venerdì 9 marzo 2012

Il Vangelo del figlio prodigo: altri commenti




Il Vangelo di oggi 10 marzo è quello del figlio prodigo: di seguito qualche
commento.

La conversione è il sorriso del peccatore... e di Dio.

 P. Raniero Cantalamessa

Il vangelo della IV domenica di Quaresima è una delle pagine più celebri del vangelo di Luca e di tutti e quattro i vangeli: la parabola del figliol prodigo. Tutto, in questa parabola, è sorprendente; mai Dio era stato dipinto agli uomini con questi tratti. Ha toccato più cuori questa parabola da sola che tutti i discorsi dei predicatori messi insieme. Essa ha un potere incredibile di agire sulla mente, sul cuore, sulla fantasia, sulla memoria. Sa toccare le corde più diverse: il rimpianto, la vergogna, la nostalgia.

La parabola è introdotta con queste parole: "Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Allora egli disse loro questa parabola..." (Lc 15, 1-2). Seguendo questa indicazione, vogliamo riflettere sull'atteggiamento di Gesù verso i peccatori, spaziando su tutto il vangelo, mossi dallo scopo che ci siamo prefissi in questo commento ai vangeli della Quaresima, di conoscere meglio chi era Gesù, cosa sappiamo storicamente di lui.

È nota l'accoglienza che Gesù riserva ai peccatori nel vangelo e l'opposizione che essa gli procurò da parte dei difensori della legge che lo accusavano di essere "un mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori" (Lc 7, 34). Uno dei detti storicamente meglio attestati di Gesù suona: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mc 2, 17). Sentendosi da lui accolti e non giudicati, i peccatori lo ascoltavano volentieri.

Ma chi erano i peccatori, quale categoria di persone veniva designata con questo termine? Qualcuno, nell'intento di scagionare del tutto gli avversari di Gesù, i farisei, ha sostenuto che con questo termine si intendono "i trasgressori deliberati e impenitenti della legge", in altre parole i criminali, i fuori legge. Se fosse così, gli avversari di Gesù avevano tutta la ragione di scandalizzarsi e di ritenerlo persona irresponsabile e socialmente pericolosa. Sarebbe come se oggi un sacerdote frequentasse abitualmente mafiosi e criminali e accettasse i loro inviti a pranzo, con il pretesto di parlare loro di Dio.

In realtà le cose non stanno così. I farisei avevano una loro visione della legge e di ciò che è conforme o contrario ad essa e consideravano reprobi tutti quelli che non si conformavano alla loro rigida interpretazione della legge. Peccatori, insomma, erano per loro tutti quelli che non seguivano le loro tradizioni e i loro dettami. Seguendo la stessa logica, gli Esseni di Qumran consideravano ingiusti e violatori della legge i farisei stessi! Succede anche oggi. Certi gruppi ultraortodossi considerano automaticamente eretici tutti quelli che non la pensano esattamente come loro.

Un eminente studioso scrive a questo riguardo: "Non è vero che Gesù aprisse le porte del regno a criminali incalliti e impenitenti, o negasse l'esistenza di 'peccatori'. Gesù si oppose agli steccati che venivano eretti nel corpo d'Israele, per i quali alcuni israeliti venivano trattati come se fossero fuori del patto e esclusi dalla grazia di Dio" (James Dunn).

Gesù non nega che esista il peccato e che esistano i peccatori. Il fatto di chiamarli "malati" lo dimostra. Su questo punto egli è più rigoroso dei suoi avversari. Se questi condannano l'adulterio di fatto, egli condanna anche l'adulterio di desiderio; se la legge diceva di non uccidere, lui dice che non si deve neppure odiare o insultare il fratello. Ai peccatori che si avvicinano a lui, egli dice: "Va' e non peccare più"; non dice: "Va' e continua come prima".

Quello che Gesù condanna è di stabilire per conto proprio qual è la vera giustizia e disprezzare gli altri, negando loro perfino la possibilità di cambiare. È significativo il modo in cui Luca introduce la parabola del fariseo e del pubblicano: "Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri" (Lc 18,9). Gesù era più severo verso coloro che, sprezzanti, condannavano i peccatori, che verso i peccatori stessi.

Ma il fatto più nuovo e inaudito nel rapporto tra Gesù e i peccatori non è la sua bontà e misericordia verso di loro. Questo si può spiegare umanamente. C'è, nel suo atteggiamento, qualcosa che non si può spiegare umanamente, cioè ritenendo che Gesù fosse un uomo come gli altri, ed è il fatto di rimettere i peccati.

Gesù dice al paralitico: "Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati". "Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?", gridano inorriditi i suoi avversari. E Gesù: "Affinché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di rimettere i peccati, Alzati, disse al paralitico, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". Nessuno poteva verificare se i peccati di quell'uomo erano stati rimessi o no, ma tutti potevano costatare che si alzava e camminava. Il miracolo visibile attestava quello invisibile.

Anche l'esame dei rapporti di Gesù con i peccatori, contribuisce dunque a dare una risposta alla domanda: Chi era Gesù? Un uomo come gli altri, un profeta, o qualcosa di più e di diverso? Durante la sua vita terrena Gesù non affermò mai esplicitamente di essere Dio (e abbiamo spiegato inprecedenza anche perché), ma agì attribuendosi poteri che sono esclusivi di Dio.

Torniamo adesso al vangelo di domani e alla parabola del figliol prodigo. C'è un l'elemento comune che unisce tra loro le tre parabole della pecorella smarrita, della dramma perduta e del figliol prodigo narrate una di seguito all'altra nel capitolo 15 di Luca. Cosa dice il pastore che ha ritrovato la pecorella smarrita e la donna che ha ritrovato la sua dramma? "Rallegratevi con me!". E cosa dice Gesù a conclusione di ognuna delle tre parabole? "Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione".

Il leitmotiv delle tre parabole è dunque la gioia di Dio. (C'è gioia "davanti agli angeli di Dio", è un modo tutto ebraico di dire che c'è gioia "in Dio"). Nella nostra parabola, la gioia straripa e diventa festa. Quel padre non sta più nella pelle e non sa cosa inventare: ordina di tirare fuori il vestito di lusso, l'anello con il sigillo di famiglia, di uccidere il vitello grasso, e dice a tutti: "Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

In un suo romanzo, Dostoevskij descrive un quadretto che ha tutta l'aria di una scena osservata dal vero. Una donna del popolo tiene in braccio il suo bambino di poche settimane, quando questi - per la prima volta, a detta di lei- le sorride. Tutta compunta, ella si fa il segno della croce e a chi le chiede il perché di quel gesto risponde: "Ecco, allo stesso modo che una madre è felice quando nota il primo sorriso del suo bimbo, così si rallegra Iddio ogni volta che un peccatore si mette in ginocchio e rivolge a lui una preghiera fatta con tutto il cuore" (L'Idiota, Milano 1983, p. 272). Chissà che qualcuno, ascoltando, non decida di dare finalmente a Dio un po' di questa gioia, di fargli un sorriso prima di morire...

