martedì 6 marzo 2012

La croce come rivelazione dell’amore di Dio




Siamo in Quaresima, un tempo favorevole per riflettere sulla 
sofferenza degli uomini e su un Dio che tante volte sembra non
"udire il grido" del suo popolo. Qual'è il senso della Croce di Cristo di fronte al nostro dolore, a quello mio personale e a quello di tutti i miei fratelli? E c'è poi davvero un senso? Anche se la sofferenza, anche se il dolore è innocente, e quindi più atroce? Proprio qualche minuto fa è terminato uno speciale televisivo ("Sirene", su Raidue)
dedicato allo scandalo dei maltrattamenti degli anziani 
perpetrati nella Casa di Riposo "Villa Borea" di Sanremo...
Propongo a tal proposito la lettura del testo seguente, del Cardinal Walter Kasper, sulla 
Croce di Cristo come Rivelazione dell'Amore di Dio.

* * *


1. La teologia della croce di fronte alla storia della sofferenza nel mondo
“Dio è amore”: questa affermazione, tratta dalla prima lettera di Giovanni (1 Gv 3,8.16),
è stata scelta da Papa Benedetto XVI come tema della sua prima enciclica. Il documento
affida così alla teologia il compito di ripensare e riproporre in modo nuovo il discorso
dottrinale su Dio, inserendolo in un’ottica biblica di centrale importanza. La
constatazione “Dio è amore” pone una vera e propria sfida. E non solo perché ad essa
era categoricamente contrario Aristotele, ritenendo che Dio, amato da tutti, non amasse,
ma fosse il motore immobile (Met. XI, 1072 b).
L’espressione “Dio è amore” è una sfida anche perché, almeno a partire da Leibniz,
Kant, Hegel e Nietzche, essa deve fare i conti con un’altra questione: se e come Dio sia
responsabile della sofferenza nel mondo. Lo stesso Papa Benedetto XVI, di fronte
all’indicibile sofferenza e all’inaudita ingiustizia collegate al nome di Auschwitz, si è
posto la domanda: “Dove era Dio in quei giorni? Perché ha taciuto? Come ha potuto
tollerare quest’eccesso di distruzione, questo trionfo della malvagità?” “Perché hai
taciuto? Come hai potuto sopportare tutto questo?”1
Il problema della teodicea2, ovvero la questione di come sia possibile conciliare la
sofferenza dell’innocente con l’esistenza di un Dio buono e al tempo stesso onnipotente,
costituisce il punto più spinoso della dottrina su Dio, molto più spinoso di tutte le altre
questioni teoriche e le obiezioni che vengono sollevate sull’esistenza e la natura di Dio.
La sofferenza è la roccia dell’ateismo, ha detto G. Büchner, e Stendhal ha osservato
cinicamente che l’unica scusa di Dio è quella di non esistere. Dostojewski, Camus e
molti altri hanno tematizzato la questione in modo pregnante. È stato obiettato infatti: o
Dio è buono ma non onnipotente, non potendo far niente contro l’ingiustizia, e non è
allora Dio; o Dio è onnipotente ma non buono, non volendo far niente contro
l’ingiustizia, e allora è un demone malvagio. Dopo Auschwitz, la teologia ha acutizzato
ulteriormente tale questione: alcuni hanno sostenuto che non sia più possibile parlare di
un Dio onnipotente e buono allo stesso tempo3.
Vediamo dunque che il tema di cui ci occupiamo non è assolutamente un problema
astratto, semplicemente accademico, ma è una questione profondamente esistenziale,
che penetra fino al nucleo vitale della fede cristiana e che pone la fede in Dio di fronte
alla sua negazione, nella forma umanamente più pesante. Dopo le esperienze atroci che
hanno segnato il XX secolo e quelle che si sono verificate già all’inizio del XXI, non è
più possibile schivare la questione dell’esistenza/presenza di Dio e del senso della
sofferenza innocente. Ma entrambe possono essere esaminate e discusse solo
congiuntamente4.
La Sacra Scrittura, a differenza di quanto afferma Aristotele, ci indica tale stretta
relazione già nelle più antiche parti dell’Antico Testamento. Essa ci dice che Dio è un
Dio misericordioso, che prova compassione di fronte alla miseria umana (cfr. Es 34,6
s.). In modo significativo leggiamo in Osea: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il
mio intimo freme di compassione” (Os 11,8). La teologia ebraica parla per questo della
partecipazione “passionale”, addirittura del pathos di Dio nei confronti delle sue
creature e del suo popolo. Dio non troneggia impassibile al di sopra delle atrocità del
mondo. Dio è commosso dalla sofferenza e dalla gioia dell’uomo e ad esse reagisce con
gioia o dolore, con approvazione o indignazione, con amore o con collera5. Anche Gesù
prova collera e tristezza di fronte alla durezza del cuore degli uomini (cfr. Mc 3,5); egli
è mosso a compassione (cfr. Mt 9,36); è colto dalla paura e dall’angoscia; è triste fino
alla morte (Mc 14,33 s.); alla fine, lancia dalla croce il suo grido di sofferenza per
l’abbandono di Dio (cfr. Mc 15,34).

Il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento non è un Dio apatico come quello di
Aristotele (Met 1073 a), non è un Dio indifferente al dolore umano, ma è un Dio
“simpatico”, nel senso etimologico della parola, un Dio che soffre con noi.
È l’Emanuele, il Dio con noi (Is 7,14; Mt 1,23).
Tuttavia, nel tentativo di trovare una risposta al perché della sofferenza dell’innocente,
l’Antico Testamento ha dovuto percorrere un lungo cammino. Il libro di Giobbe alla
fine riprende tutte le risposte e, conducendole ad absurdum, arriva alla conclusione che
Dio è imprevedibile e che l’unica risposta possibile davanti al mistero insondabile di
Dio sia il silenzio (cfr. Giobbe 42). Nemmeno il Nuovo Testamento ci fornisce una
risposta teorica precisa, ma ricorre all’immagine veterotestamentaria del servo
sofferente (cfr. Is 53) proiettandola sulla passione e sulla morte di Gesù, il più innocente
tra tutti gli uomini. In modo quasi trionfale sostiene: se Dio per noi non ha risparmiato
neppure il suo figlio, allora niente potrà separarci dall’amore di Dio, né la vita, né la
morte (cfr. Rom 8,31-39). È alquanto significativo dunque che l’affermazione “Dio è
amore” si situi nel contesto della croce (cfr. 1 Gv 4,8 s).
