giovedì 31 maggio 2012

Il Papa a Milano


Conto alla rovescia per l’arrivo di Papa Benedetto XVI in città. Milano e i pellegrini del VII Incontro mondiale delle famiglie sono pronti ad accogliere il Santo Padre, che oggi 1 giugno arriverà alle 17 all’aeroporto di Milano Linate. Il Papa sarà accolto dai cardinali Scola, Antonelli e Tettamanzi e da diverse autorità, tra cui il sindaco di Milano Pisapia, il prefetto di Milano Lombardi, il presidente della Provincia Podestà e il presidente della Regione Lombardia Formigoni. Il primo appuntamento con la cittadinanza sarà alle 17.30 in piazza Duomo, per un saluto di benvenuto. Alle 19.30 il Papa raggiungerà il Teatro alla Scala, dove in suo onore il direttore Daniel Barenboim eseguirà la Nona sinfonia di Beethoven: un’occasione culturale per raccontare il mondo e le famiglie, per ridire in musica i temi del VII Incontro mondiale delle famiglie. Lo stesso cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, ha infatti sottolineato come «la musica è forse uno degli elementi maggiormente presenti nella realtà della festa: non c’è vera festa senza musica, senza che uomini e donne siano afferrati da melodie e canti in grado di esprimere le loro gioie e malinconie, le loro attese e tristezze». Al termine del concerto il Santo Padre rivolgerà un saluto ai presenti per poi rientrare in Arcivescovado, dove alloggerà per tutto il periodo della permanenza a Milano.

Per i fedeli l’appuntamento sarà poi alle 21.30 per l’Adorazione eucaristica, che si terrà in Cattedrale e contemporaneamente in diverse parrocchie. In Duomo l’Adorazione Eucaristica sarà guidata dal cardinal Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia. Per esprimere vicinanza alle popolazioni vittime del sisma, l’Adorazione eucaristica si terrà alla presenza dei Vescovi delle zone più colpite dal terremoto: monsignor Roberto Busti, Vescovo di Mantova, monsignor Antonio Lanfranchi, Vescovo di Modena, monsignor Paolo Rabitti, Vescovo di Ferrara, monsignor Francesco Cabina, Vescovo di Carpi. All’esposizione dell’Eucarestia seguiranno tre “quadri” ispirati alle catechesi preparatorie dell’Incontro mondiale: “Il segreto di Nazareth”, “Il lavoro risorsa per la famiglia” e “La festa tempo per il Signore”. Al termine avrà luogo una colletta per i terremotati.

Prima dell’arrivo del Santo Padre si concluderanno i lavori del Congresso teologico-pastorale e del Congresso dei Ragazzi. Nell’ultima giornata a Fieramilanocity, a partire dalle 9.30, le riflessioni saranno centrate sulla festa. Nella sessione plenaria presieduta da monsignor Erminio De Scalzi, presidente della Fondazione Milano Famiglie 2012, Blanca Castilla, teologa e antropologa che insegna al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Madrid, parlerà de “La famiglia e la festa tra antropologia e fede”. Successivamente, l’arcivescovo di Boston, cardinale Sean O’Malley, tratterà di “Santificare la festa: la famiglia nel giorno del Signore”, attingendo alla sua esperienza umana e pastorale. Le conclusioni saranno affidate al cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia. Nel pomeriggio, dalle 14.30, il Congresso diventerà di nuovo itinerante, con sette tavole rotonde in programma in Milano.
Nella Basilica di Sant’Ambrogio il priore di Bose Enzo Bianchi sarà tra i relatori sul tema “L’Eucaristia della famiglia nel Giorno del Signore”, assieme a tre coppie provenienti da Polonia, Colombia e Italia.
La domenica come “tempo della comunione e della missione” sarà trattata all’Unione del Commercio di corso Venezia, tra gli altri, da monsignor Olinto Ballarini, già fidei donumambrosiano in Zambia. Stimolante si annuncia il dibattito nella chiesa di Sant’Antonio su “Adolescenti e giovani tra festa e tempo libero”, con lo psicanalista Gustavo Pietropolli Charmet e lo scrittore Alessandro D’Avenia. Nella chiesa di Santo Stefano, invece, congressisti provenienti da diverse aree (Libano, Benin, Congo e Ucraina) porteranno la loro testimonianza su “Famiglia e festa nei diversi Paesi del mondo”. All’Università degli Studi non mancherà, infine, uno spazio d’attenzione specifica dedicata alla delicata situazione delle famiglie “dal cuore ferito”: separati, divorziati e risposati civilmente.  Infine alle 16 i congressisti si trasferiranno in piazza Duomo per attendere l’arrivo del Santo Padre.

Come seguire attraverso i mass media
Sessioni mattutine del Congresso: diretta dalle 9 alle 13 su Telepace, Telenova News (canale 664), www.family2012.com (live streaming), www.chiesadimilano.it (live streaming) e Radio Mater (I relazione; II in differita alle 18.30); “speciale” su Radio Marconi alle 11.
Arrivo del Papa a Linate: diretta su Rai 1, Telenova (canale 14 digitale terrestre, canale 830 Sky), Telenova news (canale 664), www.family2012.com e www.chiesadimilano.it.
Arrivo del Papa in piazza Duomo: diretta su Rai 1, Telenova, Telenova news, www.family2012.com, www.chiesadimilano.it, Radio Marconi e Radio Mater.
Concerto alla Scala: diretta su Rai 3, Telenova, Tv 2000, Telepace, Telenova news, www.family2012.com, www.chiesadimilano.it, Radio Marconi e Radio Mater. I pellegrini potranno seguirlo da un maxischermo allestito in piazza Duomo.
Adorazione eucaristica in Duomo: diretta dalle 21.30 su Telenova news, Telepace, www.family2012.com, www.chiesadimilano.it, Radio Marconi e Radio Mater

Trasformare la maledizione in benedizione

Di seguito il Vangelo di oggi, 1 giugno, venerdi della VIII settimana del T. O., con un commento e un testo breve di san Cirillo di Gerusalemme.




Solo uno sciocco e uno sfrontato
avrebbe l'ardire di presentarsi davanti al suo creatore con questa pretesa:
"lo non vengo qui a mendicare; ti amo disinteressatamente"

Clive Staples Lewis


Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 11,11-26.

Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici diretto a Betània. La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. E avendo visto di lontano un fico che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se mai vi trovasse qualche cosa; ma giuntovi sotto, non trovò altro che foglie. Non era infatti quella la stagione dei fichi. E gli disse: «Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti». E i discepoli l'udirono. Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. Ed insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!». L'udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento.
Quando venne la sera uscirono dalla città.
La mattina seguente, passando, videro il fico seccato fin dalle radici. Allora Pietro, ricordatosi, gli disse: «Maestro, guarda: il fico che hai maledetto si è seccato».
Gesù allora disse loro: «Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato. Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati».

COMMENTO


Gesù ha fame, e cerca un cibo che neanche i suoi discepoli conoscono. Il suo cibo è compiere l'opera che il Padre ha preparato, la volontà d'amore di Colui che lo ha inviato. Gesù cerca un albero che dia i frutti che sazino la sua fame, e non lo trova. Il fico in cui si imbatte infatti, non ha frutto. Nella Scrittura e nella Tradizione ebraica la fecondità del fico è un'immagine profetica di Israele che ha conosciuto ed accolto il Messia:

"Nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione e non impareranno più le arti della guerra. Siederanno ognuno, tranquilli sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà" (Mi 4,3b ). Il fico sterile invece designa l'infedeltà di Israele al suo Dio e alla Torah: "Essi hanno rigettato la parola del Signore... dal piccolo al grande, tutti commettono frode... li mieto e li anniento, dice il Signore, non c'è più uva nella vigna né frutti sui fichi; anche le foglie sono avvizzite". Alla luce di queste parole si comprende il segno profetico di Gesù che maledice il fico presso il quale non ha trovato frutto. Gesù non cerca frutti qualunque: Lui cerca frutti fuori stagione, i frutti di un'elezione che va oltre i limiti imposti dal corso della natura. Israele aveva visto e sperimentato cose che nessun altro popolo aveva potuto vedere; Israele era la primizia della salvezza che Dio offriva ad ogni uomo. La sua ribellione nel deserto ad esempio, illumina il contesto dell'episodio narrato dal vangelo. In quel luogo dove la vita è difficile, senza acqua ne cibo, Israele è chiamato a sperimentare l'Onnipotenza di suo Padre: nell'elezione è presente il seme che darà frutti fuori stagione, come Dio ha tratto l'acqua dalla roccia e pane dalla rugiada del mattino. Ribellarsi e indurire il cuore di fronte a quanto appare impossibile e illogico alla ragione manifesta l'incredulità di fronte al potere di Dio, l'incapacità di abbandonarsi al suo amore. E'quanto capita a ciascuno di noi quando il Signore, attraverso le situazioni e le persone che ci sono accanto, viene a cercare frutti fuori stagione, frutti soprannaturali. Ci ribelliamo perchè ci sentiamo traditi e trattati ingiustamente. Dio pretende da noi, non provvede alla nostra vita cambiando le circostante a nostro favore, addolcendo il carattere del marito, facendo obbediente il figlio, comprensivo il capo ufficio... E invece proprio la realtà della nostra storia costituisce il deserto dove Dio ci conduce perchè il seme deposto in noi, la primogenitura con la quale siamo stati eletti, produca i frutti al di fuori della stagione appropriata: " Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (cfr. Mt. 5,46-48). Ribellandoci all'ingiustizia rifiutiamo la primogenitura e ricopriamo la nostra vita di foglie, pura apparenza incapace di sfamare chi si avvicina a noi. E la nostra vita si secca, irrimediabilmente, e Gesù non può far altro che maledire, per l'eternità, quell'albero tutto foglie e niente frutti che è il nostro uomo vecchio.


