mercoledì 7 marzo 2012

"Se non ascoltano Mosè e i Profeti..."

Di seguito il Vangelo di oggi, 8 marzo, giovedi della II settimana di Quaresima, con
un commento e qualche testo di approfondimento dalla Tradizione e dal Magistero.
Auguri a tutte le donne, le spose e le madri: che prendano a modello della loro vita
la donna, la sposa e la madre perfetta: Maria.

Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza,
ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene.
E così, anche se ciò non si trova nel testo,
possiamo in base ai Salmi dire che il ricco epulone
già in questo mondo era un uomo dal cuore vuoto,
che nei suoi stravizi 
voleva solo soffocare il vuoto che era in lui:
nell’aldilà viene solo alla luce 
la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua.

Benedetto XVI


Lc 16,19-31
   
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: "C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi".

IL COMMENTO

Ascoltare e credere, entrambi doni celesti: tutto annuncia Lui. Ogni Parola annuncia l'unico evento capace di strappare l'uomo ad una vita distesa tra vizi e lussi anestetizzanti. Avere e possedere in questa vita perchè un'altra non ce n'è. Tutti i giorni uguali, per non accorgersi della morte che incombe, sicura. Come sicuri sono paradiso e inferno, occultati "novissimi" in una società spiaccicata sul parabrezza di un mondo lanciato a tutta velocità nel vuoto del non senso.

E un mendicante sulle soglie dei bagliori vuoti e transitori della vana-storia, quella aggrappata alla vana-gloria: "Il mistero della misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione.... Questo l'abbraccio ultimo del Mistero, contro cui l'uomo, anche il più lontano e il più perverso o il più oscurato, il più tenebroso, non può opporre niente, non può opporre obiezione: può disertarlo, ma disertando se stesso e il proprio bene. Il Mistero come misericordia resta l'ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia. Per cuil'esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Luigi Giussani, Testimonianza di  durante l'incontro del Santo Padre Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità. Roma, 30 maggio 1998). Mendicare dalle proprie piaghe - le ferite del peccato, della vita e della debolezza - perchè le piaghe di Cristo ci guariscano.

Solo nel Vangelo, l'annuncio profetizzato da "Mosè e dai Profeti", vi sono la Vita e la salvezza, il Paradiso. Ascoltare e credere alla Buona Notizia dell'amore di Dio, piagato della passione infinita. Anche se apparisse, in questo istante, Cristo risorto, probabilmentenel mondo, e forse anche in noi, non cambierebbe nulla. Emozione, sussulti, ma il cuore rimarrebbe incapace di credere, e l'avvenimento della risurrezione resterebbe velato, e non ne saremmo persuasi. Perchè è l'ascolto della predicazione la porta che dischiude sulla fede, sulla conversioneE' il cammino di una vita, nulla si improvvisa. Il Paradiso inizia in questa terra, esattamente come l'inferno. La Pasqua eterna, come rivela l'intera Scrittura, non è un evento circoscritto ad un istante: annunciata e preparata, essa si realizza lungo l'intero arco della Storia della salvezza, sino alla pienezza dei tempi, quando il Signore, entrando nella morte, ve ne esce vittorioso. Così è anche per ciascuno di noi. La storia che ci è data è l'annuncio e la preparazione alla Pasqua ultima, attraverso la quale ci saranno dischiuse le porte del Paradiso. La stessa quaresima è un segno che ci aiuta a comprendere con saggezza la nostra vita. Esistono inferno e paradiso, anticipati ogni giorno: la Croce è la porta che si apre sul paradiso. Oggi, come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù. Dall'inferno che lo stava ghermendo ha fissato il Signore, ha mendicato il perdono, lamemoria - "ricordati di me" - di quel suo povero fratello giustamente giustiziato, perchè lo aveva visto già vittorioso nel suo Regno. Crocifissi dalle nostre ingiustize, dall'inferno che stiamo assaporando oggi, siamo ancora in tempo per guardare al Signore, per indurlo a ricordarsi di noi. Oggi, e domani, lo sguardo del cuore posato su Cristo crocifisso per i nostri peccati, la fede nel suo amore che allarga gli orizzonti sino ad intercettare il Cielo tra le pieghe del dolore, e mendicare, gridare, pregare, cercare il Paradiso perduto, perchè "nell’aldilà viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua" (Benedetto XVI). Fermarsi nell'inferno, mormorare e ribellarsi alle presunte ingiustizie, continuare a gonfiarsi di porpore e bisso, i beni del mondo, nell'illusione che siano essi a riscattarci, significa chiudersi orgogliosamente la porta del Paradiso.  
La povertà racchiusa in Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata. La pancia piena di alienazioni impedisce uno sguardo stupito e bisognoso. Bastare a se stessi, l'inganno che ci impedisce d'essere felici e beati. Gesù infatti riserva la beatitudine ai poveri, ai Lazzaro che non hanno nulla. Di essi è però il Regno dei Cieli, per essi è preparato il seno di Abramo. La parabola disegna le due facce della nostra vita, e le mette nel loro giusto ambito. Ciascuno di noi è, al contempo, il povero Lazzaro ed il ricco epulone. Quello che nel mondo è degno di onore, la "qualità della vita" idolatrata al punto di sopprimere ogni vita "non degna di essere vissuta" come quella del povero Lazzaro, i "beni" ricevuti dal ricco sono, agli occhi di Dio, l'anticipo dell'inferno. Quello che nel mondo è disprezzato, ignobile, indegno, è, per la Sapienza della Croce, il giardino che circonda il Paradiso, primizia della vita celeste. La povertà, la debolezza, i "mali ricevuti" costituiscono la via che ci è data per entrare nel Regno dei Cieli; i "beni" invece, spengono ogni nostalgia di verità e amore, chiudono il cuore e divengono, quando idolatrati e fatti scopo della vita, un inferno che uccide senza farcene accorgere.  

La parola povero, nel vangelo di oggi come in quello delle beatitudini, traduce l’autodefinizione dei monaci di Qumram: «anawim ruah», i «poveri di cuore», «quelli dal cuore ferito e dallo spirito affranto» (Sal 34,19), dei quali Dio si prende cura. I poveri di Jhwh. Il termine usato da Mt è pitokoi, da cui deriva pitocco, miserabile. A questi poveri Gesù è inviato come Messia e salvatore. Dio ha voluto incarnare se stesso nell'estrema povertà di un Figlio crocifisso. Per raggiungerci dove siamo realmente ha assunto la nostra natura di poveri Lazzari: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante, ingannata e dispersa rincorrendo i beni. E' Gesù piagato dalle frustate che brama di sfamarsi delle briciole che cadono dalla nostra mensa, di raccogliere i nostri peccati per riscattrci dall'inganno. Si è fatto Lazzaro perchè riconoscessimo la nostra verità, per bussare al nostro cuore e svegliarci dal torpore di una vita consegnata al denaro, agli idoli di questo mondo, adorati dai governi e dai condomini. Fuggire dal luogo che ci appartiene, l'estrema povertà e l'infinito bisogno della creatura, significa chiudersi alla Grazia. Convertirsi è dunque, in questa quaresima, prendere di peso la nostra vita, non tralasciare nessuna debolezza, nessuna fame, nessuna sete. Guardarci dentro, sino in fondo, e scoprire che è lo stesso bisogno che muove il ricco e il povero Lazzaro. Prendere tutto dalla vita, frugando tra mondo, carne e demonio, significa saziarsi di fumo per precipitare nel vuoto eterno che è l'inferno. Accettare d'essere, in questa terra, un povero mendicante che solo può tendere la mano alla misericordia di Dio è l'unico atteggiamento realistico e ragionevole per camminare nella storia. Come la donna siro fenicia che, dal fondo dell'inferno in cui viveva per l'impossibilità di curare sua figlia, mendica una briciola dell'amore di Dio, non vergondosi della sua indegnità. Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura che entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza che fa liberi, quella che illumina il Paradiso nelle piaghe di ogni giorno. Così ogni relazione, così il lavoro e lo studio, ogni vicenda vissuta come Lazzaro, mendicando l'amore che perdona, sana e innalza alla destra del Padre. "Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli ... Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza (Sal 17,14s). Qui si contrappongono due generi di sazietà: la sazietà dei beni materiali e il saziarsi «della tua presenza», la sazietà del cuore mediante l’incontro con l’amore infinito. «Al risveglio», ciò rimanda, in definitiva, al risveglio alla vita nuova, eterna, ma si riferisce anche a un «risveglio» più profondo già in questo mondo: il destarsi alla verità, che già fin d’ora dona all’uomo una nuova sazietà" (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Vol.I). 

