora più bello e soprattutto consolante pensare che le “mani sante e venerabili” del Figlio e dello Spirito Santo conducono per mano ogni creatura docile nella fede, e ci porteranno un giorno in braccio al Padre.

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Dalla Lettera di sant'Atanasio a Serapione. Cacciare i demoni con il dito di Dio

Il Salvatore manifestava di fronte a tutti le opere del Padre: risuscitava i morti, concedeva la vista ai ciechi, faceva camminare gli zoppi, apriva l'udito ai sordi, faceva parlare i muti. Mostrava che la creazione gli era sottomessa comandando ai venti e camminando persino sul mare. Perciò le folle erano piene di stupore e glorificavano Dio. Invece quei reverendi farisei dicevano che erano opere di Beelzebul; quegli stolti non si vergognavano di attribuire al diavolo la potenza di Dio.
Da qui è derivata la dichiarazione del Salvatore circa la loro bestemmia che non ammette perdono né remissione.
Cristo sopportava i farisei fintanto che essi, considerando gli aspetti umani del Salvatore, inciampavano con la mente; dicevano infatti: Non è egli forse il figlio del carpentiere? Come maicostui conosce le Scritturesenza aver studiato? Quale segno tu fai perché possiamo crederti? Scenda oradalla croce e gli crederemo.Considerando che peccavano contro il Figlio dell'uomo, il Signore rattristato per la loro cecità, diceva: Se aveste compreso anche voi la via della pace!
Anche il grande Pietro commise un simile peccato. Sappiamo infatti come rispose alla portinaia che parlava di Gesù come di un semplice uomo. Ma il Signore gli perdonò vedendo il pianto di lui.
Quando però i farisei caddero ancora più in basso e vaneggiarono ancora di più attribuendo a Beelzebul le opere di Dio, il Signore non poté più sopportarli. Bestemmiavano infatti contro il suo Spirito, dicendo che chi compiva quelle opere non era Dio ma Beelzebul. Osarono affermare cose insostenibili, per cui il Signore ha comminato loro un castigo eterno.
Era come se essi avessero osato sostenere, vedendo l'ordine del mondo e la provvidenza che lo regge, che anche la creazione è stata fatta da Beelzebul; che il sole sorge obbedendo al diavolo; che gli astri ruotano nel cielo grazie a Satana.
Siccome il Signore parla di se stesso, dovrebbero essere chiari questi due punti: c'è chi vede soltanto la sua realtà corporea, domandandosi incredulo: Da dove mai viene a costui questasapienza? Così si pecca proferendo una bestemmia contro il Figlio dell'uomo.
C'è invece chi, vedendo le opere compiute per mezzo dello Spirito Santo, afferma che chi le compie non è né Dio né Figlio di Dio, bensì le ascrive a Beelzebul. Ora costui bestemmia apertamente, negando la divinità del Verbo.
L'abbiamo notato più volte: con l'espressione Figlio delluomo il Signore indica la sua realtà umana, secondo la carne; invece con Spirito vuole indicare che lo Spirito Santo, nel quale opera ogni cosa, è suo. Perciò, compiendo le opere diceva: Se non volete credere a mecredete almenoalle opereperché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre.
Quando invece Gesù stava per offrirsi corporalmente per noi, e per questo si era messo in cammino verso Gerusalemme, disse ai suoi discepoli: Dormite ormai e riposateEcco è giunta loranella quale il Figlio delluomo sarà consegnato in mano ai peccatori.
Le opere strepitose di Cristo dovevano portare alla fede in lui quale vero Dio; la morte invece doveva mostrare che egli aveva un vero corpo. Perciò giustamente chiamò Figlio delluomo colui che stava per essere consegnato. Il Verbo, infatti, è immortale e intoccabile, essendo la Vita stessa.
Ma i farisei non prestarono fede a ciò e neppure vollero considerare le opere compiute dai loro figli. Allora il Signore, con molta calma, torna a metterli alle strette, dicendo:
Se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano?
Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
Dicendo qui con il dito di Dio,cioè con lo Spirito di Dio, Gesù non intendeva affermare che egli era inferiore allo Spirito, né che era lo Spirito a compiere in lui quelle opere. Voleva invece mostrare di nuovo che egli, in quanto Verbo di Dio, è l'autore di tutto, mediante lo Spirito. Così insegnava agli ascoltatori che nella misura in cui si attribuiscono al demonio le opere dello Spirito, si oltraggia proprio colui che dà lo Spirito.

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Dalle Omelie di sant'Ambrogio sulla cacciata dei demoni

Expositio Evangelii sec.Luc.,lib.VII,91-94. PL 15,1722-1723.