Si tratta dello stesso segno che compie subito dopo nel Tempio su quanti avevano pervertito il Luogo Santo in una spelonca di ladri. Quello che era stato dato ad Israele come una Profezia dell'opera di Dio, il Monte Santo ove avrebbe radunato tutte le genti a sedersi tranquille, era divenuto un luogo di mercato, di compromessi, di idolatria. In questo Vangelo appare tutto il dramma di Israele, Popolo duro a convertirsi, incapace di mantenersi fedele per compiere la Volontà del Padre, la sua missione tra le Nazioni. La maledizione di Gesù non fa che attestare una tragica realtà, la conseguenza di qualcosa che s'era già consumato.


Questa Parola è per noi oggi. Attraverso di essa possiamo ripensare alla nostra vita e alla nostra elezione. Il Signore ha fame di salvezza per questa generazione, e per questo viene a cercare frutti dall'albero che Lui stesso ha piantato, la nostra vita. In questo incontro ci troviamo tutti spogli e secchi, senza frutti. L'infecondità è sempre segno di incredulità. Per questo il Signore parla della preghiera proprio nel contesto che appare nel vangelo odierno. Dove, come nel Tempio, la preghiera, la relazione di intimità con Dio, è sostituita dal denaro, dalla fiducia nella carne, significa che è scomparsa la fede, e l'incredulità è la porta dischiusa all'idolatria. Così è stato per il Popolo d'Israele, con il cuore indurito e incredulo, intento a fabbricarsi il vitello d'oro prima, a fare alleanza con i Popoli vicini poi. Come per ciascuno di noi, incredulo dinanzi alla storia di ogni giorno, di fronte alla propria debolezza. E la vita si trasforma in un commercio idolatrico pieno di compromessi. Una vita sterile, incapace di donare nulla, infedele alla missione affidata.


Per questo anche oggi il fuoco della gelosia ardente di Dio giunge a ciascuno di noi, a seccare sin dalle radici la nostra incredulità, a purificare il suo Tempio che è la nostra stessa vita. Per questo i problemi e i fallimenti, le malattie e il dolore ci incalzano. Così è di ogni esplosione fragorosa del male: esso non viene da Dio, ma è Dio che lo permette e, a volte, lo spinge al suo tragico epilogo. Anche i terremoti e gli tsunami sono parte della pedagogia divina di salvezza, per quanto scandaloso e inaccettabile ci risulti tutto questo. Il veleno di morte che scorre nella natura e nell'uomo è il frutto corrotto del peccato. Il fico seccato del vangelo è immagine di ogni vita sbriciolata tra amanti, debiti, alcool e droga; è immagine di una città polverizzata dal terremoto o da un tifone; è immagine di tutto quanto ci si secca tra le mani, esattamente come accade all'uomo dalla mano inaridita: maledendo l'albero, Gesù rende porta alla luce una realtà profonda, palesa e spinge all'epilogo il processo di corruzione già iniziato nell'albero. Per puro amore! 


Per compiere l'impossibile, il cambio radicale di natura che costituisce l'unica e autentica salvezza, è necessario che l'impossibile venga alla luce; altrimenti si tratterà sempre di toppe cucite su un vestito ormai logoro, palliativi, sedativi per rendere la vita meno amara... Un monte che si getta nel mare, ecco l'impossibile che la parola di Dio accolta e fatta propria nella preghiera, ha il potere di compiere! Uno sconvolgimento della natura, di questo ha bisogno l'uomo, l'irrompere della vita divina nella vita carnale e corruttibile! Questo è il battesimo, l'opera di Dio compiuta da Cristo: Egli ha spinto la sua stessa vita sino all'epilogo più tragico, a cibarsi del frutto avvelenato del peccato, alla morte e al sepolcro. Cristo si è fatto maledizione, la stessa inflitta al fico del vangelo, per trasformarla in benedizione, capovolgendo la sorte di ogni uomo


Non si tratta di rattoppare qua e là, come spesso siamo tentati di fare, anche nella Chiesa con tante opere sociali pur meritevoli nelle intenzioni. Non si tratta solo di strappare un giovane dalla morsa della droga, di sfamare i poveri, di rimettere a dialogare le coppie in crisi. Il Signore è venuto sulla terra per compiere un'opera infinitamente più grande, quella che ha compiuto e compie ogni giorno in noi, quella che ha affidato alla sua Chiesa: compiere l'impossibile, scendere nell'abisso della morte, tra le rovine di un terremoto che ha dilaniato terra e anima, giungere al fondo toccato dai peccatori per annunciarvi la Parola capace di risuscitare e donare una vita completamente nuova. Dio può fare di un drogato un sacerdote santo, può ricreare un matrimonio distrutto dal tradimento e dalla violenza, far apparire la vita nel grembo sterile di una donna che gettato la sua maternità nella pattumiera dell'egoismo per lunghi anni; Dio può trasformare il peccatore più incallito in un'immagine cristallina del suo Figlio; Dio può gettare nel mare la montagna dell'orgoglio, seccare l'albero sterile che ha pervertito e stravolto la primogenitura per far nascere qualcosa di assolutamente nuovo, un albero fecondo pronto a sfamare e a far da riparo ad ogni uomo. Dio lascia e spesso spinge al limite le situazioni dove regna il peccato, e sembra che il demonio e il male abbiano la meglio: come è accaduto a Giobbe, ad esempio. Ma è solo per compiere in pienezza l'impossibile, per non limitarsi, sentimentalmente, a spalmare una pomata incapace di guarire il morbo più profondo. Per questo la maledizione eterna che colpisce il fico senza frutti è oggi per noi una buona notizia! E' maledetto e seccato eternamente l'uomo vecchio che si corrompe e non può amare, come i carri, i cavalli e i cavalieri del faraone sono stati precipitati nel mare e Israele non li avrebbe visti mai più. La maledizione del fico è la porta alla benedizione di un albero nuovo, creato da Dio in Cristo, la vita nuova nella quale siamo chiamati a camminare per dare i frutti della fede adulta, frutti di vita eterna. 


Ma una buona notizia riafferma ancora una volta la serietà della nostra vita: ci è stato dato molto, molto ci sarà richiesto. E' sempre possibile chiudersi ancora, indurirsi e lasciare spazio alla bestemmia contro lo Spirito Santo e continuare a dubitare del suo amore; possiamo irridere e beffarci della misericordia di Dio, e non entrare nel riposo preparato per noi, come gli "adulti" del Popolo di Israele che, nonostante le esperienze fatte nel deserto, hanno dubitato ancora dinanzi alla Terra Promessa, e per  questo non vi sono entrati. La maledizione destinata all'uomo vecchio è eterna, non dimentichiamolo: chi non accoglie la benedizione dell'uomo nuovo, la trasformazione in uomo della Terra Promessa che vive come cittadino del Cielo, resta maledetto per sempre, come inceppato sull'amore di Dio che ha rifiutato e che non ha potuto compiersi pienamente in lui. Non è Dio a condannare, è l'uomo a chiamarsi fuori e frustrare la volontà misericordiosa di Dio! 


Ma, finchè dura quest'oggi di Grazia e conversione, il Signore, con amore invincibile, ci vuole di nuovo suoi. Non lo abbiamo scelto noi, è stato Lui a chiamarci e a costituirci per portare un frutto che rimanga, anche fuori stagione, segno dell'impossibile divino reso possibile nella povera carne umana. Siamo stati chiamati a sfamare il Signore, ad essere il cibo per la sua opera, la Volontà di Dio compiuta in noi per la salvezza di ogni uomo. E' Cristo che ci ha riscattati, per appartenere a Lui, "affinchè noi portiamo frutti per Dio" (cfr. Rom. 7). Per questo, come sigillo al brano odierno, appare il perdono, l'opera stessa di Cristo, il frutto più squisito che discende dal Cielo, impossibile agli uomini ma possibile presso Dio. Chi vive in cristo perdona, sempre, senza condizioni, gettando nel mare la montagna del giudizio e della superbia. E Lui ci purifica ogni giorno per donarci la preghiera intrisa di fede che, anche dinanzi alla tenebra più fitta, all'uomo più corrotto, alla situazione più compromessa, al terremoto e allo tsunami, non dubita del potere infinito di Dio.





