ROMA, lunedì, 21 maggio 2012 - La crisi italiana è molto profonda e soltanto il cattolicesimo può fornire al Paese una risposta adeguata. Questo il senso profondo della prolusione del cardinale Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), all'apertura dell'Assemblea Generale della CEI.
Bagnasco ha esordito ricordando le vittime e i danneggiati del sisma che ieri notte ha colpito l'Emilia-Romagna. “Siamo vicinissimi a quelle comunità – ha detto il presidente della CEI -. Ci stringiamo ad esse, preghiamo per i morti e i feriti, siamo solidali ai loro parenti, e ci impegniamo a fare per intero la nostra parte affinché la vita normale possa riprendere al più presto”.
La “condizione complessiva” del popolo italiano è qualcosa che desta “angustia”, tuttavia, proprio per questo, tutti vorremmo “essere in grado di intravvedere i primi bagliori di qualcosa di nuovo e che dovrà poi maturare attraverso un paziente, lungimirante servizio”.
Accanto ai molti rischi che il cittadino corre nell'ambito di una crisi “assai più ampia del previsto”, è più che opportuno inquadrare anche “i segnali positivi e le potenzialità che realisticamente sono alla nostra portata”, ha proseguito il porporato.
“La vita – ha aggiunto - è un dono troppo grande per non applicarsi ad assaporarla sempre, anche nelle fasi più aspre, dalle quali tuttavia possono trapelare i sussurri del nuovo”.
Inoltre, sebbene la “pensosità preoccupata” di molte persone sia “non solo legittima ma anche sacrosanta”, essa non deve tramutarsi in “cupezza”, né in “oppressione paralizzante”. Se così fosse, sarebbe un “cedimento sul fronte dell’amore che Dio ha per noi, che ci fa resistenti alla prova e capaci di futuro”.
Di fronte ai segnali di “pronunciato risentimento”, quando non di “ostilità dichiarata e violenza sanguinaria”, bisogna reagire “con ogni determinazione” per lasciare “spiragli a quel futuro che è diritto di ogni comunità”, ha detto Bagnasco.
La crisi economica sociale e le “difficoltà del vivere”, oggi come in passato, spingono la gente a “guardare alla Chiesa come ad un interlocutore vicino e concreto”, ha osservato Bagnasco. Ciò trasmette ai Vescovi la percezione della propria “distinta responsabilità”.
In una situazione di difficoltà come quella attuale, il Paese deve evitare “ricette minimali” o “precipitose”. Un ciclo economico e sociale si è “definitivamente interrotto” ed il nuovo sarà “comunque diverso”.
L'Italia, tuttavia, ha affrontato in passato prove non meno dure ed ha comunque conquistato “il posto che oggi occupa tra le nazioni più sviluppate del pianeta”. Per farcela si dovette “mangiare pane duro, spesso senza companatico” e la parola d'ordine era: “lavorare, sacrificarsi, crescere. Non si badava alla fatica, si facevano sacrifici inimmaginabili, ma si correva insieme”.
Poi giunse la degenerazione del consumismo e dell'indebitamento, mentre “a volte ci davano fastidio i vicini più poveri che, approfittando dell’esposizione geografica del Paese, varcavano il mare o affrontavano ogni genere di peripezie con l’obiettivo di partecipare in qualche modo al nostro benessere”, ha proseguito il presidente della CEI.
Oggi la crisi ha raggiunto tali livelli che nessuno si può permettere di minimizzare. Bisogna piuttosto rispondere “con un cambiamento altrettanto epocale”, sopratutto mentale, per quanto la mente, secondo Bagnasco, sia “la più lenta a lasciarsi modificare”.
Accanto alla crisi economica e politica non va trascurata la crisi del mondo dell'informazione, con numerosi episodi di “comunicazione selvaggia”. Alludendo anche al recente scandalo della pubblicazione di documenti riservati del Vaticano, il cardinale Bagnasco ha ricordato che la deontologia giornalistica non si può “usare a proprio piacere secondo circostanze e interessi”, in quanto essa ha “regole, doveri e limiti precisi”.