La Costituzione pastorale “Gaudium et spes” del Concilio Vaticano II ha intuito quanto
rivoluzionaria fosse questa affermazione per la nostra concezione di Dio ed ha
affermato: “Per Cristo e in Cristo riceve luce quell'enigma del dolore e della morte, che
al di fuori del suo Vangelo ci opprime” (GS 22).
Il riferimento alla croce di Gesù fornisce a colui che crede una risposta esistenziale. Ma
non per questo la sfida teologica risulta risolta, al contrario: ecco emergere di colpo altri
interrogativi, in modo del tutto nuovo. Di fatti, secondo la logica umana, la croce è
stoltezza  e scandalo (1 Cor 1,21.23; 2,14). Ci chiediamo allora:
come è possibile comprendere la croce come rivelazione dell’amore di Dio? La croce
non è piuttosto il segno di un Dio crudele, collerico, violento, che ha bisogno di un
capro espiatorio e che sacrifica il suo stesso figlio come prezzo da pagare per la
riconciliazione?

Con il mistero della croce, la teologia si trova confrontata ad una realtà che va ben oltre
ciò che la teologia negativa aveva sostenuto. All’interno di tale tradizione teologica,
Anselmo da Canterbury aveva affermato che Dio era ciò di cui non si poteva pensare
niente di più grande, id quo maius cogitari nequit (Proslogion, cap. 2), e si era spinto
ancora oltre, dicendo che Dio era più grande di tutto ciò che si poteva pensare, quiddam
maius quam cogitari possit (Proslogion, cap. 15). Ma davanti alla croce, la teologia non
s’imbatte soltanto nel limite del proprio pensiero. Davanti all’azione imprevedibile e
incomprensibile di Dio sulla croce, essa tocca il limite di ciò che ritiene essere la realtà
stessa di Dio.
La croce crocifigge il concetto che abbiamo di Dio. Un Dio sulla croce, che soffre e che
muore, è il contrario dell’immagine di Dio che di solito ci facciamo. La croce mette in
discussione uno degli assiomi fondamentali della metafisica tradizionale, la quale, a
priori, considera come caratteristiche quasi imprescindibili di Dio immutabilità e
apatia6. Non solo Aristotele, ma anche i grandi pensatori della teologia scolastica
escludevano che Dio potesse partecipare alla sofferenza di Gesù e alla sofferenza degli
uomini, poiché, così argomentavano, relazioni reali esistono soltanto a partire dalla
creatura verso Dio, ma non viceversa, essendo Dio perfetto7. Pertanto, la sofferenza
della creatura non può commuovere Dio, il quale non può soffrire8. Ci chiediamo allora:
quando la Bibbia parla della compassione di Dio, tema centrale in tutta la Scrittura,
dobbiamo interpretarla metaforicamente?
Alcuni Padri della Chiesa e teologi hanno osato combinare il concetto di Dio e quello
della sofferenza, parlando addirittura di un Dio che muore9. Ma ecco che affiora un’altra
domanda altrettanto impellente: se prendiamo sul serio la croce e parliamo di un Dio
che muore, allora, per essere coerenti, non dobbiamo parlare anche della morte di Dio?
Hegel lo ha fatto con un vecchio canto religioso: “O grosse Not, Gott selbst ist tot” (Dio
stesso è morto). E con particolare veemenza Nietzsche è entrato in campo proclamando,
contro il cristianesimo, che Dio è morto10. La teologia del “Dio è morto”, negli anni
sessanta e all’inizio degli anni settanta, voleva demolire tali affermazioni, credendo di
poter interpretare il Dio cristiano in modo ateo. Nel frattempo, destinata a durare ben
poco, anch’essa è morta (ed ha avuto la sorte che ben meritava)11. Ma il problema
rimane. Non pochi contemporanei ritengono infatti che le indicibili sofferenze ed
ingiustizie nel mondo provino l’assenza, l’impotenza, o se non altro il silenzio di Dio.
Nessuna vita pare scaturire ormai da Dio; Dio, o almeno il messaggio di Dio, è morto.
La croce come risposta alla domanda sull’esistenza di Dio di fronte alla sofferenza
dell’innocente nel mondo è dunque tutt’altro che una risposta semplice e compiacente.
Piuttosto, è una risposta scomoda, difficile, che ci induce a intraprendere una riflessione
teologica ancora più approfondita. La croce è al contempo fondamento e critica della
teologia. Essa ci spinge a ridefinire ciò che intendiamo con Dio.

2. Il contesto storico ed ecumenico
Guardando agli sviluppi storici più antichi e a quelli più recenti, incontriamo vari tipi di
teologia della croce. I Padri della Chiesa del II e del III secolo interpretarono la croce,
sulla base del Nuovo Testamento, come uno scandalo. Tertulliano definisce il
cristianesimo come religione della croce (Apologeticum, 16,6). I primi Padri ribadiscono
il paradosso del Dio che, incapace di soffrire, ha sofferto12. Alcuni tra loro, come
Atanasio e Ilario di Poitiers, parlano senza esitazione del Dio sofferente e crocifisso;
Tertulliano dice addirittura “Deus mortuus” (Adv. Marcionem II, 16,3). Ancora i monaci
theopaschiti, durante questa controversia del VI secolo, affermavano che una delle tre
persone divine aveva sofferto. Ed il V Concilio Ecumenico confermava tale posizione
(DS 432).
Tuttavia, con la svolta costantiniana ed il famoso presagio “In questo segno vincerai”, la
croce non è più vista come “scandalo”. Comincia a predominare il motivo della croce
vittoriosa, vessillo di trionfo. Già in Gregorio di Nazianzo troviamo l’espressione: “il
segno invincibile della croce” (Oratio 45,21). Tra i riferimenti più conosciuti, vi è
l’inno di Venanzio Fortunato del VI secolo: “Vexilla regis prodeunt, fulget crucis
mysterium”. Ancora a questa connotazione vittoriosa s’ispira l’arte romanica, nel modo
ad esempio in cui rappresenta la croce e la posiziona all’interno della chiesa sull’arco
trionfale, all’entrata del presbiterio.
