mercoledì 14 marzo 2012

L'umiliazione dell'amore


 



La Maddalena che chiede perdono nella Crocifissione di Francesco Hayez, è l’immagine emblema della terza via crucis quaresimale della diocesi di Milano, guidata ieri sera nel Duomo dal cardinale arcivescovo, Angelo Scola.



ARCIDIOCESI DI MILANO
Via Crucis con l’Arcivescovo
Per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is 53,5)

L’umiliazione dell’amore (Stazioni VIII-XI)


Lc 23,27-31; Is 53,7-8; Gv 19,23-24; Mc 15,22-27
Testi di Thomas Stearns Eliot, Mario Luzi, Olivier Clément e Georges Bernanos

Martedì della III settimana di Quaresima



Monizione iniziale di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano


Amici, qui presenti e che in vario modo ci accompagnate da lontano, questa sera la Via Crucis ci porta verso le ultime stazioni sulla strada del Calvario. Vogliamo percorrerle fino in fondo, dietro a Lui che ci «amò fino alla fine» (Gv 13,1) e prostrarci ai Suoi piedi, come la Maddalena rappresentata da Hayez, mendicando il Suo perdono. Vogliamo lasciarci invadere dalla forza rigenerante del Suo sacrificio. Vogliamo rispondere alla chiamata che Cristo, «sposo e Signore» rivolge a noi dalla croce (cf. Prima Orazione).
Dalle ferite del Crocifisso sgorga il sangue che copre e rigenera il cuore della Maddalena. Certo la donna aveva amato in un modo stravolto e peccaminoso, ma la grazia, Gesù stesso, la Sua persona, i Suoi gesti e le Sue parole avevano spalancato la possibilità dell’amore vero, oggettivo e perciò effettivo, a questo suo amore sgraziato e impuro. E così la carezza di Maria Maddalena ai piedi di Gesù, richiama il bacio della peccatrice: l’umiliazione dell’amore - è il titolo della tappa odierna della Via Crucis - del Maestro contagia la discepola.
Nel silenzio della crocifissione risentiamo l’eco delle parole di Gesù: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7,47): il perdono sovrabbondante viene incontro al pentimento mosso dall’amore. E la misericordia ricrea: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Questa nuova creazione si intravvede già sull’orizzonte attraversato dalla luce sfolgorante della resurrezione, di cui Maddalena sarà la prima testimone: nella Sua morte la morte è vinta (il teschio che la raffigura rotola via).
Il nostro cammino di questa sera sia tutto attraversato dalla supplica: “Donami, amato Gesù, di compiere l’esperienza piena dell’amore nel rapporto con Dio, con il prossimo, con me stesso”.




Catechesi di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano





Meditiamo, ora, l’umiliazione dell’amore inflitta a Gesù, l’Uomo dei dolori.


VIII. Gesù incontra le donne di Gerusalemme

«Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli”» (Lc 23,28). Il testo potrebbe indirettamente riferirsi ad un’usanza, descritta nel Talmud, propria delle donne aristocratiche di Gerusalemme (quello di Luca è il vangelo delle donne…) di preparare bevande calmanti e di porgerle ai condannati, in un gesto di materna compassione.
«Ma Gesù voltandosi verso di loro disse…». Non rimuoviamo la forza di questo “ma”! Gesù, che ha pianto su Gerusalemme, stremato lungo la via dolorosa, corregge ora il pianto delle donne - e anche il nostro – aprendo la compassione alla conversione. Lo porta in profondità: penitus, penitenza.
Non possiamo, infatti, volgere lo sguardo a Gesù se non nella coscienza di essere peccatori. Mentre le nostre giornate, troppo spesso dominate dalla distrazione e dalla dimenticanza del Crocifisso glorioso, sono segnate da un cuore arido, imperturbabile. Donaci Signore «le lacrime che sciolgono la colpa, il pianto che merita il perdono» (Sant’Ambrogio, Esposizione sul Vangelo di Luca, X, 90). Insegnaci a chiamare per nome il nostro peccato per provarne autentico dolore. Come avranno reagito le donne di Gerusalemme al severo richiamo di Gesù? Eliot – lo abbiamo sentito – legge il loro sgomento: «Dio ci ha sempre lasciato una speranza, uno scopo./ Ma adesso siamo macchiate da un terrore nuovo,/… Dio ci sta abbandonando…». «Dio mio perché mi hai abbandonato?» è il grido della preghiera di Gesù sulla croce.
Gesù, lasciandosi trattare da peccatore (cf. 2Cor 5,21), accettò di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente definitiva, dal Padre amato. Il peccato infatti separa, distrugge ogni relazione. Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù si abbassò volontariamente a fare, in nostro favore, l’esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell’Amore.
Perché non compiere ogni giorni in questo tempo benedetto di Quaresima, un piccolo esercizio di pietà? Prendiamo fisicamente in mano il crocifisso e contempliamolo intensamente. Come avvenne con Pietro, il suo sguardo ci muoverà a riconoscere il nostro peccato, a provarne dolore, accostandoci al benefico sacramento della riconciliazione.



