giovedì 15 marzo 2012

Il martirio di Rabbi Akiva

Di seguito il Vangelo di oggi, 16 marzo, venerdi della III settimana di Quaresima,
con un commento e qualche testo di approfondimento.


Il martirio di Rabbi Akiva


Secondo il Talmud, per cercare di eliminare per sempre l'Ebraismo, 
il governo Romano proibì ai Maestri Ebrei di insegnare la Torah. 
Tuttavia, Rabbi Akiva si rifiutò di seguire questo decreto 
e fu catturato e condannato a morte.


Mentre il torturatore gli bruciava la pelle, 

il Rabbino sorrideva e recitava le preghiere della sera, 

collegandosi così con il sacrificio serale nel Tempio di Gerusalemme. 

I suoi discepoli volevano risparmiargli quell'ultimo sforzo: 

"Maestro, ora però sei dispensato!".


Ma Rabbi Akiva disse:

«Per tutta la vita mi sono tormentato a causa del verso: 

"Amerai il Signore tuo Dio con tutta l'anima",
 
con il mio ultimo respiro,
 


e mi sono sempre chiesto quando sarei stato capace 

di adempiere questo precetto, 

ed ora che finalmente posso adempierlo, non dovrei farlo?»

Allora egli cominciò a recitare lo Shemà: 
"Ascolta Israele, Hashem è il nostro Dio, Hashem è uno" 
(Shemà Yisrael, Hashem Elohenu Hashem echad
e morì mentre pronunciava l'ultima parola.

Si racconta che in quel momento una voce dal Cielo proclamò: 
«Tu sei beato Akiva, il tuo respiro si è spento con "Echad". 
Tu sei beato Akiva, avrai una parte nel Mondo Avvenire.»

(Questo racconto si trova nel Talmud Bavlì, Berachot 61b)



Dal Vangelo secondo Marco 12,28-34. 
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore;
amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.
E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi».
Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui;
amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.



IL COMMENTO


La saggezza dell'uomo consiste nel saper rispondere ad una domanda, quella decisiva. Il vangelo di oggi ci svela che vi è una risposta intelligente da cui deriva una vita altrettanto intelligente, sapiente, gustosa. La domanda cui rispondere è: "Qual'è il primo dei comandamenti?". Possiamo esprimere il significato della parola comandamento, attraverso le diverse sfumature che si colgono dai termini ebraici che traduce: come una parola che affida un incaricoun comando fissato come un ordine di servizio, la legge "incisa" che orienta e dirige il compimento di una missione. Situando in questo orizzonte la parola comandamento scopriamo in esso una ricchezza forse sconosciuta. Esso, secondo la tradizione di Israele, è sempre una parola di vita. Osservare, compiere i comandamenti è la via alla riuscita della vita, perchè la vita è una missione affidata a ciascun uomo: "Vi ho costituiti perchè andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga" (Gv.15).

La domanda decisiva che appare nel Vangelo di oggi allora può significare: "Su che cosa fondare l'esistenza perchè sia riuscita? Che cos'è decisivo e imprescindibile nella vita? A quale comando obbedire per vivere pienamente? Cosa fare per essere felici? Quale è la parola che mi può indicare il compimento della mia vita e condurla alla realizzazione della missione che mi è affidata? Tra i tanti che sento ogni giorno, qual'è il comandamento che mi guida verso il Regno di Dio?". La nostra vita è come una freccia scoccata dall'arco verso un obiettivo ben preciso. Chet, uno dei termini ebraici del concetto di “peccato” significa fallire il bersaglioin greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente direzione sbagliata di vita, bersaglio non preso. Il termine peccato significa dunque una direzione sbagliata della propria esistenzaè relativo all'ontologia ancor prima che alla morale. S. Agostino considera il peccato come un "bene che non ha raggiunto il suo fine". Il Concilio Vaticano II afferma che il peccato è un limite che l’uomo mette alla propria crescita, “ una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza” (GS 1,13).

Il dialogo tra lo scriba ed il Signore riveste allora una importanza capitale: come vivere sapientemente, perchè la nostra vita non sia sprecata fallendo il bersaglio, preda del peccato. Ed è una domanda decisiva perchè ci svela che non è possibile vivere confondendo pensieri, affezioni e azioni nel grigio del compromesso; o si è sapienti o si è stolti, o con il Signore o contro di Lui: "Gesù, vedendo che aveva risposto intelligentemente"... ovvero con discernimento, con sapienza. "Il principio della sapienza è il timore del Signore", che significa vivere abbandonati alla sua volontà in un'intimità di amore, e sperimentare la Sua presenza nella nostra vita come una presenza unica, perchè Lui è unico. E' la sapienza più genuina che scopre l'evidenza della realtà più profonda, la verità su cui poggia l'universo: Dio esiste, ed è unico. Unico nell'amore, ad ogni uomo in qualunque situzione si trovi. Unico nella misericordia. Unico nel potere con il quale ci libera. La sapienza è amarlo con tutto noi stessi, consegnandogli tutto di noi, amarlo di amore esclusivo, amore unico per l'Unico.

L'incipit delle Dieci Parole di Vita, vergate con il fuoco dell'amore divino e rivelate sul Sinai, rammentano un'esperienza. L'ascolto è preceduto e accompagnato da un'esperienza: la liberazione dall'Egitto. Nella liberazione l'esperienza di Dio. Lo stesso incipit dello Shemà, il comandamento più grande. L'amore a Dio e al prossimo scaturisce dall'esperienza dell'unicità di Dio. Per questo prima di essere un comandamento, esso è un'affermazione, la rivelazione di un'identità. Ascolta Israele, il Signore è uno. Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicità. La missione affidata ad Israele prima e alla Chiesa poi, l'incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l'identità di Colui che incarica e affida la missione. E nella sua identità è rivelata anche quella dell'apostolo, dell'inviato. Liberatore e liberato, in questa relazione sperimentata è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande.
Nel dialogo tra lo scriba e Gesù si legge in filigrana tutta la storia di Israele che, proprio in quel momento, trova pienezza e compimento. E' il dialogo tra il Liberatore-Gesù e il liberato-scriba che si incontrano nell'amore. Per questo Gesù conclude congratulandosi con lo scriba dicendogli che non è lontano dal Regno di Dio: aderendo alle sue parole lo scriba riconosce in quel comando la missione della sua vita; essa infatti consiste nell'esodo dalla condizione servile alla libertà, dall'Egitto alla Terra Promessa, dalla morte alla vita, dal peccato al compimento, all'amore totale e senza condizioni. La missione di Gesù e la missione dello scriba-discepolo coincidono! Gesù è lo stesso Dio e lo stesso prossimo oggetti dell'amore esclusivo e geloso di cui il comandamento dello Shemà. Ma anche lo scriba è l'oggetto dello stesso amore da parte di Gesù. Dio è l'unico da amare con tutto se stesso perchè e l'unico che ama ogni uomo con tutto se stesso come fosse l'unico al mondo. I due rimangono l'uno nell'altro nell'amore e compiono così lo Shemà che li conduce nel Regno eterno del Padre.

Gesù e lo scriba figli di Israele conoscono le vicende del proprio popolo. Egitto, Mitraym, in ebraico significa "angoscia, luogo dove l'umano è definitivamente incastrato e rinserrato". In Egitto il popolo ha vissuto nella condizione servile. Ciò non significa solamente la schiavitù in senso fisico. In Egitto il Popolo ha vissuto incastrato nel servizio agli idoli, o forse si è esso stesso sottomesso all'idolatria. E l'idolatria è sempre dissipazione e disordine dell'uomo, del suo cuore, della sua mente, delle sue forze. Disordine in ebraico si dice "Faraone". Asservito al Faraone il Popolo santo aveva perduto la sua identità, l'arco scoccato stava fallendo il bersaglio. In questa situazione fallimentare è avvenuto l'impossibile, Dio stesso è sceso a liberare il Popolo eper condurlo al bersaglio autentico, al compimento della sua missione. Il comandamento più grande, la sintesi di tutta la Torah e dei profeti, è quindi il sigillo ed il segno dell'opera unica compiuta dall'unico che ne aveva il potere. "Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che "solo il SIgnore suo Dio" può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del Faraone. Vuole servire il Solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto" (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). E Dio era solo, non v'era con Lui alcun dio straniero. Lui ha spiegato le Sue ali e ha liberato il Suo popolo. Ha rivelato se stesso nella forza incommensurabile del Suo amore, l'unico che ha reso possibile l'impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E' uno. E' Dio. Amarlo perchè è unico. Amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l'unica vita ragionevole, intelligente, sapiente.