Nel Medioevo, a partire da Bernardo di Chiaravalle, si sviluppa una particolare forma di
pietà, che accentua la dimensione della compassione, ponendo al centro dell’attenzione
la debolezza umana e la sofferenza di Cristo. L’identificazione con la sofferenza di
Gesù è esemplificata in modo pregnante dalle stigmate di S. Francesco di Assisi. Nel
tardo Medioevo, la Devotio Moderna, attraverso la continua contemplazione della
passione, doveva condurre all’ imitatio Christi, all’imitazione di Cristo, incoraggiando il
fedele a partecipare alla passione del Signore ed a seguire il suo cammino di croce.
Ricordiamo, a tal proposito, due opere molto significative: “De imitatione Christi” e
“De passione Christi” di Tommaso da Kempen13. Questa nuova forma di pietà ispirò
anche una nuova immagine della croce: il crocifisso gotico, incoronato di spine, con il
volto segnato marcatamente dal dolore. In un tempo in cui l’Europa era sconvolta dal
flagello della peste, rivolgere lo sguardo al crocifisso, all’uomo del dolore, significava
cercare consolazione nel mezzo della miseria umana.
La pietà medioevale, che in tempi più vicini ai nostri si è sviluppata nella pietà del
Sacro Cuore di Gesù, esprime in modo suggestivo il significato soteriologico, esemplare
e spirituale della croce. Tuttavia, manca la dimensione teologica: si parla cioè del
significato della croce all’interno della riflessione condotta sull’uomo, ma non di quella
condotta su Dio. Il quadro classico della metafisica greca, tranne poche eccezioni,
rimane il punto di riferimento pressoché inalterato.
A segnare una nuova svolta è la teologia della croce di Lutero14, che parla di una
theologia paradoxa. Secondo Lutero, il vero teologo non è colui che arriva alla
conoscenza dell’essenza invisibile di Dio attraverso la realtà creata, ma è colui che
comprende attraverso la passione e la croce ciò che è visibile di Dio e ciò che di lui è
stato manifestato nel mondo. “Ergo in Christo crucifixo est vera theologia e cognitio
(WA 1,362). La croce, da sola, è contenuto della teologia e della predicazione: “Crux
sola est nostra theologia” (WA 5, 176,32 s). Lutero oppone questa “theologia crucis”
alla “theologia gloriae” della scolastica. Secondo lui, Dio può essere realmente
conosciuto soltanto sul cammino della croce. Mentre il peccatore ha corrotto ogni cosa,
Dio ha raddrizzato tutto ed ha fatto della croce un cammino di salvezza. Sulla croce egli
è “sub contrario absconditus” (WA 56, 392). “Dio contro Dio a favore degli uomini”,
“Il Dio misericordioso contro il Dio collerico, per il nostro bene”, così è stata descritta e
riassunta la teologia della croce di Lutero.
Il pensiero di Lutero ha fatto storia non solo nella teologia, ma anche nella filosofia.
Esso, ad esempio, è stato ripreso e sviluppato in modo significativo dalla filosofia
dialettica di Hegel15. Secondo Hegel, Dio realizza se stesso come soggetto assoluto
attraverso il suo porsi al di fuori di sé ed il suo auto-differenziarsi; non vi è pertanto una
chiara distinzione tra la storia di Dio e la storia del mondo. Dal punto di vista teologico,
questo comporta una profonda ambiguità. L’interesse per la teologia consiste tuttavia
nel fatto che Hegel abbia collegato il significato della croce alla riflessione su Dio,
fornendo un importante spunto per lo sviluppo moderno della teologia protestante16. In
riferimento ed in opposizione ad Hegel, il più recente pensiero protestante di Karl Barth,
Jürgen Moltmann e Eberhard Jüngel17 è giunto ad una teologia della croce che, nel
differenziarsi dalla teologia naturale di stampo metafisico, rimane fedele all’istanza di
Lutero. Per questi teologi la croce, ed in fondo soltanto la croce, è il punto di partenza
per conoscere Dio, è il luogo in cui Dio definisce sé stesso.
Alla base di tale teologia vi è il concetto di una relazione tra Dio e uomo, e tra fede e
ragione, che non lascia spazio alla cooperazione umana. Questo vale sia per la natura e
l’azione umana di Gesù Cristo, che per la partecipazione degli uomini al processo di
salvezza, partecipazione resa possibile dalla grazia divina18. L’ “aut-aut” nella teologia
della croce di Lutero lo porta a non riconoscere agli uomini la capacità di cooperare alla
propria giustificazione. Ecco perché questa teologia è di cruciale importanza per il
dialogo ecumenico sulla dottrina della giustificazione. Anche se in tale ambito siamo
pervenuti nel frattempo ad un accordo su questioni fondamentali, molti punti rimangono
aperti e dovranno essere ulteriormente discussi proprio alla luce della teologia della
croce.
Un’altra via, con caratteristiche proprie, ci viene indicata dalla teologia russo-ortodossa
sviluppatasi nella prima metà del XX secolo. Il suo Sitz im Leben è la liturgia ortodossa,
che attribuisce alla croce un’importanza ancora più centrale di quella riconosciutale in
occidente. Questa teologia è segnata dall’esperienza del dolore, in particolare dalla
capacità del popolo russo di sopportare la sofferenza e dall’interpretazione kenotica
dell’esistenza umana, tipica anche dei romanzi di Dostojewski19.
Diversi nomi possono essere citati: W. Solowjew, M. Tarejew e, il più importante di
tutti per la teologia, S. N. Bulgakow20. Per quest’ultimo, tutta l’economia della salvezza
è caratterizzata dalla Synkatabasis (condiscendenza; abbassamento) di Dio. Essa inizia
già con la creazione ed arriva al suo culmine con l’incarnazione e la crocifissione. Sia
nella creazione che nella redenzione l’infinito Dio lascia nondimeno spazio ad una
realtà “non divina”, ovvero opta per un’ “auto-limitazione”. Fondamentale è la struttura
kenotica dell’economia della salvezza, resa possibile dal rapporto tra le persone della
Trinità, le quali, comunicando nell’amore, si lasciano spazio l’una all’altra. Bulgakow
Welt. Zur Begründung der Theologie des Gekreuzigten im, Streit zwischen Theismus und Atheismus,
Tübingen 1977
parla addirittura di un sacrificio di sé intertrinitario, che si concretizza nella storia sulla
croce21.