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L’abbraccio del Padre converte il cuore

Gli occhi si fissano su un quadro: un padre che abbraccia il figlio. Inizia il cammino di conversione di un uomo, di ognuno di noi, riflettendo sulla parabola del Figliol Prodigo: perdonare e accettare il perdono…

Henri J. M. Nouwen, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Queriniana, Brescia 1998, pp. 210
Il particolare del quadro “Ritorno del figlio prodigo” di Rembrandt, su sfondo rosso, cattura l’attenzione del lettore che si avventura tra le pagine del libro di Nouwen. Due mani che abbracciano: una maschile e una dalle fattezze femminili. Ecco così preannunciato il tema che l’autore propone: l’abbraccio di Dio, abbraccio di Padre e di Madre. Il testo non nasce da pure riflessioni teologiche o da una lettura solamente esegetica della parabola del figliol prodigo a cui è accostata quella artistica del quadro, ma scaturisce dall’esperienza di crescita e di quotidiana conversione di Nouwen; egli, dapprima totalmente dedito all’insegnamento presso le università di Notre Dame, Harvard e Yale, scopre, in seguito all’incontro con il “Ritorno del figlio prodigo”, il bisogno di mettersi a servizio degli altri e l’esigenza di tornare all’autenticità della fede: diventa pastore della comunità per disabili dell’Arche Daybreak di Toronto.

Quando i suoi occhi nel 1983 puntarono l’attenzione sul quadro fu amore a prima vista: “Mi sentivo attratto dall’intimità delle due figure”. Iniziò allora un viaggio alla ricerca del suo significato e passo a passo vennero alla luce piccoli particolari che lo aiutarono a interrogarsi e a cercare risposte sul rapporto io – Dio, una relazione che non deve mai considerarsi arrivata. La sorpresa dell’autore fu grande e, inizialmente quasi sconvolgente: le tre figure chiavi della parabola, le stesse rappresentate da Rembrandt, coesistono a diversi livelli in ognuno di noi: padre, figlio prodigo e figlio maggiore. Ciascuna di queste è ed ha una vocazione in noi.

Il libro, scandito in tre parti che di volta in volta analizzano una delle tre figure, termina con l’epilogo “Vivere il quadro” in cui Nouwen spiega che “l’abbraccio del Padre è diventato molto reale negli abbracci dei mentalmente poveri” che egli ha accompagnato nella comunità di Daybreak. Racconta della sua vita con i giovani handicappati mentali e di come sia stato accolto da loro, di come l’aver riflettuto sulla tensione che ha portato Rembrandt a dipingere il quadro lo abbia avvicinato alla consapevolezza di aver trovato la casa in quel luogo. Durante questo lungo viaggio è rientrato nel silenzio del proprio cuore, l’unico che permette di avvicinarsi a Dio e di comprendere il suo volere,, la nostra vocazione.

“Gli handicappati… mi si mostrano come sono. Esprimono apertamente il loro amore e la loro paura… Il loro handicap svela il mio… E mi costringono a confrontarmi con il figlio maggiore che è in me. L’Arche ha dischiuso la via per ricondurlo a casa…”. Nel quadro il figlio maggiore osserva la scena con occhio critico, forse amareggiato, ma di sicuro con dentro l’esigenza di essere perdonato anche lui; il Padre vuole entrambi i figli ma li lascia liberi di fare le proprie scelte; Dio non ama il figlio maggiore più del minore; il Padre non giudica ma ama semplicemente: “Figlio, tu sei sempre con me” (Lc 15,31). Quante volte ci ostiniamo nelle nostre posizioni e non accettiamo l’amore e il perdono di chi ci è accanto?

Il segreto per tornare a casa è amare e lasciarsi amare senza condizioni; l’abbraccio del Padre è disarmante per i figli proprio perché incondizionato. “Osservando le fattezze con cui Rembrandt ritrae il padre, ho compreso all’improvviso, in modo del tutto nuovo, il significato della tenerezza, della misericordia e del perdono”. Il tocco delle Sue mani nell’abbraccio cerca solo di guarire le ferite e di trasmettere amore puro. Il figliol prodigo fa difficoltà ad accettare il perdono, condizione di tutti noi uomini, perché ciò comporta “rivendicare la mia piena dignità e prepararmi a diventare io stesso il padre”. Occorre tornare bambini (Mt 18,3).

“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. Sono le parole del Padre, di Colui che ci chiama per nome e ci fa sentire al sicuro, a casa, in un abbraccio con gioia e pace interiore… Ascoltiamole!

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Ma l’altro figliol fu «prodigo»? È motivato il rancore del fratello «virtuoso» per le feste del padre dopo il ritorno di quello smarrit