Non è quindi lecito violare il “diritto alla libertà e a quella riservatezza che rientra nello statuto proprio dell'uomo e nelle fondamenta della civiltà”, in nome del diritto di informare.
“Ci addolora, e molto – ha aggiunto Bagnasco - che affiori qua e là una sorta di gusto a colpire la Chiesa, quasi che ne potesse venire un qualche vantaggio: vero è il contrario, sono atti criminosi che appesantiscono tutti e certo non procurano gloria né onore ai protagonisti, noti o ignoti che siano”.
Nella seconda parte della prolusione, il presidente della CEI ha esortato ad un “risveglio della speranza”, la cui assenza, come ricordava l'illustre teologo Piero Coda, è il “sintomo più prossimo alla morte biologica e spirituale”.
La speranza è strettamente legata alla prima delle virtù teologali: non a caso papa Benedetto XVI ha indetto, a partire dal prossimo ottobre l'Anno della Fede, senza la quale, ha commentato Bagnasco “vi è il niente”. L'Anno della Fede assieme all'istituzione del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, costituisce “una scossa molto importante, che è impossibile ignorare”.
Luogo virtuoso di cammino della Chiesa, oggi come ieri, è la parrocchia. Essa non è un “luogo di routine a misura dei “soliti noti”: è il miracolo di Dio dispiegato sul territorio, dove lo straordinario è racchiuso sotto forme abituali ma non per questo meno perentorie e incisive”, ha detto Bagnasco.
Di fondamentale importanza, non solo per gli storici e i teologi ma per tutti i fedeli è la ricorrenza del 50° anniversario del Concilio Vaticano II, del quale è ormai possibile una “serena valutazione di ciò che ha rappresentato nelle nostre Chiese” e che, nondimeno, è “un autentico dono di Dio”, come ha ricordato Benedetto XVI.
Una riflessione successiva è stata dedicata dal cardinale Bagnasco alla crisi dell'Europa che tuttavia è “un bene troppo grande perché resti un’incompiuta sospesa nell’aria”. Se l'Europa non diventerà una “avventura culturale e spirituale”, oltre che economica, “non riuscirà a plasmare il sentimento di appartenenza, e non sarà mai una comunità di destino”.
La comunità intera, italiana, europea e mondiale, deve riscoprire “la grande lezione del servizio”, della “gratuità” e del “dono”, attraverso tutti i mezzi possibili, a partire dal volontariato.
In merito alla disaffezione per la politica, Bagnasco ha ammonito che gli italiani ormai non tollerano più “demagogie e furbizie, né mediocri tatticismi”. “Si deve piuttosto scommettere sull'intelligenza dei cittadini, ormai disincantati e stanchi”, ha aggiunto.
Nel delicato settore del lavoro, in particolare i giovani devono “finalmente ricevere dei segnali concreti, che vadano oltre la precarietà, la discriminazione, l’arbitrarietà”. Al tempo stesso, tuttavia, vanno evitate le “tentazioni parassitarie” e l'inclinazione all'indebitamento.
Il presidente della CEI ha poi espresso il proprio sostegno ai sacerdoti che – sia al Nord che al Sud – “si trovano a far fronte al sistema mafioso, alle sue minacce e alle sue intimidazioni”. Ha quindi promesso che l'impegno della Chiesa contro la malavita non verrà mai meno, sottolineando, a seguito a fatti di sangue come quello di Brindisi, che l'Italia “non tende di per sé ad eccessi né ad estremismi” e che la logica della violenza e del fanatismo ancora una volta non prevarrà.