San Cirillo di Gerusalemme (313-350), vescovo di Gerusalemme, dottore della Chiesa
Catechesi, n° 5




« Abbiate fede in Dio »

Sta scritto: «È difficile trovare un uomo fedele!» (Pr 20,6). Non dico che tu debba rivelare la tua coscienza a me, ma che mostri la sincerità della tua fede a Dio che scruta le reni e i cuori, e conosce i pensieri degli uomini (Sal 7,10;93,11). Gran cosa essere fedeli: rende l'uomo più ricco degli arciricchi. Il fedele infatti possiede tutti i beni del mondo, in quanto li disprezza e li calpesta; al contrario, i ricchi di beni materiali, benché ne abbiano a dovizia, finiscono col mancare di quelli dell'anima. Più ne ammassano, infatti, e più si consumano per la brama di quanto loro manca. Il fedele insomma è un uomo straordinario: ricco nella sua povertà perché sa che bisogna avere solo di che coprirsi e di che nutrirsi; quindi se n'accontenta, e disprezza le ricchezze.

Osservare la fede è un prestigioso distintivo non soltanto per noi cristiani che di Cristo portiamo il nome, ma lo è pure per chiunque nel mondo e anche presso gli estranei alla Chiesa osserva in modo assoluto la fede data. Vincolo di fede chiamiamo il patto che unisce nelle nozze persone estranee l'una all'altra; sulla fede si fonda anche l'agricoltore fiducioso di raccogliere i frutti, perché nessuno senza fiducia s'assoggetterebbe a fatiche. Per fede gli uomini solcano il mare affidandosi con fiducia a un piccolo legno. Sulla fede insomma si fonda la maggior parte degli umani negozi.

La lettura di oggi vi ha però chiamato alla vera fede, e vi ha indicato la via che dovete anche voi seguire per piacere a Dio. Per Daniele, come leggiamo, la fede chiuse la bocca ai leoni (Dn 6,23). «Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16)... la fede dà all'uomo tanta forza da farlo camminare sulle onde restando a galla (Mt 14,29). La fede è tanto potente che non salva soltanto chi crede, ma anche altri per merito dei credenti. Per il paralitico di Cafarnao ebbero fede quelli che lo portarono e calarono per il tetto (Mt 9,2). La fede delle sorelle di Lazzaro ebbe tanto potere, che richiamò il morto dalle porte degli inferi (Gv 11)... Questa fede quindi, che viene data come carisma dello Spirito e non solo come dottrina, infonde un'energia superiore alle possibilità umane, per cui chi la possiede può dire a questo monte: «Spostati da qui a lì», ed esso si trasferisce.

X Convegno Liturgico Internazionale - Prolusione (Bianchi)