Taluni accusavano il Signore di scacciare i demoni per mezzo di Beelzebul, principe dei demoni. Nel controbattere, Gesù vuole mostrare che il suo regno è durevole e indivisibile. Dirà giustamente a Pilato: Il mio regno non è di questo mondo (Gv 18,36). Coloro che non ripongono la propria speranza in Cristo e pensano che i demoni siano scacciati dal principe dei demoni, appartengono a un regno diviso. Qui Cristo allude direttamente ai Giudei che credevano di debellare certi mali invocando l'aiuto di un demonio per scacciare un altro demonio. Ma quando la fede è lacerata, potrà mai sopravvivere l'unità del regno? Il regno della Chiesa resterà eternamente, perché la sua fede è indivisa, il suo corpo è unico: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti. (Ef 4,5-6) Quale follia sacrilega sarebbe credere che il Figlio di Dio agisca col soccorso della potenza diabolica, quando invece egli soggioga gli spiriti impuri e strappa il bottino al principe del mondo mediante il dito di Dio, oppure come dice Matteo, per lo Spirito di Dio! (Cf Mt 12,28) Il Figlio di Dio fatto uomo ha ugualmente dato agli uomini il potere di stroncare gli spiriti malvagi e dividerne le spoglie, ciò che è il simbolo del trionfo. La santissima Trinità si presenta a noi come un regno indivisibile, ad immagine dell'unità di un corpo, dato che Cristo è spesso chiamato la destra di Dio e lo Spirito Santo talvolta è definito dito di Dio. Il regno della divinità non appare dunque indivisibile, poiché è indiviso come un corpo? Infatti in Cristo si trova tutta la pienezza della divinità in forma corporea. (Cf Col 2,9) E ciò, senza dubbio, né lo puoi negare quanto al Padre, né lo devi negare quanto allo Spirito. Però, questo paragone della divinità con le nostre membra non ti faccia credere che sia il caso di stabilire una divisione della potenza: una cosa indivisibile non si può frazionare. L'immagine del "dito" è menzionata soltanto come figura dell'unità, non per distinguere o dividere la potenza; infatti la destra di Dio, il Cristo Signore ha detto: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30) Ma se la divinità é indivisibile, le Persone sono distinte. Lo Spirito è chiamato dito di Dio; questo indica la sua potenza in atto, poiché, come il Padre e il Figlio, anche lo Spirito Santo è autore delle opere divine. Davide dice infatti: Il tuo cielo, opera delle tue dita; (Sal 8,4) e nel salmo trentadue:Dal soffio della sua bocca il Signore fece i cieli e ogni loro schiera (Cf Sal 32,6). Paolo dice a sua volta: Tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera distribuendole a ciascuno come vuole. (1 Cor 12,11) Quando Gesù dice: Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio, egli ci insegna due cose: anzitutto che lo Spirito Santo è dotato di un potere regale, perché in lui abita il regno di Dio; poi impariamo ad essere una dimora regale, dato che lo Spirito abita in noi, secondo questa parola: Il regno di Dio è in mezzo a voi. (Lc 17,21) Per conseguenza, dobbiamo considerare lo Spirito Santo come associato alla sovranità e alla maestà regale della deità. San Paolo infatti dice: Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. (2 Cor 3,17)

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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE ISTRUZIONE CIRCA LE PREGHIERE PER OTTENERE DA DIO LA GUARIGIONE

INTRODUZIONE
L'anelito di felicità, profondamente radicato nel cuore umano, è da sempre accompagnato dal desiderio di ottenere la liberazione dalla malattia e di capirne il senso quando se ne fa l'esperienza. Si tratta di un fenomeno umano, che interessando in un modo o nell'altro ogni persona, trova nella Chiesa una particolare risonanza. Infatti la malattia viene da essa compresa come mezzo di unione con Cristo e di purificazione spirituale e, da parte di coloro che si trovano di fronte alla persona malata, come occasione di esercizio della carità. Ma non soltanto questo, perché la malattia, come altre sofferenze umane, costituisce un momento privilegiato di preghiera: sia di richiesta di grazia, per accoglierla con senso di fede e di accettazione della volontà divina, sia pure di supplica per ottenere la guarigione.