DI ENZO BIANCHI
I
 l padre accoglie la confessione sincera del figlio minore torna­to a casa, una confessione solo ora divenuta sincera, non più inte­ressata: «Ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono degno di essere chiamato figlio». Quella fu­ga, quella lontananza è stata rottu­ra, rifiuto di un rapporto di vita con la paternità, una rottura di quel legame che nasce dell’acco­glienza del dono della vita. Ma il padre non fa rimproveri, non re­crimina sul passato, non pone al figlio alcuna condizione, non gli lascia pronunciare le parole che il figlio aveva preparato: «Trattami come uno dei tuoi salariati!». Que­ste parole di scambio non sono dette, non sono poste davanti al Padre. «Fammi ritornare ed io ri­tornerò », cioè «Convertimi ed io mi convertirò!». Queste parole del profeta Geremia sono ormai com­prese nella verità assoluta dal fi­glio. Il padre con il suo amore pre­veniente ha attirato a sé il figlio, il cui ritorno era andare verso chi lo attirava e lo chiamava, proprio co­me Dio aveva fatto con l’uomo A­damo dopo il peccato: «Dove sei?
Adamo, dove sei? Figlio dove sei?».
Inizia allora la festa: un peccatore è ritornato, un morto è risuscitato.
La casa è sempre rimasta aperta, il figlio deve lasciarsi amare dal pa­dre. Sì, è più importante capire che
 Dio ci ama che capire che noi dob­biamo amare Dio. Nella sua predi­cazione e nel suo agire, Gesù ha detto molto di più su Dio che ci a­ma che non sul nostro dovere di a­mare Dio. È significativo: può a­mare Dio colui che ha conosciuto che da Dio è stato amato prima e di amore preveniente. Capiamo le parole di Giovanni: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,18), eco di quelle di Gesù ai discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi!» (Gv 15,16). Ecco allora la casa paterna diventare luogo del perdono e della festa: il vestito più bello è messo al figlio, l’anello è messo al suo dito, gli sono portate le calzature perché non sia più a piedi nudi co­me gli schiavi. Viene ucciso il vitello migliore e si fa festa. Il padre di­ce «presto»: è urgente la festa, la gioia, perché il peccato è cancellato, il padre non lo ricorda più e dunque tutto dev’essere ri­portato all’integrità. E i servi si af­frettano a preparare la celebrazio­ne della per tutta la famiglia.
La parabola poteva finire qui, sa­rebbe finita come gli altri due rac­conti analoghi della pecora e della dracma smarrite, ma qui l’evange­lista apre un altro quadro. Appare il figlio maggiore, colui che era re-
 stato sempre a casa e aveva servito il padre per tanti anni. Di fronte al tornare in vita del fratello prova u­na reazione di gelosia: in nome della giustizia non può tollerare che quel suo fratello sia causa di festa. Com’è possibile? Se n’è an­dato, pretendendo l’eredità che poi ha dilapidato, non ha fatto mai avere sue notizie, mentre lui è re­stato a casa, ha obbedito al padre, ha lavorato, ha tirato avanti per anni con fatica. E ora si fa festa per uno che non lo riconosceva nep­pure come fratello e che, andandose­ne, aveva di fatto negato i legami fa­miliari?No, questa festa non gli appartiene. Lì non vuole saperne di entrare. Ed ecco di nuovo il padre che esce – non lo fa chiamare, ma esce incontro a lui – esce un’altra volta di casa per in­contrare un figlio e lo prega insi­stentemente. Ma il figlio restato a casa recrimina. Vanta una fedeltà – «da tanti anni ti servo» –, mette da­vanti al padre la sua giustizia: «Non ho mai trasgredito un tuo comando». Ha vissuto fino alloracome un mercenario puntuale, si è impegnato verso il padre come un salariato, ed è il padre che manca verso di lui: non gli ha mai dato un capretto per lui e i suoi amici e ora dà il vitello grasso per il fratello in­degno di quel nome! C’è risenti­mento, c’è protesta, c’è un’accusa precisa verso il padre in questo ri­fiuto.La spiegazione di questo atteggia­mento è sulla bocca di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Chi è schia­vo non resta sempre nella casa (paterna) solo chi è figlio vi rimane sempre!» (Gv 8,35), cioè chi si sen­te schiavo sta a casa come un mer­cenario, non come un figlio, sta a casa ma si sente in prigione, fa le cose perché si sente costretto, sen­za la libertà propria di chi è figlio, senza amore.
Sì, questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del padre: il suo dimorare accanto al padre non lo aveva portato a conoscerne il cuore. Era stato schiavo in una pri­gione. Il suo comportamento non è fondamentalmente diverso da quello di chi se ne era andato! Tutti e due i figli non vivevano nella re­lazione
 paterna, non conoscevano l’amore del padre. E il padre allora dice: «Figlio, figlio amato, quello che è mio è tuo!». Téknon, mio ca­ro figlio, mio caro ragazzo, «ciò che è mio, è tuo», tra noi c’è comunio­ne, tu sei sempre con me, tra noi c’è vita comune, compagnia. A­vrebbe potuto dirgli: «Tu dici di non aver mai trasgredito uno dei miei comandi, ma ora che ti invi­tano a entrare tu ti fai disobbe­diente ». E invece, anche questa volta, non rimprovera ma prega, chiede soprattutto di accogliere la resurrezione di suo fratello. «Tuo fratello è risorto! Occorre far fe­sta!». Qui termina il racconto di Gesù, ma sulla conclusione della vicenda restano aperti interrogativi fonda­mentali per noi che leggiamo la parabola. È entrato il fratello a fare festa? E il padre, è entrato lascian­do il figlio maggiore fuori, oppure è ancora là che lo prega affinché la festa sia completa? Questa parabo­la ci aiuta davvero a chiederci: tu che chiami Dio Padre, quale im­magine di Dio hai? L’immagine di un padre padrone? Di un padre giusto, dotato di giustizia retributi­va? O di un padre che ama senza porre condizioni? Un padre che perdona sempre? Gesù così ci in­terpella! A ciascuno di noi la rispo­sta nel nostro cuore: una risposta che possiamo dare solo nel penti­mento, tornando a Dio, nel segreto del cuore. In attesa di vedere Dio faccia a faccia, come esclamava sant’Ignazio di Antiochia avvici­nandosi al martirio: «Una voce mi dice come acqua zampillante: Vie­ni al Padre!».
Questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del genitore, perché non vedeva il suo cuore: proprio come quello che se n’era andato, non ne conosceva l’amore

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Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita. 

don Romeo Maggioni

Oggi il vangelo si apre con lo scandalo di chi vede Gesù "contaminarsi" coi peccatori, cioè di chi giudica Iddio troppo buono, tollerante, misericordioso, che lascia correre troppo il male nel mondo, che lascia crescere assieme al buon grano la zizzania. "Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. E i farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Non sarà questa troppa bontà - pensano i farisei di sempre - la causa del dilagare del male nel mondo? Perché non c'è più ordine, più severità, più divisione netta tra buon grano e zizzania?
La risposta di Gesù è completamente inattesa, e con questo capitolo 15, chiamato il "vangelo del vangelo", Luca ci dice: la gioia di Dio sta nel trovare di perdonare un cuore sincero. Mai come qui ci si rivela le profondità del cuore di Dio Padre.

1) DIO ACCOGLIE TUTTI COME UN PADRE

Anzitutto Dio è un instancabile cercatore di ogni uomo, come "quel pastore che ha cento pecore e ne perde una: subito lascia le 99 nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrovi". O come la donna che "ha 10 monete e ne perde una: accende la lucerna, spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova". Non uno dei peccatori gli è indifferente. Non si accontenta e compiace dei giusti: si preoccupa di chi manca, perché gli appartiene, perché ci tiene! "Io non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori" (Mt 9,13). "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché ciascuno che crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Dice sant'Agostino che Dio ama ciascuno come se fosse l'unico. Nessuno deve sentirsi mai abbandonato da Dio, mai perduto: è Lui che prende l'iniziativa di cercarci e di seminare il nostro cammino di stimoli per il nostro ritorno."Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva!" (Ez 18,32).