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San Basilio (circa 330-379), monaco e vescovo di Cesarea in Cappadocia, dottore della Chiesa. Omelia 6 contro le ricchezze ; PG 31, 275-278

« Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, …dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre » (Sal 111)

Cosa risponderai al sovrano giudice, tu che rivesti le tue mura e non vesti il tuo simile? Tu che adorni i tuoi cavalli e non hai nemmeno uno sguardo per tuo fratello nello sconforto?... Tu che seppellisci il tuo oro e non vieni in aiuto dell’oppresso?...
Dimmi, che cosa ti appartiene? Da chi hai ricevuto tutto ciò che porti con te in questa vita?... Non sei forse uscito nudo dal seno di tua madre? E non ritornerai forse nella terra ugualmente nudo (Gb 1,21)? I beni presenti, da chi li ottieni? Se rispondi: dal caso, sei un empio che rifiuta di conoscere il suo creatore e di ringraziare il suo benefattore. Se convieni che vengono da Dio, dimmi dunque per quale motivo li hai ricevuti?
Dio sarebbe forse ingiusto, ripartendo iniquamente i beni necessari alla vita? Perché tu sei nell’abbondanza mentre costui è nella miseria? Non è forse unicamente affinché un giorno, per la tua bontà e la tua gestione desinteressata dei beni, tu riceva la ricompensa, mentre il povero otterrà la corona promessa alla pazienza? ... Il pane che tu trattieni appartiene all’affamato; il mantello che nascondi nelle tue casse all’uomo nudo... Per cui commetti tante ingiustizie quanti sono coloro che potresti aiutare.

APPROFONDIMENTI

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Da "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI

In questa storia ci troviamo un’altra volta di fronte a due figure contrastanti: il ricco che gozzoviglia nella sua agiatezza e il povero che non può nemmeno afferrare i bocconi che i ricchi crapuloni buttano dal tavolo, i pezzetti di pane con cui i commensali, secondo il costume del tempo, si pulivano le mani e che poi buttavano via. I Padri, in parte, hanno inquadrato anche questa parabola nello schema dei due fratelli applicandola al rapporto tra Israele (il ricco) e la Chiesa (il povero Lazzaro), perdendo però in questo modo la tipologia completamente diversa che qui è in gioco.

Lo si vede già nella differente conclusione. Mentre i testi sui due fratelli restano aperti, terminando come domanda e invito, qui viene descritta la fine irrevocabile di entrambi i protagonisti.

Come sfondo che schiude a noi la comprensione di questo racconto dobbiamo considerare la serie di Salmi nei quali si leva a Dio il lamento del povero che vive nella fede in Dio e nell’obbedienza ai suoi comandamenti ma conosce solo sventura, mentre i cinici che disprezzano Dio passano da un successo all’altro e godono tutta la felicità della terra. Lazzaro fa parte di quei poveri, la cui voce udiamo per esempio nel Salmo 44: «Ci hai resi la favola dei popoli, su di noi le nazioni scuotono il capo. [...]Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (v. 15-23; cfr. Rm 8,36). L’antica sapienza di Israele si fondava sul presupposto che Dio premia il giusto e punisce il peccatore, che cioè al peccato corrisponde l’infelicità e alla giustizia la felicità. Almeno dal tempo dell’esilio, questa sapienza era entrata in crisi.

Non solo Israele come popolo nel suo insieme pativa più dei popoli che lo circondavano, che lo avevano costretto all’esilio e lo opprimevano, anche in ambito privato diventava sempre più evidente che il cinismo è vantaggioso e che, in questo mondo, il giusto è destinato alla sofferenza. Nei Salmi e nella tarda letteratura sapienziale assistiamo alla faticosa ricerca di sciogliere questa contraddizione, a un nuovo tentativo di diventare «saggi», di comprendere la vita in modo corretto, di trovare e intendere in modo nuovo Dio, che sembra ingiusto o del tutto assente.

Uno dei testi più penetranti di questa ricerca, il Salmo 73, sotto certi aspetti può essere considerato come lo sfondo culturale della nostra parabola. Vediamo quasi stagliarsi innanzi a noi la figura del ricco epulone, del quale l’orante – Lazzaro – si lamenta: «Ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi. Non c’è sofferenza per essi, sano e pasciuto è il loro corpo. Non conoscono l’affanno dei mortali [...]. Dell’orgoglio si fanno una collana [...]. Esce l’iniquità dal loro grasso [...]. Levano la loro bocca fino al cielo [...]. Perciò seggono in alto, non li raggiunge la piena delle acque. Dicono: "Come può saperlo Dio? C’è forse conoscenza nell’Altissimo?"» (Sal 73,3-11).

Il giusto sofferente guarda Dio

Il giusto che soffre e vede tutto ciò corre il pericolo di smarrirsi nella sua fede. Davvero Dio non vede? Non sente? Non lo preoccupa la sorte degli uomini? «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore [...]poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina. [...]Si agitava il mio cuore» (Sal 73,13s.21). Il cambiamento improvviso sopraggiunge quando il giusto sofferente nel santuario volge lo sguardo verso Dio e, guardandolo, allarga la sua prospettiva. Adesso vede che l’apparente intelligenza dei cinici ricchi di successo, osservata alla luce, è stupidità: questo genere di sapienza significa essere «stolti e non capire», essere «come una bestia» (cfr. Sal 73,22). Essi rimangono nella prospettiva delle bestie e hanno perduto la prospettiva dell’uomo che va oltre l’aspetto materiale: verso Dio e la vita eterna.

A questo punto ci tornerà alla memoria un altro Salmo, in cui un perseguitato dice alla fine: «Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli [...]. Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza» (Sal 17,14s). Qui si contrappongono due generi di sazietà: la sazietà dei beni materiali e il saziarsi «della tua presenza», la sazietà del cuore mediante l’incontro con l’amore infinito. «Al risveglio», ciò rimanda, in definitiva, al risveglio alla vita nuova, eterna, ma si riferisce anche a un «risveglio» più profondo già in questo mondo: il destarsi alla verità, che già fin d’ora dona all’uomo una nuova sazietà.

Di questo destarsi nella preghiera parla il Salmo 73. Ora, infatti, l’orante vede che la tanto invidiata felicità dei cinici è solo «come un sogno al risveglio»; vede che il Signore, quando sorge, fa «svanire la loro immagine» (Sal 73,20). E adesso l’orante riconosce la vera felicità: «Ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. [...] Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. [...] Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73,23.25.28).

Queste non sono soltanto belle parole per far sperare nell’aldilà, bensì è il destarsi alla percezione della vera grandezza dell’essere uomo, della quale naturalmente fa parte anche la vocazione alla vita eterna.

Ogni invidia è superata

Con ciò solo apparentemente ci siamo allontanati dalla nostra parabola. In realtà, con questa storia il Signore ci vuole introdurre proprio nel processo del «risveglio» che ha trovato la sua espressione nei Salmi. Non si tratta di una condanna meschina della ricchezza e dei ricchi, generata dall’invidia. Nei Salmi su cui abbiamo brevemente riflettuto ogni invidia è superata: anzi, all’orante si rende ovvio che l’invidia per questo genere di ricchezza è stolta, perché egli ha conosciuto il vero bene.

Dopo la crocifissione di Gesù incontriamo due uomini benestanti – Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea – che hanno trovato il Signore e sono persone che stanno «risvegliandosi». Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza, ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene. E così, anche se ciò non si trova nel testo, possiamo in base ai Salmi dire che il ricco epulone già in questo mondo era un uomo dal cuore vuoto, che nei suoi stravizi voleva solo soffocare il vuoto che era in lui: nell’aldilà viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua. Naturalmente questa parabola, risvegliandoci, è al contempo anche un’esortazione all’amore che dobbiamo donare ora ai nostri fratelli poveri e alla responsabilità nei loro confronti – su ampia scala, nella società mondiale – così come nell’ambito ridotto della nostra vita di tutti i giorni.

La richiesta di segni

Nella descrizione dell’aldilà, che segue poi nella parabola, Gesù si attiene ai concetti correnti nel giudaismo del suo tempo. Pertanto non è lecito forzare questa parte del testo: Gesù adotta gli elementi immaginifici preesistenti senza con questo elevarli formalmente a suo insegnamento sull’aldilà. Approva, tuttavia, chiaramente la sostanza delle immagini. Pertanto non è privo d’importanza il fatto che Gesù riprenda qui le idee dello stato intermedio tra morte e risurrezione, che ormai erano diventate patrimonio comune del giudaismo. Il ricco si trova nell’Ade come luogo provvisorio, non nella «geenna» (l’inferno), che è il termine per lo stato definitivo.

Gesù non conosce una «risurrezione nella morte». Ma, come detto, non è questo il vero insegnamento che il Signore ci vuole trasmettere con questa parabola. Come ha illustrato in modo convincente Jeremias, si tratta piuttosto, in un secondo vertice della parabola, della richiesta di segni.

L’uomo ricco dice dall’Ade ad Abramo quello che, allora come oggi, tanti uomini dicono o vorrebbero dire a Dio: se vuoi che ti crediamo e che conformiamo la nostra esistenza alla parola di rivelazione della Bibbia, allora devi essere più chiaro. Mandaci qualcuno dall’aldilà che ci possa dire che è davvero così. Il problema della richiesta di segni – la pretesa di una maggiore evidenza della rivelazione – pervade l’intero Vangelo. La risposta di Abramo, come, al di fuori della parabola, quella di Gesù alla richiesta di segni da parte dei suoi contemporanei, è chiara: chi non crede alla parola della Scrittura, non crederà nemmeno a uno che venga dall’aldilà. Le verità più sublimi non possono essere costrette alla stessa evidenza empirica che, appunto, è propria solo della dimensione materiale.

