martedì 20 marzo 2012

La leggenda di San Giovanni Ospitaliere

Questa mattina  ascoltavo da padre Serafino Tognetti il racconto della vita ( o della leggenda, chissà, ma poco importa...) di un tipo davvero interessante. Di seguito il testo, da "Tre Racconti" di Gustave Flaubert.
Una lettura indicata per la Quaresima...
La leggenda di San Giovanni Ospitaliere
da
"Tre racconti"





1.
Il padre e la madre di Giuliano abitavano in un castello in mezzo ai boschi, sul pendio di una collina.
Le quattro torri agli angoli avevano tetti a punta coperti di lamelle di piombo e la base delle mura poggiava su blocchi di roccia che cadevano a strapiombo fin giù nei fossati.
Il selciato del cortile era liscio come il pavimento di una chiesa. Lunghe grondaie, raffiguranti draghi con le fauci in giù, sputavano l'acqua piovana verso la cisterna; e sul davanzale delle finestre, ad ogni piano, in un vaso di argilla dipinta, spuntava un basilico o un eliotropio.
Una seconda cinta fatta di pali delimitava prima un frutteto, quindi un'aiuola dove i fiori si combinavano a formare delle cifre, poi un pergolato con delle nicchie per prendere il fresco, infine uno spiazzo per la pallamaglio che serviva al divertimento dei paggi. Dall'altro lato si trovavano il canile, le scuderie, il forno, il frantoio e i granai. Un pascolo di erba verde si stendeva tutt'attorno, chiuso a sua volta da una larga siepe di rovi.
Si viveva in pace da così lungo tempo che la saracinesca non si abbassava più; i fossati erano pieni d'acqua, le rondini facevano il nido tra le punte dei merli; l'arciere, che durante tutto il giorno passeggiava su e giù sulla cortina, appena il sole bruciava troppo rientrava nella garitta, e si addormentava come un frate.
All'interno, gli arredi di metallo brillavano dappertutto; nelle camere gli arazzi proteggevano dal freddo; e gli armadi erano stracolmi di biancheria, le botti di vino si ammonticchiavano nelle cantine, i forzieri di quercia scricchiolavano sotto il peso dei sacchi di monete.
Nella sala d'armi si vedevano, tra stendardi e teste di animali feroci, armi di ogni tempo e di tutte le nazioni, dalle fionde degli Amaleciti e i giavellotti dei Garamanti alle daghe dei Saraceni e alle cotte di ferro dei Normanni.
Lo spiedo grande della cucina poteva arrostire un bue; la cappella era sontuosa come l'oratorio d'un re. C'era anche, in un luogo appartato, un calidario alla romana; ma il buon signore non l'usava, considerandolo una abitudine da idolatri.
Sempre avvolto in una pelliccia di volpe, girava per la casa, rendeva giustizia ai vassalli, sedava le liti dei vicini. Durante l'inverno guardava i fiocchi di neve cadere, oppure si faceva leggere delle storie. Alle prime belle giornate, se ne andava sulla sua mula lungo piccoli sentieri, costeggiando le spighe ancora verdi e conversava con i villani, ai quali dava consigli.
Dopo molte avventure, aveva preso in moglie una damigella di alto lignaggio.
Era di pelle bianchissima, un po' altera e seria. I corni del copricapo sfioravano gli architravi delle porte; la coda del suo abito di panno strisciava a tre passi da lei. La sua vita domestica era regolata come all'interno di un monastero; ogni mattina assegnava il lavoro alle serve, sorvegliava le conserve e gli unguenti, filava alla conocchia o ricamava tovaglie d'altare.
A forza di pregare Dio, le arrivò un figlio.
Allora ci furono grandi festeggiamenti, e un banchetto che durò tre giorni e quattro notti alla luce delle fiaccole al suono delle arpe, su tappeti di frasche. Si mangiarono le spezie più rare, con polli grossi come montoni; per scherzo un nano saltò fuori da un timballo, e, non bastando più le coppe, poiché la folla aumentava sempre, furono costretti a bere negli olifanti e negli elmi.
La puerpera non assistette a quelle feste. Se ne stava nel suo letto, tranquillamente. Una sera si svegliò, e intravide, sotto un raggio di luna, un'ombra che si muoveva. Era un vecchio vestito di un saio di rozzo panno, con un rosario alla vita, una bisaccia sulla spalla, in tutto simile ad un eremita. Si avvicinò al suo capezzale e le disse, senza dischiudere le labbra:
"Rallegrati, o madre! tuo figlio sarà un santo!".
Lei stava per gridare; ma scivolando sul raggio di luna, egli s'innalzò lentamente nell'aria, poi scomparve. I canti del banchetto esplosero più forti. Lei udì le voci degli angeli; e il capo le ricadde sul guanciale, sovrastato da un osso di martire incorniciato da rubini.
Il giorno dopo tutti i servitori interrogati dichiararono di non aver visto nessun eremita. Sogno o realtà che fosse, doveva essere un messaggio del cielo; ma lei fece attenzione a non dire nulla, temendo che l'accusassero di superbia.
I convitati se ne andarono alle prime luci; e il padre di Giuliano si trovava fuori della porticina esterna, dove aveva appena accompagnato l'ultimo ospite, quando improvvisamente un mendicante si fece avanti nella nebbia. Era uno zingaro con la barba a treccioline, anelli d'argento alle braccia e le pupille fiammeggianti. Balbettò con aria ispirata queste parole sconnesse:
"Ah! Ah! tuo figlio!... molto sangue!... molta gloria!... sempre felice! la famiglia di un imperatore".
E chinandosi per raccogliere l'elemosina, si perse nell'erba, svanì. Il buon castellano guardò a destra e a sinistra, chiamò finché poté. Nessuno! Il vento fischiava, le brume del mattino si dileguavano.
Attribuì questa visione alla stanchezza della mente per aver dormito troppo poco. "Se ne parlo rideranno di me", si disse.
Tuttavia gli splendori destinati a suo figlio lo abbagliavano, anche se la promessa non era chiara ed egli dubitasse persino di averla sentita.
Gli sposi si nascosero i loro segreti. Ma tutti e due amavano il figlio di pari amore; e, rispettandolo come segnato da Dio, ebbero per lui infiniti riguardi. Il suo lettino era imbottito della piuma più fine; una lampada a forma di colomba vi ardeva sopra, continuamente; tre balie lo cullavano; e ben avvolto nelle fasce, la faccia rosea e gli occhi azzurri, con il suo mantello di broccato e la cuffia tempestata di perle, sembrava un Gesù Bambino. I denti gli spuntarono senza che piangesse una sola volta.
Quando ebbe sette anni, la madre gli insegnò a cantare. Per renderlo coraggioso, il padre lo mise in groppa a un grosso cavallo. Il bambino, contento, sorrideva, e così non tardò molto a conoscere tutto ciò che riguarda i destrieri.
Un vecchio monaco molto sapiente gli insegnò la Sacra Scrittura, la numerazione araba, le lettere latine, e a fare eleganti miniature su pergamena finissima. Lavoravano insieme in cima a una torretta, lontano dai rumori.
Finita la lezione scendevano in giardino, dove, andando passo passo, studiavano i fiori.