E ritrovata la pecora smarrita, la moneta persa o il figlio che era morto...si fa festa! Anzi: "Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per 99 giusti che non hanno bisogno di conversione". Quando si vede ritornare il figlio...il padre non capisce più niente dalla gioia: "Presto, portate qui il vestito più bello, mettetegli l'anello al dito, i calzari ai piedi; portate il vitello più grasso ..e facciamo festa!". Questa della gioia di Dio nel perdonare è il nocciolo più originale del messaggio biblico-cristiano. Altri annunciano di Dio la potenza, altri la giustizia, altri l'ordine...: noi cristiani annunciamo che la potenza di Dio è l'amore e la misericordia, che egli sa vincere il male col bene, che Dio è amore e perdono onnipotenti. Noi a Dio - mi insegnava un anziano e saggio biblista francese - non possiamo regalare nulla che già non abbia: è il padrone di tutto! Tranne una cosa: dargli la gioia di poterci perdonare. Scrive sant'Ambrogio: "Non leggo nella Bibbia che Dio si sia riposato quando creò il cielo e la terra; o quando creò il mare e le piante; leggo che si è riposato quando creò l'uomo, perché finalmente aveva trovato uno cui potesse perdonare" (Exam.).

Ma si fa festa...per un peccatore pentito. Questo è un punto da chiarire. Dio si propone a tutti, Dio sollecita tutti, Dio è misericordioso verso tutti, ma verso tutti quelli che lo vogliono, quelli cioè che si aprono a lui con sincerità di cuore. Gesù non ha mai sottovalutato la gravità del peccato; la distinzione tra peccatori e giusti non è soppressa; ha sempre esigito conversione ed è radicale nelle esigenze per il Regno condannando il male senza ambiguità. Se qui si parla della misericordia, si parla anche di conversione, di un figlio ritrovato perché pentito. Anzi il messaggio dell'amore del Padre è proprio per dar confidenza al ritorno del peccatore. Troppo Iddio è rispettoso della nostra libertà e dignità, e quindi della nostra parte da fare nel processo della salvezza!

2) ANCHE NOI DOBBIAMO ACCOGLIERE TUTTI COME FRATELLI

E' iniziata l'epoca del perdono: non è più lecito mormorare. Alla svolta del Dio misericordioso deve seguire la svolta del cuore tollerante. L'atteggiamento del figlio maggiore che non accoglie l'altro come fratello e giudica la troppa bontà del padre, è stigmatizzata da Gesù nella finale della parabola. E' l'arroganza del "giusto" che non capisce più la preziosità del perdono e la generosa larghezza del cuore di Dio. E' sempre la pretesa del fariseo di "meritare" qualcosa davanti a Dio, e quindi di vantare pretese più degli altri!
Ma Dio non fa torto a nessuno: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo". Dice san Paolo: "Che hai tu che non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" (1Cor 4,7). Un giorno Gesù ebbe a dire a chi si lamentava della sua generosità: "Sei tu invidioso perché io sono buono?" (Mt 20,15). Ciò che spinge Dio al perdono non è il merito del peccatore, ma la sua assoluta gratuità e promessa di salvezza: "In questo sta l'amore: non noi abbiamo amato Dio, ma lui ha amato noi; egli ci ha amato per primo" (1Gv 4,10.19).
Il fratello maggiore osserva la legge, ma manca dell'amore fraterno.

Ma proprio questo è il cuore della legge: "Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste" (Lc 6,36). La rabbia e la paura del giusto è che così vada tutto a rotoli! Ma Gesù è stato molto preciso nell'insegnamento di oggi: di fronte al padre, se al secondo è richiesto l'amore fraterno, al primo, il figlio minore, è richiesta conversione. Conversione e amore del prossimo sono allora i due pilastri portanti dell'ordine morale, le forze basilari che devono animare la nostra convivenza umana.

In fondo la conversione è sull'idea che si ha di Dio: il figlio minore pensa di essere schiavo nella casa del padre, e parte alla ricerca di una felicità che poi si dimostrerà fasulla e deludente, ritornando al vecchio padre, unico portatore di vita autentica; il secondo ha del padre l'idea di un padrone da servire, cui avanzare le pretese per i propri atti di obbedienza e giustizia..! Ma Dio è altra cosa: è puro dono gratuito, è benevolenza anzitutto; e quando ha dato tutto e si vede anche rifiutato... diviene anche perdono, misericordia, è capace di un super-dono che ci sa rendere nuovi e ci fa incominciare da capo come se nulla fosse stato!
Appunto: GRAZIA E MISERICORDIA sono gli argini entro i quali scorre la vita del credente.

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Un Padre che ama, malgrado tutto. 

don Bruno Maggioni

Il tema centrale della parabola è l'amore del padre. A lui non interessa che il figlio gli abbia dissipato il patrimonio. Ciò che lo addolora è che il figlio sia lontano, a disagio. E quando ritorna non bada neppure alle sue parole («Trattami come uno dei tuoi servi»): l'importante è che il figlio abbia capito e sia tornato. Ecco il motivo della sua gioia: «Questo mio figlio era morto ed è tornano in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Questo è il volto del vero Dio, un volto molto diverso da come scribi e farisei supponevano, e come giusti e benpensanti alle volte continuano a supporre.
Se invece prendiamo in considerazione la figura del figlio minore, allora ci accorgiamo che il suo peccato non è semplicemente consistito nel fatto che abbia chiesto la sua parte di eredità e l'abbia poi dissipata, lontano da casa, in una vita libertina. Questo comportamento non è che la conseguenza di una convinzione che gli si era radicata nell'animo, e cioè la convinzione che la casa fosse una prigione, la presenza del padre ingombrante e mortificante, e l'allontanamento da casa una libertà. Questo è il vero peccato del figlio minore. Il suo ritorno a casa – motivato all'inizio dal disagio («io qui muoio di fame») – trova il suo culmine non nel proposito di lavorare come un salariato per riparare il danno (anzi questo mostra che il figlio non ha capito ancora né la profondità dell'amore del padre né la profondità del suo peccato), ma semplicemente nell'aver capito che in casa si sta meglio e che fuori si sta peggio. Questo infatti è quello che voleva il padre. Null'altro. La conversione è un ritorno. Non è un prezzo da pagare – non sta lì il nocciolo della questione – ma una mentalità da cambiare.
A questo punto dobbiamo rileggere una terza volta la parabola dal punto di vista del figlio maggiore. Anziché condividere la gioia del padre, ne prova invidia. Come gli scribi e i farisei che mormorano contro Gesù, anch'egli pensa che il peccato sia consistito nel dilapidare le sostanze, non invece nel fatto di essersi allontanato da casa. E si capisce che anch'egli ragiona come il figlio minore. Infatti è rimasto in casa, ma convinto che lo stare in casa sia faticoso, sia un sacrificio, convinto anch'egli che fuori si sta meglio. È un figlio fedele, ma con l'animo del servo, incapace nel profondo di condividere la gioia del padre, perché non vede nel fratello che si è allontanato un povero da salvare, ma semmai un fortunato da punire. Non si sente figlio, grato e gioioso di essere in casa, già premiato per il fatto di essere in casa.