La preghiera che implora il riacquisto della salute è pertanto una esperienza presente in ogni epoca della Chiesa, e naturalmente nel momento attuale. Ciò che però costituisce un fenomeno per certi versi nuovo è il moltiplicarsi di riunioni di preghiera, alle volte congiunte a celebrazioni liturgiche, con lo scopo di ottenere da Dio la guarigione. In diversi casi, non del tutto sporadici, vi si proclama l'esistenza di avvenute guarigioni, destando in questo modo delle attese dello stesso fenomeno in altre simili riunioni. In questo contesto si fa appello, alle volte, a un preteso carisma di guarigione.
Siffatte riunioni di preghiera per ottenere delle guarigioni pongono inoltre la questione del loro giusto discernimento sotto il profilo liturgico, in particolare da parte dell'autorità ecclesiastica, a cui spetta vigilare e dare le opportune norme per il retto svolgimento delle celebrazioni liturgiche.
E' sembrato pertanto opportuno pubblicare una Istruzione, a norma del can. 34 del Codice di Diritto Canonico, che serva soprattutto di aiuto agli Ordinari del luogo affinché meglio possano guidare i fedeli in questa materia, favorendo ciò che vi sia di buono e correggendo ciò che sia da evitare. Occorreva però che le determinazioni disciplinari trovassero come riferimento una fondata cornice dottrinale che ne garantisse il giusto indirizzo e ne chiarisse la ragione normativa. A questo fine è stata premessa alla parte disciplinare una parte dottrinale sulle grazie di guarigione e le preghiere per ottenerle.
I. ASPETTI DOTTRINALI
1. Malattia e guarigione: il loro senso e valore nell'economia della salvezza
"L'uomo è chiamato alla gioia ma fa quotidiana esperienza di tantissime forme di sofferenza e di dolore".(1) Perciò il Signore nelle sue promesse di redenzione annuncia la gioia del cuore legata alla liberazione dalle sofferenze (cfr. Is 30,29; 35,10; Bar 4,29). Infatti Egli è "colui che libera da ogni male" (Sap 16,8). Tra le sofferenze, quelle che accompagnano la malattia sono una realtà continuamente presente nella storia umana e sono anche oggetto del profondo desiderio dell'uomo di liberazione da ogni male.
Nell'Antico Testamento, "Israele sperimenta che la malattia è legata, in un modo misterioso, al peccato e al male".(2) Tra le punizioni minacciate da Dio all'infedeltà del popolo, le malattie trovano un ampio spazio (cfr. Dt 28,21-22.27-29.35). Il malato che implora da Dio la guarigione, confessa di essere giustamente punito per i suoi peccati (cfr. Sal 37; 40; 106,17-21).
La malattia però colpisce anche i giusti e l'uomo se ne domanda il perché. Nel libro di Giobbe questo interrogativo percorre molte delle sue pagine. "Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell'Antico Testamento. (...) E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova".(3)
La malattia, pur potendo avere un risvolto positivo quale dimostrazione della fedeltà del giusto e mezzo di ripagare la giustizia violata dal peccato e anche di far ravvedere il peccatore perché percorra la via della conversione, rimane tuttavia un male. Perciò il profeta annunzia i tempi futuri in cui non ci saranno più malanni e invalidità e il decorso della vita non sarà più troncato dal morbo mortale (cfr. Is 35,5-6; 65,19-20).
Tuttavia è nel Nuovo Testamento che l'interrogativo sul perché la malattia colpisce anche i giusti trova piena risposta. Nell'attività pubblica di Gesù, i suoi rapporti coi malati non sono sporadici, bensì continui. Egli ne guarisce molti in modo mirabile, sicché le guarigioni miracolose caratterizzano la sua attività: "Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità" (Mt 9,35; cfr. 4,23). Le guarigioni sono segni della sua missione messianica (cfr. Lc 7,20-23). Esse manifestano la vittoria del regno di Dio su ogni sorta di male e diventano simbolo del risanamento dell'uomo tutto intero, corpo e anima. Infatti servono a dimostrare che Gesù ha il potere di rimettere i peccati (cfr. Mc 2,1-12), sono segni dei beni salvifici, come la guarigione del paralitico di Betzata (cfr. Gv 5,2-9.19-21) e del cieco nato (cfr. Gv 9).