A volte si vedeva, in fondo alla valle, una fila di bestie da soma, condotte da un uomo a piedi, vestito all'orientale. Il castellano, che l'aveva riconosciuto come mercante, gli mandava incontro un domestico. Lo straniero, rinfrancato, deviava dal suo cammino; e, introdotto nel parlatoio, tirava fuori dai suoi bauli gioielli, aromi, oggetti strani dall'uso sconosciuto; alla fine il brav'uomo se ne andava, con un grosso guadagno, senza aver subito nessuna violenza. Altre volte, un gruppo di pellegrini bussavano alla porta. I loro abiti bagnati fumavano davanti al camino; poi, quando erano sazi, raccontavano i loro viaggi, le peripezie delle navi sul mare schiumoso, le marce a piedi nelle sabbie ardenti, la ferocia dei pagani, le grotte della Siria, il Presepio e il Sepolcro. Poi davano al giovane signore qualche conchiglia cucita alle loro vesti.
Spesso il castellano faceva festa con i suoi vecchi compagni d'armi. Mentre bevevano, rievocavano le battaglie, gli assalti alle fortezze in mezzo al fragore delle macchine da guerra e le portentose ferite. Giuliano, che li ascoltava, esplodeva in grida; e così il padre non dubitava che un giorno sarebbe diventato un conquistatore. Ma alla sera, all'uscita dall'Angelus, quando passava tra i poveri che piegavano la testa, metteva mano alla borsa con tanta modestia e tanta nobiltà nel portamento che la madre era sicura di vederlo, in un futuro, arcivescovo.
Il suo posto nella cappella era a fianco dei genitori; e per quanto lunghe fossero le funzioni, rimaneva genuflesso sul suo inginocchiatoio, il berretto in terra e le mani giunte.
Un giorno, durante la messa, vide, alzando la testa, un topolino bianco che usciva da un buco del muro. Trotterellò sul primo gradino dell'altare, e dopo due o tre giri a destra e a sinistra, fuggì dalla stessa parte. La domenica seguente, l'idea di poterlo rivedere lo turbò. Il topo ritornò; e ogni domenica lui lo aspettava, ne era infastidito; cominciò a odiarlo, e decise di ucciderlo.
Dopo aver chiuso la porta e sparso sui gradini le briciole di un dolce, si appostò davanti al buco con una bacchetta in mano.
Dopo un bel po' spuntò un muso rosa, e poi l'animaletto tutt'intero. Giuliano vibrò un colpo leggero, e rimase stupito davanti a quel corpicino immobile. Una goccia di sangue macchiava la pietra. Lo asciugò subito con la manica, gettò via il topo e non disse niente a nessuno.
Uccellini di ogni specie beccavano i semi nel giardino. Gli venne in mente di mettere dei piselli in una canna cava. Quando udiva cinguettare in un albero si avvicinava pian piano, poi alzava la canna, gonfiava le gote, e gli uccellini gli piovevano sulle spalle così numerosi che non poteva fare a meno di ridere, felice della sua astuzia.
Un mattino, mentre se ne tornava lungo il camminamento, vide sulla cima del bastione un grosso colombo che gonfiava il petto al sole.
Giuliano si fermò ad osservarlo; siccome il muro in quel punto era sbrecciato, si trovò in mano una scheggia. Roteò il braccio, e la pietra abbatté l'uccello che cadde di peso nel fossato.
Si precipitò dabbasso, graffiandosi fra i rovi, frugando dappertutto più svelto di un giovane cane. Il colombo, con le ali spezzate, palpitava ancora impigliato tra i rami di un ligustro.
Il persistere di quella vita irritò il ragazzo. Lo afferrò per strangolarlo; e le convulsioni dell'uccello gli facevano battere il cuore e lo riempivano di una voluttà selvaggia e impetuosa.
All'ultimo sussulto, si sentì mancare.
La sera, a cena, suo padre dichiarò che alla sua età si doveva imparare l'arte venatoria, e andò a cercare un vecchio quaderno che conteneva, in forma di domande e risposte, i punti essenziali della caccia. Un maestro spiegava all'allievo l'arte di addestrare i cani e di addomesticare i falconi, di tendere le trappole, come riconoscere il cervo dai suoi escrementi, la volpe dalle impronte, il lupo dai solchi lasciati sul terreno, il modo giusto di distinguere le loro tracce, come si scovano, dove si trovano di solito le loro tane, quali sono i venti più propizi, insieme all'elenco dei gridi e alle regole per la porzione di preda spettante ai cani.
Quando Giuliano fu in grado di ripetere a memoria tutte queste cose, suo padre gli mise insieme una muta.
Anzitutto vi si notavano ventiquattro levrieri barbareschi, più veloci delle gazzelle, ma facili alla collera, poi diciassette coppie di cani bretoni, picchiettati di bianco su fondo fulvo, saldi nel non mollare la preda, forti di petto e possenti urlatori. Per attaccare il cinghiale e per i suoi passaggi pericolosi, c'erano quaranta grifoni, pelosi come orsi. I mastini di Tartaria, alti quasi come asini, del colore del fuoco, con il dorso largo e il garretto dritto, erano riservati all'inseguimento degli uri. Il mantello nero degli spaniel luccicava come raso, l'uggiolio dei talbot risuonava come quello dei canterini ciechi.
In un cortile a parte latravano, scuotendo la catena e roteando le pupille, otto alani, bestie formidabili, che assaltano al ventre i cavalieri e non hanno paura dei leoni.
Tutti mangiavano pane di frumento, bevevano in abbeveratoi di pietra e avevano nomi squillanti.
La schiera dei falconi, forse, superava in quantità la muta; il buon signore, a forza di denaro, si era procurato terzuoli del Caucaso, sagri di Babilonia, girifalchi di Alemagna, e falchi pellegrini, catturati sulle scogliere, in riva ai mari freddi, in paesi lontani. Erano sistemati in un capannone coperto di stoppie, e attaccati, secondo la taglia, sulla gruccia; davanti avevano una zolla d'erba, dove di tanto in tanto venivano posati perché si sgranchissero. Furono costruiti sacchi, esche, trabocchetti, e ogni altro tipo di ordigni.
Spesso conducevano nella campagna i cani da penna, che subito si mettevano di punta. Allora i battitori, avanzando piano piano, stendevano con cautela sui loro corpi immobili una immensa rete.
Abbaiavano a un preciso comando; le quaglie s'alzavano in volo, e le dame dei dintorni invitate con i loro mariti, i figli, le cameriere, tutti vi si lanciavano sopra e le prendevano facilmente.
Altre volte, per stanare le lepri, battevano il tamburo; le volpi cadevano nelle fosse, oppure una tagliola, chiudendosi, imprigionava la zampa di un lupo.
Ma Giuliano disprezzò quei comodi espedienti, preferiva cacciare lontano dalla gente, con il cavallo e il falcone. Si trattava quasi sempre di un gran tartaretto di Scizia, bianco come la neve.
Il suo cappuccio di cuoio era sormontato da un pennacchio, sonagli d'oro tintinnavano alle sue zampe azzurre. Si teneva saldo sul braccio del padrone mentre il cavallo galoppava e i campi scorrevano via. Giuliano, sciogliendo i lacci, lo lasciava andare di colpo; la bestia ardita saliva nell'aria come una freccia e si vedevano due macchie ineguali volteggiare, congiungersi, poi sparire nell'azzurro. Il falco non tardava a scendere con un uccello dilaniato, posandosi sul guanto di ferro, con le ali frementi.