Abramo non può mandare Lazzaro nella casa paterna dell’uomo ricco. Ma ora ci viene in mente una cosa che ci colpisce. Pensiamo alla risurrezione di Lazzaro di Betania, narrata nel Vangelo di Giovanni. Che cosa succede? «Molti dei Giudei [...]credettero in lui», ci racconta l’evangelista. Vanno dai farisei e riferiscono l’accaduto. Il Sinedrio si riunisce per discuterne. La faccenda, in quella sede, viene considerata sotto l’aspetto politico: un movimento del popolo, che può risultarne, potrebbe chiamare in causa i romani e generare una situazione pericolosa. Così si decide di uccidere Gesù: il miracolo non porta alla fede bensì all’indurimento (Gv 11,45-53).

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OMELIA DI MONS. CAFFARRA SULLA PARABOLA DEL RICCO EPULONE E DEL POVERO LAZZARO

OMELIA DI MONS. CAFFARRA. DOMENICA XXVI PER ANNUM (C)
Montesole 26 settembre 2004


1. La pagina evangelica appena proclamata merita di essere attentamente meditata ed assimilata, perché siamo liberati da quella sorta di "ipnosi della realtà visibile" che ci impedisce di vedere oltre essa. Anzi, che ci porta fino alla negazione che esista una realtà invisibile.

Come avete sentito, la pagina evangelica disegna due quadri nei quali sono raffigurate due persone separate dalla loro condizione sociale: "un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante di nome Lazzaro … coperto di piaghe bramoso si sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco".
In realtà questa è la condizione, se così possiamo dire, storica dei due personaggi. Ma questa – la condizione storica – non è la condizione definitiva. Essa infatti finisce inesorabilmente: "un giorno il povero morì… morì anche il ricco e fu sepolto". La morte "pareggia tutte le erbe del prato"! ma la morte non dice l’ultima parola sulle vicende umane. Essa introduce in una condizione definitiva, eterna, nella quale si ha un totale capovolgimento del proprio destino: il povero "fu portato dagli angeli nel seno di Abramo"; il ricco nell’inferno tra i tormenti.

2. Carissimi fedeli, ci troviamo in un luogo che nella storia e nella coscienza del nostro popolo è luogo sacro per il sacrificio di vittime innocenti, di sacerdoti che diedero la vita per non abbandonare il loro gregge.

La presenza delle autorità civili e militari, che ringrazio sentitamente, indica che questo luogo rivolge una parola che riguarda l’uomo come tale, prima che si distingua la sua appartenenza alla città e la sua appartenenza religiosa. Parola grande, che oggi ci arriva attraverso la pagina santa del Vangelo.
Anche qui si incontrarono due persone in condizioni morali diametralmente opposte: la persona di innocenti deboli coinvolti dentro ad una tragedia senza limiti e la persona di carnefici prepotenti. La "povertà" della vittima; la "prepotenza" del carnefice. Ed in quei momenti, le prime sembrarono risultare soccombenti, vinte. Ma in realtà non è stato questo l’esito definitivo di quello scontro.
Non pensate, in questo momento, che stia parlando dell’esito finale della guerra: avvenimento che accade pur sempre nel mondo della storia visibile degli uomini. La pagina evangelica ci educa ad uno sguardo ben più penetrante.
Le vittime qui cadute ci indicano l’esistenza di un universo di valori ben più solido, ben più reale dell’universo nel quale siamo normalmente immersi e nel quale ogni giorno rischiamo di perire. Qui è stata affermata una forza nella debolezza, una giustizia contro la prepotenza, una carità contro l’odio, che sono le uniche ragioni per cui vale veramente la pena di vivere e se necessario anche di morire.
Le vittime qui cadute sono così le pietre immacolate di una dimora – di una società – che sia veramente adeguata alla dignità della persona. Alla fine chi ha vinto: la vittima o il carnefice? Il carnefice è sempre sconfitto, perché non uccide la vittima, ma uccide in se stesso la propria umanità.
"Ma Abramo rispose: hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro". Anche su questo monte si può, si deve ascoltare una profezia detta non colle parole ma col sangue versato. È la profezia che non si può costruire una società basata sul conflitto e sulla estraneità dell’uomo dall’uomo. E quindi la "profezia di Monte Sole" non è ascoltata da chi ne fa occasione per ricostruire fazioni e contrapposizioni.
Su questo monte, non senza una divina ispirazione, Don Dossetti ha voluto che i figli e le figlie della comunità dell’Annunciazione fossero il segno permanente di quel mondo nuovo che Cristo ha ricreato; che proprio su questo monte essi intercedessero quotidianamente mediante "un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome" [Eb 13,15].

3. Carissimi fedeli, fra pochi istanti attraverso i santi segni sacramentali saremo presenti al sacrificio di Cristo, vittima innocente di tutte le nostre ingiustizie. È questo sacrificio che ha abbattuto ogni muro di separazione: dell’uomo da Dio, dell’uomo dall’uomo, dell’uomo da se stesso. È solo in Lui che l’umanità disgregata può ritrovare la sua vera unità.

Le vittime innocenti qui cadute; i sacerdoti che hanno donato la loro vita, siano uniti a noi perché la partecipazione a questo grande Mistero ci ridoni speranza e forza per non rassegnarci mai al male.

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S. Agostino sulla Parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro

Dai "Discorsi" dì sant'Agostino.

Se in questa vita la parola di Dio ci incute una salutare paura, nell'altra vita nessuno potrà terrorizzarci, perché dal timore sboccia il correggersi. Non ho detto semplicemente: se la parola di Dio ci mette paura, bensì: se ci ispira uno spavento salutare. Non è forse vero che molti sanno impaurirsi, ma non trasformarsi? Ma che c'è di più sterile di un timore senza frutto? I nostri cuori hanno tremato sbigottiti all'udire che dopo aver disprezzato il mendìco che giaceva alla sua porta, quel ricco superbo fu suppliziato nell'inferno al punto che non gli potevano giovare le più ardenti suppliche. Non crudele, ma giusta fu la risposta: egli non poteva essere soccorso! Al tempo in cui la misericordia di Dio lo sollecitava perché si convertisse, trascurò il fatto che non veniva punito e finì col meritarsi il castigo. Dio pazientava nonostante quello si mostrasse tronfio e vanesio, incurante dei supplizi futuri a cui non poteva prestare fede nel suo orgoglio e tanto meno temerli.
Anche se la nostra carne è addobbata con porpora e lini finissimi, che altro è se non carne e sangue, erba che avvizzisce? Qualunque sia l'onore, la stima che raccoglie a destra e sinistra, resta fiore, fiore del fieno. Il fieno secca, i suoi fiori non durano; appena l'erba appassisce, i fiori si afflosciano.
Invece noi sappiamo a che aggrapparci. per non venire meno, giacché la parola del Signore rimane in eterno. 1Pt 1,25. Il Verbo di Dio ci ha mai spregiato, fratelli? Ha forse lasciato che si perdesse la nostra fragile mortalità, dicendo: E' carne, soltanto erba: che inaridisca, che cada il suo fiore; perché venirle in aiuto? Invece ha raccolto il fieno che eravamo, per fare di noi addirittura oro. La Parola del Signore che resta in eterno, non ha sdegnato di farsi lei stessa paglia per qualche tempo, non perché il Verbo stesso mutasse, ma per procurare a quel fieno una trasformazione stupenda. Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Gv 1,14. Il Signore è morto per noi, fu sepolto ed è risorto, è salito al cielo ed è assiso alla destra del Padre. Non è più paglia, ma oro puro e incorruttibile.
Fratelli cari, ci è stata promessa una trasformazione. Eppure, quando arriva il suo momento il fieno comincia a scomparire: ogni splendore della carne svanisce col volgere del tempo e tutta questa nostra fragilità invecchia.
Nel ricco del vangelo il fieno si era seccato col suo fiore. Ma se al tempo del rigoglio avesse compreso che la parola del Signore resta in eterno, se dopo aver abbattuto a raso terra i torrioni della superbia, si fosse umiliato davanti a Dio! E anche se non fosse arrivato fino a rigettare la ricchezza, avesse almeno donato ai poveri che giacevano al suolo una parte dei suoi beni, questo gli avrebbe valso qualche sollievo, una volta svanito questo tempo fugace. Il ricco ora non chiederebbe misericordia senza un qualche appiglio, mentre non l'aveva concessa quando poteva farlo. Fratelli miei: quando leggiamo e ascoltiamo la parola del vangelo: Padre Abramo, manda Lazzaro ad intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura, sentiamoci rabbrividire, presi dal panico che capiti lo stesso a noi al termine di questa vita: vana sarebbe allora la nostra supplica.
Ma chi è stato vinto nello stadio può mai tentare ancora di combattere fuori dell'arena nella pretesa di riconquistare la corona? Che fare allora? Se siamo inorriditi, se ci siamo sentiti sconvolgere le viscere dalla paura, convertiamoci finché c'è tempo; ecco una paura efficace. Nessuno, fratelli, può mutare senza il trauma dell'angoscia e dello sgomento. Quando la coscienza ci rimorde, noi ci battiamo il petto. Quello che così percuotiamo è un qualcosa di interno, qualche intimo male. Confessiamolo ed esploderà fuori. Forse non ne sentiremo più nessun bruciore; avvenga lo stesso per qualsiasi colpa. Quel ricco, pieno di boria, vestito di lino, occultava in sé qualcosa che avrebbe dovuto schizzar fuori quand'egli viveva: allora non avrebbe conosciuto il fuoco eterno. Ma pieno di orgoglio come era, quel siero degenerò in tumore invece di fuoriuscire. Il povero Lazzaro, lui, devastato dalle piaghe, giaceva davanti alla porta. Fratelli, nessuno arrossisca di confessare i propri peccati, perché essere steso a terra è l'atteggiamento dell'umile. Notate come i ruoli si invertono; dopo la penosa operazione di confessarsi, il cuore sarà ristorato dal merito. Infatti arriveranno gli angeli a rialzare quell’uomo ulceroso per deporlo nel seno di Abramo, nella quiete eterna, nell’intimitá del Padre celeste; il simbolo significa appunto un luogo recondito, dove l'affaticato troverà riposo.