Anche la prima evangelizzazione, secondo le indicazioni del Nuovo Testamento, era accompagnata da numerose guarigioni prodigiose che corroboravano la potenza dell'annuncio evangelico. Questa era stata la promessa di Gesù risorto e le prime comunità cristiane ne vedevano l'avverarsi in mezzo a loro: "E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: (...) imporranno le mani ai malati e questi guariranno" (Mc 16,17-18). La predicazione di Filippo a Samaria fu accompagnata da guarigioni miracolose: "Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro il Cristo. E le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo sentendolo parlare e vedendo i miracoli che egli compiva. Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e storpi furono risanati" (At 8,5-7). San Paolo presenta il suo annuncio del vangelo come caratterizzato da segni e prodigi realizzati con la potenza dello Spirito: "non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all'obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito" (Rm 15,18-19; cfr. 1Ts 1,5; 1Cor 2,4-5). Non è per nulla arbitrario supporre che tali segni e prodigi, manifestativi della potenza divina che assisteva la predicazione, erano costituiti in gran parte da guarigioni portentose. Erano prodigi non legati esclusivamente alla persona dell'Apostolo, ma che si manifestavano anche attraverso i fedeli: "Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?" (Gal 3,5).
La vittoria messianica sulla malattia, come su altre sofferenze umane, non soltanto avviene attraverso la sua eliminazione con guarigioni portentose, ma anche attraverso la sofferenza volontaria e innocente di Cristo nella sua passione e dando ad ogni uomo la possibilità di associarsi ad essa. Infatti "Cristo stesso, che pure è senza peccato, soffrì nella sua passione pene e tormenti di ogni genere, e fece suoi i dolori di tutti gli uomini: portava così a compimento quanto aveva scritto di lui il profeta Isaia (cfr. Is 53,4-5)".(4) Ma c'è di più: "Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. (...) Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo".(5)
La Chiesa accoglie i malati non soltanto come oggetto della sua amorevole sollecitudine, ma anche riconoscendo loro la chiamata "a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del Regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose. Le parole dell'apostolo Paolo devono divenire il loro programma e, prima ancora, sono luce che fa splendere ai loro occhi il significato di grazia della loro stessa situazione: "Completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, in favore del suo corpo, che è la Chiesa" (Col 1,24). Proprio facendo questa scoperta, l'apostolo è approdato alla gioia: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi" (Col 1,24)".(6) Si tratta della gioia pasquale, frutto dello Spirito Santo. E come san Paolo, anche "molti malati possono diventare portatori della "gioia dello Spirito Santo in molte tribolazioni" (1Ts 1,6) ed essere testimoni della risurrezione di Gesù".(7)
2. Il desiderio di guarigione e la preghiera per ottenerla
Premessa l'accettazione della volontà di Dio, il desiderio del malato di ottenere la guarigione è buono e profondamente umano, specie quando si traduce in preghiera fiduciosa rivolta a Dio. Ad essa esorta il Siracide: "Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà" (Sir 38,9). Diversi salmi costituiscono una supplica di guarigione (cfr. Sal 6; 37; 40; 87).
Durante l'attività pubblica di Gesù, molti malati si rivolgono a lui, sia direttamente sia tramite i loro amici o congiunti, implorando la restituzione della sanità. Il Signore accoglie queste suppliche e i Vangeli non contengono neppure un accenno di biasimo di tali preghiere. L'unico lamento del Signore riguarda l'eventuale mancanza di fede: "Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23; cfr. Mc 6,5-6; Gv 4,48).
Non soltanto è lodevole la preghiera dei singoli fedeli che chiedono la guarigione propria o altrui, ma la Chiesa nella liturgia chiede al Signore la salute degli infermi. Innanzi tutto ha un sacramento "destinato in modo speciale a confortare coloro che sono provati dalla malattia: l'Unzione degli infermi".(8) "In esso, per mezzo di una unzione, accompagnata dalla preghiera dei sacerdoti, la Chiesa raccomanda i malati al Signore sofferente e glorificato, perché dia loro sollievo e salvezza".(9) Immediatamente prima, nella Benedizione dell'olio, la Chiesa prega: "effondi la tua santa benedizione, perché quanti riceveranno l'unzione di quest'olio ottengano conforto, nel corpo, nell'anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza(10); e poi, nei due primi formulari di preghiera dopo l'unzione, si chiede pure la guarigione dell'infermo.(11) Questa, poiché il sacramento è pegno e promessa del regno futuro, è anche annuncio della risurrezione, quando "non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,4). Inoltre il Missale Romanum contiene una Messa pro infirmis e in essa, oltre a grazie spirituali, si chiede la salute dei malati.(12)
Nel De benedictionibus del Rituale Romanum, esiste un Ordo benedictionis infirmorum, nel quale ci sono diversi testi eucologici che implorano la guarigione: nel secondo formulario delle Preces(13), nelle quattro Orationes benedictionis pro adultis(14), nelle due Orationes benedictionis pro pueris(15), nella preghiera del Ritus brevior.(16)
Ovviamente il ricorso alla preghiera non esclude, anzi incoraggia a fare uso dei mezzi naturali utili a conservare e a ricuperare la salute, come pure incita i figli della Chiesa a prendersi cura dei malati e a recare loro sollievo nel corpo e nello spirito, cercando di vincere la malattia. Infatti "rientra nel piano stesso di Dio e della sua provvidenza che l'uomo lotti con tutte le sue forze contro la malattia in tutte le sue forme, e si adoperi in ogni modo per conservarsi in salute".(17)
3. Il carisma di guarigione nel Nuovo Testamento
Non soltanto le guarigioni prodigiose confermavano la potenza dell'annuncio evangelico nei tempi apostolici, ma lo stesso Nuovo Testamento riferisce circa una vera e propria concessione da parte di Gesù agli Apostoli e ad altri primi evangelizzatori di un potere di guarire dalle infermità. Così nella chiamata dei Dodici alla prima loro missione, secondo i racconti di Matteo e di Luca, il Signore concede loro "il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità" (Mt 10,1; cfr. Lc 9,1), e dà loro l'ordine: "Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni" (Mt 10,8). Anche nella missione dei settantadue discepoli, l'ordine del Signore è: "curate i malati che vi si trovano" (Lc 10,9). Il potere, pertanto, viene donato all'interno di un contesto missionario, non per esaltare le loro persone, ma per confermarne la missione.