Così Giuliano ghermì al volo l'airone, il nibbio, la cornacchia e l'avvoltoio.
Suonando il corno, gli piaceva seguire i cani che correvano sul pendio delle colline, saltavano i ruscelli, risalivano verso il bosco; e quando il cervo cominciava a gemere sotto i morsi, si affrettava ad abbatterlo, poi si dilettava della furia dei mastini che divoravano i pezzi dell'animale sulla sua pelle fumante.
Nei giorni di nebbia si inoltrava nella palude per fare la posta alle oche selvatiche, alle lontre e ai germani.
Tre scudieri lo aspettavano, fin dall'alba, ai piedi della scalinata; e il vecchio frate, sporgendosi dal suo abbaino, aveva un bello sbracciarsi per richiamarlo. Giuliano non si girava.
Andava sotto il sole cocente, sotto la pioggia, con la tempesta, beveva l'acqua nel cavo della mano, mangiava, cavalcando, mele selvatiche, se era stanco si riposava sotto una quercia; e ritornava nel cuore della notte, coperto di sangue e di fango, con spini nei capelli, con addosso l'odore delle bestie feroci.
Diventò come loro. Quando la madre lo abbracciava, accoglieva con freddezza la sua stretta, sembrava assorto in meditazioni.
Uccise orsi a colpi di coltello, tori con l'ascia, cinghiali con lo spiedo; e una volta accadde perfino che non essendogli rimasto altro che un bastone, si difendesse con quello dai lupi che divoravano cadaveri ai piedi di una forca.
Un mattino d'inverno, partì prima di giorno, ben equipaggiato, con una balestra sulla spalla e la faretra piena di frecce appesa all'arcione della sella.
Il suo ginetto danese, seguito da due bassotti, trottando con passo regolare, faceva vibrare il terreno. Gocce di brina gelata gli si attaccavano al mantello; soffiava una violenta tramontana.
Una parte dell'orizzonte si schiarì, e nella luce livida del crepuscolo vide dei conigli saltellare sull'orlo delle loro tane.
I due bassotti subito si avventarono su di loro e furiosamente spezzavano loro la schiena, mordendoli all'impazzata.
Poco dopo entrò in un bosco; in cima a un ramo, un gallo cedrone intorpidito dal freddo dormiva con la testa sotto l'ala. Con un colpo di spada gli recise le zampe e continuò la sua strada senza raccoglierlo.
Tre ore dopo, si trovò sulla vetta di una montagna così alta che il cielo sembrava quasi nero. Davanti a lui, una roccia simile ad una muraglia scendeva a picco su un precipizio; e sulla cima dello strapiombo, due caproni selvatici fissavano l'abisso. Trovandosi senza frecce (perché il suo cavallo era rimasto indietro), pensò di scendere fino ad essi; piegato in due, a piedi nudi, raggiunse finalmente il primo caprone e gli affondò il pugnale sotto le costole. Il secondo, terrorizzato, saltò nel vuoto. Giuliano si lanciò per colpirlo, e, scivolando col piede destro, cadde sul cadavere dell'altro, la faccia sull'abisso e le braccia spalancate.
Ridiscese quella pianura, seguì i salici che costeggiavano un fiume. Delle gru che volavano bassissime gli passavano sulla testa. Giuliano le abbatteva con la frusta, e non ne mancò una.
Nel frattempo l'aria più tiepida aveva sciolto la brina, grandi vapori fluttuavano, e comparve il sole. Egli vide brillare in lontananza un lago gelato, che pareva di piombo. In mezzo al lago c'era una bestia che Giuliano non conosceva, un castoro dal muso nero. Nonostante la distanza, una freccia lo abbatté; e gli dispiacque di non poterne portar via la pelle.
Poi si inoltrò lungo un viale di grandi alberi, le cui cime formavano come un arco di trionfo all'entrata di una foresta. Un capriolo balzò fuori da una forra, un daino comparve ad un bivio, un tasso uscì da una buca, un pavone sull'erba dispiegò la coda; e quando li ebbe uccisi tutti comparvero altri caprioli, altri daini, altri tassi, altri pavoni, e merli, gazze, faine, volpi, ricci, linci, una miriade di bestie, ad ogni passo più numerose.
Gli giravano intorno, tremanti, con uno sguardo pieno di dolcezza e di implorazione. Ma Giuliano non smetteva di ucciderle, ora con la balestra, ora sguainando la spada, ora vibrando coltellate, e non pensava più a nulla, non aveva memoria di nulla. Stava cacciando in un paese senza nome, da un tempo indeterminato, per il solo fatto di esistere, e tutto si compiva con la facilità che si prova nei sogni. Uno spettacolo straordinario lo fece fermare.
Un branco di cervi riempiva un vallone che aveva la forma di un circo; stavano gli uni addosso agli altri, e si scaldavano col fiato che si vedeva fumare nella nebbia.
Per qualche minuto, la speranza di una simile carneficina gli mozzò il respiro dal piacere. Poi scese da cavallo, si rimboccò le maniche e cominciò a tirare.
Al sibilo della prima freccia, tutti i cervi insieme voltarono la testa, nel mucchio si aprirono dei vuoti, si alzarono dei gemiti, e un gran subbuglio agitò il branco.
La sponda del vallone era troppo alta perché potessero superarla.
Saltavano in quello stretto cercando scampo. Giuliano mirava, tirava. E le frecce cadevano come sferzate di pioggia nella tempesta. I cervi infuriati si urtavano, si impennavano, montavano gli uni sugli altri; e i loro corpi con le corna ramose aggrovigliate formavano una massa che, spostandosi, crollava.
Alla fine, distesi sulla sabbia, morirono con la bava alle narici, sventrati, e il palpito del loro ventre si affievoliva a poco a poco. Poi tutto fu immobile.
Stava per calare la notte; e dietro al bosco, negli spiragli tra i rami, il cielo era rosso come una coltre di sangue.
Giuliano si appoggiò ad un albero. Contemplava con gli occhi spalancati l'enormità di quel massacro, e non riusciva a capire come avesse potuto farlo.
Dall'altro lato del vallone, sul limitare del bosco, scorse un cervo, una cerva e il loro piccolo.
Il cervo, che era nero e di statura prodigiosa, aveva corna con sedici ramificazioni e una barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte, brucava l'erba; e il cerbiatto dal pelo maculato, senza intralciarle il passo, poppava alla mammella.
Ancora una volta la balestra sibilò. Il cerbiatto, subito, fu ucciso. Allora la madre, guardando il cielo, bramì con voce profonda, straziante, umana. Giuliano, esasperato, con un colpo in pieno petto l'abbatté.
Il grande cervo lo aveva visto, fece un balzo. Giuliano gli scagliò la sua ultima freccia. Essa lo raggiunse alla fronte, e vi rimase conficcata.
Il grande cervo non sembrò sentirla; scavalcando i cadaveri continuava ad avanzare, stava per piombargli addosso e sventrarlo; Giuliano indietreggiava preso da una paura indicibile. Il mirabile animale si fermò; e con gli occhi fiammeggianti, solenne come un patriarca e come un giustiziere, ripeté tre volte, mentre lontano rintoccava una campana:
"Che tu sia maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, mostro feroce, assassinerai tuo padre e tua madre!".