Monastero di Bose
Ufficio nazionale beni culturali ecclesiastici – CEI
Bose, 31 maggio 2012
L’adeguamento liturgico delle chiese alla riforma della liturgia voluta dal Concilio Vaticano II è diventato oggi un tema di grande attualità, molto più che nei decenni passati. Infatti, lentamente ma anche in modo esteso, si è compreso che in questa operazione è in gioco l’identità del culto cristiano e che non è possibile che una certa trasformazione degli spazi e dei poli liturgici non tenga conto, oltre che degli opportuni criteri artistici, di alcuni elementi irrinunciabili nella tradizione cristiana e cattolica. L’accendersi di aspre polemiche intorno a queste trasformazioni, d’altronde, mostra la qualità sovente poco comunionale con cui le chiese locali affrontano questi processi di cambiamento, ma anche la debole ricezione della riforma liturgica: così, da un lato si assiste a volte a interventi segnati da sperimentazione e dall’altro a contestazioni ideologiche molto agguerrite, che vorrebbero l’intangibilità delle chiese per affermare la memoria dello «status quo ante».
La Conferenza episcopale italiana ha emanato nel 1996 una nota pastorale su «L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica», testo molto stimolante e ricco di preziose indicazioni affinché, nella fedeltà al Concilio, «l’adeguamento delle chiese non sia considerato un adempimento discrezionale né sia affrontato secondo modalità del tutto soggettive» (n. 1). Va detto però che queste direttive non sempre sono state e sono seguite. In particolare, in questa nota si chiede che l’adeguamento abbia la qualità di un cammino percorso nella comunione tra pastori e fedeli, cammino nutrito da sapienza liturgica, ricerca paziente, dialogo tra gli organi collegiali della chiesa locale, ricerca di soluzioni segnate da un’elevata qualità artistica e anche confronto tra comunità ecclesiale e comunità civile (cf. n. 4).
Dunque, l’adeguamento di una chiesa è innanzitutto un evento ecclesiale, che può rappresentare un’occasione di crescita pastorale e di rinnovamento della comunicazione e della comunione ecclesiale (Mariano Crociata).
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Fatte queste considerazioni introduttive, vorrei ora pormi a voce alta una prima domanda e tentare brevemente una risposta: ci sono dei principi che vanno onorati nell’attuare l’adeguamento liturgico di una chiesa, in particolare di una chiesa cattedrale?
Un’osservazione assolutamente necessaria da fare riguarda la cattedrale come costruzione. Lungo la storia le forme sono state molto diverse e vanno distinte: non solo l’oriente e l’occidente ma anche la Siria e il Nord Africa – e si potrebbe continuare… – rappresentano aree in cui si sono sviluppate forme architettoniche molto diverse. Va riconosciuto che queste forme sono anche dovute alla teologia che le ha abitate e le ha giustificate. L’architettura di una cattedrale non è infatti dovuta solo alla capacità tecnica o all’eredità culturale, ma anche alla teologia, meglio ancora all’ecclesiologia di riferimento. 
Per questo in determinate epoche, contrassegnate da una svolta teologica ed ecclesiologica, si sono operate trasformazioni e adeguamenti liturgici che hanno mutato lo spazio e la forma della chiesa. Cammino, questo, che è stato necessario e si è imposto per ragioni ecclesiali, anche se non sempre è stato operato in modo irreprensibile o esente da critiche: critiche formulate contestualmente all’adeguamento o anche espresse più tardi, quando altri canoni artistici o teologici portavano a un giudizio diverso sulle trasformazioni. Certamente nella chiesa cattolica, a differenza di quelle orientali, la tradizione costante è quella della creazione di nuove forme e del ricorso a forme estetiche contemporanee per servire la liturgia: il tutto sempre con l’intenzione di aiutare gli uomini e le donne di un determinato tempo alla lode di Dio e al culto cristiano.
In quest’ottica, la storia è per noi maestra. In occidente nel primo millennio è prevalsa la forma basilicale, ereditata dal mondo romano. Essa esprimeva alcune intuizioni cristiane decisive quali l’orientamento e la distinzione degli spazi. Ma la forma del coro e del santuario, nonché lo spazio dell’ambone, sono stati prospettati in modi diversi, almeno nei primi otto secoli: solo tra il IX e il X secolo altare, ambone e cattedra trovano posto nell’abside o ai suoi bordi.
Nel periodo gotico ecco il frazionamento e anche la chiusura dello spazio liturgico. La creazione dello jubésepara in modo netto l’assemblea (della quale si ha un concetto assai debole!) dal clero, vescovi e canonici, oppure monaci, ai quali spetta lo svolgimento della liturgia. L’assemblea non assiste neppure alla liturgia ma ne percepisce il suono lontano, proveniente da uno spazio altro, celato, mentre sosta nelle cappelle delle navate, dove i fedeli venerano le reliquie o pregano nel luogo riservato alla loro corporazione. E così il mistero è letto come misterioso… Si pensi che nella cattedrale gotica di Strasburgo furono costruiti in quel tempo sessantaquattro altari lungo tutte le navate!
Nel periodo della riforma cattolica seguita al Concilio di Trento l’architettura cattolica conosce un forte cambiamento. Il desiderio del popolo cristiano di «vedere» la celebrazione del mistero trova esaudimento. Il Concilio di Trento chiede che il fedele veda e ascolti la liturgia, che «assista» almeno, e per questo si abbattono muri ejubés, si mutano le vetrate perché la luce penetri sull’assemblea, e così la chiesa prende addirittura la forma di un teatro: scompaiono le navate e la chiesa è un volume unico e grande, non chiuso; appaiono i banchi per i fedeli; la decorazione occupa tutto lo spazio.
Nell’epoca barocca, sempre per «far vedere», ecco l’altare a retable, l’altare con la pala dietro a esso; ecco la mensa, o tavola, ridotta a mensola, mentre il tabernacolo, sempre più ostentato, appare come il punto focale della chiesa e dell’intero apparato decorativo.
Infine, eccoci oggi a un’altra svolta: la necessità di adeguare lo spazio liturgico alla nuova ecclesiologia delVaticano II – ecclesiologia di comunione, che considera l’assemblea tutta come popolo sacerdotale e soggetto celebrante – e alla riforma liturgica che ne discende. Date queste premesse, occorre pensare lo spazio della chiesa in modo tale da favorire la partecipazione dei fedeli alla liturgia, il che è decisivo per la verità del culto cristiano. In questo senso, credo che oggi, di fronte a ogni adeguamento liturgico, dobbiamo semplicemente porci due ulteriori domande, che vorrei offrire come stimolo al confronto e al dialogo.
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Innanzitutto, è salvaguardata la polarità dell’altare, dell’ambone e della cattedra? Ovvero, questi spazi sono capaci di essere eloquenti e di mostrare, di fare segno che la verità cristiana della santità di Dio e dell’incarnazione del Figlio nel mondo ispira la determinazione dello spazio? 
Sono profondamente convinto che l’adeguamento liturgico di una chiesa debba rispettare queste esigenze. L’altare deve essere il centro focale verso cui si dirige tutta l’assemblea, e deve apparire chiaramente la sua qualità di altare del sacrificio della croce, nonché il suo essere la tavola del Signore alla quale sono invitati i suoi discepoli.
L’ambone deve essere e mostrarsi come il pulpito da cui risuona la Parola per tutta l’assemblea, «la tribuna posta in un luogo elevato», secondo il brano biblico che testimonia per la prima volta questo elemento essenziale all’assemblea nata dalla Parola (cf. Ne 8,1-12). Deve significare, semaínein, fare segno al Cristo presente nella sua Parola, «perché è lui che parla quando nella chiesa si leggono le Sante Scritture» (Sacrosantum Concilium 7). Non più dunque lettura verso nord, «in cornu altaris», ma lettura rivolta all’assemblea, la quale deve «vedere la Parola» (cf. Dt 5,24).
Infine la cattedra, pur leggermente elevata, dovrebbe stare là dove può essere letta la presidenza del vescovo, la sua funzione di proestós e, nel contempo, là dove il vescovo si mostra anche come il primo uditore della Parola. In questo senso la posizione tridentina della cattedra, non centrale nell’abside ma laterale e rivolta all’ambone e all’assemblea, appare ancora come la più adeguata.
Dunque, tutto deve essere predisposto affinché l’assemblea si senta convocata dal Signore, stia alla presenza del Signore che viene (ho erchómenos), sia da lui compaginata nel suo corpo, ordinato come lo vuole la tradizione apostolica e cattolica. Nessun invito a un rapporto im-mediato con la Presenza di Dio; al contrario, rispetto all’altare occorre la distanza necessaria per esprimere la santità di Dio. D’altra parte, l’architettura della chiesa non deve neppure favorire la possibilità di leggere un’auto-convocazione dell’assemblea né una sua auto-celebrazione: lo spazio liturgico deve essere aperto verso l’altare, verso l’abside, spazio della Gloria di Dio.