Alla luce di ciò che è stato appena detto, si capisce quanto, nel dialogo ecumenico, si
possa imparare dalla ricchezza della spiritualità e della teologia ortodosse. Ma se è vero
che la grandezza di tale visione è innegabile, è anche vero che in essa è insito un rischio
da non sottovalutare. Questa grandiosa visione unitaria potrebbe cioè far perdere di vista
il carattere misterioso e da non deviare che la croce riveste nella storia, facendo
inavvertitamente slittare la teologia nella sofiologia22. La Sofia diventerebbe allora una
realtà sovracristologica e la croce storica sul Golgota non sarebbe altro che la
trasposizione visibile di un Golgota metafisico23.
Mentre la posizione luterana tende verso un “aut-aut” di kenosi e Logos,
contrapponendo l’uno all’altra, i teologi ortodossi russi tendono, come Hegel, a
interpretare in modo speculativo il Logos come kenosi, svuotando del suo significato
costitutivo il mistero della kenosi che ha avuto luogo storicamente sulla croce. Ciò
spiega perché esistano forti riserve nei confronti di tale teologia all’interno dell’attuale
Chiesa ortodossa russa.
Sulla base di una rilettura della Scrittura e della Tradizione patristica stimolata dalla
teologia ortodossa e da alcuni concetti fondamentali del pensiero di Lutero, anche
l’odierna teologia cattolica ha sviluppato una teologia della croce. Tra i nomi da
ricordare24, il più importante è sicuramente quello di H. U. von Balthasar25, a cui
ritorneremo in seguito.
Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è: dove si situa la teologia cattolica
all’interno di questa discussione? La teologia della croce luterana è di stampo paolino;
quella ortodossa viene solitamente descritta come giovannea. Quale è la caratteristica
della teologia cattolica della croce?
La tesi qui sostenuta, che verrà argomentata più sotto nel dettaglio, è che la teologia
della croce cattolica sia primariamente sinottica e possa essere definita petrina, come si
spiegherà tra breve. Questa argomentazione parte dalla croce storica e dalla sua
interpretazione biblica; nella croce storica tenta di comprendere il Logos. In questo
senso si tratta di una teologia “dal basso”, che non contrappone la kenosi al Logos, né
comprende speculativamente il Logos come kenosi, ma lo ricerca nell’evento storico
della kenosi e legge nella croce la rivelazione dell’amore divino.

3. I fondamenti biblici del concetto di sostituzione vicaria
La tesi appena formulata ci porta, come secondo passo, a ricercare i fondamenti biblici.
L’esegeta Martin Hengel, di Tubinga, nel suo scritto “Pietro sottovalutato”, ha
menzionato validi motivi che dimostrano sorprendentemente come la tradizione
sinottica, attraverso Marco, discepolo di Pietro, risalga fino a quest’ultimo. Hengel
sostiene addirittura che la teologia di Pietro possa essere equiparata a quella di Paolo26.
Hengel ritiene anche che si possa ricondurre a Pietro l’interpretazione sinottica della
croce, sulla base del concetto di sostituzione vicaria. Il concetto di sostituzione vicaria,
già presente nella teologia veterotestamentaria del servo sofferente (cfr. Is 52,13-53,12),
è fondamentale per la venuta di Gesù in mezzo agli uomini, ad iniziare dal battesimo nel
Giordano (cfr. Mt 3,15), fino ai racconti della passione (cfr. Mc 10,45) e a quelli
dell’ultima cena (cfr. Mc 14,24; Mt 26,28; Lc 22,19 s; 1 Cor 11,24), che interpretano
l’evento della croce come morte vicaria “per gli altri”. Dalla tradizione sinottica, di
stampo fortemente petrino, il concetto di morte vicaria passa poi alla tradizione paolina
(cfr. 2 Cor 5,21; Gal 3,13) e a quella giovannea (cfr. Gv 3,16; 10,11; 12,24 s; 15,13).
Quello della sostituzione è dunque un concetto chiave in tutti i Vangeli e nell’intero
Nuovo Testamento. Esso sembra risolvere il nostro problema, poiché può essere
considerato il giusto punto di partenza biblico per una teologia della croce27.
Questo concetto è espresso nel Nuovo Testamento con la formula “per voi”, “per noi”,
“per molti”28, avente un triplice significato. Essa ci dice che Gesù ha dato la sua vita “al
posto di” noi peccatori; noi come peccatori siamo assoggettati alla morte e non
possiamo aiutarci da soli. In questa situazione, Dio è venuto in nostro soccorso ed ha
assunto su di sé in modo vicario la maledizione del peccato, della morte,
dell’abbandono di Dio. Il primo significato è dunque quello dell’intervento personale di
Dio. Il secondo si riferisce al fatto che Gesù ha dato la sua vita “per noi” e “per molti”; è
quello del sacrificio di Cristo per il nostro bene, in nostro favore. Infine la formula ci
indica che Gesù ha compiuto tutto ciò “a causa” nostra, spinto da compassione verso di
noi.
Agire in modo vicario significa quindi che Dio interviene al posto del peccatore,
operando uno “scambio”, per la sua generosa misericordia ed il suo infinito amore. Egli
fa questo per noi e per il nostro bene, interviene per noi, muore al nostro posto affinché
noi viviamo. Gesù prende il posto degli ultimi per farci posto presso Dio. La kenosi è la
forma esistenziale dell’amore nella condizione del peccato29. Non si svuota nel niente;
essa mira piuttosto a riportare il bene, a ripristinare l’ordine voluto da Dio30.
L’idea della sostituzione vicaria è stata accolta anche all’interno del credo apostolico,
dove recitiamo: “Propter nostram salutem descendit de caelis”. I Padri della Chiesa,
portando avanti la riflessione, hanno accostato a questo concetto quello di commercium,
ovvero di pio scambio. In modo conciso, si può dire che Dio è diventato uomo, è entrato
pienamente nella condicio humana, affinché noi siamo divinizzati31.