Piegò le ginocchia, chiuse lentamente gli occhi e morì.
Giuliano fu sbalordito, poi oppresso da una stanchezza improvvisa; e un disgusto, una tristezza immensa s'impadronirono di lui. Con la fronte tra le mani, pianse a lungo.
Il suo cavallo era perduto; i cani lo avevano abbandonato; la solitudine che lo circondava gli sembrò carica di minacce e di vaghi pericoli. Allora, spinto da un impulso di terrore, si mise a correre attraverso i campi; scelse a caso un sentiero, e si ritrovò quasi di colpo alla porta del castello.
Quella notte non dormì. Alla luce tremolante della lampada appesa rivedeva sempre il grande cervo nero. La sua predizione lo ossessionava; si rivoltava contro di essa. "No! no! no! non posso ucciderli!" poi pensava: "E se lo volessi invece?..." e aveva paura che il diavolo gliene ispirasse il desiderio.
Per tre mesi la madre angosciata pregò al suo capezzale, e il padre, gemendo, vagava senza riposo per i corridoi. Fece venire i più famosi medici speziali che gli prescrissero una quantità di farmaci. Il male di Giuliano, dicevano, era provocato da un vento funesto, o da un desiderio d'amore. Ma il giovane, a tutte le domande, scuoteva il capo.
Gli ritornarono le forze; e lo facevano passeggiare nel cortile, accompagnato dal vecchio frate e dal buon signore che lo sorreggevano ciascuno per un braccio.
Quando fu completamente ristabilito, si ostinò a non andare più a caccia.
Suo padre, volendo che ridiventasse allegro, gli regalò una grande spada saracena. Essa faceva parte di un'armatura posta in cima ad una colonna. Per raggiungerla ci volle una scala. Giuliano vi salì. La spada, troppo pesante, gli cadde di mano, e cadendo sfiorò il buon signore cosi da vicino che la sua palandrana ne fu tagliata; Giuliano pensò di avere ucciso suo padre, e svenne.
Da quel momento ebbe paura delle armi. La vista d'una lama sguainata lo faceva impallidire. Quella sua fragilità era una desolazione per la famiglia.
Alla fine il vecchio frate, in nome di Dio, dell'onore e degli avi, gli ordinò di riprendere le sue attività di gentiluomo.
Tutti i giorni, gli scudieri si divertivano al lancio del giavellotto. Ben presto Giuliano vi primeggiò. Lanciava il suo dritto nel collo delle bottiglie, spezzava i denti delle banderuole, colpiva i chiodi delle porte da una distanza di cento passi.
Una sera d'estate, nell'ora in cui la nebbia rende indistinte le cose, mentre era sotto la pergola del giardino, scorse nel fondo due ali bianche che svolazzavano all'altezza della siepe. Non dubitò che fosse una cicogna; e lanciò il giavellotto.
Si udì un grido lacerante.
Era sua madre, rimasta con i lunghi nastri del suo copricapo inchiodati alla parete.
Giuliano fuggì dal castello, e non ricomparve più.
2.
Si arruolò in una banda di soldati di ventura che passavano.
Conobbe la fame, la sete, le febbri e i pidocchi. Si abituò al fracasso delle mischie, alla vista dei moribondi. Il vento gli scurì la pelle. Le sue membra si indurirono al contatto con le armi; e siccome era molto forte, coraggioso, temperante, accorto, ottenne senza fatica il comando di una compagnia.
All'inizio delle battaglie infondeva slancio ai suoi con un ampio gesto della spada. Con una corda a nodi, si arrampicava sui muri delle cittadelle, la notte, sballottato dall'uragano, mentre le fiammelle del fuoco greco gli si appiccicavano alla corazza, e la resina bollente e il piombo fuso colavano giù dai merli. Spesso il colpo di una pietra gli fracassò lo scudo. Ponti sovraccarichi di uomini crollarono sotto di lui. Facendo roteare la mazza ferrata, si sbarazzò di quattordici cavalieri. Affrontò, in campo chiuso, tutti quelli che lo sfidavano. Fu creduto morto più di venti volte.
Grazie al favore divino, la scampò sempre; perché lui proteggeva gli uomini di chiesa, gli orfani, le vedove, e soprattutto i vecchi. Quando ne vedeva uno camminargli davanti, gridava per vederlo in faccia, come se avesse avuto paura di ucciderlo per errore.
Schiavi in fuga, contadini in rivolta, bastardi senza beni, intrepidi di ogni sorta affluirono sotto la sua bandiera, e così si formò intorno a lui un esercito. L'esercito si ingrossò. Egli divenne famoso. Era cercato da tutti.
Soccorse, di volta in volta, il delfino di Francia, il re d'Inghilterra, i templari di Gerusalemme, il surena dei Parti, il negus d'Abissinia e l'imperatore di Calcutta. Combatté Scandinavi ricoperti di scaglie di pesce, Negri muniti di rondacce di cuoio di ippopotamo e che cavalcavano asini rossi. Indiani color oro che, al di sopra dei loro diademi, brandivano grandi sciabole, più lucenti di specchi. Vinse i Trogloditi e gli Antropofagi.
Attraversò regioni così torride che al calore del sole le capigliature prendevano fuoco come fiaccole, e altre così gelide che le braccia, staccandosi dal corpo, cadevano a terra; e paesi dove vi era tanta nebbia che si camminava attorniati da fantasmi.
Repubbliche in difficoltà lo consultarono. Nei colloqui con gli ambasciatori otteneva condizioni insperate. Se un monarca si comportava troppo male, egli arriva all'improvviso e gli faceva sentire le sue rimostranze. Affrancò popoli. Liberò regine rinchiuse nelle torri. Fu lui, e non altri, che schiacciò la serpe di Milano e il drago di Oberbirbach.
Ad un certo punto accadde che l'imperatore di Occitania, avendo trionfato sui Musulmani spagnoli, si fosse unito in concubinaggio con la sorella del califfo di Cordova; e ne ebbe una figlia che teneva con sé e aveva allevato cristianamente. Ma il califfo, fingendo di volersi convertire, andò a fargli visita accompagnato da una numerosa scorta, gli massacrò tutta la guarnigione e lo precipitò nella più profonda segreta, dove lo trattava duramente per estorcergli tesori.
Giuliano accorse in suo aiuto, distrusse l'esercito degli infedeli, assediò la città, uccise il califfo, gli mozzò la testa, e la buttò come una palla al di là dei bastioni. Liberò di prigione l'imperatore e lo ristabilì sul trono, in presenza di tutta la corte.
In premio di tale aiuto, l'imperatore gli offrì ceste colme di denaro; Giuliano lo rifiutò. Credendo che ne volesse di più, gli offrì i tre quarti delle sue ricchezze; nuovo rifiuto. Poi gli propose di dividere con lui il suo regno; Giuliano lo ringraziò; e l'imperatore piangeva di rabbia, non sapendo in che modo testimoniargli la sua riconoscenza, quando di colpo si batté la fronte, disse una parola all'orecchio di un cortigiano; le cortine di una tenda arabescata si aprirono e apparve una fanciulla.
I suoi grandi occhi neri brillavano come lumi dolcissimi. Un sorriso incantevole le schiudeva le labbra. I capelli inanellati le si impigliavano nelle gemme della veste semiaperta; e, sotto la trasparenza della tunica, si indovinava la giovinezza del suo corpo. Era molto graziosa, ben tornita e con la vita sottile.