Lo spazio liturgico e le sue polarità sono dunque assolutamente da ordinare secondo le indicazioni della riforma liturgica. Occorre tradurre visibilmente nello spazio i quattro segni maggiori della presenza di Cristo nella liturgia: assemblea, altare, ambone, cattedra (o sede). Questo spazio sarà ispirato dal Vaticano II al punto da poter individuare uno spazio «vaticaniano» che succeda a quello tridentino? – si chiede giustamente Philippe Markiewicz in un intelligente articolo («Les cathédrales en panne de réflexion. Vers une architecture liturgique», inArts sacrés 17 [2012], pp. 12-17).
La seconda domanda a cui rispondere è la seguente:nell’opera di adeguamento liturgico è salvaguardato l’orientamento escatologico dell’assemblea? Su questo punto credo non ci sia molto da sostare, se non per ricordare che la chiesa deve avere un orientamento, perché l’assemblea in atto è una comunità pellegrinante che attende e invoca la venuta del Signore. Nella liturgia eucaristica tutti sono «conversi ad Dominum», verso l’altare: credo dunque che un elemento decisivo su cui valutare la qualità di un adeguamento liturgico sia la sua capacità di far percepire l’orientamento escatologico dell’assemblea convocata dal Signore.
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A questo punto si aprirebbe un discorso relativo alla qualità artistica, al rapporto tra liturgia e bellezza, ma saranno altri, durante i giorni di questo convegno, a percorrere questi itinerari. A me premeva proporre alla vostra attenzione, in modo sintetico, alcune domande a cui è necessario rispondere nel momento in cui ci si appresta a compiere un’opera di adeguamento liturgico. Ben sapendo che l’adeguamento di una chiesa è un cammino di comunione a servizio dei cristiani, perché il loro incontro con Dio nella liturgia sia aderente alla loro fede e allo spazio in cui questa si esprime. E questo cammino va intrapreso animati da una consapevolezza di fondo, che non dovremmo mai dimenticare: sui problemi architettonici e artistici si può sempre discutere e confrontarsi; questo però va fatto con rispetto reciproco e, se si è cattolici, cercando di non lacerare la chiesa ma di praticare l’ascolto gli uni degli altri.
ENZO BIANCHI
 SALUTI
Apro i lavori di questo convegno insieme a Mons.Stefano RUSSO direttore dell’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della CEI. È questa la circostanza migliore per ringraziarlo della collaborazione convinta nella realizzazione di questo appuntamento annuale. Rivolgo un fraterno saluto a Mons. Alceste CATELLA, vescovo di Casale Monferrato e Presidente della Commissione Episcopale per la Liturgia della CEI. La sua presenza ogni anno è un segno attento e fraterno che ci accompagna in quello che vuole essere anzitutto un servizio alla vita liturgica delle chiese che sono in Italia. Un saluto affettuoso all’Arcivescovo Piero MARINI, Presidente del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali: oltre a legarci una particolare amicizia, la sua presenza amica anno dopo anno è per tutti una ricchezza di sapienza e di esperienza nel campo della liturgia.  
Saranno inoltre presenti questo pomeriggio Mons.Gabriele MANA vescovo della nostra diocesi di Biella e ordinario del luogo, venerdì Mons. Sebastiano DHOvescovo emerito di Alba, sabato Mons. Giovanni GIUDICI vescovo di Pavia: queste presenze testimoniano la comunione ecclesiale che ci è stata attestata anche dai numerosi messaggi ricevuti. Tra questi daremo lettura del messaggio del Card. Tarcisio BERTONE, Segretario di Stato di Sua Santità che, come ogni anno, assicura la benedizione del Santo Padre Benedetto XVI. Sarà data lettura anche del messaggio con il quale Mons. Mariano CROCIATA, Segretario Generale della CEI, anche a nome del Cardinale Angelo BAGNASCO, invia il suo saluto.     
È con grande gioia che saluto il delegato ufficiale di Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartholomeos I l’archimandrita Job GETCHA che porterà il saluto del Patriarca. La presenza fraterna anche del prof. Christos YANNARAS, una delle voci più alte e rappresentative dell’Ortodossia contemporanea, antico amico della nostra comunità, e del prof. Konstantinos KARAISARIDISdell’Università di Salonicco, anche lui assiduo frequentatore dei nostri convegni, ci rallegra e conferma il legame con la chiesa ortodossa greca. Tra noi abbiamo anche appartenenti alla chiesa Luterana di Norvegia e alla Chiesa Presbiteriana degli Stati Uniti; tutto questo rafforza la dimensione ecumenica dei nostri convegni di Bose, consapevoli che se la liturgia è culmen et fonsdell’azione della Chiesa, come afferma il concilio Vaticano II (cf SC 10), essa è anche il culmine e la fonte del cammino verso la piena comunione di tutte le Chiese. 
Un saluto particolare ai membri del Comitato scientifico: oltre a Stefano RUSSO, Emanuele BORSOTTI, Goffredo BOSELLIFrédéric DEBUYST, Paul DE CLERCK, Albert GERHARDS, Angelo LAMERI, Keith PECKLERS, Giancarlo SANTI. Li ringrazio per l’inteso lavoro che da dieci anni compiono con intelligenza e generosità.
Domani giungeranno tra noi il Sottosegretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti Mons. Juan Miguel FERRER GRENESCHEche ci farà il dono prezioso della sua partecipazione anche come relatore ben noto per la sua sapienza liturgica, e Padre Corrado MAGGIONI Capo Ufficio della medesima Congregazione. Saluto Mons. Pasquale IACOBONEOfficiale del Pontificio Consiglio della Cultura e Consultore della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, presente al convegno come delegato ufficiale di S. Em. il Cardinale Gianfranco RAVASI, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. A Mons. Fabrizio CAPANNI, Capo Ufficio della Pontificia Commissione dei Beni Culturali della Santa Sede. A don Franco MAGNANI, direttore dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI: lo ringrazio per la sua presenza, segno anche dell’amicizia e dell’intensa collaborazione tra il suo Ufficio e la nostra comunità. Inoltre ci onoriamo della presenza di donManlio SODI, Presidente della Pontificia Accademia Teologica, e Preside del Pontificio Istituto Altioris Latinitatis, e di Mons. Alfredo DI STEFANO segretario del Centro di Azione Liturgica di Roma.
Fin da ora un grazie molto sentito al Sottosegretario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Dott. Roberto CECCHI che ci farà l’onore di intervenire sabato mattino, e un saluto cordiale alla Dott.sa Sabina FERRARISoprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso. Al Dott.Giuseppe STOLFI Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Lucca e Massa Carrara e ai funzionari delle Soprintendenze per le province di Asti, Biella, Cuneo, Torino e Vercelli. In questi giorni doveva essere tra di noi anche la Dott.sa Paola GRIFONI Soprintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia e con lei altri funzionari, ma ieri ci ha comunicato l’impossibilità ad essere presente a causa del terremoto che ha colpito l’Emilia. A lei e a tutti gli abitanti di quelle terre va la nostra solidarietà e l’attestazione della nostra vicinanza umana e spirituale.  
A nome di tutti i presenti desidero rivolgere uno speciale benvenuto agli stimati relatori che interverranno in questi giorni. La maggior parte intervengono ai nostri convegni per la prima volta, e fin da ora li ringrazio per aver accettato il nostro invito.
Permettetemi di rivolgere un fraterno saluto ai monaci e alle monache provenienti dai monasteri italiani e stranieri. Anzitutto a padre François YOU, abate del monastero olivetano di Maylis in Francia e con lui il confratello Colomban. Sono presenti monaci e monache provenienti dai monasteri di Fonte Avvelana, dalla trappa di Tamié, da Chevetogne e Rixensart in Belgio e dall’abbazia ungherese di Pannonhalma.  
A voi tutti architetti, artisti, critici d’arte, giornalisti, direttori e membri delle Sovraintendenze e degli Uffici liturgici, degli Uffici per i Beni culturali, delle Commissioni e delle redazioni delle riviste di arte sacra, professori e allievi degli Istituti Universitari rivolgo i miei più calorosi saluti. Voi siete non solo i destinatari ma i protagonisti di questo convegno e la vostra risposta, sempre numerosa, conferma la necessità avvertita oggi di una maggiore consapevolezza dei significati e dei valori che ci sono in  gioco nel campo dell’architettura liturgica.    
Infine, non possiamo ignorare la provenienza internazionale dei partecipanti a questo convegno provenienti da sedici paesi: oltre che dall’Italia, da Austria, Belgio, Brasile, Croazia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Malta, Norvegia, Portogallo, Stati Uniti, Svizzera, Ungheria.
Anche quest’anno ho il piacere di presentarvi gli Atti del convegno dello scorso anno che va ad aggiungersi agli otto volumi della collana pubblicati finora.   
A tutti e a ciascuno auguro che queste giornate di lavoro siano una preziosa occasione di riflessione, di scambio e di condivisione fraterna. 