Dopo aver ricordato l'imminenza dell'Incontro Mondiale di Milano (30 maggio-3 giugno), dedicato alla Famiglia, unica struttura antropologica che “ci consenta di proiettarci nel futuro”, Bagnasco ha infine menzionato la recente beatificazione dell'economista Giuseppe Toniolo, un evento che rappresenta un “autentico colpo d’ala, di cui sarà bene non disperdere la spinta” per tutto il laicato cattolico italiano in un momento di profondi cambiamenti. (L. Marcolivio)
Fonte: Zenit
Di seguito il testo della prolusione.
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Conferenza Episcopale Italiana
64a ASSEMBLEA GENERALE
Roma, 21 – 25 maggio 2012
PROLUSIONE
DEL CARDINALE PRESIDENTE
Venerati e
cari Confratelli,
siamo
riuniti in assemblea plenaria, cioè nella formula più ampia e più impegnativa,
non solo perché a questo adempimento ci induce lo Statuto della Conferenza, ma
perché sentiamo il bisogno di ascoltare insieme il cuore dell’uomo, del
cittadino nostro conterraneo, nella convinzione che in esso c’è l’eco di Dio.
Nella preghiera cercheremo di coltivare quello sguardo contemplativo che è
aperto sugli orizzonti più ampi ed è capace ad un tempo di focalizzare gli
elementi di rilievo.
Innanzi
a tutto il nostro pensiero va a quella parte del Nord Italia maggiormente
interessata al sisma che è avvenuto quasi all’alba di ieri, domenica. Ancora
una volta, scosse tremende hanno profondamente ferito il nostro bel territorio,
dal modenese al ferrarese, con epicentro a Finale Emilia, modificando la
fisionomia dei paesi interessati e soprattutto causando sette vittime, e oltre
cinquanta feriti. Distruzione e danni ingenti, panico e terrore, dolore e morte
per una calamità, sempre possibile, ma che – ci verrebbe da dire – troppo
spesso ci visita e ci fa toccare tragicamente la fragilità dell’esistenza umana.
Siamo vicinissimi a quelle comunità. Ci stringiamo ad esse, preghiamo per i
morti e i feriti, siamo solidali ai loro parenti, e ci impegniamo a fare per
intero la nostra parte affinché la vita normale possa riprendere al più presto.
Ma
anche la condizione complessiva del nostro popolo ci angustia, non da oggi per
la verità: anche per questo vorremmo essere in grado di intravvedere i primi
bagliori di qualcosa di nuovo e che dovrà poi maturare attraverso un paziente,
lungimirante servizio. Al cittadino nostro fratello, che simbolicamente si erge
in mezzo a noi, come interlocutore amato e cercato, a lui che si sta misurando
con una crisi assai più ampia di ogni previsione, vorremmo saper dire parole
non scontate di incoraggiamento e di speranza, inquadrando i rischi nei quali
stiamo incorrendo, ma anche i segnali positivi e le potenzialità che
realisticamente sono alla nostra portata. La vita è un dono troppo grande per
non applicarsi ad assaporarla sempre, anche nelle fasi più aspre, dalle quali
tuttavia possono trapelare i sussurri del nuovo. Si coglie in giro una
pensosità preoccupata che valutiamo non solo legittima, ma sacrosanta; essa
tuttavia non deve farsi cupezza o oppressione paralizzante, perché questo
sarebbe un cedimento sul fronte dell’amore che Dio ha per noi, che ci fa
resistenti alla prova e capaci di futuro. Si scorgono segnali di un pronunciato
risentimento, ostilità dichiarata e violenza sanguinaria, che dobbiamo
respingere e combattere con ogni determinazione, affinché non ci chiudano gli
spiragli a quel futuro che è diritto di ogni comunità. È, questo, un nostro
dovere di Pastori, speriamo sapienti,
ossia non impauriti né inerti di fronte ad un mondo sregolato e quanto mai
scombinato. Sappiano i nostri concittadini che in questi giorni assembleari non
ci staccheremo neppure per un attimo da loro, e nessuno dei nostri pensieri li
vedrà estranei, mentre raccogliamo l’invito del Papa proprio agli italiani:
«Reagiscano alla tentazione dello scoraggiamento e, forti anche della grande
tradizione umanistica, riprendano con decisione la via del rinnovamento
spirituale ed etico, che sola può condurre ad un autentico miglioramento della
vita sociale e civile» (Saluto al Regina
caeli, Arezzo, 13 maggio 2012).