Giuliano fu preso d'amore, tanto più che la sua esistenza era stata fino ad allora castissima.
E così prese in sposa la figlia dell'imperatore, ed ebbe un castello che lei aveva ereditato dalla madre. Terminata la cerimonia nuziale, essi se ne andarono, dopo infinite cortesie da entrambe le parti.
Era un palazzo di marmo bianco in stile moresco, costruito su un promontorio, in mezzo ad un bosco di aranci. Terrazze di fiori scendevano fin sulla riva di un golfo, dove conchiglie rosa crepitavano sotto i passi. Dietro al castello si apriva una foresta a forma di ventaglio. Il cielo era perennemente azzurro, e gli alberi si piegavano ora alla brezza del mare, ora al vento delle montagne che, lontane, chiudevano l'orizzonte.
Le stanze, pervase di crepuscolo, erano rischiarate dai preziosi rivestimenti dei muri. Alte colonnine, sottili come canne, sostenevano la volta delle cupole, decorate di rilievi che imitavano le stalattiti delle grotte.
C'erano zampilli d'acqua nelle sale, mosaici nei cortili, pareti traforate, mille squisitezze architettoniche, e ovunque un tale silenzio che si poteva udire il fruscio di un velo o l'eco di un sospiro.
Giuliano non faceva più guerre. Si riposava, circondato da un popolo pacifico; e ogni giorno una folla gli passava davanti, con inchini e baciamani secondo l'uso orientale.
Vestito di porpora, se ne stava appoggiato coi gomiti nel vano di una finestra, ricordando le sue cacce di un tempo; e avrebbe voluto inseguire nel deserto le gazzelle e gli struzzi, star nascosto tra i bambù a fare la posta ai leopardi, attraversare foreste piene di rinoceronti, raggiungere la vetta delle montagne più inaccessibili per osservare meglio le aquile, e combattere gli orsi bianchi sul mare ghiacciato.
A volte, in sogno, si vedeva come nostro padre Adamo al centro del Paradiso, tra tutti gli animali; stendendo il braccio li faceva morire; oppure, gli sfilavano davanti, a due a due, in ordine di grandezza, dagli elefanti e dai leoni fino alle anatre e agli ermellini, come il giorno in cui erano entrati nell'Arca di Noè.
All'ombra di una caverna scoccava su di essi infallibili giavellotti; ma altri se ne aggiungevano, senza fine; e si svegliava stralunato, con occhi feroci.
Alcuni prìncipi suoi amici lo invitarono a caccia. Egli rifiutò sempre, credendo con quella specie di penitenza di allontanare da sé la sua sventura; perché gli sembrava che dall'uccisione degli animali dipendesse il destino dei suoi genitori. Ma soffriva di non vederli, e questa mancanza gli diventava intollerabile.
Per distrarlo, sua moglie fece venire giocolieri e danzatrici.
Passeggiava con lui in campagna, su una portantina aperta; a volte, sdraiati sul bordo d'una barca, guardavano i pesci vagare nell'acqua, limpida come il cielo. Spesso lei gli gettava fiori sul viso; accoccolata ai suoi piedi, improvvisava melodie su una mandola a tre corde; poi, posandogli sulla spalla le mani giunte, diceva con voce timida: "Cosa mai vi rattrista, dolce signore?".
Egli non rispondeva, o scoppiava in singhiozzi; infine un giorno confessò la sua tremenda angoscia.
Lei lo contestò con un ragionamento molto lucido: suo padre e sua madre probabilmente erano morti; e se anche li avesse rivisti, per qual caso, per quale scopo, sarebbe giunto ad una simile infamia?
Quindi il suo timore non era giustificato, e doveva rimettersi a cacciare.
Giuliano l'ascoltava sorridendo, ma non si decideva a soddisfare il suo desiderio.
Una sera d'agosto erano nella loro stanza; lei si era appena coricata e lui si inginocchiava per recitare le preghiere, quando udì il guaito di una volpe, poi dei passi leggeri sotto la finestra; e gli sembrò di vedere delle forme d'animali. La tentazione era troppo forte.
Staccò la faretra.
Lei parve sorpresa.
"E' per obbedirti!" disse. "Al levar del sole sarò di ritorno".
Ma lei temeva un'avventura funesta.
Lui la rassicurò, poi uscì, stupito dall'incoerenza dell'umore della moglie.
Poco dopo, un paggio le annunziò che due sconosciuti, in assenza del signore, chiedevano della signora, immediatamente. Subito entrarono nella camera un vecchio e una vecchia, curvi, polverosi, vestiti di tela, appoggiandosi ognuno ad un bastone.
Si fecero animo e annunciarono di portare a Giuliano notizie dei suoi genitori.
Lei si chinò per ascoltarli.
Ma, dopo essersi scambiati uno sguardo d'intesa, le chiesero se egli li amava ancora, se qualche volta parlava di loro.
"Oh! sì!" fece lei.
Allora, essi esclamarono:
"Ebbene! siamo noi!". E si sedettero, perché erano molto stanchi e sfiniti dalla fatica. Niente garantiva alla giovane sposa che suo marito fosse loro figlio.
Ma essi ne diedero la prova descrivendo alcuni segni particolari che lui aveva sulla pelle.
Lei saltò giù dal letto, chiamò il suo paggio e fece servire loro una cena.
Nonostante avessero molta fame, non riuscivano quasi a mangiare; lei, in disparte, osservava il tremito delle loro mani ossute quando alzavano i bicchieri.
Fecero mille domande su Giuliano. Lei rispose a tutte, ma ebbe cura di tacere l'angoscia che li riguardava.
Erano partiti dal loro castello non vedendolo ritornare; ed erano in cammino da anni e anni, seguendo vaghe indicazioni, senza perdere la speranza. C'era voluto tanto denaro per il pedaggio dei fiumi e nelle locande, per i diritti dei prìncipi e per le richieste dei briganti, così il fondo della loro borsa era vuoto, e adesso mendicavano. Ma che importava, poiché presto avrebbero riabbracciato il loro figlio! E lodavano la sua fortuna di avere una moglie tanto graziosa, e non si stancavano di ammirarla e baciarla.
La ricchezza della casa li sbalordiva; e il vecchio, dopo avere esaminato i muri, chiese come mai vi si trovasse lo stemma dell'imperatore di Occitania.
Lei rispose:
"E mio padre!".
Allora egli trasalì, ricordando la profezia dello zingaro; e la vecchia pensava alle parole dell'Eremita. Senza dubbio, la magnificenza di suo figlio era solo l'alba degli splendori eterni; e tutti e due restavano sbalorditi, sotto la luce del candelabro che illuminava la tavola.
Dovevano essere stati molto belli in gioventù. La madre aveva ancora tutti i capelli, che divisi in due bande sottili, simili a falde di neve, le scendevano fin sotto le guance; e il padre, con la sua alta statura e la grande barba, sembrava una statua di chiesa.
La moglie di Giuliano li pregò di non aspettarlo. Lei stessa li fece stendere nel suo letto, poi chiuse la finestra; si addormentarono. Stava per far giorno, e dietro la vetrata gli uccellini cominciavano a cantare.
Giuliano aveva attraversato il parco; e camminava nella foresta con passo nervoso, godendo dell'erba soffice e dell'aria tiepida.