IX. Gesù cade la terza volta

«Si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53,7). Quest’ultima espressione è ripetuta due volte in un solo versetto. Il silenzio del Servo è estremamente insolito. «Era come agnello condotto al macello» (Is 53,7): in aramaico un unico termine (talya) designa sia l’agnello che il servo, la figura della vittima innocente.
«Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo… Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi» (Is 53,8). È la solitudine più radicale, il Crocifisso è il più emarginato degli uomini. Nel Responsorio di De Victoria si usa un verbo ancora più forte: «Venite,… eradamus eum de terra viventium», strappiamolo via fin dalle radici dalla terra dei viventi.
È l’assalto rabbioso del Maligno che è il Divisore (dia-ballos), colui che svelle l’uomo dalle sue appartenenze costitutive. La terza caduta di Gesù, perché «il peso per le membra è troppo grave» (Luzi), dice quanto sia greve la Sua solitudine. L’uomo abbandonato a se stesso non può che rimanere schiacciato dal peso del male.
E l’amore dell’Uomo-Dio accetta di essere schiacciato a terra, umiliato. Davanti al male e alla sofferenza noi ci ribelliamo, Lui accetta: è il Paziente. «Tutto ha sofferto con la sua pazienza, per dare un insegnamento alla nostra pazienza» (Sant’Agostino, Sermone 175, 3, 3).
Così fanno anche i martiri. Ricordiamo il martirio del sangue dei nostri fratelli cristiani perseguitati in troppe parti del mondo. E quello di tutti coloro che sono perseguitati o uccisi per la verità e la giustizia. «Ci sono anime innocenti, /creature pietose che si angosciano, /non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili. …/Tra gente come loro ho seminato le beatitudini, /erano meravigliati - alcuni un giorno capiranno» (Luzi). Anche noi ci scandalizziamo di fronte alla “strana necessità del sacrificio”. Eppure è nel sacrificio che tutto diventa vero.