Il concetto di sostituzione vicaria è dunque un concetto teologico chiave32, che esprime
la legge di una struttura in processo di divenire. È la legge del chicco di grano che deve
morire per produrre frutto (cfr. Gv 12,24). È la legge del lasciare tutto per raccogliere un
guadagno centuplicato (cfr. Mc 10,28). È soprattutto la legge dell’amore. Soltanto nel
darsi all’altro e nell’esserci pienamente per l’altro, l’amore realizza se stesso.
L’abbandonare per guadagnare (cfr. Mc 8,35; Mt 10,39; 16,25; Lc 9,34; 17,33; Gv
12,25) è la legge fondamentale dell’amore e dell’amicizia (cfr. Gv 15,13). Essa è la
legge di Cristo: portare i pesi gli uni degli altri (cfr. Gal 6,2).
È precisamente in questo ampio contesto che va compreso il grido di Gesù sulla croce:
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34)33. Questo grido è
espressione del profondo svuotamento di se stesso che compie Gesù e della sua totale
solidarietà con noi. Egli assume davvero su di sé il peso dell’abbandono di Dio,
dell’eclissi di Dio dal mondo. Tuttavia, questa citazione dell’inizio del Salmo 22 è, in
linea con la tradizione ebraica, un riferimento all’intero salmo, il quale comincia, è vero,
con il lamento per l’abbandono di Dio, ma si conclude con la riconfortante certezza che
Dio rimane fedele al suo popolo. Per questo, il grido di abbandono lanciato da Gesù non
può assolutamente essere letto in chiave atea. Esso non ci dice che Gesù ha per così dire
rinunciato al suo essere Dio, ma esprime piuttosto il fatto che Dio ci soccorre e ci salva
perfino nella notte d’eclissi più buia in cui l’uomo possa trovarsi, in cui noi, soprattutto
al presente, ci troviamo. Anche in una simile situazione, egli è il Dio presente (cfr. Es
3,15), egli è il Dio con noi.
Luca ha interpretato giustamente le dure parole dell’abbandono riportate in Marco,
dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Ed in Giovanni
 troviamo l’affermazione che corona trionfalmente il mistero della croce: “Tutto è
compiuto!” (Gv 19,30).
Anche le parole della kenosi nell’inno della lettera ai Filippesi (cfr. 2,7; 2 Cor 8,9; Eb
2,9) vanno capite in questo senso34. Kenosi (in latino exinanitio) significa svuotamento,
cessione, rinuncia, alienazione. Attraverso la propria auto-alienazione, Gesù, che era
Dio nella forma, ha scelto di prendere il posto di noi peccatori, di noi che
siamo assoggettati alla morte e quindi suoi servi. Ecco perché Gesù assume la forma di servo. Ma lasciandosi crocifiggere non per necessità del destino ma per sua
propria volontà e per obbedienza al Padre, egli sottrae alla morte il suo pungiglione (cfr.
1 Cor 15,55) e ci libera dalla schiavitù, dandoci una nuova vita. L’auto-alienazione non
si esaurisce dunque nel vuoto, nel nulla; al contrario, essa è la via verso l’innalzamento,
tramite cui Gesù diventa Kyrios, ovvero Signore del mondo. La morte di Gesù è la
morte della morte e la liberazione a nuova vita. La sua kenosi suggella così la vittoria
della vita sulla morte, della libertà sulla necessità del destino, dell’amore sull’odio35.
Agostino ci fornisce una giusta interpretazione di tutto questo quando scrive in modo
conciso e pregnante: “Sic se exanivit: formam servi accipiens, non formam Dei
ammitens, forma servi accessit, non forma Dei discessit” (Sermo IV, 5)36. Solo perché
Dio, abbassandosi, si è reso presente e attivo, è possibile dire: “Ucciso dalla morte, egli
uccide la morte” (Agostino, In Jo XII, 10 s.)37. “Mortem nostram moriendo destruxit”
proclama la liturgia.
Si capisce dunque perché per Paolo la croce costituisca il mistero della sapienza di Dio
(cfr. 1 Cor 1,7-25; 2,6-10; 2 Cor 13,4) e la parola della croce sia l’essenza del
messaggio salvifico (cfr. 1 Cor 1,18; 2,2). Negli scritti più tardi del Nuovo Testamento
la croce assume addirittura una dimensione cosmica; attraverso la croce, tutto viene riconciliato a Dio (cfr. Col 1,20). L’Apocalisse giovannea ci presenta
l’agnello immolato come luce del cosmo (cfr. Apc 21,23).
Nel Nuovo Testamento la kenosi non è quindi contrapposta al Logos; sul Logos essa
getta una nuova luce. A sua volta, il Logos non può essere interpretato in maniera
speculativa e dialettica come kenosi. Piuttosto, è la kenosi della croce a svelare
pienamente il senso del Logos, che è l’amore. E l’amore è il senso dell’essere.
Detto questo, ecco che abbiamo compiuto il primo passo verso una trattazione
sistematica della teologia della croce.

4. Una trattazione sistematica della cristologia della kenosi
Il Nuovo Testamento ci dice che Dio stesso è all’opera sia nella kenosi di Gesù che nel
suo innalzamento. Dio si rivela nel suo Figlio (cfr. Gv 3,16; 1 Gv 4,9 s; Rom 5,8; 8,32).
Nel Gesù terreno, nel Gesù crocifisso si manifesta la gloria di Dio (cfr. Gv 1,4, ecc.) ed
il suo amore (cfr. Rom 5,8 s; 8,32; Gv 3,16 s., ecc.). Sulla croce ci viene dunque svelato
Dio stesso come amore (cfr. 1 Gv 3,8.16).
Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV 2). Se
la rivelazione è intesa come auto-rivelazione, allora la realtà di Dio non è “qualcosa”
che si nasconde “dietro” la sua rivelazione: là, Dio stesso è presente. L’amore di Dio
rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come amore. Sulla croce egli si rivela
come colui la cui essenza è amore. Detto in maniera più astratta: nella Trinità
economica rivelata dalla croce e dalla risurrezione, si rivela la Trinità immanente38.