Lo Shemà, l'ascolto che si fa obbedienza e compimento di un amore esclusivo, è il comndamento più grande perchè è il comandamento dell'uomo libero. La libertà è la missione affidata ad ogni uomo creato ad immagine e somigliante del Dio libero che, liberamente lo ha tratto dal nulla per puro amore. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perchè non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il Faraone vi è disordine e l'uomo vive dissipato; cuore, anima e forze si combattono conducendo l'uomo ad una schizofrenia interiore che lo distrugge.
San Giovanni della Croce commentando la citazione di Dt 6,5 afferma come “tutto il lavoro necessario per giungere all' unione con Dio, consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio”. La volontà di Dio è proprio la missione, il comandamento più grande donato all'uomo. Prosegue San Giovanni della Croce: "La forza dell'anima sta nelle sue potenze, passioni e appetiti, cose tutte governate dalla volontà. Ora quando la volontà indirizza queste passioni, potenze e appetiti verso Dio e li distoglie da tutto ciò che non è Lui, allora conserva la forza dell'anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze. Le affezioni disordinate, da cui nascono gli appetiti, gli affetti e le operazioni sregolate, ... sono quattro: gioia, speranza, dolore, timore. Quando esse sono rivolte a Dio attraverso un esercizio assennato, in modo che l'anima non gioisca se non di ciò che è onore e gloria di Dio, non speri in altro che in Dio, non si dolga se non di ciò che Lo ferisce, né tema se non Dio solo, è chiaro che dispone e conserva tutte le sue forze e le sue capacità per Dio. Al contrario, quanto più l'anima gode di cose diverse da Dio, tanto meno fortemente riporrà la sua gioia in Dio; quanto più porrà fiducia in qualche cosa creata, tanto meno confiderà in Dio. E così per le altre passioni” (San Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, Cap. XVI).
E' quanto aferma anche la sapienza di Israele: "Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perchè è scritto: Amerai.... con tutto il cuore: con le tue due inclinazioni, il bene e il male..." (Ber. 9,5). Anche il Targum offre una interpretazione analoga, il che significa che era quella diffusa nel I secolo, al tempo di Gesù. Secondo la concezione rabbinica molto simile a quella di San Giovanni della Croce, vi sono due "istinti", uno buono e uno cattivo. Quest'ultimo, in sè, è moralmente neutro. Diventa cattivo solo quando non è condotto nelle vie della Torah. Il pio ebreo prega ogni giorno così: "Possa l'istinto cattivo non acquistare potere sopra di noi. Costringi il nostro istinto a rimanere a te sottomesso". Per questo Gesù dirà ai giudei che lo incalzavano affermando che non erano mai stati schiavi di nessuno, che vi è qualcuno più forte del Faraone e di qualunque potere mondano. Esiste il demonio e la schiavitù ad esso preclude qualunque altra libertà. l'ascolto della sua Parola è l'unica possibilità offerta all'uomo per essere libero davvero, per essere liberato dal potere del demonio, dalla schiavitù idolatrica che esso suppone. La Parola di Gesù è dunque lo Shemà capace di ri-orientare la vita sul cammino del compimento, dove cuore, anima e forze sono impiegate per amare.
A chi consegnare se stessi se non vi è nessun altro che Lui? Chi amare se non ci ha creato, amato e redenti se non Lui solo? Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci d'amare e di salvare? Tutto ha origine da un'esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d'amore. Un bambino ama chi lo ama. Un bambino entra nel Regno dei cieli. Un bambino è il più saggio perchè vive rispondendo "naturalmente" ad un'evidenza: l'amore dei suoi genitori. Con i limiti della carne, con i capricci e le marachelle, che non intaccano assolutamente la saggezza dello spirito d'un bambino.
Dio è unico, il Suo amore è l'unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l'unico che ci ama così come siamo. Lui solo può darci la vita nella morte, orientare tutto di noi verso il compmento della missione affidata. L'esperienza del Suo amore genera il radicale e assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente, l'amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico, perchè ogni uomo reca scoplito il cromosoma divino. Ascoltare è dunque amare. Ascoltare la Verità e obbedire alla Verità, in ebraico i due verbi coincidono. Nulla di sentimentale, erotico e passionale. Un amore crudo, totale, ragionevole e sapiente. L'amore crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel Suo tutto consegnato il nostro tutto consegnato. Amore per amore. La liturgia celeste che appare nel dialogo tra Gesù e lo scriba, tra Gesù e ciascuno di noi oggi, e ogni giorno: Ascoltare e proclamare lo Shemà, l'unicità dell'amore di Dio, un canto di gioia nel compimento della propria vita secondo la volontà-comandamento-parola del Padre.
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APPROFONDIMENTI

San Francesco di Sales. Il Comandamento più grande

Dai Discorsi di san Francesco di Sales.
Sermon pour le 17e dim. après la Pent. Œuvres. Annecy, 1897, t.IX, 199-201.
Amare Dio con tutto il cuore non significa forse amarlo con tutto il nostro amore? Ma deve essere un amore infocato. Ne segue che non dobbiamo amare molte altre cose, almeno non con affetto privilegiato. Amare Dio con tutta l'anima vuole dire dedicarsi con tutto se stesso nell'esercizio del suo amore, cioè amare Dio di un amore puro e semplice.
Amarlo con tutta la mente equivale a fissare in lui i nostri pensieri quanto più spesso è possibile. Amarlo con tutte le forze significa nutrire per Dio un affetto saldo, costante, generoso, che non si lascia mai abbattere, ma è sempre perseverante. Amarlo con tutto quello che siamo è abbandonargli tutto l'essere per rimanere totalmente soggetti all'obbedienza del suo amore.
Da quale segno potrete riconoscere se amate Dio come ho appena descritto? Vi darò alcune prove infallibili. La prima consiste nel provare una gran gioia a stare alla sua presenza, giacché sapete bene come l'amore cerchi sempre la presenza di colui che ama. L'amore - secondo Dionigi - tende all'unione; quando l'amore è puro (e solo di questo intendo parlare) unisce in modo per così dire inseparabile i cuori di quelli che si amano.
L'amore è vincolo di perfezione: vincolo, ossia qualcosa che non può essere disfatto. Se davvero amate Dio, sarete molto solleciti a ricercarne la presenza per unirvi sempre di più alla sua bontà, non tanto per la consolazione che se ne ricava, ma semplicemente per appagare la sua brama che a questo anela: cercherete il Dio di ogni consolazione e non le consolazioni di Dio.
Gli amanti cercano sempre di parlare segretamente, sebbene quello che hanno da dirsi non siano segreti o qualcosa da considerare segreti. Lo stesso avviene in questa santa dilezione: l'amante fedele cerca, con ogni possibile mezzo, di incontrare dovunque tutto solo il Diletto, per lanciargli in cuore qualche freccia delle sua passione amorosa e offrirgli qualche piccolo attestato del suo affetto. Magari sarà soltanto per dirgli: "Sei tutto mio e io sono tutto tuo".
Un altro segno consiste nel fatto che il vero amore è indiviso e non si fissa in altro. Lo sapete bene: quando il nostro sentimento abbraccia molti oggetti insieme, si svilisce perdendo in forza e completezza.
Il terzo segno, quello prioritario, per conoscere se il vostro amore per Dio è solido, consiste nell'amare anche il prossimo. L'apostolo Giovanni ci assicura: Se uno dicesseIo amo Dioeodiasse il suo fratelloè un mentitore. Ma come amare il prossimo, con quale carità? E me lo domandate? Con l'amore stesso con cui Dio ci ama, giacché dobbiamo attingere la carità dal seno dell'eterno Padre, se vogliamo che sia quale deve essere.
Ovviamente si tratta di un amore saldo, invariabile, incapace di perdersi in quisquilie o di fissarsi sulle caratteristiche delle persone; perciò non è soggetto a mutamenti, ad avversioni interpersonali, come solitamente è il nostro affetto vicendevole che si affloscia davanti a uno sguardo freddo o poco corrispondente al nostro umore. Nostro Signore ci ama senza rompere il suo rapporto con noi e sopporta in noi difetti e imperfezioni, pur senza gradirli e tanto meno favorirli.
In conclusione, dobbiamo imitare la carità del Signore nei rapporti con i fratelli. Non stanchiamoci mai di sopportarli, pur evitando con cura di favorire o di amare le loro imperfezioni. Cercheremo invece di aiutarli a distruggerle nella misura che ci sarà possibile, seguendo l'azione della Bontà divina.
Ma Dio ci ama per il cielo, per cui l'anima gli sta più a cuore del corpo: lo stesso dobbiamo fare noi. Amare il prossimo in vista dell'eternità significa procuragli grazie e benedizioni mediante la preghiera, spronandolo all'esercizio delle vere virtù tramite le parole e l'esempio.
Perciò ci rallegreremo per i doni che Dio concede ai nostri fratelli in grazie e benedizioni spirituali molto più vivamente dei beni caduchi che essi potranno ottenere, come onori, ricchezza e altri effimeri vantaggi.