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Catechismo Maggiore Parte quinta Dei Novissimi e di altri mezzi principali per evitare il peccato

968. Che cosa intendete per Novissimi?

Novissimi sono chiamate nei Libri santi le cose ultime che accadranno all'uomo.

969. Quanti sono i Novissimi, o cose ultime dell' uomo?

I Novissimi, o cose ultime dell'uomo, sono quattro:
  • Morte,
  • Giudizio,
  • Inferno,
  • Paradiso.

970. Perché i Novissimi si dicono cose ultime dell'uomo?

I Novissimi si dicono cose ultime dell'uomo, perché la Morte è l'ultima cosa che ci accade in questo mondo; il Giudizio di Dio è l'ultimo fra i giudizi che dobbiamo sostenere; l'Inferno è l'estremo male che avranno i cattivi; il Paradiso il sommo bene che avranno i buoni.

971. Quando dobbiamo noi pensare ai Novissimi?

È bene pensare ai Novissimi ogni giorno, e massimamente nel fare orazione alla mattina subito svegliati, alla sera prima di andare a riposo e tutte le volte che siamo tentati a far male, perché questo pensiero è validissimo a farci evitare il peccato.


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I Novissimi. Somma Teologica


(Il Supplemento non è stato scritto da S. Tommaso d'Aquino, è stato compilato dopo la sua morte da autore ignoto, prendendo il testo dal Commento alle Sentenze, scritto da S. Tommaso d'Aquino in età giovanile)