Per comprendere più profondamente la natura trinitaria di Dio, possiamo partire dalla
natura dell’amore39. Precisamente da qui era partito anche Agostino40, senza però
sviluppare oltre il suo pensiero. Per lui, come per la tradizione teologica classica,
fondamentale è l’analisi dell’atto conoscitivo41. Nella teologia odierna possiamo
costatare lo stesso interesse. Stimolato dalle analisi di Fichte, di Schelling, di Hegel e
soprattutto dal personalismo dialogico di origine ebraica, come in Martin Buber e, in
modo sostanzialmente più radicale, in Emmanuel Lévinas, lo studio del fenomeno
dell’amore occupa adesso un posto di primaria importanza.
Oggi, il punto di partenza della riflessione teologica sulla Trinità è principalmente
l’auto-comunicazione di Dio. Ma l’amore, che comunica se stesso per essere una cosa
sola con l’altro, non significa fusione. Il vero amore non assorbe l’altro, né lo usa per la
propria auto-conoscenza o auto-realizzazione. L’amore non ha una struttura dialettica,
ma una struttura dialogica. Amore significa essere una cosa sola con l’altro, preservando
l’identità di ognuno, e permettendo allo stesso tempo la realizzazione ed il compimento
di ciascuno. Chi darà la propria vita, la riceverà. L’unità nell’amore comporta dunque il
riconoscimento della differenza. L’amore sa distinguere e sa ritrarsi. L’amore fa un
passo indietro; esso rende l’altro libero e ne riconosce l’alterità. La logica dell’amore è
dunque quella del lasciarsi spazio reciprocamente: è quella, anche, della rinuncia.
Amore e dolore, amore e morte, ecco due realtà strettamente legate, come ci dicono da
sempre i grandi poeti.
Possiamo allora interpretare l’affermazione che Dio è amore così: Dio è se stesso
nell’essere totalmente per l’altro. Il Dio-amore può essere concepito soltanto come
un’auto-differenziazione al suo interno. Pertanto, la dottrina trinitaria non contraddice il
monoteismo, come più volte si sente dire. Essa esprime piuttosto il fatto che un Dioamore
può essere pensato soltanto in maniera trinitaria. La Trinità è il monoteismo
concreto42.
Di fronte alla realtà della sofferenza, la Trinità è l’unica forma di monoteismo che possa
essere concepita e che possa esistere. Dalla croce in poi, pensare a Dio in modo
trinitario significa pensare ad un Dio che al suo interno lascia spazio all’altro se stesso.
Diversamente dal Dio onnipotente che molti si immaginano, Dio è assolutamente non
violento. Dio, nella sua essenza, è colui che si apre totalmente e che si offre. Dio non
opprime; egli si lascia addirittura cacciare dal mondo, e ci si mostra debole, impotente43.
Dio è in se stesso kenotico. Balthasar parla della kenosi originaria e di una “divisione”
all’interno di Dio44. Ma in questo suo essere kenotico, Dio non rinuncia a se stesso, non
si trasforma in qualcosa di diverso, non abbandona la propria divinità. In questa sua
esistenza kenotica, Dio è Dio.
Come la croce è la rivelazione dell’amore intratrinitario di Dio, così l’amore
intratrinitario di Dio è la condizione interna che rende possibile la compassione di Dio
fino alla morte in croce. Origene ha formulato chiaramente questo prerequisito: “Primus
passus est, deinde descendit. Quae est ista, quam pro nobis passus est, passio? Caritatis
est passio” (Homelia in Ez. VI, 8)45. La croce è dunque la forma più esterna dell’amore
divino che si dà, è la forma più esterna dell’amore costitutivo di Dio, ovvero id quo
maius cogitari nequit.
Questa tesi comporta una vera e propria rivoluzione metafisica46. La relazione non è più
concepita come una semplice realtà accidentale. Così come la vera realtà non
corrisponde più semplicemente né alla Sostanza, che sussiste in sé e per sé, né al
Soggetto che esiste in sé e per sé secondo il pensiero moderno. Adesso è nella relazione
stessa che si fonda la sussistenza delle persone della Trinità. Dio è relazione, e nella
relazione egli viene a noi. Nell’essere il Dio per noi e con noi, egli rivela la sua natura
più profonda.
Il tema della sofferenza di Dio, che è stato sempre così spinoso per la tradizione
teologica, acquista allora una nuova dimensione. La sofferenza, ed in questo dobbiamo
riconoscere che la teologia classica ha assolutamente ragione, non può essere
sperimentata da Dio in modo passivo. Quando Dio soffre, lo fa in modo divino. La
sofferenza divina non è espressione di una mancanza, ma di una libera volontà. Dio non
è investito passivamente dal dolore della creatura, ma si lascia coinvolgere
intenzionalmente. Per questo, l’onnipotenza di Dio non è in contraddizione con il suo
amore; la sua onnipotenza si manifesta nell’amore, poiché è precisamente l’onnipotenza
che rende possibile il ritirarsi senza rinunciare a se stessi. L’onnipotenza di Dio è
l’onnipotenza del suo amore, che rivela ciò che è ed è ciò che è proprio nel lasciare
spazio all’altro47.
Il Dio compassionevole, che si manifesta sulla croce, è la risposta alla questione della
teodicea48: Dio è il Dio che soffre e che muore, e si fa vicino a coloro che sono oppressi,
torturati, martirizzati. Dio è al loro fianco e soffre con loro. Questo non significa però
che dobbiamo glorificare o divinizzare la sofferenza. Dio non divinizza la sofferenza,
ma la redime, mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la trasforma in speranza. La
croce è infatti la via verso la risurrezione e la trasfigurazione. Il dolore e la morte non
hanno l’ultima parola. La cristologia della kenosi ci conduce oltre se stessa, verso la
cristologia pasquale dell’innalzamento e della trasfigurazione. Come dice la Scrittura,
“nella speranza noi siamo stati salvati” (Rom 8,20.24; 1 Pt 1,3).

5. Uno sguardo alla spiritualità cristiana odierna
Lo abbiamo appena detto: la teologia della kenosi non è una speculazione astratta. Essa
costituisce la tela di fondo della riflessione sulla teodicea e sul significato esistenziale
della sofferenza e della morte. Essa è inoltre di grande importanza per il dialogo
ecumenico. Una considerazione a parte meriterebbe il suo ruolo all’interno del dialogo
interculturale e interreligioso, soprattutto per l’incontro con la spiritualità buddista ed il
suo concetto di nirvana49.