Le ombre degli alberi si allungavano sul muschio. La luna creava macchie bianche nelle radure, ed egli procedeva esitante, credendo di scorgere una pozza d'acqua o la superficie di stagni silenziosi confuse nel colore dell'erba. Tutto intorno era silenzio; e non scorgeva nessuno degli animali che, pochi istanti prima, vagavano intorno al suo castello.
Il bosco si infittì, l'oscurità divenne fonda. Folate di vento caldo passavano, cariche di odori snervanti. Egli affondava nei mucchi di foglie morte, e si appoggiò ad una quercia per riprendere fiato.
Ad un tratto, alle sue spalle scattò una massa cupa, un cinghiale.
Giuliano non ebbe il tempo di afferrare l'arco, e se ne lamentò come di una disgrazia. Poi, uscito dal bosco, vide un lupo che correva lungo una siepe.
Giuliano gli tirò una freccia. Il lupo si fermò, voltò la testa per guardarlo e riprese la corsa. Correva mantenendo sempre la stessa distanza, di tanto in tanto si fermava, e, appena era sotto mira, riprendeva la fuga.
In tal modo Giuliano attraversò una pianura sconfinata, poi dei monticelli di sabbia, e infine si trovò su un altopiano che dominava una larga parte del territorio. Pietre piatte erano disseminate tra tombe in rovina. Inciampava su ossa di morti; qua e là, croci divorate dai vermi si piegavano miseramente. Ma alcune forme si mossero nell'ombra vaga delle tombe; e ne balzarono fuori delle iene impaurite e ansimanti. Con un secco suono di unghie sulle lapidi, si mossero verso di lui e lo annusavano aprendo le fauci fino a scoprire le gengive. Egli sguainò la sciabola.
Fuggirono tutte insieme in ogni direzione, e continuando nella loro corsa zoppicante e precipitosa scomparvero lontano in una nube di polvere.
Un'ora dopo, incontrò in un burrone un toro furioso, con le corna basse, e che raspava la sabbia con lo zoccolo.
Giuliano gli ficcò la lancia sotto la gola. La lancia si spezzò, come se l'animale fosse stato di bronzo; chiuse gli occhi, aspettando la morte. Quando li riaprì, il toro era scomparso.
Allora la sua anima cedette per la vergogna. Un potere superiore distruggeva la sua forza; e, per tornarsene a casa, rientrò nella foresta.
Essa era tutta intricata di liane; ed egli le tagliava con la sciabola quando una faina gli scivolò improvvisamente tra le gambe, una pantera gli balzò al di sopra della spalla, un serpente si attorcigliò intorno a un frassino.
In mezzo al fogliame c'era una taccola mostruosa, che osservava Giuliano; e, sparse, apparvero tra i rami miriadi di scintille, come se il firmamento avesse fatto piovere nella foresta tutte le sue stelle. Erano occhi d'animali, di gatti selvatici, di scoiattoli, di gufi, di pappagalli, di scimmie.
Giuliano scoccò contro di loro le sue frecce; le frecce piumate si posavano sulle foglie come farfalle bianche. Gettò loro delle pietre; le pietre, senza colpire nulla, ricadevano a terra.
Maledisse se stesso, avrebbe voluto battersi, imprecò, soffocava di rabbia.
E tutti gli animali che aveva inseguito ricomparvero, stringendolo in un cerchio. Alcuni stavano seduti, altri dritti in tutta la loro altezza. E lui era in mezzo, gelato dalla paura, incapace del minimo movimento. Con uno sforzo supremo di volontà, fece un passo; quelli che stavano appollaiati sugli alberi aprirono le ali, quelli che calpestavano la terra mossero le membra; e tutti l'accompagnavano.
Le iene camminavano davanti a lui, il lupo e il cinghiale dietro.
Il toro, alla sua destra, dondolava il muso; e, alla sua sinistra, il serpente ondeggiava nell'erba, mentre la pantera, arcuando il dorso, avanzava a passo di velluto e a grandi falcate. Camminava il più adagio possibile, per non innervosirli, e vedeva uscire dal folto dei cespugli porcospini, volpi, vipere, sciacalli e orsi.
Giuliano si mise a correre; e anch'essi corsero. Il serpente sibilava, le bestie puzzolenti sbavavano. Il cinghiale gli sfregava i talloni con le zanne; il lupo, il palmo delle mani con i peli del muso. Le scimmie lo pizzicavano facendo smorfie; la faina si rotolava sui suoi piedi. Un orso, con una zampata, gli tolse il cappello; e la pantera, sdegnosamente, lasciò cadere una freccia che teneva nelle fauci.
Una certa ironia traspariva dal loro atteggiamento sornione.
Continuando ad osservarlo con la coda dell'occhio, pareva che meditassero un piano di vendetta. Assordato dal ronzio degli insetti, percosso dalle code degli uccelli, soffocato dal fiato delle belve, egli camminava con le braccia tese e gli occhi chiusi come un cieco, senza nemmeno avere la forza per gridare "pietà!".
Il canto del gallo risuonò nell'aria. Altri gli risposero; era giorno; ed egli riconobbe, al di là degli aranceti, la cima del suo palazzo.
Poi, sul ciglio di un campo, a tre passi di distanza, vide pernici rosse che svolazzavano tra le stoppie. Si sfibbiò il mantello e lo gettò su di esse come una rete. Quando lo sollevò, ne trovò solamente una, per di più morta da molto tempo, putrefatta.
Questa delusione lo esasperò più di tutte le altre. La sete di massacro lo riprendeva; in mancanza di bestie, avrebbe voluto sterminare uomini.
Salì le tre terrazze, sfondò la porta con un pugno; ma, ai piedi delle scale, il ricordo della cara sposa placò il suo cuore.
Certamente dormiva e l'avrebbe sorpresa.
Si sfilò i sandali, girò piano la maniglia, ed entrò.
I vetri legati in piombo oscuravano il chiarore dell'alba.
Giuliano inciampò in vesti che giacevano a terra; poco più in là urtò contro una tavola ancora piena di piatti. "Avrà mangiato" si disse; e avanzava verso il letto, perduto nelle tenebre in fondo alla stanza. Quando fu alla sponda, per baciare sua moglie si chinò sul guanciale dove le due teste riposavano una accanto all'altra. Allora ebbe sulle labbra la sensazione di una barba.
Indietreggiò, credendo d'impazzire; ma ritornò accanto al letto, e le sue dita, tastando, incontrarono dei capelli molto lunghi. Per convincersi del suo errore, passò ancora una volta la mano sul guanciale. Era proprio una barba, questa volta, e un uomo! un uomo coricato con sua moglie!
Sconvolto da una collera incontenibile, si avventò su di loro colpi di pugnale; e barcollava, schiumava, con urla da bestia selvaggia. Poi si fermò. I morti, trafitti al cuore, non si erano nemmeno mossi. Ascoltava attentamente i loro rantoli quasi uguali, e man mano che si affievolivano, un altro, lontano, li continuava.
Dapprima incerta, questa voce lamentosa, incessante, si avvicinava, si ingrossò, divenne atroce; ed egli riconobbe, terrorizzato, il bramito del grande cervo nero.
E mentre si voltava, gli sembrò di vedere nel vano della porta l'ombra della moglie, con un lume in mano. Il rumore della strage l'aveva fatta accorrere. Passò intorno lo sguardo, capì tutto e, fuggendo inorridita, lasciò cadere il lume.