VII Incontro Mondiale delle Famiglie: Tettamanzi




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Di seguito il testo integrale della relazione che il Card. Tettamanzi ha presentato questa mattina al Congresso Teologico-Pastorale di Milano.

Introduzione

Inizio questa relazione su “La famiglia e il lavoro oggi in una prospettiva di fede” raccogliendo l’invito della Lettera agli Ebrei: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2). I nostri occhi, dunque, siano fissi sul volto di Cristo: sul volto di lui come “figlio del falegname” di Nazareth, di lui che – dice il Concilio Vaticano II - “ha lavorato con mani d’uomo” (Gaudium et spes, 22).
Vogliamo così riscoprire la dimensione familiare del lavoro umano, grati al Santo Padre che con questo Incontro Mondiale delle Famiglie ha posto esplicitamente alla nostra attenzione il soggetto famiglia in stretta relazione con il lavoro e la festa. E questo volutamente, in un contesto in cui non è abituale mettere a tema il rapporto tra la famiglia e il lavoro, mentre è diffusa la considerazione del rapporto tra la persona soltanto e il suo lavoro, in seguito alla cultura post-moderna con il suo accento sull’individuo, sulla persona spogliata delle sue relazioni, come se non esistessero o fossero realtà irrilevante.
L’esperienza però ci dice che tutti noi siamo frutto di molteplici relazioni, da quella che ci ha generato a quelle che ci hanno fatto crescere. Di più: il nostro relazionarci nasce dal fatto che siamo stati creati per amare, non per vivere da esseri chiusi in se stessi! Anche il nostro lavorare, allora, e il nostro riposare entrano nella dinamica di una relazionalità di amore! Anche la società e la sua crescita umana sono legate sì al lavoro, ma anzitutto all’amore e all’amore familiare, quello che unisce per sempre un uomo e una donna in modo esclusivo, fecondo, fedele, e che trova nel Signore la sua sorgente, il suo sostegno! Siamo stati creati da Dio, che è Trinità d’amore!
Rileviamo però come tutte queste realtà sono poste in discussione da un contesto fortemente centrato sull’individuo e aspramente conflittuale: la famiglia è discussa; le relazioni anche; il lavoro genera spesso divisioni e contrapposizioni, e l’umanizzazione da esso apportata rischia di intravvedersi sempre meno. In una prospettiva secolarizzata, famiglia e lavoro finiscono per essere considerati in un’ottica di pura utilità, di ricerca del proprio individuale interesse.
Ma che cosa succede se a dominare è una logica di pura utilità? E come è possibile liberarsi da questa logica?
Cerchiamo ora una risposta, riferendoci alla ragione e alla fede, in particolare alla Parola di Dio che nel tempo trova la sua espressione nella dottrina sociale della Chiesa e che a tutti noi rivolge il suo dono di grazia e il suo appello alla responsabilità nell’ethos del nostro vivere quotidiano.
Sono questi i tre momenti della nostra relazione.
1.    La testimonianza della Parola di Dio: famiglia e lavoro, segni della benedizione di Dio
 Del lavoro ci parla la Bibbia sin dall’inizio, presentandoci Dio come il Creatore onnipotente che plasma l’uomo a sua immagine e lo invita a lavorare la terra e a custodire il giardino dell’Eden (cfr. Gn 1,26ss.; 2,15). Eccone il contenuto nel commento del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: “Alla prima coppia umana Dio affida il compito di soggiogare la terra e di dominare su ogni essere vivente (cfr. Gen 1,28). Il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi, tuttavia, non deve essere dispotico e dissennato; al contrario, egli deve ‘coltivare e custodire’ (cfr. Gen 2,15) i beni creati da Dio: beni che l’uomo non ha creato, ma ha ricevuto come un dono prezioso posto dal Creatore sotto la sua responsabilità…” (n. 255).
Questo messaggio iniziale della Bibbia avrà il suo sviluppo nelle epoche successive della storia e troverà la sua rivelazione piena nel Nuovo Testamento con il messaggio di Gesù e dei suoi Apostoli e la sua permanente ripresentazione nella vita della Chiesa.
Desidero ora soffermarmi su due quadri biblici: quello della benedizione di Dio e quello del comandamento del Sabato. Ci aiuteranno a cogliere il disegno del Signore, dunque la grazia e la responsabilità di vivere il rapporto famiglia-lavoro in pienezza di umanità e come via alla santità. 
1.    La benedizione del Salmo 128
 La benedizione di Dio è descritta in particolare dal Salmo 128, con queste parole:
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Dalla fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!
Ecco: il Salmo parte da una benedizione che canta la felicità della vita familiare in un quadro che dipinge la sposa nell’intimità della casa, presenta il valore e insieme la fatica del lavoro dell’uomo, parla della gioia della mensa arricchita dai figli.
Tutto è posto sotto il segno della benedizione divina, perché è “dal principio” che il Creatore ha pensato all’umanità come alla relazione vivente di uomo e donna, chiamati insieme a “dominare” la creazione (cfr Gn 1,26-28). Il riconoscimento poi di questo disegno è la benedizione umana come risposta libera al piano di Dio, una risposta che inneggia alla bellezza dell’amore familiare e condivide i beni prodotti con il lavoro, continuando nella solidarietà l’opera creatrice del Signore.
Così la gioia dell’essere famiglia e la dimensione del lavoro sono tanto armonizzate tra loro da formare un tutt’uno. Certo il Salmo intende cantare l’amore familiare. Nello stesso tempo però il lavoro appare come realtà espressiva e parte integrante di questo amore. Amare e lavorare, assieme al fare festa, sono davvero gli elementi essenziali di una vita familiare. Senza queste realtà non vi sarebbe umanità, né famiglia, né vita, né sviluppo di un mondo nuovo, umanizzato e perennemente migliorato dall’amore e dal “dominio” umano.
Certo le immagini di famiglia e di lavoro presenti nel Salmo presuppongono un ambiente sociale molto diverso dal nostro: vi troviamo una visione monogamica indiscussa, la presenza di molti figli, i ruoli familiari semplificati (il padre che lavora per procacciarsi il sostentamento; la madre che nascosta sta nell’intimità della casa; i figli a tavola pieni di appetito e di gioia), il mangiare insieme come simbolo dell’unità familiare.
Le immagini poi della vite e dell’olivo suggeriscono subito esuberanza per i figli che crescono e fecondità per la madre. In particolare, la vite esprime la gioia dell’amore; e insieme ci parla della benedizione di Dio che crea la fecondità.
Le immagini però, in un orizzonte più ampio, rimandano alla grande famiglia d’Israele. In realtà il Salmo sfocia su Gerusalemme, la capitale ovvero la madre, e su Israele ovvero Giacobbe, il padre delle dodici tribù. E così la relazione familiare del marito con la madre e con i figli si allarga sino a comprendere la relazione del singolo figlio di Israele con la madre Gerusalemme e il padre Israele. In tal modo la benedizione promessa passa dalla lunga vita del singolo al benessere della capitale e alla pace di tutto Israele.
2.    Lavoro e riposo nel comandamento del Sabato
 Una seconda prospettiva biblica è data dal comandamento del Sabato (cfr. Dt 5,12-15; Es 20,8-11), che riguarda sì il riposo ma secondo una formulazione che dà senso anche al lavoro e che pone il tutto in un’ottica familiare.
Come ogni altro comandamento, anche il Sabato si situa nella logica dell’alleanza tra Dio e il popolo. Il comandamento infatti è donato a Israele, non gli è imposto (cfr. Dt 5,33); comporta però la risposta libera al cammino proposto da Dio che l’ha liberato. Ora è precisamente con il riposo settimanale del Sabato che l’umanità può anticipare il realizzarsi della piena libertà quale si avrà con il settimo giorno di Dio, la meta ultima verso cui l’intera creazione è in cammino.
È la famiglia come tale che deve osservare il riposo del Sabato, ricordando la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e anticipando nel tempo umano il settimo giorno di Dio. Vivere il sabato è una caparra della promessa di Dio che benedice il lavoro dell’uomo e ne anticipa il compimento: in tal modo il riposo sabbatico è segno reale della liberazione dal lavoro come faticosità, come schiavitù, pura alienazione, “non senso”.
Ma non è la sua capacità di homo faber a redimere i limiti e i pesi della temporalità, bensì la partecipazione al riposo di Dio: è, dunque, la sua dimensione di homo religiosus, in quanto anticipa la meta del settimo giorno di Dio. In esso, nella comunione con Dio, egli troverà la sovrabbondante pienezza della sua dignità.
Per concludere, l’umanità non è finalizzata al lavoro, ma al Sabato; l’umanità intesa non come singolo individuo, ma come famiglia: spetta infatti al capofamiglia indire l’osservanza del Sabato. E quel “non farai alcun lavoro, nè tu, né tuo figlio, ecc.” dice anche di rapporti sociali profondamente mutati dal Sabato. Il tempo del lavoro, infatti, inevitabilmente differenzia e divide; quando invece si riposa e si fa festa, le stesse disuguaglianze sociali appaiono attenuate: si familiarizza, si condivide, si comunica. Ancora una volta, il culto riferito a Dio e la liberazione delle persone e delle loro relazioni vanno nella stessa direzione. Sì, abbiamo bisogno – e oggi ancora più di ieri – di un tempo di festa vissuto da tutta la famiglia, perché esso è importante, è indispensabile sotto il profilo sociale ed educativo.
2.    La Parola della Chiesa: Famiglia e lavoro, edificazione della societa’ e umanizzazione del mondo
 A partire dalla benedizione originaria di Dio che promuove il lavoro umano vogliamo ora addentrarci nel percorso suscitato dalla fede cristiana nella storia
1.    La dottrina sociale della Chiesa
 È un percorso che attraversa l’intera vicenda storica della Chiesa e che trova il suo punto più significativo nella dottrina sociale: una dottrina che non inizia con la Rerum novarum di Leone XIII ma con la prima comunità apostolica, sicchè tale dottrina si salda con la Sacra Scrittura e qui ritrova le sue radici, il suo dinamismo, il suo costante criterio: “la coerenza con la fede in Cristo e con il suo vangelo di salvezza”.
È stato, in particolare, l’esplodere della “questione sociale” - ovvero del conflitto tra capitale e lavoro nel contesto dell’industrializzazione – a far sorgere, come risposta, una vera e propria “dottrina sociale della Chiesa” nella forma specifica che oggi conosciamo e che è venuta elaborando ‘princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione’ per creare poi le condizioni affinché “le comunità cristiane” potessero via via “individuare – con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà – le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi” (Octogesima adveniens, n.4).