Per poter sviluppare questo proposito
nel pieno delle nostre possibilità, vogliamo anzitutto accogliere i nuovi
Vescovi che negli ultimi dodici mesi sono stati assegnati a varie diocesi e
aggregati al nostro corpo episcopale, e delle cui fresche energie sappiamo di
aver bisogno. Essi sono:
- S.E. Mons. Giovanni Tani, Arcivescovo di
Urbino – Urbania – Sant’Angelo in Vado;
- S.E. Mons. Antonino Raspanti, Vescovo di
Acireale;
- S.E. Mons. Ivo Muser, Vescovo di Bolzano –
Bressanone;
- S.E. Mons. Franco Lovignana, Vescovo di Aosta;
- S.E. Mons. Francesco Cavina, Vescovo di Carpi;
- S.E. Mons. Filippo Santoro, Arcivescovo di
Taranto;
- S.E. Mons. Antonio De Luca, Vescovo di
Teggiano – Policastro;
- S.E. Mons. Nunzio Galantino, Vescovo di
Cassano all’Jonio;
- S.E. Mons. Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare
di Roma;
- S.E. Mons. Matteo Maria Zuppi, Vescovo
ausiliare di Roma;
- S.E. Mons. Francesco Milito, Vescovo eletto di
Oppido Mamertina – Palmi;
-
S.E. Mons. Donato Oliverio, Vescovo eletto di Lungro.
Nel contempo salutiamo con particolare
calore i Confratelli che in ragione dell’età, o perché chiamati ad altri
servizi, hanno lasciato la responsabilità primaria delle rispettive diocesi,
restando a noi legati dal vincolo sacramentale grazie al quale mai cessiamo di
partecipare alla sollecitudine d’amore che è per tutta la Chiesa (cfr LG n.23). Essi sono:
- S.E. Mons. Francesco
Marinelli, Arcivescovo emerito di Urbino – Urbania – Sant’Angelo in Vado;
- S.Em. il Card. Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo
emerito di Milano;
- S.E. Mons. Pio Vittorio Vigo, Vescovo emerito
di Acireale;
- S.E. Mons. Karl Golser, Vescovo emerito di
Bolzano – Bressanone;
- S.E. Mons. Giuseppe Anfossi, Vescovo emerito
di Aosta;
- S.E. Mons. Elio Tinti, Vescovo emerito di
Carpi;
- S.E. Mons. Benigno Luigi Papa, Arcivescovo
emerito di Taranto;
- S.E. Mons. Renato Corti, Vescovo emerito
di Novara;
- S.E. Mons. Giuseppe Mani, Arcivescovo emerito
di Cagliari;
- S.E. Mons. Felice Cece, Arcivescovo emerito di
Sorrento – Castellammare di Stabia;
-
S.E. Mons. Francesco Miccichè, Vescovo emerito di Trapani.
Con
affetto e riconoscenza desideriamo far memoria dei Confratelli che nell’ultimo
anno ci hanno lasciato per anticiparci all’altra riva (cfr Mc 4,35): a ciascuno di essi va il nostro pensiero distinto e commosso,
per il vincolo di fraternità che ci ha a Loro legati e la passione con cui si
sono spesi per il Vangelo di Cristo. Questi i loro nomi:
- S.E. Mons. Luigi Diligenza, Arcivescovo
emerito di Capua;
- S.E. Mons. Cosmo Francesco Ruppi, Arcivescovo
emerito di Lecce;
- S.E. Mons. Domenico
Pecile, Vescovo emerito di Latina – Terracina – Sezze – Priverno;
- S.E. Mons. Fernando Charrier, Vescovo emerito
di Alessandria;
- S.E. Mons. Luigi
Belloli, Vescovo emerito di Anagni – Alatri;
- S.E. Mons. Domenico
Tarcisio Cortese, Vescovo emerito di Mileto – Nicotera – Tropea;
- S.E. Mons. Armando Brambilla, Vescovo
ausiliare di Roma;
- S.E. Mons. Martino Scarafile,
Vescovo emerito di Castellaneta;
- S.E. Mons. Alfredo Battisti, Arcivescovo
emerito di Udine;
- S.E. Mons. Antonio Mistrorigo, Vescovo emerito
di Treviso;
- S.E. Mons. Giovanni Volta, Vescovo emerito di
Pavia;
- S.E. Mons. Filippo Giannini, Vescovo già
ausiliare di Roma;
-
S.E. Mons. Arduino Bertoldo, Vescovo emerito di Foligno.