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Luca 15: le tre parabole della misericordia

Nel libro dell’Esodo è scritto: “(Mosé) gli disse:«Mostrami la tua gloria». (Dio) rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia» (Es 33,18-19); e nel Deuteronomio Mosé così parla al popolo d’Israele: “Poiché il Signore Dio tuo è unDio misericordioso; non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri” (Dt 4,31). Una caratteristica fondamentale del Dio che le Scritture ebraiche ci presentano è quella della misericordia. Si tratta di una qualità fondamentale dell’atteggiamento divino nei riguardi delle sue creature e soprattutto dei suoi eletti. La misericordia di Dio di cui ci parla l’Antico Testamento è qualcosa che è in stretto rapporto con l’amore e con la stessa giustizia, che non è la giustizia umana. Anche quando Dio è amareggiato dal suo popolo e lascia profilare i castighi che sopravverranno, egli rimane il Dio della vita che attende con pazienza il ritorno (una parola molto usata nell’AT) del peccatore, perché possa vivere in pienezza.
Il Dio degli ebrei è anche il Dio dei cristiani e l’evangelista Luca lo ha capito così bene, che ne dà un saggio, presentandoci al c. 15 del suo vangelo tre parabole molto significative: due brevi e simili, la terza più sviluppata e ricca di emozione e d’insegnamento teologico. Cominciamo dalle prime due.
“Gli esattori delle tasse e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. I farisei e i dottori della legge mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con essi». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Chi di voi, se possiede cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto per andare a cercare quella che si è smarrita, finché non la ritrova? Quando la trova, se la mette sulle spalle contento, ritorna a casa, cònvoca gli amici e i vicini e dice loro: "Fate festa con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta". Così, vi dico, ci sarà gioia nel cielo più per un peccatore che si converte, che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione».
«O quale donna, se possiede dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza bene la casa e si mette a cercare attentamente, finché non la trova? Quando l' ha trovata, chiama le amiche e le vicine di casa e dice loro: "Fate festa con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta". Così, vi dico, gli angeli di Dio fanno grande festa per un solo peccatore che si converte»” (Lc 15,1-10).
Queste due prime parabole sono brevi e di grande efficacia. Esse sono la risposta immediata all’osservazione critica dei farisei e dei dottori della legge circa il rapporto che Gesù intrattiene con i peccatori. Qual è il vero senso delle parole di Gesù? Egli in realtà vuol correggere e ri-orientare l’atteggiamento dei suoi critici nei riguardi della legge divina. Questi sono scandalizzati dalla frequentazione di persone che con i loro peccati contaminano chi ha a che fare con loro: essi si attengono ad una concezione di purità legale con cui credono di proteggere la legge. Gesù corregge questo modo di vedere ri-orientandolo sull’autentico significato della legge di Dio: la legge esiste per la legge o a favore dell’uomo? Se Dio ha posto la legge a vantaggio dell’uomo, cioè per la sua salvezza, allora non si può abbandonare il peccatore a se stesso. Dio ha dato la legge all’uomo, perché lo ama e lo vuole salvare: egli è un Dio di misericordia. Questa è la grande verità che l’ebreo Gesù rivela nella sua interezza agli astanti. Dio è come un pastore ricco di cento pecore, di cui se ne perde una; egli non riposa finché non la ritrova e, felice, se la pone in spalla per tornare a casa a festeggiare l’evento con gli amici. Lo stesso significato ha il ritrovamento della moneta da parte della donna che ne aveva dieci, ma ne aveva perso solo una. Le novantanove pecore e le nove dramme non sono senza importanza per i loro possessori, ma la loro passione è per ciò che si era perso e che ora si è ritrovato. La festa in cielo per un solo peccatore pentito è la gioia di Dio per aver ridato la vita a chi egli ama.
La terza parabola, quella del “figliol prodigo”, è più circostanziata e contiene oltre alla verità espressa nelle due precedenti, un’altra verità anch’essa espressione della misericordia di Dio: l’amore intatto per il suo popolo.
“E diceva: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi subito la parte di eredità che mi spetta". Allora il padre divise le sostanze tra i due figli. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolti tutti i suoi beni, emigrò in una regione lontana e là spese tutti i suoi averi, vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe dato fondo a tutte le sue sostanze, in quel paese si diffuse una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Andò allora da uno degli abitanti di quel paese e si mise alle sue dipendenze. Quello lo mandò nei campi a pascolare i porci. Per la fame avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora, rientrando in se stesso, disse: "Tutti i dipendenti in casa di mio padre hanno cibo in abbondanza, io invece qui muoio di fame! Ritornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e dinanzi a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi mercenari". Si mise in cammino e ritornò da suo padre. Mentre era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione. Gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il cielo e dinanzi a te. Non sono più degno di essere considerato tuo figlio". Ma il padre ordinò ai servi: "Presto, portate qui la veste migliore e fategliela indossare; mettetegli l' anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso e ammazzatelo. Facciamo festa con un banchetto, perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa. Ora, il figlio maggiore si trovava nei campi. Al suo ritorno, quando fu vicino a casa, udì musica e danze. Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse successo. Il servo gli rispose: "È ritornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché ha riavuto suo figlio sano e salvo". Egli si adirò e non voleva entrare in casa. Allora suo padre uscì per cercare di convincerlo. Ma egli rispose a suo padre: "Da tanti anni io ti servo e non ho mai disubbidito a un tuo comando. Eppure tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ora invece che torna a casa questo tuo figlio che ha dilapidato i tuoi beni con le meretrici, per lui tu hai fatto ammazzare il vitello grasso". Gli rispose il padre: "Figlio mio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è anche tuo; ma si doveva far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
Questa bellissima parabola va letta tutta attentamente. Di solito, ci si sofferma sulla prima parte, i vv. 11-24, che è pure di straordinario valore, ma si tralascia la seconda parte, i vv. 25-32, che non è meno importante, perché integra il concetto di misericordia divina. La prima parte rapisce l’attenzione dei lettori o ascoltatori, perché il racconto che fa Gesù è trascinante e commovente; egli narra di un giovane presuntuoso e privo d’esperienza che per una pretesa libertà intende prendere una sua via, abbandonando quella che lo tratteneva nel benessere e di certo in una non minore libertà. Il giovane finisce male, ma dal male talora viene il bene, perché egli capisce tante cose, si converte e ritorna (la parola preziosa dell’AT) al padre che lo ama. Non richiesta di umiliazione e di penitenze, ma gioia, affetto e festa è quello che trova il giovane.
Il recupero alla vita non è un aggiustamento di conti amministrativi o finanziari, bensì una nuova creazione, che pretende l’esplosione del gaudio che solo l’amore sa provocare. Il fratello maggiore che viene ad apprendere tutto questo, si rattrista, si arrabbia, quasi si pente di essere stato un “giusto”, ma il padre esce anche incontro a lui per confermargli una grande verità: chi è già figlio e come tale si comporta, non ha da invidiare nessuno né da avere timore di essere spossessati di alcunché, perché rimane nella pienezza dei suoi diritti.
L’amore di un padre vero è senza pentimenti! Noi sappiamo ormai da sempre chi è il padre e chi è ciascuno dei due figli, ma dobbiamo riscoprirlo ogni giorno, per convertirci e deliziarci della grazia di Dio. Il padre buono è misericordioso è Dio che non si oppone alla libertà dei suoi figli, anche quando sa che stanno intraprendendo una strada sbagliata; egli sa attendere con pazienza il rientro in se stessi e nella vera libertà, che reintegra nei diritti di figli. I due fratelli invece rappresentano storicamente il primogenito figlio di Dio, Israele, e il secondogenito convertito alla volontà divina incarnata in Gesù Cristo; teologicamente però essi rappresentano una realtà perenne: noi tutti siamo entrambi i fratelli; ora siamo il fratello minore che pensa di acquistare la libertà sganciandosi da Dio, ora siamo il fratello maggiore, ligio alle norme, ma di un’obbedienza grigia ed opaca, che talora dimentica di possedere già tutto l’amore di Dio. È una verità della storia, è una verità della vita. In realtà, siamo tutti veramente fratelli e tutti amati da un unico vero padre, quello celeste.
Fonte: Nostre Radici