Gli Atti degli Apostoli riferiscono in generale dei prodigi realizzati da loro: "prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli" (At 2,43; cfr. 5,12). Erano prodigi e segni, quindi opere portentose che manifestavano la verità e forza della loro missione. Ma, a parte queste brevi indicazioni generiche, gli Atti riferiscono soprattutto delle guarigioni miracolose compiute per opera di singoli evangelizzatori: Stefano (cfr. At 6,8), Filippo (cfr. At 8,6- 7), e soprattutto Pietro (cfr. At 3,1-10; 5,15; 9,33-34.40-41) e Paolo (cfr. At 14,3.8-10; 15,12; 19,11-12; 20,9-10; 28,8-9).
Sia la finale del Vangelo di Marco sia la Lettera ai Galati, come si è visto sopra, ampliano la prospettiva e non limitano le guarigioni prodigiose all'attività degli Apostoli e di alcuni evangelizzatori aventi un ruolo di spicco nella prima missione. Sotto questo profilo acquistano uno speciale rilievo i riferimenti ai "carismi di guarigioni" (cfr. 1 Cor 12,9.28.30). Il significato di carisma, di per sé assai ampio, è quello di "dono generoso"; e in questo caso si tratta di "doni di guarigioni ottenute". Queste grazie, al plurale, sono attribuite a un singolo (cfr. 1 Cor 12,9), pertanto non vanno intese in senso distributivo, come guarigioni che ognuno dei guariti ottiene per se stesso, bensì come dono concesso a una persona di ottenere grazie di guarigioni per altri. Esso è dato in un solo Spirito, ma non si specifica nulla sul come quella persona ottiene le guarigioni. Non è arbitrario sottintendere che ciò avvenga per mezzo della preghiera, forse accompagnata da qualche gesto simbolico.
Nella Lettera di san Giacomo si fa riferimento a un intervento della Chiesa attraverso i presbiteri a favore della salvezza, anche in senso fisico, dei malati. Ma non si fa intendere che si tratti di guarigioni prodigiose: siamo in un ambito diverso da quello dei "carismi di guarigioni" di 1Cor 12,9. "Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati" (Gc 5,14-15). Si tratta di un'azione sacramentale: unzione del malato con olio e preghiera su di lui, non semplicemente "per lui", quasi non fosse altro che una preghiera di intercessione o di domanda; si tratta piuttosto di un'azione efficace sull'infermo.(18) I verbi "salverà" e "rialzerà" non suggeriscono un'azione mirante esclusivamente, o soprattutto, alla guarigione fisica, ma in un certo modo la includono. Il primo verbo, benché le altre volte che compare nella Lettera si riferisca alla salvezza spirituale (cfr. 1,21; 2,14; 4,12; 5,20), è anche usato nel Nuovo Testamento nel senso di "guarire" (cfr. Mt 9,21; Mc 5,28.34; 6,56; 10,52; Lc 8,48); il secondo verbo, pur assumendo alle volte il senso di "risorgere" (cfr. Mt 10,8; 11,5; 14,2), viene anche usato per indicare il gesto di "sollevare" la persona distesa a causa di una malattia guarendola prodigiosamente (cfr. Mt 9,5; Mc 1,31; 9,27; At 3,7).