Diamo in pari tempo il benvenuto con
particolare calore al nuovo Nunzio in Italia, l’Arcivescovo Adriano Bernardini,
ringraziandolo di essere, fin da questa circostanza, presente ai nostri lavori,
e soprattutto augurandogli una felice missione, operosa ma ricca di soddisfazioni.
Così come fin d’ora salutiamo il cardinale Marc Ouellet, prefetto della
Congregazione per i Vescovi, che ci onorerà in questi giorni della sua
presenza, e in particolare presiederà l’Eucarestia che concelebreremo mercoledì
mattina nella basilica di San Pietro.
1. Fin dall’inizio, rispetto al momento
che il nostro Paese attraversa, dichiariamo di avvertire la nostra distinta
responsabilità di Vescovi, non per requisiti specifici o competenze speciali, ma perché – come sempre è successo lungo la
storia – quanto maggiormente incombono le difficoltà del vivere, tanto più si è
soliti guardare alla Chiesa come ad un interlocutore vicino e concreto. Ed è un
interrogarci che avvertiamo incalzante e inesorabile, ed esige dunque una
partecipazione ancor più disponibile e vigile. Non pensiamo affatto che il
Paese abbisogni di ricette minimali né precipitose. Mai come oggi i cittadini
sono consapevoli che si è definitivamente interrotto un ciclo economico e
sociale, e che il nuovo sarà comunque diverso. Per questo non è ozioso
ricordare chi eravamo e da dove veniamo, richiamando alla memoria lo scenario
di appena alcuni decenni fa, quando l’Italia ansimava per farcela e lottava per
raggiungere, passo dopo passo, il posto che oggi occupa tra le nazioni più sviluppate
del pianeta. Non si trattò di un cammino facile: si dovette mangiare pane duro,
spesso senza companatico. La parola d’ordine che ispirava un’intera generazione
era: lavorare, sacrificarsi, crescere. Non si badava alla fatica, si facevano
sacrifici inimmaginabili, ma si correva insieme. E in questa rincorsa,
affannosa eppure soddisfacente, forse non ci siamo domandati se il fenomeno
sarebbe durato all’infinito, se fosse realistico pensare di crescere ogni anno
di più. Ad un certo punto, poi, la crescita ha iniziato a identificarsi col
consumismo, e il consumismo – per definizione inesausto – cominciò a basarsi in
misura crescente sul debito, un debito collettivo che diveniva nel frattempo
sempre più straripante. A volte ci davano fastidio i vicini più poveri che,
approfittando dell’esposizione geografica del Paese, varcavano il mare o
affrontavano ogni genere di peripezie con l’obiettivo di partecipare in qualche
modo al nostro benessere. Noi intanto pensavamo che fosse possibile crescere
sempre, in un avanzamento continuo e illimitato. Ogni generazione avrebbe
goduto in modo automatico e definitivo dei benefici raggiunti dai padri.