Questione 69
La dimora delle anime dopo la morte
Trattiamo ora le questioni riguardanti la resurrezione. Infatti, dopo aver parlato dei Sacramenti, per mezzo dei quali l'uomo viene liberato dalla morte del peccato, è logico parlare della resurrezione, per mezzo della quale egli è liberato dalla morte, che ne è il castigo.
In proposito vanno considerate queste tre cose: ciò che precede la resurrezione; ciò che l'accompagna; ciò che la segue. In primo luogo perciò bisogna parlare di quelle cose che in parte soltanto e non totalmente precedono la resurrezione; secondo, della resurrezione stessa e delle circostanze che l'accompagnano; terzo, di ciò che avviene dopo la resurrezione.
La prima questione relativa a ciò che precede la resurrezione tratta delle dimore destinate alle anime dopo la morte; la seconda della condizione delle anime separate e della pena loro inflitta dal fuoco; la terza tratta dei suffragi coi quali i vivi possono giovare alle anime dei defunti; la quarta delle preghiere dei Santi in cielo; la quinta dei segni precursori del giudizio finale; la sesta della conflagrazione universale, che precederà l'apparizione del divin Giudice.
Sul primo argomento si pongono sette quesiti: 1. Se dopo la morte alle anime saranno destinate delle dimore; 2. Se quivi le anime saran collocate subito dopo la morte; 3. Se possano uscire da codeste dimore; 4. Se il limbo degli inferi si identifichi col seno di Abramo ; 5. Se il limbo si identifichi coll'inferno dei dannati; 6. Se il limbo dei Patriarchi si identifichi con quello dei bambini; 7. Se sia necessario distinguere tante dimore.
ARTICOLO 1
Se dopo la morte alle anime siano assegnate speciali dimore
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 1, qc. 1)
SEMBRA che dopo la morte non siano assegnate alle anime speciali dimore. Infatti:
1. Come ricorda Boezio, "si ritiene comunemente dai sapienti che le sostanze incorporee non occupano un luogo". S. Agostino concorda con lui, quando afferma: "È facile replicare che l'anima non può essere condotta in un luogo, se non perché è unita a un corpo". Ma l'anima separata, come dice lo stesso Santo, non ha corpo. Quindi sarebbe ridicolo assegnare delle dimore alle anime separate.
2. Tutto ciò che ha un luogo determinato è più attinente a quello che ad altri luoghi. Ma le anime separate, come tutte le sostanze spirituali, sono indifferenti a qualsiasi luogo; né si può affermare che abbiano maggiore attinenza con alcuni corpi piuttosto che con altri, essendo affatto immuni dalle condizioni dei corpi. Perciò non si possono loro assegnare speciali dimore.
3. Alle anime separate, dopo la morte, si attribuisce solo quanto ridonda loro in premio o in pena. Ma il luogo materiale non può avere tali effetti; perché nulla esse ricevono dai corpi. Quindi non si devono loro assegnare dimore speciali.
IN CONTRARIO: 1. Il cielo empireo è un luogo materiale e tuttavia, come afferma S. Beda, "esso fu riempito, appena fatto, dagli angeli santi". Ma essendo questi incorporei come le anime separate, bisogna che anch'esse abbiano dimore speciali.
2. Ciò è ancora più evidente da quanto racconta S. Gregorio, il quale parla di alcune anime addotte in luoghi materiali diversi; come quella di Pascasio, incontrata ai bagni dal vescovo di Capua Germano, e quella del re Teodorico che egli dice trascinata all'inferno. Quindi dopo la morte le anime hanno una ben delimitata dimora.
RISPONDO: Le sostanze spirituali sono indipendenti dal corpo quanto al loro essere; tuttavia, come affermano S. Agostino e S. Gregorio, siccome Dio governa le cose corporali mediante quelle spirituali, c'è un certo legame tra le sostanze spirituali e quelle corporali. Di qui la convenienza che alle sostanze spirituali più eccelse siano destinati corpi più nobili. Ecco perché anche i filosofi concepiscono l'ordine delle sostanze separate in base all'ordine dei corpi mobili. Pur essendo vero, dunque, che dopo la morte le anime non sono né forme, né motori di corpi determinati, tuttavia sono loro assegnate particolari dimore, nelle quali esse si trovano in qualche modo localizzate, come possono esserlo delle sostanze incorporee, secondo il loro grado di nobiltà; esse cioè si avvicinano, di più o di meno, alla prima sostanza, cioè a Dio, cui va attribuito il luogo più eccelso, vale a dire il cielo, come si legge nella sacra Scrittura. Perciò affermiamo che le anime, le quali partecipano perfettamente della divinità, si trovano in cielo; quelle invece che ne sono escluse, sono destinate al luogo opposto.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Gli esseri incorporei non stanno in un determinato luogo nel modo ordinario e comune che noi conosciamo. Tuttavia essi occupano il luogo in una maniera speciale che si addice alle sostanze spirituali, ma che noi mal riusciamo a comprendere.
2. La convenienza o somiglianza di una cosa con un'altra può essere di due specie. La prima si ha per la partecipazione di una medesima qualità: i corpi caldi, p. es., sono affini per il calore. E naturalmente questa affinità non si può verificare nelle cose incorporee rispetto al luogo corporeo o materiale. La seconda somiglianza invece nasce da una certa analogia di proporzionalità, mediante la quale nella sacra Scrittura si applicano in senso metaforico le cose materiali a quelle spirituali: in tal modo Dio è chiamato sole, perché egli è principio della vita spirituale, come il sole lo è di quella materiale. Ed è appunto in questo senso che certe anime meglio convengono a determinati luoghi corporali: così alle anime illuminate spiritualmente convengono i corpi luminosi, ed a quelle ottenebrate dalla colpa i luoghi tenebrosi.
3. L'anima separata non riceve direttamente alcun influsso dai luoghi materiali, a differenza dei corpi che al luogo connaturale devono la conservazione; ma le stesse anime separate, dal fatto che sanno di essere destinate a tali luoghi ne ricevono gioia o tristezza; ed in questo senso anche il luogo contribuisce alla loro pena o al loro premio.
ARTICOLO 2
Se le anime siano destinate al cielo o all'inferno subito dopo la morte
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 1, qc. 2)
SEMBRA che subito dopo la morte le anime non raggiungano il cielo o l'inferno. Infatti:
1. La Glossa, commentando quel versetto del Salmo: "Ancora un poco e l'empio non sarà", dice che "i santi saranno liberati alla fine del mondo; ma dopo questa vita tu non sarai dove saranno i santi, ai quali sarà detto: Venite, benedetti dal Padre mio". Ma quei santi sono destinati al cielo. Quindi i santi non vanno subito in cielo, dopo questa vita.
2. S. Agostino dice che "nel periodo che intercorre tra la morte e l'ultima resurrezione dell'uomo, l'anima se ne sta in misteriose dimore, a seconda che essa è degna di pace o di dolore". Ma queste dimore misteriose non si possono identificare col cielo o con l'inferno, perché anche dopo l'ultima resurrezione le anime saranno là insieme ai loro corpi; e allora sarebbe stato inutile distinguere il tempo che precede da quello che segue la resurrezione. Quindi le anime non andranno né all'inferno, né in paradiso prima del giorno del giudizio.
3. È più grande la gloria dell'anima che quella dei corpi. Ma la gloria dei corpi sarà data a tutti insieme, affinché dal gaudio comune ne risulti più grande la gioia dei singoli, come è chiaro da ciò che dice la Glossa: "Affinché nel comune gaudio di tutti, sia più grande il gaudio di ognuno". Perciò a maggior ragione si deve differire alla fine del mondo la gloria delle anime in modo da concederla a tutte insieme.
4. Il premio o la pena che si danno mediante la sentenza del giudice non devono precedere il giudizio. Ora, il fuoco dell'inferno o il gaudio del paradiso saranno dati a tutti per mezzo della sentenza di Cristo Giudice nell'ultimo giudizio, come è chiaro dalle parole evangeliche. Quindi, prima del giorno del giudizio, nessuno ascende in cielo o discende all'inferno.
IN CONTRARIO: 1. S. Paolo afferma: "Se l'abitazione nostra terrestre sarà disfatta, avremo una casa non manufatta preparata nei cieli". Quindi, l'anima libera dai lacci della carne ha una dimora preparata nei cieli.
2. Dice ancora l'Apostolo: "Desidero andarmene ed essere con Cristo"; per cui conclude S. Gregorio: "Chi non dubita della presenza di Cristo in cielo, neppure può negare che vi sia l'anima di S. Paolo". Ma siccome non possiamo negare che Cristo sia in cielo, perché è un articolo di fede, neanche è lecito dubitare che le anime dei santi siano portate in cielo. - Che poi vi siano delle anime che immediatamente dopo la morte discendono all'inferno, è chiaro da quanto dice S. Luca: "Morì anche il ricco e fu sepolto all'inferno".
RISPONDO: Come i corpi tendono al proprio luogo, che è il fine del loro moto, secondo la gravità o la leggerezza, così le anime giungono al premio o alla pena, fine delle loro azioni, per il merito o il demerito. Quindi, come i corpi, se non ne sono impediti, subito tendono al proprio luogo; così le anime, libere dai legami della carne, che le tratteneva allo stato di viatrici, subito ricevono il premio o la pena se non ne sono impedite. L'impedimento al premio può provenire talvolta dal peccato veniale che prima deve essere scontato. Ma poiché l'ultima dimora è connessa col premio o con la pena, appena liberata dal corpo, l'anima è sprofondata nell'inferno, o se ne vola al cielo; a meno che non ne sia impedita da qualche reato che richieda la sua purificazione.
Questa verità è comprovata dalla Sacra Scrittura e dagli scritti dei santi Padri; perciò sarebbe eretico pensare il contrario, come è chiaro in S. Gregorio e nel De Ecclesiasticis Dogmatibus.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La Glossa spiega se stessa, aggiungendo subito: "Cioè non avrai duplice stola come i santi nella resurrezione finale".
2. Tra queste misteriose dimore di cui parla S. Agostino, sono compresi l'inferno e il paradiso, nei quali certe anime vengono a trovarsi prima della resurrezione. Ma egli distingue il tempo che precede la resurrezione da quello che segue, sia perché prima della resurrezione le anime sono in quelle dimore senza il corpo, dopo invece avranno anche quello, sia perché in certe dimore (ultraterrene) le anime non ci saranno più dopo la resurrezione.
3. In relazione al corpo, gli uomini hanno fra loro un certo legame di continuità, perché è vero ciò che leggiamo negli Atti: "Dio fece da uno solo tutto il genere umano". Le anime invece sono state plasmate una per una. Perciò la congruenza che tutti gli uomini risorgano insieme nel corpo è molto più grande di quanto non sia quella che vorrebbe tutti gli uomini glorificati insieme anche nell'anima. Quindi per i santi sarebbe maggior danno il ritardo nella gloria dell'anima di quanto non sia invece il ritardo di quella del corpo. Né questa lacuna sarebbe colmata dal fatto che i singoli avrebbero un maggior gaudio dalla gioia di tutti.
4. L'obiezione è posta da S. Gregorio e dallo stesso è risolta: "Se dunque", egli dice, "le anime dei giusti sono già in cielo, che cosa potranno ricevere in premio della loro giustizia nel giorno del giudizio?". E risponde: "Nel giorno del giudizio avranno un aumento di beatitudine; la quale, mentre attualmente è goduta soltanto dall'anima, dopo sarà partecipata anche ai corpi; affinché essi godano anche nella loro carne nella quale per amore del Signore sopportarono travagli e martiri". Lo stesso argomento vale analogamente per i dannati.
ARTICOLO 3
Se le anime del paradiso o dell'inferno possano uscirne
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 1, qc. 3)
SEMBRA che le anime del paradiso o dell'inferno non possano uscirne. Infatti:
1. Dice S. Agostino: "Se le anime dei defunti si potessero occupare delle cose dei vivi, la mia santa madre per non parlare di altri non mi lascerebbe solo neppure una notte; lei che mi ha seguito per mare e per terra pur di vivere assieme a me"; e ne conclude che le anime dei defunti non prendono parte agli affari dei vivi. Ma esse potrebbero prendervi parte se potessero uscire dalle loro dimore. Dunque non possono uscirne.