* * *

Il figlio prodigo. S. Josemaría Escivà de Balaguer

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa (Lc 15, 20-24).

«Quando era ancora lontano – dice la Scrittura –, suo padre lo vide e si commosse profondamente; gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo coprì di baci. Le parole del testo sacro sono proprio queste: lo coprì di baci. Si può parlare in maniera più umana? Si può descrivere con maggior evidenza l’amore paterno di Dio per gli uomini? Davanti a Dio che muove incontro a noi, non possiamo che esclamare, con S. Paolo, Abba, Pater!, Padre, Padre mio! Pur essendo il creatore dell’universo, non esige titoli altisonanti né si cura del giusto riconoscimento del suo potere. Vuole che lo chiamiamo Padre e che, assaporando questa parola, l’anima ci si riempia di gioia.

La vita umana, in un certo modo, è un continuo ritorno alla casa del Padre. Ritorno mediante la contrizione, la conversione del cuore, che presuppone il desiderio di cambiare, la decisione ferma di migliorare la nostra vita, e si manifesta pertanto in opere di sacrificio e di dedizione. Ritorno alla casa del Padre per mezzo del sacramento del perdono, nel quale, confessando i nostri peccati, ci rivestiamo di Cristo e ridiventiamo suoi fratelli e membri della famiglia di Dio.

Dio ci aspetta, come il padre della parabole, con le braccia aperte, benché non lo meritiamo. Non gli importa l’entità del nostro debito. Come nel caso del figliol prodigo, dobbiamo solo aprire il cuore, sentire la nostalgia del focolare paterno, meravigliarci e rallegrarci di fronte al dono divino di poterci chiamare e di essere – nonostante tante mancanze di corrispondenza – veramente figli di Dio».
È Gesù che passa, 64

«La gioia è un bene cristiano. Si eclissa soltanto con l’offesa a Dio, perché il peccato nasce dall’egoismo, e l’egoismo è la causa della tristezza. Ma anche allora la gioia è là, nascosta sotto le ceneri dell’anima, perché il Signore e sua Madre non dimenticano mai gli uomini. Quando ci pentiamo, quando sgorga dal nostro cuore un atto di dolore, quando ci purifichiamo nel santo sacramento della penitenza, Dio ci viene incontro e ci perdona; e la tristezza se ne va: “bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Queste parole sono la conclusione meravigliosa della parabola del figliuol prodigo che non ci stancheremo mai di meditare».
Da "È Gesù che passa", 178

* * *

UN PECCATO COSI’ ORIGINALE. Il pensiero moderno ha provato in tutti i modi ad abbattere un dogma centrale del cristianesimo. Invano