4. Le preghiere per ottenere da Dio la guarigione nella Tradizione
I Padri della Chiesa consideravano normale che il credente chiedesse a Dio non soltanto la salute dell'anima, ma anche quella del corpo. A proposito dei beni della vita, della salute e dell'integrità fisica, S. Agostino scriveva: "Bisogna pregare che ci siano conservati, quando si hanno, e che ci siano elargiti, quando non si hanno".(19) Lo stesso Padre della Chiesa ci ha lasciato la testimonianza di una guarigione di un amico ottenuta con le preghiere di un Vescovo, di un sacerdote e di alcuni diaconi nella sua casa.(20)
Uguale orientamento si osserva nei riti liturgici sia Occidentali che Orientali. In una preghiera dopo la Comunione si chiede che "la potenza di questo sacramento... ci pervada corpo e anima".(21) Nella solenne liturgia del Venerdì Santo viene rivolto l'invito a pregare Dio Padre onnipotente affinché "allontani le malattie... conceda la salute agli ammalati".(22) Tra i testi più significativi si segnala quello della benedizione dell'olio degli infermi. Qui si chiede a Dio di effondere la sua santa benedizione "perché quanti riceveranno l'unzione di quest'olio ottengano conforto nel corpo, nell'anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza".(23)
Non diverse sono le espressioni che si leggono nei riti Orientali dell'unzione degli infermi. Ricordiamo solo alcune tra le più significative. Nel rito bizantino durante l'unzione dell'infermo si prega: "Padre santo, medico delle anime e dei corpi, che hai mandato il tuo Figlio unigenito Gesù Cristo a curare ogni malattia e a liberarci dalla morte, guarisci anche questo tuo servo dall'infermità del corpo e dello spirito, che lo affligge, per la grazia del tuo Cristo".(24) Nel rito copto si invoca il Signore di benedire l'olio affinché tutti coloro che ne verranno unti possano ottenere la salute dello spirito e del corpo. Poi, durante l'unzione dell'infermo, i sacerdoti, fatta menzione di Gesù Cristo mandato nel mondo "a sanare tutte le infermità e a liberare dalla morte", chiedono a Dio "di guarire l'infermo dalle infermità del corpo e a dargli la via retta".(25)
5. Il "carisma di guarigione" nel contesto attuale
Lungo i secoli della storia della Chiesa non sono mancati santi taumaturghi che hanno operato guarigioni miracolose. Il fenomeno, pertanto, non era limitato al tempo apostolico; tuttavia, il cosiddetto "carisma di guarigione" sul quale è opportuno attualmente fornire alcuni chiarimenti dottrinali non rientra fra quei fenomeni taumaturgici. La questione si pone piuttosto in riferimento ad apposite riunioni di preghiera organizzate al fine di ottenere guarigioni prodigiose tra i malati partecipanti, oppure preghiere di guarigione al termine della comunione eucaristica con il medesimo scopo.
Quanto alle guarigioni legate ai luoghi di preghiera (santuari, presso le reliquie di martiri o di altri santi, ecc.) anch'esse sono abbondantemente testimoniate lungo la storia della Chiesa. Esse contribuirono a popolarizzare, nell'antichità e nel medioevo, i pellegrinaggi ad alcuni santuari che divennero famosi anche per questa ragione, come quelli di san Martino di Tours, o la cattedrale di san Giacomo a Compostela, e tanti altri. Anche attualmente accade lo stesso, come, ad esempio da più di un secolo, a Lourdes. Tali guarigioni non implicano però un "carisma di guarigione", perché non riguardano un eventuale soggetto di tale carisma, ma occorre tenerne conto nel momento di valutare dottrinalmente le suddette riunioni di preghiera.
Per quanto riguarda le riunioni di preghiera con lo scopo di ottenere guarigioni, scopo, se non prevalente, almeno certamente influente nella loro programmazione, è opportuno distinguere tra quelle che possono far pensare a un "carisma di guarigione", vero o apparente che sia, e le altre senza connessione con tale carisma. Perché possano riguardare un eventuale carisma occorre che vi emerga come determinante per l'efficacia della preghiera l'intervento di una o di alcune persone singole o di una categoria qualificata, ad esempio, i dirigenti del gruppo che promuove la riunione. Se non c'è connessione col "carisma di guarigione", ovviamente le celebrazioni previste nei libri liturgici, se si realizzano nel rispetto delle norme liturgiche, sono lecite, e spesso opportune, come è il caso della Messa pro infirmis. Se non rispettano la normativa liturgica, la legittimità viene a mancare.