Dovremmo ora seguire le tappe dello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, in particolare in tema di rapporto famiglia-lavoro. Ma si aprirebbe qui un campo quanto mai ampio di studio e di analisi dei diversi interventi sociali del magistero. D’altra parte solo con uno sguardo complessivo si potrebbe cogliere il peso reale e l’energia profetica della dottrina sociale della Chiesa, vedendo cioè come le comunità cristiane hanno saputo lasciarsi sfidare dalle varie problematiche sociali, intercettandole in continuità, in parte lasciandosi condizionare dalle situazioni del tempo e in parte dimostrando lungimiranza e apertura alla novità, accogliendo e rispettando le esigenze della razionalità umana e insieme ispirandosi e consegnandosi agli ideali evangelici.
Mi vedo costretto a toccare rapidamente qualche aspetto del magistero sociale di Benedetto XVI.
2.    L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI
Il magistero sociale di papa Benedetto XVI viene inaugurato dalla prima enciclica Deus caritas est (2005), che ci offre la prospettiva unitaria da cui possiamo traguardare il suo intero insegnamento. Infatti tutte le realtà – in specie la vita familiare, il lavoro, la festa -- sono unificate, trasfigurate e portate a compimento dall’amore di Dio, diventando esse stesse opere di amore, testimonianza di vera carità. Come scrive il Papa, “L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta” (n.28).
E proprio alla ricerca di una verità piena per l’intera vita sociale è dedicata la Caritas in veritate (2009). Partendo dalla consapevolezza che “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (n. 19), l’enciclica sottolinea come suo filo conduttore e provocatore l’esigenza di uno sviluppo umano integrale, capace di far crescere armonicamente tutte le dimensioni costitutive dell’uomo: personali, relazionali, sociali, culturali, spirituali. E anima profonda di questo sviluppo è la carità che, purificata e guidata dalla verità, “dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo” ed è “il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2).
Di qui il concetto originale di fondo: l’economia e la vita sociale devono essere plasmate dallo spirito del dono, dalla logica del disinteresse, della comunione, della fraternità, della solidarietà, della gratuità (cfr. n. 38). Troviamo qui quello che definirei il novum dell’enciclica sociale di Benedetto XVI, un novum in un certo senso “profetico” in quanto a tutti lancia un coraggioso “appello” e pone una grande “sfida”, come emerge nel capitolo terzo dell’enciclica (cfr. nn. 34-42).
Di questo capitolo riascoltiamo il limpido e denso incipit: “La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistente. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza… Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, la carità irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti… Perchè dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità. Unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini… L’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore” (n. 34).
La gratuità nell’ambito economico e sociale
Queste affermazioni fondamentali trovano una specifica applicazione anche nell’ambito economico e sociale, e quindi anche in riferimento alla famiglia e al suo lavoro. Del resto è la stessa esperienza umana a dirci che non è affatto vero che siano il massimo profitto e la massima utilità economica a muovere l’agire dell’uomo: la vera e più esplosiva motivazione è la carità, con l’energia che ha di suscitare e sostenere relazioni nuove, fraterne appunto, in ogni famiglia, in ogni impresa e nell’intera grande famiglia umana!
Nessun equivoco però: la logica della gratuità non implica che in economia si possa comprare e vendere gratis, senza prezzo o senza corrispettivo; implica invece che si lavori e si realizzino scambi e investimenti in modo pienamente rispettoso dell’uomo, quindi - non ultimi - dei suoi legami familiari e sociali! Gratuità significa far sì che la persona umana sia posta al vertice di ogni scelta economica, politica, sociale; comporta che nessun essere umano sia strumentalizzato ad altre logiche che non siano la piena realizzazione, sua e dell’umanità intera! Una simile gratuità non può rimanere racchiusa in alcuni ambiti dell’attività economica – quali ad esempio le associazioni, gli enti con finalità mutualistica o cooperativa, i soggetti non profit in genere –, quasi potessero esistere altri campi in cui l’unica regola è quella del massimo profitto o del massimo tornaconto individuale! Viceversa, la gratuità è dimensione vera e necessaria dell’intero agire sociale ed economico, se intesa come dimensione qualitativa delle relazioni, interpersonali e sociali.
La famiglia scuola di socialità: possibilità e minacce
Ma ecco un interrogativo ineludibile: la gratuità dove trova le sue sorgenti più vive e originali? La risposta è: nella famiglia, che tramite il proprio lavoro si configura come luogo caratteristico in cui è quotidianamente possibile apprendere il linguaggio della gratuità! La famiglia è il soggetto esemplare in grado di praticare e di comunicare questo linguaggio all’intera vita sociale, economica e politica: diviene così, prima e più che ogni altro soggetto, la scuola di socialità che educa alla gratuità tutti, compreso chi domani avrà responsabilità in qualsiasi campo della vita sociale.
Per questo la famiglia deve essere intesa non solo come ambiente affettivo in cui si vive la prossimità, ma anche come vero e proprio punto di partenza di una società rinnovata, capace di vivere la gratuità nell’ambito di tutte le relazioni sociali!
Si deve tuttavia riconoscere che la piccola ma vera società quale è la famiglia, proprio nel lavoro – come normale ma prezioso contributo allo sviluppo dell’intera vita sociale -, è sempre più minacciata.
Nel suo sorgere, anzitutto. Infatti, quando “l'incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica”, ci si trova conseguentemente di fronte a “forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio” (n. 25).
In tal senso la precarietà strutturale, in cui i giovani si trovano a vivere in molte parti del mondo, costituisce di fatto una pesante ipoteca sul futuro delle famiglie e, di riflesso, della società. Il che provoca un innegabile danno sotto il profilo economico, poichè la crisi demografica si traduce anche in problema economico.
Così pure anche lungo l’intero arco di vita la famiglia si trova spesso minacciata e in profondità. Come scrive il Papa: “L'estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure la dipendenza prolungata dall'assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale” (n.25). In questa linea preoccupa gravemente la disoccupazione giovanile, che secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel suo ultimo rapporto, risulta in crescita dell’80% nei Paesi sviluppati e di due terzi nei Paesi emergenti: dati, questi, che interpellano con forza la società, in particolare chi ha responsabilità politiche ed economiche.
Anche la povertà minaccia pesantemente la vita di molte famiglie della terra, con il risultato di una grave violazione della dignità del lavoro umano. Pure lo sviluppo demografico non può essere compromesso con il falso pretesto di considerarlo causa di povertà.
Infine, circa la prospettiva di fede secondo cui considerare il rapporto famiglia-lavoro, la Caritas in veritate  ci offre un contributo prezioso già con la sua impostazione profondamente antropologica e superlativamente teologica. Del resto è la caritas il principio, il dinamismo, la forza, il fine, lo stile dell’agire umano: e questo per ogni persona – singola o comunità – e in ogni ambito di vita, lavoro compreso.
Elementi di “spiritualità” del lavoro ritroviamo poi nelle ripetute affermazioni sull’inscindibile rapporto tra giustizia e carità.
Senza dimenticare la mirabile “conclusione” dell’enciclica: “Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le mani alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace” (n.79). 
3.    L’Ethos del Lavoro umano: una nuova Luce dalla vita di Nazareth
 La prospettiva di fede circa il rapporto famiglia-lavoro racchiude anche una dimensione etica, ossia un aspetto di grazia e di responsabilità di cui sono segnate, secondo il disegno di Dio e le esigenze più profonde del cuore umano, le realtà della famiglia e del lavoro.
Ora l’ethos della famiglia in rapporto al lavoro si radica nel logos, ossia nella verità e nel senso che Dio ha stampato nell’uomo e che questi è chiamato a conoscere e riconoscere alla luce della ragione e della fede. È un ethos dinamico che sollecita l’uomo a ordinarsi liberamente e responsabilmente al telos, ossia al destino, alla mèta di un compimento che è la gloria di Dio e la santità della persona umana.
L’ethos dunque non è freno né ostacolo, ma spinta a realizzare in modo sempre più pieno la vera umanità della persona in se stessa e con gli altri. È sorgente di quelle virtù che custodiscono e sviluppano i valori più alti di giustizia, solidarietà, gratuità, generosità in ogni ambito della vita, in specie in quello della famiglia e del lavoro.
 Sono due in particolare i momenti etici fondamentali nella relazione famiglia-lavoro. Il primo è quello di favorire la “cultura” del lavoro, la conoscenza adeguata e il cordiale “riconoscimento” dei valori e delle esigenze - dei diritti e dei doveri - implicati nel rapporto famiglia-lavoro. Il secondo è quello di una concreta assunzione di libertà responsabile nel vivere le realtà della famiglia, del lavoro e della loro reciproca implicazione.
Questi due momenti etici sono sfidati oggi da diverse forme di complessità e di fragilità che coinvolgono, talvolta drammaticamente, la realtà della famiglia e del lavoro, specie nel loro vicendevole rapporto. Per questo si rende sempre più urgente un grande rilancio della responsabilità educativa: da parte della famiglia, della scuola, della società civile e della comunità cristiana. Come a dire che la prima questione posta dal lavoro oggi è quella culturale, quella cioè del suo vero “senso” per la persona, la famiglia, le comunità, la società.
 A questo ethos vorrei riservare alcune rapide riflessioni riprendendo lo sguardo rivolto a Cristo come “figlio del falegname” nella sua vita a Nazareth: uno sguardo che s’inserisce nell’icona di questo Incontro Mondiale delle Famiglie, uno sguardo che ci apre alla risposta vera e valida circa il posto e il senso del lavoro nella nostra vita, in particolare nella vita di famiglia.
 1.    La normalità del lavoro nella vita d'ogni giorno
 È un Gesù “normale” quello che troviamo a Nazareth, un uomo comune a tutti gli altri. Ed elemento essenziale per lui è il suo lavoro con Giuseppe. Gesù lavora con un uomo "giusto", umile, nascosto, dedito alla sua famiglia. Lavora, giorno dopo giorno, per trent'anni: tanti e sempre uguali! Qui la normalità coincide con la quotidianità, con quanto comporta di ripetitività, stanchezza, fatica, sacrificio, impegno. E all'insegna del senso del dovere!