2. Il Salmista pregava: "perché io abiti nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita". E in Giobbe si legge: "Chi sarà disceso agli inferi non ne risale". Quindi tanto i buoni che i cattivi non escono mai dalle loro dimore.
3. Abbiamo visto sopra che dopo la morte alle anime verranno assegnate delle dimore in premio o in pena. Ma dopo la morte non diminuiscono né i premi dei santi, né le pene dei dannati. Quindi essi non escono dalle loro dimore.
IN CONTRARIO: 1. S. Girolamo così redarguisce Vigilanzio: "Tu affermi che le anime degli apostoli e dei martiri han preso dimora, o nel seno d'Abramo, o nel luogo di riposo, o sotto l'altare di Dio, e che esse non possono quando vogliono essere presenti presso le proprie tombe. E così tu vuoi dettar legge a Dio! Vuoi mettere le catene agli apostoli, condannandoli al carcere fino al giorno del giudizio, in modo che non possano stare col loro Signore quelli di cui è scritto che "seguono l'Agnello dovunque egli vada". Ma se l'Agnello è dovunque, bisogna ritenere che anche quelli che lo accompagnano sono da per tutto". È quindi ridicolo affermare che le anime non escono dalle loro dimore.
2. Inoltre, nello stesso luogo, S. Girolamo dice: "Se il diavolo e i demoni scorrazzano in tutto il mondo e sono presenti ovunque con incredibile velocità, perché i martiri, che hanno profuso il loro sangue dovrebbero rimanere tappati nel loro sepolcro senza poterne uscire?". Dal quale argomento si può concludere che non soltanto i buoni, ma anche i cattivi escano talvolta dalle loro dimore, in quanto la loro dannazione non è più grande di quella dei demoni, i quali scorrazzano ovunque.
3. La stessa verità si può provare dai Dialoghi di S. Gregorio, dove si raccontano molte apparizioni dei defunti.
RISPONDO: Dal paradiso o dall'inferno si può uscire in due modi: primo, abbandonando del tutto quei luoghi per avere altra dimora, e in tal senso, come in appresso si dirà, nessuno, destinato definitivamente al paradiso o all'inferno può uscirne. Ma si può pensare anche ad una sortita provvisoria; ed in questo caso bisogna distinguere ciò che conviene alle anime secondo la legge naturale, da ciò che conviene secondo l'ordine della divina provvidenza; perché come dice S. Agostino, "altri sono i limiti delle umane cose, altri i segni della potenza divina; altra cosa ciò che avviene naturalmente, altra ciò che avviene in modo miracoloso".
Orbene, dal punto di vista puramente naturale le anime separate e destinate già alle proprie dimore, sono assolutamente estranee alla compagnia dei viventi. Infatti, gli uomini, che tuttora vivono nel loro corpo, non possono comunicare direttamente con gli esseri spirituali, perché ogni nostra cognizione scaturisce dai sensi: e d'altra parte quelli dovrebbero uscire dalle proprie dimore solo per prender parte alle umane vicende.
Ma per disposizione della divina provvidenza, talvolta le anime separate escono dalla loro dimora per apparire agli uomini; come S. Felice martire apparve visibilmente agli abitanti di Nola, a quanto narra S. Agostino, mentre erano assediati dai barbari. E si può ritenere che talvolta sia concesso anche ai dannati di apparire ai vivi per ammaestrarli o per spaventarli, oppure per chiedere suffragi, se si tratta di anime che si trovano in purgatorio, come è chiaro dalla lunga trattazione in merito che troviamo in S. Gregorio. Ma c'è una differenza tra i santi e i dannati, che i primi possono apparire quando vogliono, i secondi no. Infatti, come i santi, mentre sono tuttora in vita, ricevono, come grazia carismatica, il dono dei miracoli, che solo la potenza divina può fare, e non quelli che sono privi di questo dono, così non c'è nulla di sconveniente che in virtù della loro gloria, si conceda ai santi la facoltà di poter apparire ai vivi quando vogliono; mentre gli altri appaiono solo quando Dio lo permette.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. S. Agostino, come è chiaro dal contesto, si riferisce al comune ordine di natura. Non segue però che i morti, pur potendo apparire quando vogliono, di fatto appaiano con la stessa frequenza di quando erano in vita; perché i disincarnati o si conformano in tutto al divino volere, in modo che non è loro permesso di fare se non quello che essi intuiscono conforme alle divine disposizioni; oppure sono talmente afflitti dalle pene, da pensare più alla propria miseria che a fare delle apparizioni agli altri.
2. I testi addotti si riferiscono all'uscita definitiva dal paradiso o dall'inferno e non a quella provvisoria.
3. Come è stato detto sopra, il luogo destinato alle anime ridonda in premio o in pena delle stesse in quanto ne ricevono gioia o dolore. Questa gioia o questo dolore non cessano però nell'anima che esce da tali luoghi; come il prestigio di un vescovo, che in chiesa ha la cattedra quale posto onorifico, non diminuisce affatto quando se ne allontana; perché anche se lui non vi siede attualmente, quel luogo gli compete per diritto.
Bisogna rispondere ancora agli argomenti in contrario:
1. S. Girolamo tratta di ciò che forma la sovrabbondanza della gloria eterna degli apostoli e dei martiri e non di ciò che loro conviene per natura. E quando afferma che essi sono dovunque, non vuol dire che si trovino nello stesso momento in più luoghi o dovunque, ma che essi possono essere presenti dove vogliono.
2. La posizione dei demoni o degli angeli non è la stessa delle anime beate o dannate. Infatti gli angeli, buoni o cattivi, hanno sugli uomini la missione di vigilarli o di provarli. Ma questo non si può dire delle anime dei santi: alla cui gloria però compete la facoltà di essere presenti dove vogliono. Ed è questo che voleva dire S. Girolamo.
3. Sebbene talvolta le anime dei santi o dei dannati siano presenti dove appaiono visibilmente, non bisogna credere che ciò avvenga sempre. Talvolta infatti codeste apparizioni avvengono, durante il sonno o la veglia, per opera dei buoni o cattivi spiriti, per istruire o per ingannare i vivi. Anzi si dà il caso che appaiano anche i vivi e dicano agli altri tante cose, durante il sonno, senza naturalmente essere presenti, come S. Agostino dimostra con numerosi esempi.
ARTICOLO 4
Se il limbo degli inferi sia da identificarsi col seno di Abramo
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 2, qc. 1)
SEMBRA che il limbo non sia da identificarsi col seno di Abramo. Infatti:
1. Scrive S. Agostino: "Non ho mai trovato che la parola inferi sia stata usata dalla Scrittura in senso buono". Ma il seno di Abramo è preso in senso buono, come soggiunge lo stesso Santo: "Non credo si possa tollerare che non sia da prendersi in senso buono il seno di Abramo e quel luogo di pace, dove fu portato dagli angeli il pio povero (Lazzaro)". Dunque il seno di Abramo non s'identifica con il limbo degli inferi.
2. Quelli che sono all'inferno non vedono Dio, come è chiaro da quelle parole di S. Agostino: "Checché voglia significare l'espressione il seno di Abramo, certo è che là vive il mio caro Nebridio"; e ancora: "Egli ormai non porge più alla mia bocca l'orecchio; ma sì la bocca sua spirituale porge alla fonte e beve a suo potere e a suo talento della tua sapienza, senza fine beato". Perciò il limbo infernale non si identifica col seno di Abramo.
3. La Chiesa non prega perché qualcuno vada all'inferno. Eppure supplica nelle esequie che gli angeli portino l'anima del defunto nel seno di Abramo. Quindi il seno di Abramo non è la stessa cosa del limbo.
IN CONTRARIO: 1. Il seno di Abramo è quel luogo dove fu condotto il povero Lazzaro; ma Lazzaro fu portato all'inferno; infatti, commentando le parole di Giobbe, "Dove è stata costruita la casa per tutti i viventi", la Glossa dice che "gli inferi erano la dimora di tutti i viventi, prima della venuta di Gesù Cristo"; perciò il seno di Abramo va identificato con il limbo.
2. Un altro argomento lo troviamo nelle parole di Giacobbe ai suoi figli: "Farete discendere con dolore la mia canizie agli inferi". Quindi Giacobbe sapeva che morendo sarebbe disceso agli inferi. Ma per lo stesso motivo là fu portato anche Abramo dopo la morte. Dunque il seno di Abramo non è altro che un reparto dell'inferno.
RISPONDO: L'anima umana, dopo la morte, non può giungere allo stato di quiete se non per merito della fede; poiché "per avvicinarsi a Dio, è necessario credere". Ora, il prototipo di questa fede gli uomini lo hanno in Abramo, che per primo si segregò dalla massa degli infedeli ed ebbe da Dio un particolare "riconoscimento per la sua fede". Ecco perché quella pace che è elargita agli uomini dopo la morte, si chiama seno di Abramo, come dichiara S. Agostino.
Ma le anime sante non ebbero in ogni tempo la stessa pace. Perché, dopo la morte di Cristo, hanno pace perfetta, in quanto godono la visione di Dio. Prima invece l'avevano perché libere dalle pene, ma senza l'appagamento di ogni desiderio, per il fine raggiunto. Perciò prima di Cristo, lo stato delle anime sante in rapporto a quel che aveva di pace si chiamava "seno di Abramo", ma per quel che a questa pace mancava era detto "limbo infernale".
Quindi, prima di Cristo il limbo infernale e il seno di Abramo formavano, solo occasionalmente, non già essenzialmente, la stessa cosa. Perciò niente impedisce che dopo la venuta di Cristo il seno di Abramo sia del tutto diverso dal limbo, perché quelle cose che sono unite occasionalmente possono separarsi tra loro.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Lo stato dei santi patriarchi per quanto vi era di bene si chiamava "seno di Abramo"; ma per quel che vi era di imperfezione si denominava "inferno". Perciò il seno di Abramo non è preso in senso cattivo, e neppure l'inferno in senso buono, benché in qualche modo siano la stessa cosa.
2. Il luogo di riposo dei santi patriarchi è chiamato seno di Abramo prima e dopo la venuta di Cristo; ma con significati diversi. Poiché la pace dei santi, prima della venuta di Cristo, essendo difettosa, si chiamava indifferentemente inferno o seno d'Abramo, mancando in essa la visione di Dio. Siccome invece, dopo quella venuta, la pace dei giusti è perfetta, per la visione di Dio, può chiamarsi ancora seno di Abramo, ma non inferno. La Chiesa perciò prega che a questo seno d'Abramo siano condotti i suoi fedeli.
3. La risposta alla terza obiezione è quindi ovvia. E in tal senso va intesa la Glossa alle parole di S. Luca: "Avvenne che morì anche il mendico ecc.": "Il seno di Abramo è il luogo di pace dei poveri beati, dei quali è il regno dei cieli".
ARTICOLO 5
Se il limbo si identifichi con l'inferno dei dannati
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 2, qc. 2)
SEMBRA che il limbo si identifichi con l'inferno dei dannati. Infatti:
1. È detto che Cristo "ha morso" l'inferno, non che l'ha assorbito; perché ne tirò fuori solo alcuni e non tutti quelli che c'erano. L'espressione non sarebbe valida se i liberati da lui non avessero fatto parte della moltitudine che si trovava all'inferno. Ma siccome quelli che egli liberò erano nel limbo dell'inferno, è chiaro che essi stavano e nel limbo e nell'inferno. Quindi ne segue che il limbo è lo stesso che l'inferno o ne è una parte.
2. Nel Credo si dice che Cristo "discese all'inferno". Ma si sa bene che egli discese nel limbo dei patriarchi; quindi codesto limbo si identificava con l'inferno.
3. Sta scritto in Giobbe: "Tutte le mie cose scenderanno nell'inferno più profondo". Ora, il santo e giusto Giobbe discese al limbo. Dunque il limbo si identifica con l'inferno più profondo.
IN CONTRARIO: 1. "Nell'inferno non c'è redenzione alcuna". Siccome invece i santi furono redenti dal limbo; è chiaro che questo non è l'inferno.
2. Si legge in S. Agostino: "Come si possa pensare che quella pace", concessa a Lazzaro, "si trovi all'inferno, io non riesco a capirlo". Ma l'anima di Lazzaro discese al limbo. Perciò il limbo e l'inferno non sono la stessa cosa.