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Amare Dio. Dalle Prediche di san Tommaso da Villanova.

Nulla che nasca da impegno, industria, sollecitudine, fatica, vale per acquisire l'amore di Dio. Dio lo dà gratuitamente, è un puro dono da parte sua: la grazia sopra ogni grazia. Lacrime e preghiere possono ottenerlo, ma da sole le nostre forze non riescono a procurarselo.
L'amore non si insegna, è effuso nel cuori; non lo si impara, lo riceviamo gratuitamente dall'alto. Chi lo cerca lo trova non come frutto dei suoi sforzi, ma per puro dono. L'amore di Dio non è il risultato di investigazione, ma grazia concessa dal Creatore.
Nessuno può entrare nella cantina divina se non ve lo introduce il Re, come sta scritto: Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore (Ct 2,4) Nessuno sia così temerario da irrompere in questa cantina divina, ma bussi umilmente alla porta; qui non serve la violenza che sfonda, perché il Re apre a chi gli piace.
Vi è tuttavia una serie di mezzi per aiutarci e disporci ad accogliere l'amore di Dio.
Il primo fra tutti è la purezza del cuore; essa ci rende capaci di ottenere questo dono celeste e di possederlo.Non si versa un liquore prezioso in un vaso sporco. La Scrittura ci ammonisce di togliere con cura la polvere terrena dal nostro animo per ricevere il liquore divino e ci invita
a purificare i nostri cuori da ogni doppiezza. (Cf Gc 4,8)
Se vogliamo impreziosire il nostro animo con l'amore divino, occorre purificarlo dalla feccia della voluttà che lo disonora ed estirpare il contagio del peccato che lo corrompe. Dobbiamo soffocare lo strepito delle preoccupazioni inquietanti e degli affetti che dissipano, eliminare tutte le doppiezze, gli inganni, le divagazioni e i crucci alienanti.
Offriamo allo Spirito di Dio un cuore libero, divenuto pura accoglienza, e invitiamolo con fervore perché venga a porvi la sua dimora.
L'amore del prossimo è il mezzo privilegiato per avviarci verso l'amore di Dio, perché amare il fratello è come fare il primo passo nell'amore di Dio: questo gli tiene dietro immediatamente come all'ago segue il filo. Si tratta ovviamente dell'amore di carità e non di un vano sentimento, che invece di potenziare l'unione con Dio vale a diminuirla.Amiamo perciò Dio nel prossimo per giungere poi ad amarlo in sé stesso; il prossimo infatti ci eleva fino a Dio.
Svariati altri mezzi possono disporci ad amare Dio, ma vi annoierei a enumerarli tutti. Si può citare la lettura diligente e coscienziosa della sacra Scrittura e la meditazione assidua dell'amore di Cristo per noi nell'Incarnazione e nella passione.
Tutti questi mezzi accendono e alimentano in noi la fiamma dell'amore di Dio, perché essa arda senza interruzione davanti al suo volto, come prescrive la legge: Il fuoco sarà tenuto acceso sull'altare e non si lascerà spegnere;il sacerdote vi brucerà legna ogni mattina, vi disporrà sopra l'olocausto e vi brucerà sopra il grasso dei sacrifici. Il fuoco dev'esser sempre tenuto acceso sull'altare, senza lasciarlo spegnere.3 (Lv 6,5‑6)
Quanto a noi, avremo cura di non lasciar mai estinguere il fuoco divino che brucia in presenza di Dio sull'altare del nostro cuore.
Il Signore ci ha lasciato il più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Nonostante tutti i nostri sforzi, amiamo Dio in modo imperfetto, lo desideriamo debolmente e' non adempiamo in pienezza questo comandamento. Un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri. 4 (Sap 9,15) Infatti l'animo si disperde, come sgusciando per mille crepe invisibili e non otturabili; vaga insensato attraverso i più svariati oggetti, peggio di una farfalla, gira senza posa, va, viene, piroettando in tutti i sensi. E' naturale perciò che mentre si fraziona in modo funesto nelle cose, non può unirsi tutto intero al sommo Bene.Ma verrà il tempo, anima mia, che, quando ogni moto del tuo cuore cesserà, questo spumeggiare dei pensieri si andrà placando, zittiranno tutti i marosi e tu gioirai del loro silenzio. A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore.5 (Is 60,5) Questo tuo cuore, divenuto per miracolo immutabile, non cambierà più. Allora tu arderai come un carbone ardente e nell'incendio di questo amore sarai tutt'intera trasformata in Dio.

Conciones In dom.XVII post Pent.III,11‑13;II,10. opera omnia,Milano, 1760, t. 1,849‑851.829.

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Shemà Israel: DALLA LETTERA ENCICLICA DEUS CARITAS EST di BENEDETTO XVI