Nei santuari sono anche frequenti altre celebrazioni che di per sé non mirano specificamente ad impetrare da Dio grazie di guarigioni, ma che nelle intenzioni degli organizzatori e dei partecipanti hanno come parte importante della loro finalità l'ottenimento di guarigioni; si fanno per questa ragione celebrazioni liturgiche (ad esempio, l'esposizione del Santissimo Sacramento con la benedizione) o non liturgiche, ma di pietà popolare incoraggiata dalla Chiesa, come la recita solenne del Rosario. Anche queste celebrazioni sono legittime, purché non se ne sovverta l'autentico senso. Ad esempio, non si potrebbe mettere in primo piano il desiderio di ottenere la guarigione dei malati, facendo perdere all'esposizione della Santissima Eucaristia la sua propria finalità; essa infatti "porta i fedeli a riconoscere in essa la mirabile presenza di Cristo e li invita all'unione di spirito con lui, unione che trova il suo culmine nella Comunione sacramentale".(26)
Il "carisma di guarigione" non è attribuibile a una determinata classe di fedeli. Infatti è ben chiaro che san Paolo, allorché si riferisce ai diversi carismi in 1 Cor 12, non attribuisce il dono dei "carismi di guarigione" a un particolare gruppo, sia quello degli apostoli, o dei profeti, o dei maestri, o di coloro che governano, o qualunque altro; anzi è un'altra la logica che ne guida la distribuzione: "tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole" (1Cor 12, 11). Di conseguenza, nelle riunioni di preghiera organizzate con lo scopo di impetrare delle guarigioni, sarebbe del tutto arbitrario attribuire un "carisma di guarigione" ad una categoria di partecipanti, per esempio, ai dirigenti del gruppo; non resta che affidarsi alla liberissima volontà dello Spirito Santo, il quale dona ad alcuni un carisma speciale di guarigione per manifestare la forza della grazia del Risorto. D'altra parte, neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie. Così san Paolo deve imparare dal Signore che "ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2Cor 12,9), e che le sofferenze da sopportare possono avere come senso quello per cui "io completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Col 1,24).

II. DISPOSIZIONI DISCIPLINARI
Art. 1 - Ad ogni fedele è lecito elevare a Dio preghiere per ottenere la guarigione. Quando tuttavia queste si svolgono in chiesa o in altro luogo sacro, è conveniente che esse siano guidate da un ministro ordinato.
Art. 2 - Le preghiere di guarigione si qualificano come liturgiche, se sono inserite nei libri liturgici approvati dalla competente autorità della Chiesa; altrimenti sono non liturgiche.
Art. 3 - § 1. Le preghiere di guarigione liturgiche si celebrano secondo il rito prescritto e con le vesti sacre indicate nell'Ordo benedictionis infirmorum del Rituale Romanum.(27)
§ 2. Le Conferenze Episcopali, in conformità a quanto stabilito nei Praenotanda, V., De aptationibus quae Conferentiae Episcoporum competunt,(28) del medesimo Rituale Romanum, possono compiere gli adattamenti al rito delle benedizioni degli infermi, ritenuti pastoralmente opportuni o eventualmente necessari, previa revisione della Sede Apostolica.
Art. 4 - § 1. Il Vescovo diocesano(29) ha il diritto di emanare norme per la propria Chiesa particolare sulle celebrazioni liturgiche di guarigione, a norma del can. 838 § 4.
§ 2. Coloro che curano la preparazione di siffatte celebrazioni liturgiche, devono attenersi nella loro realizzazione a tali norme.
§ 3. Il permesso per tenere tali celebrazioni deve essere esplicito, anche se le organizzano o vi partecipano Vescovi o Cardinali. Stante una giusta e proporzionata causa, il Vescovo diocesano ha il diritto di porre il divieto ad un altro Vescovo.
Art. 5 - § 1. Le preghiere di guarigione non liturgiche si realizzano con modalità distinte dalle celebrazioni liturgiche, come incontri di preghiera o lettura della Parola di Dio, ferma restando la vigilanza dell'Ordinario del luogo a norma del can. 839 § 2.
§ 2. Si eviti accuratamente di confondere queste libere preghiere non liturgiche con le celebrazioni liturgiche propriamente dette.
§ 3. E' necessario inoltre che nel loro svolgimento non si pervenga, soprattutto da parte di coloro che le guidano, a forme simili all'isterismo, all'artificiosità, alla teatralità o al sensazionalismo.