Peccato che chi doveva vigilare, non lo fece a sufficienza. Ma anche quando
qualcuno segnalava un rischio o l’incongruenza di certi atteggiamenti, veniva
facilmente tacciato di disfattismo. Finché non è arrivato il momento della
verità. L’equilibrio, rivelatosi più fragile del previsto, non solo si scuoteva
come per ogni ciclo economico, ma si rompeva definitivamente. Una fase storica
declinava e diventava inevitabile fermarci per fare il punto. E fermarsi
dovevano anche coloro che ancora non godevano a pieno del benessere generale.
Mentre la testa si spostava in avanti per inerzia, in realtà la società stava
rallentando, a cominciare da coloro che per ultimi – le fasce più deboli –
avevano iniziato la salita. La crisi è deflagrata nella forma più grave di
crisi di sistema, qualcuno parla addirittura di crisi di civiltà. Ma poiché non
amiamo le parole roboanti, vorremmo essere cauti, registrando anzitutto la
realtà. Infatti, per una serie di stagioni, ci siamo sforzati di credere che,
come altre volte, la ripresa fosse a portata di mano, che tutto sarebbe stato
in qualche modo superato. Ma così non è. Alcune vedette ogni tanto uscivano
allo scoperto e annunciavano la fine della notte, ma questa – impavida –
proseguiva. In realtà, gli indici economici generali non lasciavano né lasciano
scampo, anche se assorbono, occultandoli, risultati che negativi non sono più.
Il buio, infatti, non è totale e inesorabile. L’export in alcuni settori avanza, e alcuni distretti produttivi –
quelli più veloci a rinnovarsi e a far rete – hanno ripreso a girare. Ma è
un’altra cosa rispetto a prima. Bisogna dirlo per invocare idee, progetti e
strategie all’altezza delle sfide, e comportamenti adeguati alla nuova
condizione. Ad una crisi epocale si deve rispondere con un cambiamento
altrettanto epocale, di mente anzitutto, che invece è la più lenta a lasciarsi
modificare. Forse è vero che ancora non c’è ovunque la percezione di quanto
grave sia la situazione attuale. Il mito della crescita progressiva e
inarrestabile è entrato definitivamente in crisi: il debito accumulato stava
divorando già le risorse destinate ai figli e troppe popolazioni nel mondo
restavano escluse dai processi di sviluppo, senza essere disposte ad
un’interminabile subordinazione. Il sistema della comunicazione globale intanto
faceva il suo corso, stimolando confronti e accentuando le competizioni. Si
doveva cambiare. Si deve cambiare. Di qui l’iniziativa governativa di messa in
salvo del Paese, in grado di scongiurare il peggio. Se parlare di declino
spaventa, e forse non è neppure giusto, bisogna almeno dire che è necessaria una
generale ricalibratura dell’idea del vivere personale e collettivo,
riconoscendo che, ieri, qualcosa di importante ci era sfuggito o era stato
sottovalutato. E poiché gli Stati solitamente non falliscono, sappiano però che
oggi nel mondo possono scattare nuove forme di servitù imposte dai vincoli
internazionali, in primo luogo dalla mano lunga e cinica della finanza
speculativa. Episodi nuovi di comunicazione selvaggia si sono ancora una volta
manifestati nel sistema mediatico nazionale, con ripercussioni amare anche
fuori dai nostri confini. Come se il Paese non avesse abbastanza
preoccupazioni, altre ce ne procuriamo di totalmente gratuite. Di più: si cerca
di costruire colpi di scena con l’arma impropria di un’informazione “rubata” a
sedi istituzionali altissime, che hanno status
internazionale. Non possiamo con fermezza non ricordare che la deontologia
giornalistica non è qualcosa che si può usare a proprio piacere secondo
circostanze e interessi: essa ha regole, doveri e limiti precisi. Non esiste un
dovere deontologico che vada contro i diritti fondamentali della persona e
delle comunità, tra cui il diritto alla libertà e a quella riservatezza che
rientra nello statuto proprio dell’uomo e nelle fondamenta della civiltà. Ci
addolora, e molto, che affiori qua e là una sorta di gusto a colpire la Chiesa, quasi che ne
potesse venire un qualche vantaggio: vero è il contrario, sono atti criminosi
che appesantiscono tutti e certo non procurano gloria né onore ai protagonisti,
noti o ignoti che siano.