INTRODUZIONE
1. « Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenza cristiana: « Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto ».
Abbiamo creduto all'amore di Dio — così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest'avvenimento con le seguenti parole: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna » (3, 16). Con la centralità dell'amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d'Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. L'Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole delLibro del Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della sua esistenza: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze » ( 6, 4-5). Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell'amore di Dio con quello dell'amore del prossimo, contenuto nelLibro del Levitico: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (19, 18; cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro.
In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell'odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto. Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell'amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri.
La novità della fede biblica
9. Vi è anzitutto la nuova immagine di Dio. Nelle culture che circondano il mondo della Bibbia, l'immagine di dio e degli dei rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé contraddittoria. Nel cammino della fede biblica diventa invece sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo » (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l'idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l'unico vero Dio, Egli stesso, è l'autore dell'intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui « fatta ». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l'uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell'amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo[6]—, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L'unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape.[7]
Soprattutto i profeti Osea ed Ezechiele hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante le metafore del fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza, l'idolatria è adulterio e prostituzione. Con ciò si accenna concretamente — come abbiamo visto — ai culti della fertilità con il loro abuso dell'eros, ma al contempo viene anche descritto il rapporto di fedeltà tra Israele e il suo Dio. La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo. Tale storia consiste nel fatto che l'uomo, vivendo nella fedeltà all'unico Dio, sperimenta se stesso come colui che è amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella giustizia — la gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità: « Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra... Il mio bene è stare vicino a Dio » (Sal 73 [72], 25. 28).
10. L'eros di Dio per l'uomo — come abbiamo detto — è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso « adulterio », ha rotto l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. Proprio qui si rivela però che Dio è Dio e non uomo: « Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? ... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te » (Os 11, 8-9). L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo — è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore.
L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose — ilLogos, la ragione primordiale — è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. In questo modo ilCantico dei Cantici è diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede biblica: sì, esiste una unificazione dell'uomo con Dio — il sogno originario dell'uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi — Dio e l'uomo — restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: « Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito », dice san Paolo (1 Cor 6, 17).
11. La prima novità della fede biblica consiste, come abbiamo visto, nell'immagine di Dio; la seconda, con essa essenzialmente connessa, la troviamo nell'immagine dell'uomo. Il racconto biblico della creazione parla della solitudine del primo uomo, Adamo, al quale Dio vuole affiancare un aiuto. Fra tutte le creature, nessuna può essere per l'uomo quell'aiuto di cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie selvatiche e a tutti gli uccelli egli abbia dato un nome, integrandoli così nel contesto della sua vita. Allora, da una costola dell'uomo, Dio plasma la donna. Ora Adamo trova l'aiuto di cui ha bisogno: « Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa » (Gn 2, 23). È possibile vedere sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, anche nel mito riferito da Platone, secondo cui l'uomo originariamente era sferico, perché completo in se stesso ed autosufficiente. Ma, come punizione per la sua superbia, venne da Zeus dimezzato, così che ora sempre anela all'altra sua metà ed è in cammino verso di essa per ritrovare la sua interezza.[8] Nel racconto biblico non si parla di punizione; l'idea però che l'uomo sia in qualche modo incompleto, costituzionalmente in cammino per trovare nell'altro la parte integrante per la sua interezza, l'idea cioè che egli solo nella comunione con l'altro sesso possa diventare « completo », è senz'altro presente. E così il racconto biblico si conclude con una profezia su Adamo: « Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne » (Gn 2, 24).
Due sono qui gli aspetti importanti: l'eros è come radicato nella natura stessa dell'uomo; Adamo è in ricerca e « abbandona suo padre e sua madre » per trovare la donna; solo nel loro insieme rappresentano l'interezza dell'umanità, diventano « una sola carne ». Non meno importante è il secondo aspetto: in un orientamento fondato nella creazione, l'eros rimanda l'uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua intima destinazione. All'immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l'icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell'amore umano. Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi non trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa.
Gesù Cristo – l'amore incarnato di Dio
12. Anche se finora abbiamo parlato prevalentemente dell'Antico Testamento, tuttavia l'intima compenetrazione dei due Testamenti come unica Scrittura della fede cristiana si è già resa visibile. La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti — un realismo inaudito. Già nell'Antico Testamento la novità biblica non consiste semplicemente in nozioni astratte, ma nell'agire imprevedibile e in certo senso inaudito di Dio. Questo agire di Dio acquista ora la sua forma drammatica nel fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la « pecorella smarrita », l'umanità sofferente e perduta. Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare.
13. A questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l'istituzione dell'Eucaristia, durante l'Ultima Cena. Egli anticipa la sua morte e resurrezione donando già in quell'ora ai suoi discepoli nel pane e nel vino se stesso, il suo corpo e il suo sangue come nuova manna (cfr Gv 6, 31-33). Se il mondo antico aveva sognato che, in fondo, vero cibo dell'uomo — ciò di cui egli come uomo vive — fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questoLogos è diventato veramente per noi nutrimento — come amore. L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. L'immagine del matrimonio tra Dio e Israele diventa realtà in un modo prima inconcepibile: ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione. La « mistica » del Sacramento che si fonda nell'abbassamento di Dio verso di noi è di ben altra portata e conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico innalzamento dell'uomo potrebbe realizzare.
14. Ora però c'è da far attenzione ad un altro aspetto: la « mistica » del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: « Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane », dice san Paolo (1 Cor 10, 17). L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani. Diventiamo « un solo corpo », fusi insieme in un'unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell'Eucaristia: in essa l'agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l'insegnamento di Gesù sull'amore. Il passaggio che Egli fa fare dalla Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell'amore verso Dio e verso il prossimo, la derivazione di tutta l'esistenza di fede dalla centralità di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento: fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un'unica realtà che si configura nell'incontro con l'agape di Dio. La consueta contrapposizione di culto ed etica qui semplicemente cade. Nel « culto » stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l'essere amati e l'amare a propria volta gli altri. Un' Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente — come dovremo ancora considerare in modo più dettagliato — il « comandamento » dell'amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l'amore può essere « comandato » perché prima è donato.
15. È a partire da questo principio che devono essere comprese anche le grandi parabole di Gesù. Il ricco epulone (cfr Lc 16, 19-31) implora dal luogo della dannazione che i suoi fratelli vengano informati su ciò che succede a colui che ha disinvoltamente ignorato il povero in necessità. Gesù raccoglie per così dire tale grido di aiuto e se ne fa eco per metterci in guardia, per riportarci sulla retta via. La parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10, 25-37) conduce soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di « prossimo » era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d'Israele e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all'espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora. Rimane compito della Chiesa interpretare sempre di nuovo questo collegamento tra lontananza e vicinanza in vista della vita pratica dei suoi membri. Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25, 31-46), in cui l'amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio.
Amore di Dio e amore del prossimo
16. Dopo aver riflettuto sull'essenza dell'amore e sul suo significato nella fede biblica, rimane una duplice domanda circa il nostro atteggiamento: è veramente possibile amare Dio pur non vedendolo? E: l'amore si può comandare? Contro il duplice comandamento dell'amore esiste la duplice obiezione, che risuona in queste domande. Nessuno ha mai visto Dio — come potremmo amarlo? E inoltre: l'amore non si può comandare; è in definitiva un sentimento che può esserci o non esserci, ma che non può essere creato dalla volontà. La Scrittura sembra avallare la prima obiezione quando afferma: « Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede » (1 Gv 4, 20). Ma questo testo non esclude affatto l'amore di Dio come qualcosa di impossibile; al contrario, nell'intero contesto della Prima Lettera di Giovanni ora citata, tale amore viene richiesto esplicitamente. Viene sottolineato il collegamento inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo. Entrambi si richiamano così strettamente che l'affermazione dell'amore di Dio diventa una menzogna, se l'uomo si chiude al prossimo o addirittura lo odia. Il versetto giovanneo si deve interpretare piuttosto nel senso che l'amore per il prossimo è una strada per incontrare anche Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio.
17. In effetti, nessuno ha mai visto Dio così come Egli è in se stesso. E tuttavia Dio non è per noi totalmente invisibile, non è rimasto per noi semplicemente inaccessibile. Dio ci ha amati per primo, dice la Lettera di Giovanni citata (cfr 4, 10) e questo amore di Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto visibile in quanto Egli « ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui » (1 Gv 4, 9). Dio si è fatto visibile: in Gesù noi possiamo vedere il Padre (cfr Gv 14, 9). Di fatto esiste una molteplice visibilità di Dio. Nella storia d'amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro, cerca di conquistarci — fino all'Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali Egli, attraverso l'azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della Chiesa nascente. Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro — attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell'Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano. Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo « prima » di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi.
Nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza che l'amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore. Abbiamo all'inizio parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni, attraverso le quali l'eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e il nostro intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai « concluso » e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso. Idem velle atque idem nolle[9] — volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare. La storia d'amore tra Dio e l'uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso.[10] Allora cresce l'abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr Sal 73 [72], 23-28).
18. Si rivela così possibile l'amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là dell'apparenza esteriore dell'altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno. Qui si mostra l'interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo, di cui la Prima Lettera di Giovanni parla con tanta insistenza. Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell'altro sempre soltanto l'altro e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina. Se però nella mia vita tralascio completamente l'attenzione per l'altro, volendo essere solamente « pio » e compiere i miei « doveri religiosi », allora s'inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto « corretto », ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama. I santi — pensiamo ad esempio alla beata Teresa di Calcutta — hanno attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro incontro col Signore eucaristico e, reciprocamente questo incontro ha acquisito il suo realismo e la sua profondità proprio nel loro servizio agli altri. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono dell'amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo. Così non si tratta più di un « comandamento » dall'esterno che ci impone l'impossibile, bensì di un'esperienza dell'amore donata dall'interno, un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L'amore cresce attraverso l'amore. L'amore è « divino » perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia « tutto in tutti » (1 Cor 15, 28).