Lui lo raccolse.
Suo padre e sua madre gli stavano davanti, distesi supini con uno squarcio nel petto; e i loro visi, di una maestosa dolcezza, sembravano custodire un segreto eterno. Schizzi e macchie di sangue si allargavano sulla loro pelle bianca, sulle lenzuola del letto, per terra, su un crocifisso d'avorio appeso nell'alcova. Il riflesso scarlatto dei vetri colpiti in quel momento dal sole, illuminava quelle chiazze rosse e ne gettava numerose altre nella stanza. Giuliano avanzò verso i due morti ripetendo a se stesso, volendo credere, che non era possibile, che si era ingannato, che vi sono talvolta somiglianze misteriose. Poi si chinò leggermente per osservare bene il vecchio da vicino; e scorse, tra le sue palpebre semichiuse, una pupilla spenta che lo bruciò come fuoco.
Infine si spostò dall'altro lato del letto, occupato dall'altro corpo, con i capelli bianchi che coprivano una parte del viso.
Giuliano passò le dita sotto i capelli, sollevò quella testa, e la osservava tenendola all'estremità del suo braccio irrigidito, mentre con l'altra mano si faceva luce col lume. Dal materasso, gocce stillavano ad una ad una sul pavimento.
Sul finire del giorno si presentò davanti alla moglie e, con voce che non era più la sua, le ingiunse innanzitutto di non rispondergli, di non avvicinarsi a lui, di non guardarlo nemmeno, e di eseguire, pena la dannazione, tutti i suoi ordini, che erano irrevocabili.
I funerali dovevano essere fatti secondo le istruzioni che egli aveva lasciato per iscritto, su un inginocchiatoio, nella camera dei morti. Le lasciava il suo palazzo, i suoi vassalli, tutti i suoi beni, senza nemmeno tenersi i vestiti che aveva indosso, né i sandali, che avrebbero trovato in cima alle scale.
Lei aveva obbedito alla volontà di Dio, dandogli l'occasione del delitto, e doveva pregare per la sua anima, perché lui ormai non esisteva più.
I morti furono sepolti fastosamente, nella chiesa d'un monastero a tre giornate dal castello. Un frate col cappuccio calato seguì il corteo, lontano da tutti gli altri, senza che nessuno osasse parlargli. Restò, durante la messa, disteso bocconi al centro del portale, con le braccia a croce, e la fronte nella polvere.
Dopo la sepoltura, fu visto prendere il cammino che portava alle montagne. Si voltò indietro più volte, e poi scomparve.
3.
Se ne andò mendicando la vita per il mondo.
Tendeva la mano ai cavalieri lungo le strade, si inginocchiava davanti ai mietitori, o se ne stava immobile davanti al recinto dei cortili; e il suo viso era così triste che mai nessuno gli rifiutava l'elemosina.
Per spirito d'umiltà, raccontava la sua storia; allora tutti scappavano via, facendosi il segno della croce. Nei villaggi dove era già passato, appena lo riconoscevano chiudevano le porte, gli lanciavano minacce, gli tiravano sassi. I più caritatevoli posavano una scodella sul davanzale della finestra sotto la tettoia, poi la chiudevano per non vederlo.
Respinto ovunque, evitò gli uomini; e si nutrì di radici, di piante, di frutti buttati via e di molluschi che cercava lungo le spiagge.
A volte, alla svolta di un'erta, vedeva di sotto un ammasso di tetti, di guglie di pietra, ponti, torri, strade nere che si incrociavano, e dalle quali saliva fino a lui un brusio incessante.
Il bisogno di mescolarsi all'esistenza degli altri lo faceva scendere in paese. Ma l'espressione di quei visi da bruti, il frastuono dei mestieri, l'indifferenza dei discorsi gli gelava il cuore. Nei giorni di festa, quando il campanone delle cattedrali spandeva letizia fin dall'alba nel cuore della gente, guardava gli abitanti uscire dalle loro case, poi le danze nelle piazze, le fontane che davano birra ai crocicchi, le tende di damasco davanti alle dimore dei prìncipi, e caduta la sera, attraverso le vetrate dei pianterreni, le lunghe tavolate di famiglia in cui i vecchi tenevano i nipotini sulle ginocchia; allora i singhiozzi lo soffocavano, e se ne tornava verso la campagna.
Contemplava colmo di impeti d'amore i puledri nei pascoli, gli uccelli nei nidi, gli insetti sui fiori; ma al suo avvicinarsi tutti correvano via, si nascondevano impauriti e volavano più lontano.
Cercò le solitudini. Ma il vento portava al suo orecchio lamenti di agonia; le lacrime della rugiada cadendo per terra gli ricordavano altre gocce di un peso più greve. Il sole, tutte le sere, spandeva sangue sulle nuvole; e ogni notte, in sogno, il suo parricidio si ripeteva.
Si fece un cilicio con punte di ferro. Percorse in ginocchio tutte le colline che avevano una cappella sulla vetta. Ma l'implacabile pensiero oscurava lo splendore dei tabernacoli, lo torturava con le macerazioni della penitenza.
Non si ribellava contro Dio che gli aveva inflitto quell'atto, e tuttavia si disperava per averlo potuto commettere.
La sua stessa persona gli faceva un tale orrore che sperando di liberarsene la espose ad ogni pericolo. Salvò paralitici dagli incendi, bambini caduti nel fondo dei burroni. L'abisso lo rifiutava; le fiamme lo risparmiavano.
Il tempo non placò la sua sofferenza. Essa diventava intollerabile. Decise di morire.
E un giorno, mentre si trovava sull'orlo d'un pozzo, e vi si chinava sopra per misurare la profondità dell'acqua, gli apparve davanti un vecchio scarnito, con la barba bianca e un aspetto così pietoso che gli fu impossibile trattenere le lacrime. Anche l'altro piangeva. Senza riconoscere quell'immagine, Giuliano si ricordava confusamente un viso simile a quello. Gettò un grido; era suo padre; e non pensò più a uccidersi.
Così, portando il peso del suo ricordo, percorse molti paesi; e arrivò presso un fiume la cui traversata era pericolosa per la violenza della corrente, e perché sulle sponde c'era una grande distesa di melma. Da molto tempo nessuno osava più attraversarlo.
Una vecchia barca, affondata di poppa, drizzava la prua tra le canne. Giuliano esaminandola scoprì un paio di remi; e gli venne l'idea di mettere la sua esistenza al servizio degli altri.
Cominciò a costruire sulla riva una specie di argine che permettesse di scendere fino al canale; e si spezzava le unghie a smuovere le pietre enormi, se le appoggiava sulla pancia per trasportarle, scivolava nella melma, vi affondava; più volte rischiò di morire.
Poi riparò la barca con relitti di navi, e si fece una capanna con argilla e tronchi d'albero.
Il traghetto divenne noto, e i viaggiatori vi affluivano. Lo chiamavano dall'altra sponda, agitando delle bandiere; Giuliano rapido saltava nella barca. Era pesantissima; e la sovraccaricavano d'ogni sorta di bagagli e di pesi, senza contare le bestie da soma che, scalciando per la paura, aumentavano l'ingombro. Egli non chiedeva nulla per la sua fatica; alcuni gli davano gli avanzi del cibo che tiravano fuori dalle bisacce o i vestiti logori di cui si volevano disfare. I più rozzi urlavano bestemmie. Giuliano li rimproverava con dolcezza, essi rispondevano con ingiurie. Egli si accontentava di benedirli.