di Maurizio Schoepflin


In una lettera del 7 giugno 1793, indirizzata
al filosofo Johann Friedrich
Herder, Goethe scriveva tra l’altro:
“Kant dopo aver avuto bisogno di una
lunga vita umana per ripulire il suo
mantello filosofico dai numerosi pregiudizi
che l’insudiciavano, lo ha ignominiosamente
imbrattato con la macchia
vergognosa del male radicale affinché
anche i cristiani siano allettati
a baciarne il lembo”. Parole davvero
aspre, che non possono non sorprendere:
uno dei grandi geni dell’umanità
– il celeberrimo creatore di Faust
e di Werther, un autentico monumento
della civiltà germanica – che
lancia un’invettiva davvero sanguinosa
contro uno dei massimi pensatori
di tutti i tempi, il mite e rigoroso Immanuel
Kant, la cui opera rappresenta
uno snodo decisivo nella storia della
filosofia occidentale! Che cosa c’era
in gioco di così drammatico da suscitare
le ire goethiane? Di quale grave
colpa si era macchiato l’autore della
“Critica della ragion pura” tanto da
meritare un’accusa così pesante? Non
v’è dubbio che la materia del contendere
fosse di estrema e complessa
consistenza: si trattava infatti della
questione del peccato originale, che
qualcuno potrebbe essere ancora indotto
a ritenere adatta solamente a
teologi un po’ démodé o a pii seminaristi
di qualche congregazione tradizionalista.
In realtà, il problema del peccato
originale campeggia da venti secoli al
centro della ricerca e del dibattito filosofici
e teologici e il ponderoso volume
“Il peccato originale nel pensiero
moderno”, curato per l’Editrice
Morcelliana da Giuseppe Riconda,
Marco Ravera, Claudio Ciancio e
Gianluca Cuozzo, con le sue quasi novecento
pagine ce lo ricorda con forza.
Novecento pagine che, spaziando da
Cusano e Ficino fino a Dostoevskij e
Nietzsche, cioè dal XV al XIX secolo,
dicono con chiarezza che la modernità
non si è dimenticata minimamente
di Adamo, di Eva e del serpente,
ma anzi li ha posti al cuore delle proprie
riflessioni sull’origine, la condizione
e il destino dell’uomo. Novecento
pagine che ci fanno conoscere un
altro dato molto interessante, ovvero
che del tema del peccato originale si
sono occupati anche molti filosofi non
particolarmente vicini alla fede cristiana
e sicuramente assai lontani dai
dogmi del cattolicesimo: a questo riguardo,
i nomi di Thomas Hobbes, Baruch
Spinoza, Ludwig Feuerbach e
Arthur Schopenhauer risultano sufficientemente
esplicativi. Certo, alcuni
pensatori non soltanto hanno respinto
la verità dogmatica della caduta dei
progenitori come l’ha rivelata la Bibbia,
ma hanno cercato di dimostrarne
l’inconsistenza sotto ogni punto di vista;
ciò che comunque rimane incontrovertibile
è il fatto che tutta l’epoca
moderna, pressoché senza eccezioni,
ha dovuto e voluto fare i conti con
questo difficile argomento. Si consideri
proprio il caso di Kant, forse il più
emblematico di tutti, di quel Kant
che, come si è detto, fece perdere le
staffe nientemeno che a Goethe, e che,
secondo una valutazione unanime,
possiamo considerare il simbolo e la
sintesi della filosofia moderna, nonché
la porta di accesso a quella contemporanea.
Nel 1793, alla soglia dei
settant’anni, il grande pensatore di
Königsberg pubblicò l’opera “La religione
entro i limiti della sola ragione”,
uno scritto di notevole rilevanza
il cui primo capitolo, recante il titolo
“Della coesistenza del principio cattivo
accanto a quello buono nella natura
umana”, è dedicato all’importante
e drammatica questione del male radicale:
secondo Kant, vi è nell’uomo
una tendenza innata e naturale verso
il male, una sorta di corruzione che
spinge l’essere umano ad agire non
solamente in ossequio alla legge morale,
ma anche cercando di soddisfare
i propri impulsi sensibili e i propri desideri
egoistici. Questo male radicale,
che si presenta come la trascrizione filosofica
del biblico peccato originale
e che – afferma Kant – la gente comune
si raffigura con i tratti del diavolo,
è ineliminabile, e l’uomo non ha certo
la possibilità di cancellarlo con le proprie
forze, cosicché l’ estirpazione di
esso ha richiesto l’intervento diretto
di Dio, intervento che si è realizzato
nell’incarnazione e nella venuta sulla
terra di Gesù Cristo. Siamo così giunti
ai limiti stessi della ragione, la quale,
come non è in grado di spiegare l’origine
ultima del male radicale, non è
neppure capace di comprendere un
evento, quale è quello dell’esistenza
del Cristo storico, che la oltrepassa
completamente. Scrive Kant: “La ragione,
nella consapevolezza della sua
impotenza a soddisfare alle sue esigenze
morali, si estende fino a idee
trascendenti, che potrebbero compensare
quella deficienza, senza che la
ragione se le attribuisca come un suo
più esteso possesso. Essa non contesta
né la possibilità, né la realtà degli oggetti
di queste idee, ma solamente non
può assumerle nelle sue massime del
pensare e dell’agire. Anzi essa calcola
che se, nell’insondabile campo del soprannaturale,
v’è tuttavia, oltre ciò
che essa può rendere comprensibile,
ancora qualcosa, che sarebbe necessario
per supplire all’impotenza morale;
questo qualcosa, anche se sconosciuto,
tornerà pertanto di grande aiuto
alla sua buona volontà mediante
una fede, che (riguardo alla sua possibilità)
si potrebbe chiamare riflettente,
poiché la fede dogmatica, che si
spaccia per una scienza, apparisce alla
ragione insincera o presuntuosa”.
Il problema del male radicale viene
legato da Kant a quello della possibilità
della sua soluzione: eloquente,
a questo proposito, è il titolo del
secondo capitolo dell’opera, che suona
“Della lotta del principio buono
con il cattivo per la signoria sull’uomo”.
Il filosofo prussiano è sicuro che
l’uomo può e deve essere in grado di
superare lo scacco del male radicale,
pena il venir meno della stessa attuabilità
dell’imperativo morale: infatti,
se non fosse possibile per l’uomo vincere
la propria malvagità, non si darebbe
vita etica. Comunque, anche
nel caso dell’affrancamento dal male,
Kant ribadisce l’incompetenza della
pura ragione a renderne completamente
conto. Certo è che a ciascuno si
impone l’obbligo di impegnarsi con
tutte le sue forze per far trionfare in
sé la pura moralità; e tale impegno
non potrà mai essere sostituito da alcuna
pratica cultuale, anche se l’uomo
è autorizzato a “sperare che ciò
che non è in suo potere sarà completato
da una cooperazione superiore”.
L’unico vero culto resta per Kant la
retta condotta morale: tutte le altre
espressioni tipiche di una religiosità
esteriore sono da lui considerate forme
di superstizione, o di fantasticheria
o, ancora, di follia religiosa. Come
si può notare, ponendosi di fronte al
terribile mistero del male, Kant appare
per così dire combattuto: le esigenze
della ragione, che egli non intende
eludere, gli fanno prendere le distanze
dalla credenza nel dogma cristiano,
ma, nello stesso tempo, la tragica
e insondabile presenza di un pervertimento
posto alla radice stessa dell’essere
umano lo spinge a riconoscere
i limiti della razionalità che si dimostra
incapace di offrire al riguardo
una spiegazione plausibile. Anche dinanzi
alla figura di Cristo Kant manifesta
un atteggiamento oscillante, che
rimane tale anche al momento di valutarne
l’azione redentrice. Infatti, il
filosofo è preoccupato del fatto che
l’uomo possa attenuare il proprio impegno
etico confidando nell’opera
salvifica di Gesù Cristo, ma nello stesso
tempo non esclude che in Lui Dio
abbia voluto offrire all’umanità un sostegno
soprannaturale nella lotta contro