Art. 6 - L'uso degli strumenti di comunicazione sociale, in particolare della televisione, mentre si svolgono le preghiere di guarigione, liturgiche e non liturgiche, è sottoposto alla vigilanza del Vescovo diocesano in conformità al disposto del can. 823, e delle norme stabilite dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nell'Istruzione del 30 marzo 1992.(30)
Art. 7 - § 1. Fermo restando quanto sopra disposto nell'art. 3 e fatte salve le funzioni per gli infermi previste nei libri liturgici, nella celebrazione della Santissima Eucaristia, dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore non si devono introdurre preghiere di guarigione, liturgiche e non liturgiche.
§ 2. Durante le celebrazioni, di cui nel § 1, è data la possibilità di inserire speciali intenzioni di preghiera per la guarigione degli infermi nella preghiera universale o "dei fedeli", quando questa è in esse prevista.
Art. 8 - § 1. Il ministero dell'esorcismo deve essere esercitato in stretta dipendenza con il Vescovo diocesano, a norma del can. 1172, della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 29 settembre 1985(31) e del Rituale Romanum.(32)
§ 2. Le preghiere di esorcismo, contenute nel Rituale Romanum, devono restare distinte dalle celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche.
§ 3. E' assolutamente vietato inserire tali preghiere di esorcismo nella celebrazione della Santa Messa, dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore.
Art. 9 - Coloro che guidano le celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche, si sforzino di mantenere un clima di serena devozione nell'assemblea e usino la necessaria prudenza se avvengono guarigioni tra gli astanti; terminata la celebrazione, potranno raccogliere con semplicità e accuratezza eventuali testimonianze e sottoporre il fatto alla competente autorità ecclesiastica.
Art. 10 - L'intervento d'autorità del Vescovo diocesano si rende doveroso e necessario quando si verifichino abusi nelle celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche, nel caso di evidente scandalo per la comunità dei fedeli, oppure quando vi siano gravi inosservanze delle norme liturgiche e disciplinari.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza accordata al sottoscritto Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, 14 settembre 2000, festa dell'Esaltazione della Santa Croce.
+ Joseph Card. RATZINGER,
Prefetto
+ Tarcisio BERTONE, S.D.B.,
Arciv. emerito di Vercelli,
Segretario

NOTE
(1) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 53, AAS 81(1989), p. 498.
(2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1502.
(3) GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 11, AAS 76(1984), p. 212.
(4) Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXII, n. 2.
(5) GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 19, AAS 76(1984), p. 225.
(6) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 53, AAS 81(1989), p. 499.
(7) Ibid., n. 53.
(8) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1511.
(9) Cfr. Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 5.
(10) Ibid., n. 75.
(11) Cfr. Ibid., n. 77.
(12) Missale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Editio typica altera, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXV, pp. 838-839.
(13) Cfr. Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Ioannis Paulii II promulgatum, De Benedictionibus, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXXIV, n. 305.
(14) Cfr. Ibid., nn. 306-309.
(15) Cfr. Ibid., nn. 315-316.
(16) Cfr. Ibid., n. 319.
(17) Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 3.
(18) Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIV, Doctrina de sacramento extremae unctionis, cap. 2: DS, 1696.
(19) AUGUSTINUS IPPONIENSIS, Epistulae 130, VI,13 (= PL, 33,499).
(20) Cfr. AUGUSTINUS IPPONIENSIS, De Civitate Dei 22, 8,3 (= PL 41,762-763).
(21) Cfr. Missale Romanum, p. 563.
(22) Ibid., Oratio universalis, n. X (Pro tribulatis), p. 256.
(23) Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 75.
(24) GOAR J., Euchologion sive Rituale Graecorum, Venetiis 1730 (Graz 1960), n. 338.
(25) DENZINGER H., Ritus Orientalium in administrandis Sacramentis, vv. I- II, Würzburg 1863 (Graz 1961), v. II, pp. 497-498.
(26) Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, De Sacra Communione et de Cultu Mysterii Eucharistici Extra Missam, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXIII, n. 82.
(27) Cfr. Rituale Romanum, De Benedictionibus, nn. 290-320.
(28) Ibid., n. 39.
(29) E i suoi equiparati, in forza del can. 381, § 2.
(30) Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione circa alcuni aspetti dell'uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede, 30 marzo 1992, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.
(31) Cfr. CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Epistula Inde ab aliquot annis, Ordinariis locorum missa: in mentem normae vigentes de exorcismis revocantur, 29 septembris 1985, AAS 77(1985), pp. 1169-1170.
(32) Cfr. Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Ioannis Pauli II promulgatum, De Exorcismis et Supplicationibus quibusdam, Editio typica, Typis Vaticanis MIM, Praenotanda, nn. 13- 19.