Un piccolo tavolo, uno sgabello, un letto di foglie secche e tre scodelle d'argilla erano tutto il suo mobilio. Due buchi nel muro servivano da finestre. Da un lato, si stendevano a perdita d'occhio pianure sterili interrotte qua e là da pallidi stagni; e di fronte a lui il grande fiume scorreva svolgendo i suoi flutti verdastri. In primavera, la terra umida aveva un odore di marcio.
Poi, un vento disordinato sollevava turbini di polvere. Entrava dappertutto, rendeva l'acqua torbida, scricchiolava fra i denti.
Dopo arrivavano nugoli di zanzare che ronzavano e mordevano incessantemente, giorno e notte. Infine, sopraggiungevano tremende gelate che davano alle cose la rigidità della pietra, e inducevano un folle bisogno di mangiare carne.
Passavano mesi senza che Giuliano vedesse qualcuno. Spesso chiudeva gli occhi, cercando con la memoria di tornare alla sua giovinezza; e appariva il cortile di un castello, con levrieri su una scalinata, valletti nella sala d'armi e, sotto un pergolato di pampini, un adolescente con i capelli biondi tra un vecchio coperto di pellicce e una dama dall'alto copricapo; ma di colpo, ecco apparire due cadaveri. Allora si gettava bocconi sul letto, e ripeteva piangendo:
"Ah! povero padre! povera madre! povera madre!".
E cadeva in un torpore in cui le visioni funeste continuavano.
Una notte, mentre dormiva, gli sembrò di sentire qualcuno che lo chiamava. Tese l'orecchio e distinse solo il mugghiare del flutti.
Ma la stessa voce ripeté:
"Giuliano!".
Veniva dall'altra sponda, cosa che gli parve straordinaria, data la larghezza del fiume.
Una terza volta la voce chiamò:
"Giuliano!".
E quella voce alta aveva l'intonazione d'una campana di chiesa.
Accesa la lanterna, uscì dalla capanna. Un uragano furioso riempiva la notte. Le tenebre erano profonde, squarciate qua e là dal biancore delle onde che salivano impetuose.
Dopo un minuto d'esitazione, Giuliano sciolse l'ormeggio. L'acqua si calmò immediatamente, la barca vi scivolò sopra e toccò l'altra sponda, dove un uomo aspettava.
Era avvolto in un telo a brandelli, la faccia simile a una maschera di gesso e gli occhi più rossi delle braci. Avvicinando a lui la lanterna, Giuliano si accorse che era coperto da una lebbra ributtante; tuttavia aveva nel suo atteggiamento una certa regale maestà.
Appena entrò nella barca, questa sprofondò straordinariamente sotto il suo peso; uno scossone la risollevò e Giuliano si mise a remare.
A ogni colpo di remo la risacca dei flutti le sollevava la prua.
L'acqua, più nera dell'inchiostro, correva con furia ai due lati dell'imbarcazione. Scavava abissi, si innalzava a picco, e la scialuppa vi era spinta sopra, e poi ributtata nei gorghi dove girava su se stessa, sballottata dal vento.
Giuliano piegava il corpo, stendeva le braccia e facendo forza sui piedi si rovesciava indietro torcendo il busto per prendere più spinta. La grandine gli frustava le mani, la pioggia gli scorreva per la schiena, la violenza del vento lo soffocava; si fermò.
Allora la barca fu trascinata alla deriva. Ma, consapevole che si trattava di una cosa importante, di un ordine a cui non si poteva disobbedire, riprese i remi; e il battito degli scalmi rompeva il fragore della tempesta.
La piccola lanterna ardeva davanti a lui. Gli uccelli, svolazzando, a tratti gliela nascondevano. Ma sempre scorgeva le pupille del lebbroso che si teneva dritto a poppa, immobile come una colonna.
E tutto questo durò a lungo, molto a lungo!
Quando furono giunti nella capanna, Giuliano chiuse la porta; e lo vide sedersi sullo sgabello. La specie di sudario che lo copriva gli era caduto sui fianchi; e le sue spalle, il suo petto, le sue braccia magre sparivano sotto croste squamose. Enormi rughe gli solcavano la fronte. Come uno scheletro, aveva un buco al posto del naso; e dalle labbra livide usciva un alito denso come nebbia, e fetido.
"Ho fame!".
Giuliano gli dette ciò che aveva, un pezzo di lardo vecchio e avanzi di pane nero.
Dopo che li ebbe divorati, la tavola, la scodella e il manico del coltello avevano le stesse chiazze che si vedevano sul suo corpo.
Poi disse: "Ho sete!".
Giuliano cercò la brocca; e mentre la prendeva, ne uscì un aroma che gli dilatò le narici e il cuore. Era vino; che sorpresa! ma il lebbroso allungò il braccio e vuotò tutta la brocca d'un fiato.
Poi disse: "Ho freddo!".
Giuliano accese con la candela un fascio di felci in mezzo alla capanna.
Il lebbroso si avvicinò per riscaldarsi, e, chinato sui talloni, tremava in tutte le membra, si affievoliva; i suoi occhi non brillavano più, le sue ulcere colavano e, con voce quasi spenta, mormorò: "Il tuo letto!".
Giuliano lo aiutò a trascinarvisi piano piano, e stese su di lui, per coprirlo, anche la tela della sua barca.
Il lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca gli scoprivano i denti, un rantolo affannoso gli scuoteva il petto, e il suo ventre ad ogni inspirazione si incavava fino alle vertebre.
Poi chiuse gli occhi.
"Mi sento il ghiaccio nelle ossa! Vienimi vicino!".
E Giuliano, alzando la tela, si coricò sulle foglie secche, accanto a lui, fianco a fianco.
Il lebbroso girò il viso.
"Spogliati, lasciami ricevere il calore del tuo corpo!".
Giuliano si tolse le vesti; poi, nudo come alla nascita, si rimise sul giaciglio; e sentiva contro la coscia la pelle del lebbroso, più fredda di un serpente e ruvida come una lima.
Cercava di fargli coraggio; e l'altro rispondeva, ansimando:
"Ah! sto morendo!... Avvicinati, riscaldami! Non con le mani! no!
con tutto il tuo corpo".
Giuliano gli si distese sopra completamente, bocca contro bocca, petto su petto.
Allora il lebbroso lo strinse; e i suoi occhi di colpo presero il chiarore delle stelle; i suoi capelli si allungarono come raggi di sole; il soffio delle sue narici aveva il profumo delle rose; una nuvola d'incenso si alzò dal focolare, le onde cantavano. Intanto una profusione di delizie, una gioia sovrumana scendeva su Giuliano estatico inondando la sua anima; e colui le cui braccia lo stringevano sempre, diventava sempre più grande, fino a toccare con la testa e con i piedi i muri della capanna. Il tetto volò via, il firmamento si spalancava; e Giuliano salì verso gli spazi azzurri, col viso contro il viso di Nostro Signore Gesù che lo portava con sé in cielo.
Questa è la storia di san Giuliano Ospitaliere, come la si trova più o meno raccontata sulla vetrata di una chiesa, nel mio paese.