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Giovanni Paolo II, Omelia sullo Shemà Israel

VISITA ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN LUCA EVANGELISTA A VIA PRENESTINA
Dall' OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II 4 novembre 1979
Cristo dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui...” (Gv 14,23). Nel centro stesso dell’insegnamento di Cristo si trova il grande comandamento dell’amore. Questo comandamento è stato iscritto già nella tradizione dell’Antico Testamento, come lo testimonia la prima lettura d’oggi, desunta dal libro del Deuteronomio.
Quando il Signore Gesù risponde alla domanda di uno degli scribi, risale a questa stesura della Legge divina, rivelata nell’Antica alleanza: “Qual è il primo di tutti i comandamenti!”. “Il primo è... amerai... il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. “E il secondo è questo. Amerai il prossimo tuo come te stesso”. “Non c’è altro comandamento più importante di questi” (Mc 12,29-31).
3. Quell’interlocutore, che è stato rievocato da San Marco, ha accettato con riflessione la risposta di Cristo. L’ha accettata con profonda approvazione. Occorre che anche noi, oggi, riflettiamo brevemente su questo “più grande comandamento”, per poterlo accettare di nuovo con piena approvazione e con profonda convinzione. Prima di tutto, Cristo diffonde il primato dell’amore nella vita e nella vocazione dell’uomo. La più grande vocazione dell’uomo è la chiamata all’amore. L’amore dà pure il significato definitivo alla vita umana. Esso è la condizione essenziale della dignità dell’uomo, la prova della nobiltà della sua anima. San Paolo dirà che esso è “il vincolo della perfezione” (Col 3,14). È la cosa più grande nella vita dell’uomo, perché il vero amore porta in sé la dimensione dell’eternità. È immortale: “la carità non avrà mai fine” leggiamo nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 13,8). L’uomo muore per quanto riguarda il corpo, perché tale è il destino di ognuno sulla terra, però questa morte non danneggia l’amore, che è maturato nella sua vita. Certo, esso rimane soprattutto per rendere testimonianza dell’uomo dinanzi a Dio, che è l’amore. Esso designa il posto dell’uomo nel Regno di Dio; nell’ordine della Comunione dei Santi. Il Signore Gesù al suo interlocutore nel Vangelo odierno – vedendo che egli comprende il primato dell’amore tra i comandamenti – dice: “Non sei lontano dal regno di Dio) (Mc 12,34).
4. Sono due i comandamenti dell’amore – come afferma espressamente il Maestro nella sua risposta – ma l’amore è uno solo. Uno e identico abbraccia Dio e il prossimo. Dio: sopra ogni cosa, perché egli è sopra di tutto. Il prossimo: con la misura dell’uomo, e quindi “come se stesso”.
Questi “due amori” sono così strettamente collegati tra di loro, che l’uno non può esistere senza l’altro. Lo dice in altro luogo San Giovanni: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Non si può quindi separare un amore dall’altro. Il vero amore dell’uomo, del prossimo, perciò stesso che è vero amore, è, nello stesso tempo, amore verso Dio. Questo può stupire qualcuno. Stupisce certamente. Quando il Signore Gesù presenta ai suoi ascoltatori la visione dell’ultimo giudizio, riferita nel Vangelo di San Matteo, dice: “Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi (Mt 25,35-36).
Allora coloro che ascoltano queste parole si meravigliano, poiché sentiamo che domandano: “Signore, quando mai ti abbiamo fatto tutto ciò?”. E la risposta: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi fratelli più piccoli – cioè al vostro prossimo: a uno degli uomini – l’avete fatto a me” (cf. Mt 25,37.40).
5. Questa verità è molto importante per tutta la nostra vita e per il nostro comportamento. È particolarmente importante per coloro che cercano di amare gli uomini, ma “non sanno se amano Dio” o addirittura dichiarano di non “saper” amarlo.
Tale difficoltà è facile da spiegare quando si prende in considerazione tutta la natura dell’uomo, tutta la sua psicologia. All’uomo è, in certo qual modo, più facile amare quello che vede che quello che non vede (cf. 1Gv 4,20).
6. Eppure l’uomo è chiamato ed è chiamato con grande fermezza, lo testimoniano le parole del Signore Gesù, all’amore verso Dio, all’amore che è sopra ogni cosa. Se facciamo una riflessione su questo comandamento, sul significato delle parole scritte già nell’Antico Testamento e ripetute con tanta determinazione da Cristo, dobbiamo riconoscere che esse ci dicono molto dell’uomo stesso. Svelano la più profonda e, insieme, definitiva prospettiva del suo essere, della sua umanità. Se Cristo assegna all’uomo come un compito tale amore, cioè l’amore di Dio che egli, uomo, non vede, questo vuol dire che il cuore umano nasconde in sé la capacità di quest’amore, che il cuore umano è creato “su misura di tale amore”. Non è forse questa la prima verità sull’uomo, cioè che egli è l’immagine e la somiglianza di Dio stesso? Sant’Agostino non parla del cuore umano che rimane inquieto fino a che non riposi in Dio? Così dunque il comandamento dell’amore di Dio sopra ogni cosa svela una scala delle possibilità interiori dell’uomo. Questa non è una scala astratta. È stata riconfermata e costantemente trova una conferma da parte di tutti gli uomini che prendono sul serio la loro fede, il fatto di essere cristiani. Eppure non mancano gli uomini che hanno confermato eroicamente questa scala delle possibilità interiori dell’uomo.
7. Nella nostra epoca ci incontriamo con una critica spesso radicale della religione, con una critica della cristianità. E allora anche questo “più grande comandamento” diventa vittima dell’analisi distruttiva. Se si risparmia e, perfino, generalmente si approva l’amore verso l’uomo, l’amore verso Dio viene, invece, per vari motivi, rifiutato. Il più spesso, lo si fa semplicemente come espressione atea della visione del mondo.
Nel contatto con questa critica, che si presenta in varie forme, sia in forma sistematica, sia in quella circolante, bisogna ponderare almeno le sue conseguenze nell’uomo stesso. Se infatti Cristo, mediante il suo più grande comandamento, ha svelato la piena scala delle possibilità interiori dell’uomo, allora dobbiamo rispondere in noi stessi alla domanda: rifiutando questo comandamento, non diminuiamo forse l’uomo? È sufficiente che io mi limiti, in questo momento, a fare soltanto questa domanda.
8. Ciò che voglio augurare, in occasione dell’incontro di oggi con la vostra parrocchia, si esprime soprattutto nel fervido desiderio che il grande comandamento del Vangelo sia il principio della vita di ciascuno di voi e di tutta la vostra comunità. Eppure proprio questo comandamento conferisce il vero senso alla nostra vita. Vale la pena di vivere e di faticare quotidianamente nel suo nome. Nella sua luce anche la sorte più pesante, la sofferenza, la storpiatura (handicap), la morte stessa acquistano un valore. Come in modo splendido, ci parlano di ciò, nella liturgia d’oggi, le parole del salmo: “Ti amo, Signore, mia forza, / Signore, mia roccia, mia fortezza, / mio liberatore: / mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo...” (Sal 18,1-3).
Auguro quindi che su ciascuno di voi e su di tutti si compiano le parole di Cristo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
Amen.

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"ASCOLTA ISRAELE"