E che tipo di lavoro compie Gesù a Nazareth? Lavoro di falegname o fabbro che sia, è pur sempre il suo un lavoro manuale. Ci insegna che ogni lavoro, anche quello manuale e il più umile e il più stressante, ha dignità umana, in quanto rimanda alla persona coinvolta nel lavoro, in obbedienza alla volontà originaria del Creatore.  
Emergono subito non pochi interrogativi sulla "filosofia" del lavoro: qual è il giudizio che comunemente viene dato sul lavoro? Conta di più il lavoro - cioè il tipo di lavoro - o la persona che lavora? E allora non si devono forse denunciare discriminazioni inaccettabili, perché oltre i limiti della giustizia, anche nell'ambito della retribuzione economica e delle pensioni? Certo, c'è una giustizia "distributiva", ma, proprio perché "giustizia", ha dei limiti, oltrepassati i quali si trasforma in un’ingiustizia scandalosa, che suona insulto alla povertà di tante persone e ancor più alla dignità di quanti percepiscono retribuzioni evidentemente fuori misura. Questo vale nel campo privato e soprattutto quando è in questione il danaro pubblico, di tutti e per tutti. Forse che il tempo, le forze fisiche e psichiche, le responsabilità dell'ultimo lavoratore valgono di meno del tempo, delle forze e delle responsabilità di un alto dirigente di finanzia o di industria o di governo o di partito o di sport? Mi chiedo: le cosiddette leggi del mercato - che danno molto a qualcuno perché la sua attività movimenta enormi capitali a beneficio di molti – non devono forse essere, loro stesse, regolate? Regolate perchè il mercato sia per l'uomo e non l'uomo per il mercato!
 2.    Il lavoro e la vita in famiglia
 Gesù è al suo paese, a Nazareth. Ed è con Maria, la madre, e con Giuseppe, il padre putativo e insieme il "maestro" di lavoro e, con gli anni, anche il "compagno" della fatica d'ogni giorno. Un lavoro che si svolge in famiglia: anche questo è ricco d'insegnamento per noi. Infatti, il dato "sociologico" del lavoro in famiglia, peraltro così modificato nell'esperienza storico-sociale-culturale con il variare dei tempi, si pone pur sempre come dato "paradigmatico", in quanto fa emergere la questione sempre attuale del rapporto lavoro-famiglia.
Questo rapporto può esprimersi con due interrogativi generali.
 Il primo: senza lavoro, quale famiglia è possibile? In realtà, non c'è famiglia senza lavoro! Non è possibile costituirla o - se costituita - non è possibile farla crescere nei valori e secondo le esigenze ad essa peculiari. La questione non è solo economica, perchè il lavoro è inserimento attivo nel tessuto della società, è partecipazione responsabile all’edificazione della città: se ne viene esclusa, la famiglia è come mutilata, emarginata, deturpata da una ferita che può portarla a vergognarsi, a nascondersi, a prediligere sentieri male illuminati e trascurare gli spazi aperti e luminosi in cui la gente si incontra, intesse relazioni, entra in una vita di comunione.
S’inserisce qui anche il fenomeno delle migrazioni con i contraccolpi problematici o negativi, non solo sulla famiglia migrante costretta a lasciare il proprio Paese, ma anche sul “lavoro temporaneo” specie con l’attività di cura (badanti, colf, ecc.) di cui l’Europa è beneficiata grazie, soprattutto, alla presenza di donne che provengono dalle Filippine, dal Sudamerica, dall’Est e che hanno lasciato marito e figli pur di riuscire a guadagnare il necessario. E il costo sociale di tutto questo può non interrogarci?
 Il secondo interrogativo: senza famiglia, quale lavoro è possibile? Sì, non c'è lavoro senza famiglia! L'esperienza infatti ci dice che la famiglia è il luogo educativo primario anche per il lavoro. Se manca un’adeguata educazione al lavoro, viene ostacolata la necessaria maturazione dei figli, con il rischio di non esporli al lavoro con le sue difficoltà e di spingerli comunque al lavoro, anche se non corrisponde alle reali situazioni dei figli o non ne valorizza le capacità o viene scelto esclusivamente per il reddito o la notorietà.
Altro obiettivo da raggiungere è una conciliazione, meglio un’armonizzazione, direi una alleanza positiva, tra la vita di lavoro e la vita di famiglia: nei ritmi di tempo (oggi sempre più frenetici) e nelle condizioni di vita e di lavoro (si pensi al prolungarsi delle percorrenze per recarsi sui luoghi di lavoro). Urge allora trovare strumenti adeguati per migliorare il rapporto tra tempi della vita familiare e tempi del lavoro. Una questione, questa, che investe soprattutto l’universo femminile, che oggi porta il grosso del peso della cura dei figli: pensiamo ai contratti part-time, ai congedi parentali e a tutte quelle forme che permettano una sana flessibilità a tutela del lavoratore e della sua famiglia.
È evidente che il realizzarsi di una simile alleanza esige un'opera insieme formativa e politico-sindacale: da un lato chi lavora deve essere educato a non "sacrificare" i valori più profondi della vita familiare con un impegno lavorativo esclusivo e totalizzante, che non conosce né feste né pause, che nega nei fatti ogni momento di riflessione, di vita familiare e di dono di sé; dall’altro lato chi è impegnato nella politica e nel sindacato deve saper obbedire a logiche non solo di "efficienza economica", ma anche di "efficacia umana", come la coltivazione di rapporti interpersonali più significativi nell'ambito della famiglia e del più ampio tessuto sociale.
 3.    Il lavoro al servizio del "villaggio" di Nazareth
 Gesù svolge il suo lavoro nella casa di Nazareth, dunque in un villaggio, ma anche per il villaggio e con tutta probabilità per altri villaggi ancora. Questo accenno ci rimanda alla dimensione sociale del lavoro. Così lo spazio familiare si dilata e diviene spazio comunitario più vasto, mediante l'ampliarsi dei rapporti interpersonali: parole queste di estrema semplicità ma che oggi assumono proporzioni enormemente amplificate con il fenomeno della globalizzazione.
E qui sorge l'esigenza di fare dei luoghi di lavoro non solo uno spazio geografico o fisico nel quale ci si trova, né un campo di rivendicazioni reciproche, anche se giuste, né un’area di dura conflittualità, ma una comunità di persone: una comunità cioè dove le persone vengono non solo rispettate nella loro dignità ma anche valorizzate nelle loro molteplici e diverse risorse e potenzialità. È questa, com’è noto, la precisa prospettiva proposta dalla dottrina sociale della Chiesa; ma è questa anche un'esigenza umana, naturale e razionale, di cui sono oggi consapevoli le stesse scienze economiche più moderne.
Oggi però la dimensione sociale presenta contenuti, caratteristiche e problematiche inedite, quali la globalizzazione e i nuovi rapporti tra lavoro e lavoratore e tra gli stessi lavoratori. Ciò esige che la sfida per la solidarietà e i diritti sia affrontata in un’ottica necessariamente globale: la vita e la salute – ad esempio - di un operaio cinese valgono tanto quanto quelle di un italiano. Ed è evidente che impegnarsi per il rispetto dei diritti di un lavoratore italiano non è in contrasto con l’impegno a favore di “delocalizzazioni responsabili” delle nostre aziende al di fuori dei confini nazionali.
È necessario oggi vivere un più spiccato senso sociale e rilanciare con più forza il valore della solidarietà. Il senso sociale chiede, anzitutto, che si coltivi una profonda parentela tra diritti e doveri, rivendicando i primi e insieme assumendo responsabilmente i secondi. Quanto poi alla solidarietà, il rilancio dovrà muoversi secondo centri concentrici: dall'interno della propria azienda (nei riguardi dei compagni di lavoro, specie in momenti di disagio, di difficoltà, di crisi aziendali) al circuito delle diverse aziende di una determinata città o territorio o settore e, infine, in rapporto al “sistema”Paese, attraverso una vera e propria "politica del lavoro". Questa, in realtà è chiamata a fare della solidarietà non un semplice e sia pur nobile sentimento etico, ma un principio originario e strutturale della crescita globale e organica dell'economia di un Paese, e di questa nella più grande economia del mondo, casa comune di tutta l'umanità.
4.    Gesù salvatore del mondo mediante il lavoro
 La fede ci assicura che Gesù Cristo, crocifisso e risorto, è il salvatore del mondo, l'unico salvatore! Ma questa stessa fede ci apre allo stupore, perché Gesù Cristo è l'unico e universale salvatore anche mediante il suo lavoro quotidiano a Nazareth. È veramente sorprendente per noi sapere che il Salvatore del mondo ha fatto sbocciare la salvezza proprio qui, al banco del falegname, tra le mura o nei dintorni della piccola casa di Nazareth. Solo dopo trent'anni rivedremo il Signore altrove, cioè sulle strade della Palestina e sulla Croce. Lo ripeto: ha fatto sbocciare la salvezza con il lavoro delle sue mani: altrove ci sarà la parola che davanti a tutti annuncia la "lieta notizia", mentre qui tutto è nascondimento e silenzio; altrove ci saranno i gesti miracolosi, mentre qui l'unico "miracolo" è quello di un lavoro che fa "vivere": fa vivere chi lavora e gli altri ai quali il lavoro è destinato.
Sì, è la fatica umana di Cristo Salvatore che “redime” e  "santifica" il lavoro, ed insieme lo rende "santificante". E questo vale non solo per lui, ma anche per noi. È nuovamente la fede cristiana a dirci che il nostro lavoro è una reale condivisione del lavoro stesso di Gesù Cristo. Per questo anche il nostro lavoro, con la grazia del Signore Gesù, diventa luogo di salvezza e di santificazione per noi e per gli altri.
Di qui il doveroso interrogativo: abbiamo noi la consapevolezza della novità cristiana presente e operante nel nostro lavoro? Crediamo veramente che è anche nel lavoro e attraverso il lavoro delle nostre giornate che noi ci salviamo e ci santifichiamo?
In realtà, c'è una condizione indispensabile per avere limpida questa consapevolezza e salda questa fede: è l'amore al silenzio del cuore e al colloquio della preghiera. A sua volta sarà questa preghiera a sostenerci nel testimoniare la novità cristiana del lavoro dentro il nostro vissuto quotidiano, che in gran parte è dato dal lavoro: una testimonianza dai lineamenti tipici della vita di Nazareth, che è fatta di semplicità, normalità ed essenzialità; che non ricorre a nessuna "predica" e a nessun "proselitismo"; che non ha bisogno di segni distintivi o speciali; che rifugge da tutto ciò che può urtare sensibilità diverse dalla nostra; che non scade in qualche forma di pietismo. Basta il dovere, il dovere compiuto nel migliore dei modi!
Senza dire che la vita di grazia dei lavoratori - questa meravigliosa “inabitazione” di Dio, Trinità santissima, nella nostra anima - rappresenta la più preziosa ricchezza spirituale che noi offriamo, anche se a loro insaputa, ai nostri compagni di lavoro: e non solo a loro.
È questo il lievito evangelico, nascosto quanto efficace, che fermenta l'impasto dell'ambiente di lavoro e che contribuisce al vero "bene comune" di cui ha grande bisogno la nostra società. 
+ Dionigi card. Tettamanzi 
Milano, 31 maggio 2012