In questo contesto, desidero fare solo alcune osservazioni conclusive sul significato che
la teologia della kenosi riveste per una spiritualità cristiana odierna50. Vi sono molte
figure di grande rilievo che hanno mostrato l’importanza della sostituzione vicaria e
che, testimoniandola con la propria vita, costituiscono un esempio luminoso per la
spiritualità odierna e per un rinnovamento missionario della Chiesa: Teresa di Lisieux,
Charles de Foucauld, Edith Stein, Maximilian Kolbe, D. Bonhoeffer, Oscar Romero e
molti altri. Ognuno a modo proprio, essi si sono immersi nel grido di dolore e di
abbandono di Gesù ed hanno portato sulle proprie spalle, con solidarietà, il peso
dell’eclissi di Dio dal mondo. Per loro, l’esperienza della notte, del deserto, dell’ultimo
posto non ha significato un cammino verso un niente privo di senso, ma si è trasformata
in qualcosa di attivo, in una vita spesa per gli altri, affinché la luce di Dio risplendesse
anche nel buio più opprimente.
Anche per il cristiano di oggi non esiste un altro cammino. Nel mondo occidentale, egli
normalmente non è esposto ad una brutale violenza anti-cristiana, ma è costretto a
vivere in una società che non conosce Dio, o lo conosce così poco da non essere
neppure in grado di sostenere un ateismo cosciente. A Dio si è ormai indifferenti. Il
mondo è diventato un deserto, una notte in cui non si distingue più nulla, in cui non c’è
più né un sotto né un sopra, in cui si è perso l’orientamento.
In questa situazione, la Chiesa non può più atteggiarsi a potente istituzione, portando
davanti a sé la croce come segno temporale di vittoria. Il cristiano, piuttosto, dovrà
sperimentare l’impotenza della croce, dovrà condividere la sofferenza di altri. Ed è
proprio ora, in questa notte d’eclissi, che egli dovrà preservare e testimoniare per gli
altri la luce della fede, della speranza e dell’amore. Ecco la sfida del cristiano di oggi e
di domani: una presenza attiva a favore degli altri.
Maria è esempio e tipo di questa esistenza kenotica, lei, l’umile serva che ha dato spazio
a Dio, dapprima nel suo cuore e poi nella sua carne. Maria ha portato avanti la speranza
fino ai piedi della croce. E lo ha fatto per noi. Ha pronunciato il suo “fiat” al posto di
tutta l’umanità. Maria è fulgido esempio di un’esistenza attiva “per” l’altro; ella è
l’aurora di un nuovo mondo.

* * *
Note
1 Discorso nel Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006.
2 Cfr. per uno sguardo riassuntivo, Th. Pröpper-M. Striet, Art. Theodizee, in: LThK IX (2000) 1396-98;
G. Neuhaus, Frömmigkeit der Theologie. Zur Logik der offenen Theodiezeefrage (Quaestiones diputatae,
202), Freiburg i. Br. 2003.
3 Soprattutto H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz, Frankfurt a.M. 1987.Cfr. uno sguardo
d’insieme sulla teologia dopo Auschwitz in J.B. Metz, Art. Auschwitz II, in: LThK I (1993) 1260 s.
4 Cfr. W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, Mainz 1982, 199-205; J. B. Metz, Landschaft in Schreien, Mainz
1995.
5 A. J. Heschel, The Prophets, New York-Evanston 1955; P. Kuhn, Gottes Selbsterniedrigung in der
Theologie der Rabbinen, München 1968.
6 Cfr. G. L.Prestige, Dieu dans la pensée patristique, Paris 1955, 28-31; H. Küng, Menschwerdung Gottes,
Freiburg i.Br. 1970, 622-631; 637-646 ; 647-670; H. Mühlen, Veränderlichkeit Gottes als Horizont einer
künftigen Christologie. Auf dem Weg zu einer Kreuzestheologie in Ausein-andersetzung mit der
altkirchlichen Christologie, Münster 1970 ; W. Maas, Unveränderlichkeit Gottes. Zum Verhältnis von
griechisch-philosophischer und christlicher Gotteslehre, München 1974. Wichtig sind freilich die
Differenzierungen von H.U. von Balthasar, Theodramatik IV, 194-201.
7 Tommaso d’Aquino, De Pot q. 7, a. 8-11; Summa theol. I q. 13 a.7.
8 Tommaso d’Aquino, Summa theol. I q. 25, a.1; III q. 16 a. 4; q. 46 a.12 ecc.
9 Cfr. H. U. von Balthasar, Mysal III/2, 143-149; Theodramatik IV, 199; W. Kasper, Der Gott Jesu
Christi, 237 s.
10 Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religio,n (ed. Gockner), Vol.16, 306 s; F. Nietzsche,
Die fröhliche Wissenschaft (ed. Schlechta), Bd. 2, 126-128. Cfr. E. Jüngel, Der Tod des lebendigen
Gottes, in: ZThK 65 (1968) 55-137.
11 A. Seigfried, Art. Gott-ist-tot-Theologie, in: LThK IV (1995) 953 s.
12 Ignazio di Antiochia, Ad Pol III,2; Ad Eph III,2; Ireneo di Lione, Adv. haer. IV,20,4; Tertulliano, De
carne Christi,V,4; Adv. Marcionem II, 16,3; 27,7
13 Cfr. U. Köpf, Art. Kreuz IV, in: TRE 19 (1990) 753-756; E. M. Faber, Art. Kreuzestheologie, in: LThK
VI (1997) 453 s.
14 La teologia della croce di Lutero si trova già nella disputa di Heidelberg del 1518, in: WA 1, 353-365;
essa poi attraversa l’intera opera dei riformatori. Cfr. W. v. Loewenich, Luthers Theologia crucis,
München 1929.
15 Hegel, Phänomenologie des Geistes (ed. Hoffmeister), 539-548; Vorlesungen über die Philosophie der
Religion, 277-308.