Lo Shema‘ ("Ascolta") è la preghiera ebraica forse più conosciuta. Essa è costituita da tre sezioni bibliche (Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41) precedute e seguite dalla recita di alcune benedizioni, e sono appunto queste ultime a rendere l’ "Ascolta Israele", una vera e propria preghiera (cioè un modo con cui l’uomo si rivolge a Dio). Lo Shema‘ è recitato con profonda riverenza ed è soprattutto necessario soffermarsi sul primo versetto: "Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno".
Da un commento, tutt’ora inedito, allo Shema‘ di Rav Elia Kopciowski - già rabbino capo di Milano e infaticabile, sapiente espositore dell’ebraismo per ebrei e non ebrei - traiamo queste suggestive e profonde considerazioni su alcuni versi della prima sezione biblica. Mentre ci auguriamo di poter leggere presto a stampa l’intera opera, ringraziamo Rav Kopciowski per il permesso datoci di anticipare queste pagine sul nostro Notiziario.
"Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno.
Benedetto il nome del Suo glorioso regno per sempre, eternamente.
E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue facoltà.
Siano queste parole che Io ti comando oggi, impresse nel tuo cuore. Le inculcherai ai tuoi figli, parlerai di esse stando in casa e andando per la via, coricandoti e alzandoti.
Le legherai come segno sulla tua mano, e siano sulla tua fronte, fra i tuoi occhi. Le scriverai sugli stipiti della porta della tua casa e della tua città" (Dt 6,4-9).
Ogni suo versetto, ogni parola, perfino ogni lettera ha dato ai nostri Maestri la possibilità di approfondire il significato dello Shema‘, ha fornito loro i mezzi per trarre sempre nuovi insegnamenti per guidare l’ebreo, e non soltanto l’ebreo ma, in definitiva, ogni credente, a meglio intendere lo scopo divino nell’appello ad ascoltare.
Già il primo versetto è stato una fonte di insegnamenti e di consigli, oltre a una guida che permette al credente di comprendere come il riconoscimento del Dio unico abbia mutato il corso della storia morale e spirituale dell’Umanità, abbia inciso nell’animo dell’ebreo la fiducia, la sicurezza che l’Umanità intera avrebbe rigettato le falsità dell’idolatria e riconosciuto l’Uno, l’Unico: "Ascolta Israele, il Signore è Dio nostro, il Signore è Uno!".
Ma una domanda sorge spontanea: perché ripetere il Nome tetragrammato? Non sarebbe stato sufficiente affermare: "Il Signore nostro Dio è Uno?". La spiegazione del Rashì (1040-1105), nella sua concisione, è molto significativa: "Ascolta Israele, il Signore che ora è riconosciuto come Dio soltanto da noi, sarà in futuro riconosciuto come l’Essere supremo da tutte le creature!". Ma sarà riconosciuto non solo come l’Essere supremo, bensì come l'Uno e l'Unico! Uno, perché non vi sono, né vi possono essere, altre divinità; Unico perché le sue qualità sono esclusive e nessun altro essere ha, né può avere, le qualità divine. E ancora, rilevano i nostri Maestri, sono soltanto sei, nel testo ebraico, le parole che traduciamo "Ascolta Israele... ". Di queste sei parole ben tre esprimono le caratteristiche fondamentali dell'Uno e Unico.
Due volte, abbiamo visto, è citato il Tetragramma e una volta la parola "Elohim". Fa notare lo Hirsch (1808-1888): la ripetizione del Tetragramma, attirando la nostra attenzione, ci richiama a riconoscere e a proclamare che tutto ciò che è contenuto nel mondo e nell'universo è sotto il dominio dell'Unico Dio. Inoltre, secondo la tradizione giudaica, il Tetragramma, qui reso con "Signore" o "Eterno", indica la Middath ha-rachamim, la qualità divina della misericordia, mentre Elohim indica la Middath ha-din, la giustizia divina. Giustizia e misericordia, viene quindi messo in risalto fin dall'inizio della proclamazione di fede del giudaismo, costituiscono per il pensiero ebraico le due qualità precipue della Maestà divina!
Questo Essere Uno e Unico è Colui che detiene il potere della giustizia e della misericordia. Ed è molto significativo che la qualità della misericordia sia espressa due volte, mentre quella della giustizia soltanto una volta; in tal modo l'Eterno stesso mette in rilievo che la misericordia deve superare le esigenze della giustizia.
E' proprio questa misericordia che l'ebreo, testimone dell'Eterno sia per se stesso, sia per l'umanità, è chiamato a ricordare e a dimostrare, con la ‘ain con cui termina la parola Shema‘ e la dalet di echad scritte in caratteri più grandi in modo da formare la parola,‘ed, "testimonio". Ma, fa notare lo Hirsch, possiamo aggiungere ancora qualcosa: non è sufficiente che l'ebreo sia "testimonio" soltanto per aver ascoltato!: la lettera ‘ain, la prima della parola ‘ed, "testimonio", significa "occhio".
L'occhio che vede, unito all'orecchio che ascolta, rendono il verso assai più denso di significato: tutte le nostre facoltà devono essere chiamate a testimoniare della "Unità e Unicità di Dio", così come si è espresso Davide: "O Signore, tutte le mie membra proclamano: ‘O Eterno, chi è come te?’"(Sal 35,10). Il "fedele" diverrà così non un semplice testimonio, bensì un "testimonio oculare". L'osservazione dello Hirsch si basa sul fatto che nessuna frase, nessuna parola, nessuna lettera, nel testo divino sono superflue; ognuna di esse vuole insegnarci qualcosa. […]
La ripetizione del Nome tetragrammato nel primo versetto ha logicamente attirato l'attenzione di molti commentatori, e varie sono state le spiegazioni suggerite. Abbiamo già citato il Rashi, che interpreta tale ripetizione come un auspicio e una speranza: "Dio, che ora è soltanto il nostro Dio e non degli idolatri, sarà un giorno il Dio di tutti gli uomini". Si tratta di una interpretazione basata sulle affermazioni di due profeti: "Poiché allora Io muterò in labbra pure le labbra dei popoli, affinché tutti invochino il Nome dell'Eterno, per servirlo di pari consentimento" (Sof 3,9), e "In quel giorno l'Eterno sarà unico e uno sarà il suo Nome" (Zc 14,9).
Se ogni parola ci mette in condizione di aggiungere qualche cosa di nuovo alla nostra conoscenza e di permetterci una migliore comprensione della parola divina, un'apparente irregolarità grammaticale, così come ogni altrettanto apparente imprecisione di linguaggio, sarà certamente fonte di nuovi insegnamenti. È stato notato, per esempio, che nel primo versetto dello Shema’ si usa il plurale: "L'Eterno è nostro Dio", mentre nel resto del brano troviamo sempre il singolare: "e amerai…, e ripeterai ...".
Questo anomalo passaggio dal plurale al singolare ha suggerito al Nachmanide (1194-1270) una istruttiva risposta: Dio ha compiuto per mezzo di Mosè opere grandiose e prodigi tali da rendere il nome del protoprofeta glorioso e indimenticabile; ma i miracoli e i prodigi erano stati compiuti per tutto il popolo e non unicamente per Mosè. Perciò, afferma il Nachmanide, se Mosè avesse detto "Il Signore vostroDio", avrebbe escluso se stesso dalla collettività; ma se avesse detto "Il Signore mio Dio", avrebbe escluso il popolo! Con le parole "Il Signore nostroDio" ha voluto invece sottolineare che il Signore aveva operato i miracoli sia per lui, sia per il popolo perché sia l'uno, sia gli altri, erano chiamati a divenire i suoi fedeli servitori, coloro che avrebbero diffuso la Parola e la Legge.
E ne possiamo dedurre chiaramente la morale: quando rimaniamo colpiti dalle azioni prodigiose operate dall'Eterno, ricordiamoci di non pretendere di averne trovato la giusta, l'unica interpretazione; la nostra comprensione è troppo limitata! Oltre a quella che ci sembra la spiegazione immediata, non dobbiamo dimenticare che lo scopo delle azioni divine è molto al di là di quello che noi valutiamo a prima vista. Ecco perché i nostri Maestri si sono soffermati in particolare sulle parole "Ascolta Israele…": per ampliare la comprensione del parola divina.
Ma, si chiede il Midrash, soltanto a Israele come popolo sono rivolte le parole divine? No, risponde lo stesso Midrash: per "Israele" si intende qui anche il patriarca Giacobbe che meritò per il proprio valore il titolo appunto di "Israele", cioè: "Campione di Dio"! L’ebreo devoto perciò, secondo il Midrash, si rivolge al suo antico padre per confermargli, generazione dopo generazione, che ha mantenuto la sua fede totale nel Dio unico.