X. Gesù è spogliato delle vesti

«Quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti… e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo» (Gv 19,23). Il vestiario dei condannati, di diritto, veniva scelto dagli esecutori della sentenza: senza saperlo, il pragmatico Pilato riconosce a Gesù il ruolo del sommo sacerdote, la cui tunica doveva essere senza cuciture.
Il Signore viene spogliato. La nudità di Gesù, il nuovo Adamo, ci riporta in qualche modo alla nudità del primo Adamo. Eppure c’è una radicale differenza. Non siamo più di fronte all’innocenza originaria in cui il corpo risplendeva in tutta la sua natura relazionale, come segno di comunione con Dio e con l’altro. L’uomo era nudo perché nulla nascondeva la sua verità, il suo rapporto col Creatore. Ora, invece, dopo la rottura della relazione costitutiva con Dio, la nudità, ferita mortalmente da quella perdita, soffre vergogna.
Nella spogliazione Gesù accetta di seguirci «sino al fondo abissale, infernale, della condizione mortale. Ed è lì - trasfigurazione a rovescio, trasfigurazione non sul monte ma nell'abisso - è proprio lì, proprio per quello che lì avviene che egli è glorificato. La sua discesa nelle tenebre, alla ricerca dell'Adamo smarrito che è in ciascuno di noi, fa esplodere in tutto il suo splendore l'amore di Dio per l'uomo» (Clément).
Con gli occhi fissi su Colui che sta per essere crocifisso ripetiamo col versetto dello Stabat Mater: «Fac ut ardeat cor meum in amando Christum Deum».
E la supplica al Signore perché il nostro cuore arda nel Suo amore diventa domanda di verità. Come scrive Giovanni Paolo II nel Trittico romano nel Giudizio saremo nudi davanti a Dio. Completamente svelati. L’umiliazione del Crocifisso testimonia che senza la verità legittimata dall’amore alla lunga non viene rispettata la dignità di ogni uomo e di ogni donna. In tempi come i nostri grande è la tentazione di dire “addio alla verità” per accomodarsi in una sorta di “rassegnazione gaia”. Il Cristo denudato diventa allora per noi, soprattutto per i fedeli laici, impegno ad edificare, anche in questa nostra società plurale, la civiltà della verità e dell’amore.



XI. Gesù è inchiodato alla croce

«Poi lo crocifissero» (Mc 15,24). Gli evangelisti riferiscono quello che Cicerone definì «il castigo più crudele e ripugnante» (In Verrem, 5,64) in termini sobri e asciutti che nulla concedono alla spettacolarizzazione del dolore, purtroppo così abituale per la comunicazione massmediatica di oggi. Non c’è bisogno infatti di aggiungere troppe parole. La Croce di Cristo è esplicita, dice con chiarezza quanto è accaduto: «Hanno travestito da schiavo e inchiodato come uno schiavo il padrone del Creato» (Bernanos).
«Cuius livore sanati sumus» (Responsorio, Ecce vidimus eum): il corpo del Signore che pochi giorni prima si era manifestato sfolgorante di bellezza sul monte Tabor ora, si lascia illividire sul palo ignominioso della croce. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
La croce di Cristo fa esplodere la consapevolezza del male morale. Una delle censure più pesanti della mentalità contemporanea è quella che riguarda il riconoscimento del proprio peccato. Tutt’al più quando il disagio diventa incontenibile, se ne tollera un travestimento (il senso di colpa a cui abbiamo già fatto riferimento la volta scorsa). Chi ha coscienza del proprio peccato, invece, prova dolore dinanzi all’amore del Crocifisso e da Lui mendica liberazione dal male.
Bernanos, nel brano che abbiamo ascoltato, descrive la sofferenza e la morte dell’Innocente Crocifisso come il «colmo dei travestimenti» del vero: «… hanno travestito da schiavo il Padrone del Creato». Ma «la Terra e l’Inferno insieme non hanno potuto andare più in là di quella mostruosa e sacrilega birbanteria». Perché nella morte singolare di Cristo è vinta la nostra comune morte. L’ultima parola sulla vita dell’uomo non è più la morte, ma la gloria del Crocifisso risorto.
Preghiera, carità, digiuno, documentati in gesti puntuali, siano l’ordito della settimana quaresimale che ci attende.

Signore Gesù,
nel Tuo cammino verso il Calvario,
non hai voluto risparmiarTi nessuna umiliazione.
Per amore Ti sei lasciato schiacciare dal peso della solitudine,
hai patito la vergogna della nudità nella spogliazione
e l’infamia dell’essere per noi inchiodato sul palo della croce.
Più noi ci allontaniamo dal Padre,
più Tu prendi su di Te le conseguenze del nostro smarrimento.
Donaci, o Redentore,
«le lacrime che sciolgono la colpa, il pianto che merita il perdono» (Sant’Ambrogio, Esposizione sul Vangelo di Luca X, 90).