RISPONDO: Le dimore delle anime si possono distinguere per la loro ubicazione, o per la loro qualità, cioè in quanto sono destinate al premio o al castigo. In quest'ultimo senso non c'è dubbio che il limbo dei patriarchi è distinto dall'inferno; sia perché nell'inferno c'è la pena del senso, che non esiste nel limbo, sia perché nell'inferno la pena è eterna, mentre nel limbo i santi eran trattenuti solo per un certo tempo.
Ma rispetto all'ubicazione, è probabile che l'inferno e il limbo abbiano lo stesso luogo, o luoghi quasi contigui, in maniera però che una certa parte superiore dell'inferno si chiami limbo dei Patriarchi. I dannati infatti patiscono una pena proporzionata alla diversità della loro colpevolezza. Perciò quanto più i loro peccati sono gravi, tanto più profondo e più oscuro sarà il luogo assegnato nell'inferno. Dunque ai santi Patriarchi, oberati da minime colpe, dovette essere riservato un posto più in alto e meno tenebroso di tutti gli altri che quivi sono puniti.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si può dire che Cristo ha morso l'inferno e vi è disceso a liberare i patriarchi, per il fatto che l'inferno e il limbo hanno la stessa ubicazione.
2. La stessa risposta vale per questa seconda difficoltà.
3. Giobbe non discese all'inferno dei dannati, ma al limbo dei patriarchi, che è chiamato "luogo profondissimo", non perché luogo di pena ma per connessione con gli altri luoghi, poiché in esso si suole includere ogni luogo di pena.
Oppure si può spiegare il passo citato con l'esposizione di S. Agostino: "Giacobbe, dicendo ai figli, "Farete discendere la mia vecchiaia con tristezza all'inferno", sembra aver voluto manifestare la paura di essere talmente afflitto, da temere di non giungere alla pace dei giusti e di dover andare invece nell'inferno dei reprobi". Allo stesso modo si possono interpretare le parole di Giobbe, ritenendole, non tanto un'asserzione, quanto piuttosto la manifestazione di un timore.
ARTICOLO 6
Se il limbo dei bambini si identifichi con quello dei patriarchi
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 2, qc. 3)
SEMBRA che il limbo dei bambini si identifichi con quello dei patriarchi. Infatti:
1. La pena deve essere proporzionata alla colpa. Ora, la colpa che teneva prigionieri i patriarchi e i bambini era la stessa, cioè la colpa originale. Quindi identico deve essere il luogo di pena per gli uni e per gli altri.
2. S. Agostino afferma che "la pena dei bambini che muoiono col solo peccato originale è mitissima". Ora nessuna pena è più mite di quella subita dai patriarchi. Dunque è identico il luogo della loro pena.
IN CONTRARIO: Come per il peccato attuale c'è una pena temporale in purgatorio e una eterna nell'inferno, così per il peccato originale vi era una pena temporale nel limbo dei patriarchi e ve n'è una eterna nel limbo dei bambini. Perciò come non si identificano l'inferno e il purgatorio, così neppure il limbo dei bambini e quello dei patriarchi.
Circa l'identità di luogo dell'inferno con quello del purgatorio, abbiamo già trattato in precedenza.
RISPONDO: Il limbo dei patriarchi e quello dei bambini sono indubbiamente diversi riguardo alla qualità del premio o della pena. Infatti i bambini sono privi di quella speranza di beatitudine, che avevano i patriarchi, insieme alla luce della fede e della grazia. Ma riguardo all'ubicazione, si ritiene che probabilmente sia la stessa: solo che il limbo dei patriarchi era ancora al di sopra del limbo dei bambini, cioè, stando alle spiegazioni date, tutto il limbo è la parte superiore dell'inferno.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. I patriarchi e i bambini non hanno la stessa relazione col peccato originale. Nei patriarchi la colpa originale era già stata espiata per quel che contaminava la loro persona, pur rimanendo nell'umana natura un impedimento non ancora perfettamente soddisfatto. Nei bambini invece c'è un duplice impedimento: personale e naturale. Ecco perché dovevano esser destinate dimore differenti ai bambini e ai patriarchi.
2. S. Agostino parla di castighi dovuti alle singole persone, tra i quali il più piccolo è quello del solo peccato originale. Ma c'è un castigo anche più mite ed è quello di coloro che sono impediti di possedere la gloria non da menomazioni personali, bensì da una menomazione di natura, riducendosi la pena alla sola privazione della gloria.
ARTICOLO 7
Se sia necessario distinguere tutte queste dimore
(4 Sent., d. 45, q. 1, a. 3)
SEMBRA che non sia necessario distinguere tutte queste dimore. Infatti:
1. Le dimore vengono attribuite alle anime dei trapassati in rapporto non solo al peccato, ma anche al merito. Ma per il merito non c'è che una dimora, cioè il paradiso. Quindi anche per i peccati basta una sola dimora.
2. La destinazione delle anime alle diverse dimore dopo la morte avviene secondo il merito o demerito. Ma il luogo per acquistare meriti o demeriti è uno solo. Perciò ci deve essere per le anime un solo luogo, anche dopo la morte.
3. I luoghi di pena devono corrispondere alle colpe. Ora, le colpe sono soltanto di tre specie: originale, veniale e mortale. Dunque tre devono essere i luoghi di pena.
IN CONTRARIO: Sembra che non bastino le dimore generalmente ammesse, ma ce ne vogliano molte di più.
1. Quest'aria tenebrosa, p. es., è il carcere dei demoni, come scrive S. Pietro. E tuttavia essa non è computata tra le cinque dimore suddette. Dunque i regni d'oltretomba devono essere più di cinque.
2. Il paradiso terrestre è distinto da quello celeste. Ma alcuni, dopo questa vita, sono stati trasferiti al paradiso terrestre, come si dice di Enoc e di Elia. Quindi, non essendo il paradiso terrestre computato tra le suddette cinque dimore, queste devono essere più di cinque.
3. Ad ogni genere di peccatori deve corrispondere un particolare luogo di pena. Ma, nell'ipotesi che uno, contaminato dal peccato originale, muoia col solo peccato veniale, non troverebbe un luogo dove stare. Infatti non potrebbe andare in paradiso né al limbo dei patriarchi perché privo della grazia. Ma neppure potrebbe andare nel limbo dei bambini, dove non c'è pena sensibile, dovuta al peccato veniale. Non in purgatorio, dove la pena è solo temporanea, mentre a lui spetta una pena eterna. Mancando poi il peccato mortale, non può andare all'inferno. Bisogna quindi ammettere una sesta dimora.
4. La gravità delle pene dipende dalla diversità delle colpe e dei meriti. Ma i gradi delle une e degli altri sono infiniti. Dunque bisogna che ci siano infinite dimore, per punire o premiare le anime dopo la morte.
5. Talvolta la punizione delle anime avviene nei luoghi stessi dove peccarono, come è chiaro da quel che racconta S. Gregorio. Ma esse peccarono dove noi abitiamo. Perciò tra i luoghi d'oltretomba bisogna metterci anche questa terra: tanto più che alcuni, come afferma più sopra il Maestro (delle Sentenze), sono puniti anche in questo mondo per i loro peccati.
6. Alcuni, che muoiono in grazia, hanno delle venialità le quali son degne di pena; ma altri, pur morendo in peccato mortale, hanno dei meriti, per i quali dovrebbero ricevere un premio. Ora, per quelli che muoiono in grazia col peccato veniale c'è un luogo, in cui vengono puniti prima di ricevere il premio, cioè il purgatorio. Quindi ci deve essere un luogo anche per quelli che muoiono in peccato mortale, ma con qualche opera buona.
7. I patriarchi, come prima della venuta di Cristo erano in attesa della gloria perfetta dell'anima, così ora sono in attesa della gloria del loro corpo. Quindi, allo stesso modo che si ammette un luogo per i santi, prima della venuta di Cristo, diverso da quello in cui ora si trovano, così si deve ammettere per loro un luogo, diverso dal presente, sul quale si troveranno dopo la resurrezione.
RISPONDO: Le dimore vanno distinte in base allo stato delle anime. L'anima che è unita al corpo mortale è in grado di meritare; libera da questo è in grado di ricevere il premio o la pena secondo i meriti. Quindi, dopo la morte, l'anima è in grado di ricevere il premio finale, oppure ne è impedita. Se può ricevere la retribuzione finale, due sono i casi: o merita il premio, e allora c'è il paradiso; o merita il castigo, e allora, per la colpa attuale, c'è l'inferno; altrimenti, per il peccato originale, il limbo dei bambini. Se invece c'è qualche impedimento a ricevere la retribuzione finale, questo può dipendere da una colpa personale, e allora c'è il purgatorio, in cui vanno le anime che non possono conseguire subito il premio a causa dei peccati commessi; oppure l'impedimento è nella natura, e allora c'è il limbo dei patriarchi, dove erano trattenute le anime in attesa di raggiungere la gloria, perché il peccato dell'umana specie non si poteva ancora espiare.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. "Il bene avviene in una sola maniera, il male in tanti modi", come Dionigi e Aristotele dimostrano. Quindi, nulla di strano, se il luogo del premio eterno è uno solo e i luoghi di pena siano invece molti.
2. Lo stato di merito e di demerito è uno solo: perché chi può meritare può anche demeritare. Perciò è giusto che ci sia per questo un solo luogo per tutti. Invece gli stati dei premiati o dei puniti sono diversi. Perciò il paragone non regge.
3. Per la colpa originale si può essere puniti in due maniere, come è stato dichiarato sopra: a titolo personale, o soltanto a motivo della natura. Di qui la necessità di un doppio limbo per quell'unica colpa.
4. L'aere tenebroso non è assegnato ai demoni come luogo di retribuzione per i meriti, ma solo come luogo conveniente al loro ufficio, che è quello di metterci alla prova. Perciò non è compreso tra i luoghi dei quali trattiamo; ché ai demoni spetta innanzi tutto il fuoco dell'inferno, come è chiaro dal Vangelo.
5. Il paradiso terrestre più che per i trapassati da rimunerare era adatto per lo stato dei viatori. Ecco perché non è compreso tra i luoghi dei quali ora trattiamo.
6. L'ipotesi è assurda. Ma, ammettendola come possibile, costui sarebbe punito nell'inferno per tutta l'eternità. Poiché se il peccato veniale è punito in purgatorio, ciò si deve al fatto che occasionalmente è unito con lo stato di grazia. Se infatti è unito al peccato mortale, e quindi senza la grazia, allora è punito all'inferno con la pena eterna.
7. Le diversità di grado nella pena o nel merito non costituiscono stati diversi in base ai quali si distinguono le varie dimore. Perciò la ragione addotta non vale.
8. Se talvolta le anime separate sono punite nei luoghi abitati da noi, ciò non avviene perché codesti siano specifici luoghi di pena: ma solo per nostro ammaestramento; affinché conoscendo le loro pene ci teniamo lontani dalla colpa.
L'esempio delle anime, punite per i loro peccati nello stato di unione col corpo, non fa a proposito. Perché quella pena non modifica lo stato di merito o di demerito dell'uomo; e noi ora trattiamo delle dimore destinate alle anime dopo lo stato predetto.
9. Il male non può mai essere assoluto, senza alcuna mescolanza di bene, mentre invece il bene può essere senza alcuna mescolanza di male. Perciò quelli che sono destinati alla beatitudine, cioè al sommo bene, devono essere purificati da ogni male. E quindi deve esserci un luogo in cui vengono purificati quelli che muoiono non completamente puri. Quelli invece che saranno imprigionati nell'inferno non saranno privi di ogni bene. Quindi non vale il paragone: perché i dannati possono ricevere il premio delle opere buone da essi fatte in passato con una mitigazione della pena.
10. La gloria dell'anima costituisce il premio essenziale; quella del corpo invece, derivando dall'anima, è radicalmente tutta nella stessa anima. Perciò mentre la mancata gloria dell'anima costituisce uno stato, non lo costituisce la mancata gloria del corpo. Ecco perché uno solo è il luogo per le anime sante liberate dal corpo e per quelle riunite al corpo glorioso, cioè il cielo empireo. Invece non poteva essere unico il luogo destinato alle anime dei patriarchi prima e dopo il conseguimento della gloria.