Abudarham (XIV sec.) aggiunge che, con questo appello, ogni ebreo si rivolge anche al suo fratello di fede, per ricordargli l’impegno e il compito; lo richiama quindi all’attività comune per raggiungere lo scopo divino; lo richiama al dovere della solidarietà e gli ricorda la responsabilità collettiva, che è una realtà innegabile che riguarda l’umanità intera, ma che è vitale per la sopravvivenza del popolo d’Israele, come è chiaramente affermato: kol Israel ‘arevim ze la-ze, "Tutti i figli d’Israele sono responsabili l’uno dell’altro".
Un’interpretazione chassidica della parola "Israele" ci sembra particolarmente mistica e coinvolgente. Dov Baer di Lubawitch, nel suo Kunteros ha-Itpa ’aluth, sostiene che con questo solenne appello ogni ebreo si rivolge a se stesso, si rivolge cioè alla propria anima, che è la parte migliore di sé; a quell’"Israele Campione di Dio" che è componente spirituale della sua essenza, come deve esserlo di ogni essere umano.
Lo Hirsch si sofferma ancora sulla parola Echad, "Uno", che termina con la lettera dalet(d)scritta, con un carattere più grande, per distinguerla in modo chiaro dalla lettera resh (r)e osserva: le due lettere si rassomigliano, ma la resh ha l’angolo superiore arrotondato, mentre la dalet lo ha sporgente e spigoloso. E non senza ragione, sostiene, si è voluto attirare su queste due lettere l’attenzione di colui che prega; se infatti alla dalet della parola echad, "Uno", sostituiamo la resh, leggiamo una parola di significato completamente diverso: non più echad, "Uno, Unico", bensì acher, "altro", che potrebbe essere inteso come "altra divinità"!
In pratica se sostituissimo la lettera dalet con la lettera resh, non pregheremmo l’"Unico", ma l’"altro", e contravverremmo al Comandamento che ci ordina di non prestar culto a qualsiasi "altra divinità". La sostituzione della dalet con la resh, continua lo Hirsch, ci impartisce un altro valido insegnamento: se noi consideriamo la parola acher, come abbiamo visto, come termine per indicare "altri dèi", con un chiaro riferimento al politeismo, viene messo in evidenza il fatto che l’ideologia politeistica, come la resh dall’angolo smussato, ha una morale smussata, facile da seguire, perché non impone doveri morali e richiede ben pochi sforzi o impegni. La dalet spigolosa, conclude lo Hirsch, è un severo richiamo alla concezione ebraica, concezione ardua ed estremamente impegnativa, difficile da seguire perché impone una rigida disciplina morale. In altre parole, egli conclude, se tentiamo di ‘smussare’ il nostro comportamento rinunciando a quell’impegno spesso faticoso che ha per scopo l’attuazione di una società, di una umanità migliore, e che è simboleggiato appunto dall’angolosità della dalet, perdiamo la nostra caratteristica di popolo del Dio unico, e diveniamo seguaci di un ‘altro’ credo, indubbiamente più facile, ma totalmente vano.
Dopo la solenne dichiarazione dell’unità e dell’unicità di Dio, è scritto: "E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità".
Cosa dobbiamo intendere con amare Dio "con tutto il cuore e con tutta l’anima" e che cosa significa "con tutte le possibilità"? […]
Il comando di amare Dio è possibile solo dopo l’affermazione solenne e ripetuta non soltanto dell’unità di Dio, ma anche della Sua misericordia e della Sua giustizia. Ed effettivamente, come abbiamo rilevato, la dichiarazione "Ascolta Israele l’Eterno è Dio nostro, l’Eterno è Unico", ci ricorda sempre la ‘misericordia’ divina (menzionata, ripetiamo, due volte nel nome tetragrammato) oltre che la ‘giustizia’ divina (menzionata con la parola "Elohim"). Solo attraverso la convinzione della misericordia e della giustizia divina, può nascere la serenità ispirata dalla coscienza di aver seguito una precisa legge di comportamento che all’amore e alla giustizia di Dio si ispira, e può nascere il conforto, la sicurezza e l’amore verso Colui che non lascia spazio a sorprese e a casualità di giudizio, e che infonde in noi tranquillità di coscienza, serenità e, di conseguenza amore: amore per l’Eterno e amore per il prossimo. […]
L’insegnamento della Torà è assolutamente innovativo, rivoluzionario: esso afferma che ‘amore’ e ‘timore’ per il Dio di verità, non sono in contrasto. E il ‘timore’, sia ben chiaro, non va confuso con la ‘paura’; va inteso come ‘rispetto reverenziale’ per Colui che riconosciamo immensamente al di sopra della nostra esistenza. Il timore di Dio inteso nel suo senso più comune di paura, si manifesta solo quando si è male operato contravvenendo alla Legge; quando invece agisce il concetto insito nel nome tetragrammato che indica l’attributo divino della misericordia, il termine è usato nel senso di rispetto reverenziale.
Ma quel che è importante e innovativo nei confronti dell’idolatria, è che Dio opera per la giustizia e, se è vero che infligge punizioni, che possono suscitare timore, il concetto di punizione è ben lontano da quello di vendetta così comunemente attribuito agli idoli. I concetti di giustizia e punizione si riferiscono sempre e soltanto a un solo Essere, che è bontà e amore, e in cui la giustizia, dalla quale deriva una meritata punizione, è sempre temperata dalla misericordia.
È evidentemente dovere di ogni uomo, da Dio creato con il suo soffio divino e che da Dio ha ricevuto il dono dell’intelligenza, dedicarsi al Signore con tutto il suo essere, e l’amore per il Signore deve venir esercitato e concretizzato "con tutto il cuore". Ma, si sono chiesti molti commentatori: "Come può l’amore, che non è sotto il controllo della nostra volontà, essere l’oggetto di un ordine così perentorio?"
Il Maimonide (1138-1204) tratta l’argomento sia nel suo Sefer ha-mitzwot, sia nelle Hilkhoth Jesodè Torà (122,2), e pone il precetto dell’amore di Dio in posizione preminente, immediatamente dopo il Decalogo. Egli sostiene, come razionalista, che anche l’amore per il Signore è il risultato di una riflessione intellettuale; quindi rientra in ciò che è sotto il nostro controllo. "Dobbiamo soffermarci" egli afferma "a esaminare i Suoi precetti, le Sue parole, le Sue azioni; arriveremo così a conoscerLo e a comprenderLo. E questa conoscenza ci permetterà di raggiungere la gioia assoluta che costituisce quell’"amore per il Signore" comandatoci dalla Torà; ed è questo il motivo per cui, nel testo, il precetto "amerai il Signore tuo Dio", è seguito dall’ordine "e queste parole che Io ti comando oggi saranno sul tuo cuore". Questo Dio glorioso e potente, ci comandò di amarLo e di temerLo, come è scritto (Dt 6,4): ‘E amerai…’; e pochi versetti più avanti: "Il Signore tuo Dio temerai, [Lo servirai e giurerai per il Suo nome]" (Dt 6,13).
Ma quale strada si deve seguire per giungere veramente ad ‘amare’ e a ‘temere’ il Signore? Risponde ancora il Maimonide: "Volgiamo un occhio vigile e attento al mondo che ci circonda e pensiamo a Dio: riflettiamo sulle Sue azioni, sulle Sue creature e sulle Sue creazioni così prodigiose e grandi. I nostri occhi e i nostri cuori allora saranno pieni di ammirazione per Lui; potremo così comprenderLo e riconoscere la Sua saggezza infinite. Di fronte alla grandezza delle Sue creazioni, ci renderemo conto di quanto insignificante è il nostro valore e la nostra importanza, e a Lui ci inchineremo. La conseguenza immediata sarà che noi Lo ameremo, Lo loderemo e Lo glorificheremo. E il nostro animo desidererà ardentemente di conoscere il Suo nome grande. È così infatti che il Sifrè interpreta quanto ha detto Davide: "La mia anima è assetata di Dio, dell’Iddio vivente" (Sal 42,3).
Nel precetto "E tu amerai…", è implicito anche il dovere di diffondere presso tutti i popoli il concetto dell’amore di Dio. E il Maimonide, proprio per far penetrare nell’animo dell’uomo l’importanza di questo dovere, prende l’esempio dalla vita di tutti i giorni: "Come quando si ama e si ammira qualcuno con tutto il cuore, viene spontaneo narrare le sue lodi, diffondersi in esse e rivolgere anche ad altri il nostro appello ad amarlo, così pure tu mostrerai il vero amore per Lui chiamando lo stolto e l’ignorante a conoscere quella verità che tu hai già acquisito. Seguirai così, rileva il Sifrè, la strada tracciata da Abramo che, al momento di ubbidire all’appello divino di recarsi nella Terra da Dio promessa a lui e alla sua discendenza, portò con sé "tutte le anime che aveva fatto in Haran" (Gen 12,5), tutti coloro, cioè, che attraverso le sue parole avevano imparato ad amare Dio" (Sefer ha-mitzwot).
Sembra quasi che il Maimonide abbia previsto le obiezioni che, in una società come quella attuale fondata in misura così preponderante sui valori materiali, avrebbero sollevato i sedicenti realisti, coloro che si proclamano atei, e che considerano inutile, se non addirittura assurda, la possibilità di diffondere la conoscenza di un Dio per loro inesistente!