il male, sostegno senza il quale la
battaglia sembrerebbe perduta in
partenza. Emblematica – si diceva – la
posizione kantiana, e per svariati motivi:
non soltanto per quel suo stare
sul filo del rasoio tra razionalismo e
fede religiosa, ma anche per la coraggiosa
accettazione del limite insito
nella natura stessa dell’essere umano.
L’epoca moderna, che si era aperta
con l’umanistica esaltazione della
libertà e delle capacità dell’uomo e
che con l’illuminismo aveva celebrato
i trionfi della ragione e del progresso,
si conclude con la densa e drammatica
riflessione kantiana in merito
all’esistenza del male radicale che
conduce l’uomo ad autoingannarsi
circa le proprie intenzioni e quindi
alla slealtà verso se stesso e all’ipocrisia
e all’inganno verso gli altri; un male
radicale la cui presenza mette in
grave crisi qualunque edificio speculativo
e del quale, inoltre, resta incomprensibile
l’origine. Certo, l’epoca
moderna non ha sempre e soltanto
intonato un inno alla bontà e alla
grandezza dell’uomo: basti pensare, a
questo proposito, al pessimismo antropologico
di Martin Lutero che, sicuramente,
influenzò lo stesso Kant.
Ma non v’è dubbio che, dal Quattrocento
in poi, la verità del peccato originale
sembrò diventare via via sempre
meno compatibile con una visione
dell’uomo che si ritiene e si percepisce
padrone di sé, arbitro della propria
fortuna, capace di automigliorarsi
e di progredire incessantemente,
soprattutto in virtù delle sue capacità
razionali.
Seguendo questa linea interpretativa,
non meraviglia l’esito ateistico di
una parte considerevole della filosofia
moderna, un esito che, riconducendo
tutta la vita umana entro coordinate
mondane, reinterpreta in maniera
radicale il concetto stesso di peccato,
come ben testimoniano le seguenti
considerazioni di Ludwig Feuerbach,
il celebre filosofo materialista, implacabile
critico della religione e del cristianesimo
in particolare: “Il segreto
del peccato originale è il segreto del
piacere sessuale. Tutti gli uomini sono
concepiti nel peccato per il fatto che
sono stati concepiti con gioia e piacere
dei sensi, cioè naturalmente. L’atto
della generazione, in quanto ricco di
godimento, di godimento sensibile, è
un atto peccaminoso. Il peccato si riproduce
da Adamo fino a noi, solo per
il fatto che la riproduzione è l’atto generativo
naturale. E’ questo allora il
grande segreto del peccato originale
cristiano”. A questo punto, l’idea stessa
di peccato d’origine come viene tramandata
dalla chiesa cattolica è
scomparsa: non vi è più alcun riferimento
a Dio e alla libera disobbedienza
nei suoi confronti; tutto viene ricondotto
all’aldiquà, alla terra e alla natura,
alla dimensione materiale. Di
qui scaturisce pure un nuovo modo di
intendere il concetto e la necessità
della liberazione dell’uomo da ciò che
lo opprime. Non vi è più bisogno di un
liberatore divino e la politica prenderà
il posto della religione: sarà Karl
Marx a portare a pieno compimento
questa sostituzione. A suo giudizio, infatti,
il male non deriva certamente
dal peccato originale, bensì dall’ingiustizia
sociale: toccherà dunque alla
prassi rivoluzionaria affrancare l’umanità
dalla sua cattiveria e dalle sue
sofferenze, che – giova ripeterlo – secondo
il padre del comunismo non
provengono da un evento soprannaturale,
ma hanno un’origine umana e,
più precisamente, economico-sociale.
L’origine umana, troppo umana si vorrebbe
dire, riecheggiando il celebre
titolo di una sua opera, del peccato
originale viene ribadita da Friedrich
Nietzsche, sebbene secondo una prospettiva
assai diversa da quella
marxiana. A giudizio del filosofo dello
“Zarathustra”, sono proprio la religione
e la morale da essa derivante
l’autentico peccato originale: il compito
che dunque si prospetta è quello di
demolire, per quanto possibile, le cosiddette
verità religiose, autentica
causa di molti mali dell’uomo. Le
complesse dottrine nietzscheane del
“superuomo” e dell’ “eterno ritorno”
possono essere interpretate come l’indicazione
di due vie complementari
di liberazione dal male e dal dolore,
non tanto attraverso una loro impossibile
soppressione, quanto mediante
un’accettazione coraggiosa e vitale di
essi, rifiutando la fede e l’etica cristiana,
che rendono l’uomo sempre
più timoroso, sempre più remissivo,
sempre più schiavo. Di disponibilità a
sopportare il dolore si può parlare
anche a proposito di Dostoevskij, ma
facendo le dovute distinzioni, come
ricordano Giuseppe Riconda e Marco
Ravera: “Per Nietzsche l’accettazione
della sofferenza nell’abbraccio del
mondo dell’eterno ritorno è la redenzione,
per Dostoevskij l’accettazione
della sofferenza è il primo gradino di
una redenzione che si raggiunge solo
con la purificazione e l’espiazione, e
infine con la conversione, che mira a
togliere il peccato e le sue conseguenze;
per Nietzsche la redenzione è momento
ultimo di un’umanità che si autotrasfigura,
per Dostoevskij è il risultato
di un’azione divina cui l’uomo
può partecipare solo nel riconoscimento
umile della propria colpa: non
l’accettazione di un eterno ritorno del
bene e del male, del dolore e della
gioia, ma il trionfo del bene e della felicità
per grazia divina e per l’azione
del Cristo, per quanto incomprensibile
per noi possa essere come ciò avvenga”.
Qui sta la differenza decisiva: da
una parte, senza fare riferimento a
Dio l’origine del male resta completamente
sconosciuta, dall’altra, non facendo
affidamento sull’opera salvifica
di Gesù Cristo, si dilegua ogni speranza
di opporsi a esso e di vincerlo, perché
risulta evidente che uno sforzo
puramente umano in questa direzione
finisce sempre per rivelarsi una triste
illusione, figlia della superbia. Il pensiero
moderno di ispirazione cristiana,
e più specificamente cattolica, ha
costantemente insistito su questo punto,
proponendo concezioni che, nel rispetto
della rivelazione biblica e dei
dogmi della chiesa, hanno perseguito
un non facile equilibrio tra le esigenze
della ragione e della fede, della libertà
e della grazia, quell’equilibrio
che rimane sconosciuto sia ai pessimisti
che agli ottimisti che, come sosteneva
Blaise Pascal, non sanno attentamente
valutare la condizione paradossale
e contraddittoria dell’uomo. Scrive
l’autore dei “Pensieri”, facendo
parlare la Sapienza divina: “Io ho
creato l’uomo santo, innocente, perfetto;
io l’ho colmato di luce e di intelligenza;
gli ho comunicato la mia gloria
e le mie meraviglie… ma non ha potuto
sostenere tanta gloria senza cadere
nella presunzione. Ha voluto rendersi
centro di se stesso e indipendente dal
mio soccorso. Si è sottratto al mio dominio;
e uguagliandosi a me con il desiderio
di trovare la sua felicità in se
stesso, io l’ho abbandonato a se stesso”.
La negazione del peccato originale
rende del tutto incomprensibili le
vicende dell’umanità, come il misconoscimento
dell’intervento redentivo
di Gesù Cristo vanifica completamente
ogni speranza di salvezza.
Ne era profondamente convinto il
beato Antonio Rosmini che, nello
scritto “Il razionalismo teologico”, ebbe
ad affermare: “Ed ella è cosa pur
indubitata essere il dogma del peccato
fondamento di tutto il Cristianesimo.
Distrutto quel dogma è resa inutile
la redenzione di Gesù Cristo o certo
ella cessa di essere redenzione.
Quindi è tolta la cagion massima dell’Incarnazione
del Verbo. Per tali gradi
si perviene alla distruzione del Cristianesimo,
all’abolizione di tutto l’ordine
soprannaturale, allo stabilimento
del perfetto razionalismo”.



Da "Il Foglio" 5 dic. 2009