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Gregorio Magno, Omelia per la III domenica di quaresima

Lazzaro, il mendico, giace pieno di piaghe davanti alla porta del ricco. In questo fatto Dio ha attuato due suoi giudizi. Il ricco avrebbe avuto forse qualche scusa se Lazzaro, povero e ulceroso, non fosse giaciuto davanti alla sua porta, se fosse stato lontano, se la sua miseria non gli fosse stata continuamente sotto gli occhi. Viceversa, se il ricco fosse stato lontano dal povero, questi avrebbe dovuto tollerare nell'animo una tentazione minore. Ma Dio pose il povero piagato precisamente davanti alla porta del ricco sfondato: con questo unico e identico fatto, aumentò, per la visione del povero, il cumulo dei castighi del ricco crudele, e mise alla prova ogni giorno il povero con la visione del ricco. Pensate quante tentazioni dovette sopportare nel proprio animo questo povero, ricoperto di piaghe, mentre, bisognoso di cibo, non aveva neppure la salute e vedeva davanti a sé il ricco scoppiare di benessere, tutto immerso nei piaceri! Vedeva se stesso tormentato dal dolore e dal freddo, l'altro gioire, vestito di bisso e di porpora; si vedeva oppresso dalle piaghe, e vedeva l'altro abbondare di ogni bene; vedeva sé tanto bisognoso, e l'altro tanto egoista. Quale tumulto di tentazioni, fratelli miei, si agitava nel cuore del povero! Egli sarebbe stato afflitto abbastanza dalla povertà, anche se fosse stato sano; e sarebbe stato afflitto abbastanza dalla malattia anche se avesse avuto i mezzi necessari. Ma affinché il povero fosse messo alla prova, lo oppressero insieme la povertà e la malattia. E per di più vedeva il ricco procedere accompagnato da amici e servitori, mentre nella sua malattia e nel suo bisogno nessuno lo visitava. Che nessuno gli fosse vicino, infatti, lo attestano i cani, che leccavano liberamente le sue ferite. Con un solo fatto, dunque, Dio onnipotente mostrò due suoi giudizi: permise che il povero Lazzaro giacesse davanti alla porta del ricco, e così l'empio ricco aumentasse la propria condanna, mentre il povero tentato aumentasse la propria ricompensa. Quegli vedeva ogni giorno colui di cui non aveva pietà, questi vedeva ogni giorno colui che era per lui occasione di prova. Due cuori quaggiù, e lassù uno che guardava: ne preparava uno alla gloria esercitandolo nella tentazione e aspettava di punire l'altro, tollerandone l'iniquità. Il Vangelo continua: E avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno (Lc 16,22). Ed ecco che questo ricco, in preda al tormento, cerca quale avvocato colui di cui in questa vita non aveva avuto pietà. Infatti il Vangelo soggiunge: Ed elevando gli occhi mentre era tra i tormenti, vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno. E gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a bagnar la punta del dito nell'acqua per rinfrescarmi la lingua, perché io spasimo in questa fiamma!" (Lc 16,23-24). Come sono altissimi i giudizi di Dio! Come è severa e precisa la ricompensa delle azioni buone e di quelle cattive! Sopra è stato detto che in questa vita Lazzaro bramava le briciole di pane che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava; ora si dice che il ricco, nel suo tormento, brama che Lazzaro gli faccia cadere dalla punta del dito una goccia d'acqua in bocca. Da qui, o fratelli, da qui comprendete quanto sia rigido il giudizio di Dio! Questo ricco che non volle dare neppure i minimi avanzi della sua mensa al povero piagato, ora nell'inferno giunge a chiedere il minimo: chiede infatti una goccia d'acqua colui che negò una briciola di pane. Ma con grande timore si deve soppesare ciò che dice la risposta di Abramo: Figliolo, ricordati che tu avesti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe dei mali. Quindi ora lui è consolato e tu soffri (Lc 16,25). Davanti a queste parole, fratelli miei, c'è bisogno più di timore che di commento. Forse fra i presenti ve ne sono alcuni che hanno ricevuto dei beni esteriori a questo mondo. Dovete aver timore, dovrei dire, dello stesso dono esteriore, che non vi sia stato dato in ricompensa per le vostre buone azioni e il giudice, che vi ha ricompensato quaggiù, vi allontani dalla mercede del bene interiore, che cioè l'onore e le ricchezze siano non aiuto alla virtù, ma ricompensa della fatica. Infatti con le parole: "Avesti i beni in vita" si indica che nel ricco vi fu qualcosa di buono, per cui ne ebbe i beni di questa vita. Dicendo invece che Lazzaro ebbe dei mali, si mostra chiaramente che in lui vi fu qualcosa di male da purgare. Ma il male di Lazzaro fu purificato dal fuoco della miseria, mentre il bene del ricco fu ricompensato con la felicità di questa vita passeggera. Quello fu afflitto e mondato con la povertà, questi ricompensato e scacciato per l'abbondanza. Voi tutti, dunque, che in questo mondo avete dei beni, se vi ricordate di aver compiuto del bene, abbiate il timore che questa prosperità a voi concessa non ne sia la ricompensa. E se vedete che tutti i poveri commettono delle azioni degne di riprensione, non disprezzateli. Non disperate di loro, perché forse la fornace della povertà sta purificando in loro ogni traccia di pravità. Abbiate timore di voi, invece, che pur avendo compiuto qualche azione cattiva, ne è seguita una vita prospera. Per ciò che riguarda i poveri, pensate che la loro povertà, quale maestra severa, ne tormenta la vita per farli giungere alla rettitudine.