Ebbene, replica il Maimonide, prendiamo l’esempio da Abramo che, pur vivendo in una società assolutamente priva di qualsiasi scintilla di conoscenza di Dio, era riuscito a far conoscere e a diffondere l’amore di Dio! Era questa la qualità superiore di Abramo nostro padre, che il Signore ha chiamato "amico mio" (Is 41,8), poiché lo ha servito solo per amore. Quando l’uomo ama il Signore del giusto amore, ne eseguirà tutti i precetti ‘solo per amore’.
Bachjà ibn Paquda (XI sec.) in Chovot ha-levavot (Sha‘ar ahavà 10,1), affronta l’argomento da un punto di vista totalmente differente: "Che cos’è l’amore di Dio?" si chiede. "È l’aspirazione dell’anima verso il Creatore e la sua inclinazione a essere congiunta alla Sua eccelsa luce… Quando comprenderà la Sua grandezza essa si prostrerà e si inchinerà a Lui: non avrà altra preoccupazione che servirLo e non avrà altro pensiero che non sia il pensiero di Dio benedetto. Se Dio la beneficherà, ella Lo ringrazierà, se l’affliggerà, ella soffrirà pazientemente e continuerà ad amarLo: "Tu mi hai fatto soffrire la fame, mi hai lasciato senza vestito, mi hai fatto abitare nell’oscurità della notte… Se Tu mi brucerai col fuoco, continuerò ad amarTi e a gioire in Te!". Affermazione, questa, simile a quanto disse Giobbe: "Se Egli mi volesse uccidere spererei comunque in Lui" (Gb 13,15). A ciò alludeva anche il saggio Salomone quando disse: "Il mio amico è per me come un sacchetto di mirra che tengo sempre sul mio cuore" (Ct 1,13), frase che i nostri Maestri spiegano: per quanto Egli mi angusti e amareggi, continuerò ad amarLo. E questo è ancora quanto intende il protoprofeta Mosè con: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze" (trad. it. S.J. Sierra).
Quanto diversi da quella del Maimonide possono apparire a prima vista l’interpretazione e il sentimento di Bachjà ibn Paquda! Per quest’ultimo non è la visione delle meraviglie della natura, della perfezione dell’Universo, a condurre l’uomo ad amare Dio, creatore di ogni cosa, è al contrario la capacità di elevare se stessi al disopra della materialità della natura e di tutto ciò che ci circonda che ci deve far sentire partecipi dell’essenza divina, e rendere più intenso il nostro amore per Dio. Un amore che già si trova radicato nel nostro cuore, in quello spirito divino che è in noi e che è parte della divinità: dobbiamo soltanto evitare gli ostacoli che si trovano sulla sua strada e tutto ciò che può farlo deviare verso interessi estranei, per permettergli di essere illuminato, riempito dalla luce celeste.
Questi due approcci all’amore di Dio, apparentemente in contrasto, sono al contrario complementari. Il giudaismo fonda il suo credo, la sua dottrina, il suo insegnamento, sia sui principi razionali, sia su quelli spirituali: ambedue sono di origine divina anche se gli esseri umani sono portati poi a sviluppare in modo diverso le loro tendenze. La raccomandazione di "amare il Signore" non può quindi esaurirsi in un ragionamento intellettuale, ma abbraccia tutte le inclinazioni, tutte le aspirazioni dell’uomo. Riallacciandoci alle sofferenze di Giobbe, ne traiamo l’insegnamento che non ci si può limitare ad amare Dio soltanto quando ci elargisce il bene, ma lo si deve fare anche quando gli avvenimenti che paiono accanirsi contro di noi, ci indurrebbero a reazioni negative. Bisogna amarLo perché è nostro ‘Padre’, e perché il volere dell’Eterno è imperscrutabile e non sempre compreso dall’uomo, ma sempre rivolto al bene.
E con questa affermazione non soltanto innovativa, ma addirittura rivoluzionaria, viene completamente capovolto il concetto del dio padrone e tiranno, per introdurre quello del Dio ‘padre’ di tutte le sue creature, Creatore di un mondo e di un universo non abbandonati al caso, ma da Lui seguiti con amorosa, paterna attenzione. Un Dio che merita il nostro amore per la Sua continua vicinanza e assistenza.
Secondo i nostri Maestri, in una interpretazione che può apparire paradossale, amare Dio "con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima, con tutte le possibilità" significa amarlo "sia con l’istinto buono sia con quello cattivo!". Osserva tra gli altri lo Hirsch: "Gli stimoli che ciò che è cattivo, spregevole, bassamente materiale e sensuale suscitano in noi, e dai quali deriva l’istinto cattivo, ci sono stati dati proprio dal medesimo Creatore, uno e unico, che ci ha dotato di quegli stimoli che ci spingono al bene, all’amore, alla giustizia, alla morale, dai quali deriva l’istinto buono. Se non esistessero cattivi istinti, o se essi causassero nella nostra natura un istintivo senso di rifiuto e di ripugnanza mentre, al contrario, fossimo fortemente, naturalmente attratti da tutto ciò che è buono e morale, ben poco merito avremmo nello scegliere il bene! E se il bene e il male non fossero legati e intrecciati così strettamente fra di loro da renderci spesso tanto difficile distinguerli, cosicché solo con un attento studio e una profonda riflessione possiamo fare una giusta scelta e imporci sia un continuo autocontrollo, sia dolorose rinunce, certamente non commetteremmo il male. "Ma neanche il bene!" . Ci limiteremmo a seguire una via già tracciata e senza possibilità di deviazioni, che non ci porterebbe alcun merito in quanto nessuna azione potrebbe essere considerata una scelta compiuta dall’uomo in piena libertà morale.
Con l’eliminazione dell’istinto cattivo tutto il nostro comportamento morale sarebbe privo di valore. O, per essere più precisi, non esisterebbe un comportamento morale. Amare il Signore con l’istinto buono e con l’istinto cattivo significa quindi consacrare, dedicare tutti i nostri pensieri, tutte le nostre tendenze, tutte le nostre capacità e aspirazioni, allo scopo di adempiere alla volontà dell’Eterno. Ogni nostra azione, anche la più insignificante, deve esprimere la nostra dedizione, il nostro desiderio di servire l’Eterno, affinché, dominando tutti i nostri istinti con una precisa e decisa volontà, ci avviciniamo sempre più a Dio.
Con il comando "e amerai… con tutto il tuo cuore", diamo un senso alla nostra vita dimostrando di essere pronti in ogni momento a combattere le nostre cattive inclinazioni e a rinunciare ai desideri, a volte profondamente intensi, per esaudire la volontà dell’Eterno.
Un ulteriore insegnamento di fondamentale importanza deduciamo dalle parole dello Shema’: l’amore per Dio non può e non deve rimanere un concetto puramente astratto, né può esaurirsi con la sola preghiera: esso deve essere concretizzato e attuato con un’azione a cui partecipa tutta la nostra persona: il sentimento e l’azione, le nostre forze spirituali e quelle fisiche, i nostri beni materiali e il sacrificio di ciò che noi consideriamo il nostro benessere, tutto deve essere consacrato all’amore per l’Eterno.
"Amerai Dio con tutta la tua anima", afferma il Talmud, significa amerai il tuo Dio "perfino se prende la tua anima" (b .Berakhot 54a). Perché la nostra anima è dono di Dio e, come ci è stato insegnato, "dobbiamo essere pronti a restituirla a chi ce l’ha donata in qualsiasi momento Egli ce la richieda" (ivi, 61b). Vi è qui un chiaro riferimento anche al sacrificio e al martirio "per la santificazione del nome del Signore" (‘al qiddush ha-Shem) e per la realizzazione dei suoi ideali di bontà e di giustizia. Per l’amore di Dio si può, si deve essere pronti a offrire anche il sacrificio supremo: la perdita della vita […].
Il verso "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità" ci pone di fronte a uno strano interrogativo: che cosa può essere per l’uomo più importante, più caro della propria vita? Ma, per quanto assurdo ciò possa sembrare, c’è chi considera il denaro, la ricchezza materiale, il possesso persino più importanti della propria vita. Ebbene, in questo caso è bene che essi sappiano che c’è qualcosa che supera di gran lunga il valore dell’avere: la fedeltà a Dio e l’amore per Lui. Con il comando "con tutte le tue possibilità", afferma il Talmud (ivi 54a), lo Shema’ ci insegna che non dobbiamo limitarci ad amare Dio solo con lo spirito, ma anche materialmente: ciò significa con le nostre azioni e con i nostri averi; in altre parole anche con tutto ciò che possediamo materialmente, usando i nostri beni a favore di chi ne ha bisogno, o per scopi culturali e religiosi, o per la diffusione della fede.
Elia Kopciowski
http://www.biblia.org/shema.html