16 Su questo sviluppo della cristologia della kenosi nei secoli XVI, XVII e XIX, e sulla riscoperta di
Lutero nella prima metà del XX secolo, P. Althaus, H. Vogel und P. Brunner. Cfr. W. Pannenberg,
Grundzüge der Christologie, Göttingen 1964, 317-334. Fuori dalla nostra disamina in questo contesto
rimane anche la letteratura in lingua inglese sulla teologia della kenosi, in particolare sulla teologia
processuale. Cfr. H.U. von Balthasar, Theodramatik IV, 201, Anm. 4; 211-213.
17 K. Barth, Kirchliche Dogmatik IV/1, § 59, 171-210; J. Moltmann, Der gekreuzigte Gott. Das Kreuz
Christi als Grund und Kritik christlicher Theologie, Gütersloh 1972; E. Jüngel, Gott als Geheimnis der
18 Y. Congar, Regards et réflexions sur la christologie de Luther, in: Das Konzil von Chalkedon, Vol.3,
Würzburg 1959, 457-486; H. Blaumeister, Art. Kreuzestheologie II, in: LThK VI (1997) 455 s.
19 T. Spidlik, L’idea russa una altra visione dell’uomo, Roma 1995, 29 s.
20 Bulgakow, Du Verbe incarné, Paris 1943 ; L’Épouse de L’Agneau, Lausanne 1984.
21 Una presentazione riassuntiva in T. Spidlik, a.a.O. 59-63.
22 Per una comprensione della visione olistica della sofiologia cfr. T. Spidlik, a.a.O. 351-376.
23 Questa critica in H. U. von Balthasar, Mysterium paschale, in: Mysal III/2, Einsiedeln 1969, 152 s.
24 St. P. Breton, E. Przywara, K. Rahner, H. Küng, J. Galot, H. Mühlen, W. Kasper, Jesus der Christus,
Mainz 1974, 196-199; 214-219; Der Gott Jesu Christi, 241-245.
25 H. U. von Balthasar, Mysterium paschale, in: Mysal. III/2, 133-326; Theodramatik III, 297-309; IV,
191-243.
 26 M. Hengel, Der unterschätzte Petrus, Tübingen 2006.
27 Anche W. Pannenberg, a.a.O. 327, che rimane critico nei confronti della teologia della kenosi.
28 Cfr. H. Riesenfeld, Art. uper, in: ThWNT VIII (1969) 510-518.
29 K..H. Menke, Art. Stellvertretung. V., in: LThK IX (2000) 955.
30 L’espressione “Wieder-gut-machung” in tedesco (ripristinare il bene) viene intesa qui in un senso più
ampio rispetto alla teoria della soddisfazione di Anselmo da Canterbury. Cfr. W. Kasper, Jesus der
Christus, 260-263.
31 Paolo 2 Cor 8, 9 ne getta le basi; formulato esplicitamente in Ireneo di Lione, Adv. haereses III, 19,;
fondamentale per la cristologia in Atanasio, De incarn. 54. Cfr. H. U. von Balthasar, Theodramatik III,
226-230; E.M. Faber, Art. commercium, in: LThK II (1994) 1274 s.
32 K.-H. Menke, Stellvertretung Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologische Grundkate-gorie,
Freiburg i.Br.2 1997; Art. Stellvertretung I-IV, in: LThK IX (2000) 951-956; E. M. Faber, Der
Selbsteinsatz Gottes, Würzburg 1995.
33 Cfr. H. Gese, Psalm 22 und das Neue Testament, in: ZThK 65 (1968) 1-22.
34 Cfr. E. Käsemann, Kritische Analyse von Phil 2,5-11, in: Exegetische Versuche und Besinnungen,
Vol.1, Göttingen 1960, 51-95; J. Gnilka, Der Philipperbrief, Freiburg i.Br. 1968, 112-131; R.
Schnackenburg, Mysal III/1, 309-322; H.U. von Balthasar, Mysal III/2, 143-158.
35 Cfr. W. Kasper, Jesus der Christus, 185 s.
36 Agostino, Sermone IV,5.
37 Agostino, In Jo XII, 10 s.
38 K. Rahner ha espresso l’assioma: “La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa”
(Osservazioni sul trattato dogmatico “De Trinitate”, in: Schriften zur Theologie, Vol. IV, , Einsiedeln
1960, 115); Der dreifaltige Gott als transzendenter Urgrund der Heilsgeschichte, in: Mysal II (1967) 328.
Su questa problematica cfr. W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, 333-337; H.U. von Balthasar,
Theodramatik III, 297-305.
39 Cfr. W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, 241-245; sviluppato ulteriormente in G. Greshake, Der dreieine
Gott. Eine trinitarische Theologie, Freiburg i. Br. 1997.
40 Agostino, De Trinitate VIII,10: „Ecce tria sunt, amans et quod amatur et amor.“
41 Cfr. W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, 266 s.

42 W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, 323; 354 ss, 373. Sull’attualità della questione di fronte al problema
del monoteismo cfr. M. Striet, Monotheismus und Kreuz, in. IkaZ Communio 32 (2003) 273-284.
43 Secondo l’espressione molto citata di D. Bonhoeffer, Wiederstand und Ergebung, München 1970, 394.
44 H. U. von Balthasar, Mysal III, 152 s.
45 Origene, Homelia in Ez. VI,8.
46 Cfr. J. Ratzinger, Einführung in das Christentum, München 1968, 142-150; K. Hemmerle, Thesen zu
einer trinitarischen Ontologie, Einsiedeln 1976; W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, 354; 377; G. Greshake,
a.a.O. 457-460.

47 S. Kierkegaard, Die Tagebücher 18834-1855, München 1949, 239 f; K. Barth, Kirchliche Dogmatik
II/1, 597; Th. Pröpper, Art. Allmacht III, in: LThK I (1993) 416.
48 Critici su questa posizione di Balthasar: K. Rahner, Schriften zur Theologie, Vol. 15, 1983, 211s; Karl
Rahner im Gespräch, ed. da P. Imhof und H. Biallowons, Vol. 1, München 1982, 245 s.
49 La teologia della croce in questo contesto in K. Kitamori, Theologie des Schmerzes Gottes, Göttingen
1972.
50 Cfr. H. Schürmann, Jesu ureigener Tod. Exegetische Besinnungen und Ausblick, Freiburg i. Br. 1975,
130-155.