2. Ma come Vescovi abbiamo qualcosa di
ulteriore e di specifico da dire? Certo che l’abbiamo, e siamo qui riuniti per
indicarlo insieme, assegnando al nostro gesto – se possibile – una forza ancora
maggiore. Non limitandoci a mettere in guardia da atteggiamenti che, secondo la
tradizione, sono contrari alla speranza, cioè la disperazione – che poi è il
logoramento dello status quo – o la presunzione. Non ci vuole
grande intelligenza ad approfittare del disagio oggettivo, né coraggio a
denunciare problemi e limiti, o a destabilizzare la collettività: bastano
demagogia e slogan inconcludenti. Ci vuole intelligenza, coraggio e
perseveranza, invece, per proporre strade concrete, efficaci e percorribili.
Dobbiamo andare oltre, e puntare ad un palpito collettivo, motivato e fermo di reazione,
di critica, di progetto. In una parola: a un risveglio della speranza. Perché –
osserva con parole gravi uno dei nostri teologi, Piero Coda – «l’assenza di
speranza per un individuo, come per una società, è sintomo il più prossimo alla
morte biologica e spirituale». C’è un urgente bisogno che si torni a parlare e
a vivere di speranza, una speranza «affidabile», direbbe il Papa, perché poggia
sulla fede intesa come fiducia nella fedeltà di Dio che, in Gesù, si è legato
al destino dell’uomo. Anzi: si è vincolato a salvare in Cristo l’uomo con
l’aiuto dell’uomo medesimo. Ed è in questo auto-vincolarsi di Dio che risiede
la speranza cristiana. Di qui il nostro fervore, il bisogno che avvertiamo di
confermare, davanti alla Chiesa e al Paese, la nostra missione, che è missione
di speranza. Non a caso ci è parso di cogliere nelle parole e nelle scelte
complessive di Benedetto XVI un’accentuazione nuova. Egli alza il tiro e punta
decisamente alla fede: o c’è o vi è il niente. Tutto il resto, per quanto
rilevante, è secondario. Il futuro dell’evangelizzazione si apre solo per la
fede. Nel suo ultimo viaggio in Germania, arrivando a Friburgo, e spiegando la
ruvida parola di Gesù sullo slancio di fede dei pubblicani, ha detto: «Tradotta
nel linguaggio del nostro tempo, l’affermazione potrebbe suonare più o meno
così: agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone
che soffrono a causa dei nostri peccati e hanno il desiderio di un cuore puro,
sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine che nella Chiesa ormai vedono
soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato dalla fede» (Omelia all’Aeroporto, 25 settembre
2011). Benedetto XVI sta in effetti dispiegando una sorta di pacifica “offensiva”
a tale riguardo: l’indizione dell’Anno della Fede, il prossimo Sinodo mondiale
in tema di evangelizzazione e l’appena costituito Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione,
costituiscono una scossa molto importante, che è impossibile ignorare. Anzi,
confidiamo decisamente nella sensibilità e capacità reattiva delle nostre
diocesi e delle nostre parrocchie. Il tema, per la verità, è stato più volte
sfiorato in precedenti occasioni e ad un certo punto si è lanciato il tema dei
cosiddetti “ricomincianti”, parola non elegante ma di qualche efficacia. Tutti peraltro
dobbiamo sempre “ricominciare” dopo ogni Confessione, come in occasione di ogni
altro sacramento. Il riferimento è qui a coloro che, iniziati da piccoli alla
fede, hanno ad un certo punto – da adolescenti o in età giovanile – interrotto
la frequenza religiosa e raffreddato il loro rapporto con Dio. Proprio a questo
riguardo, il nostro Ufficio Catechistico sta sviluppando, attraverso i convegni
regionali, un’importante riflessione. E poiché l’uomo ha una straordinaria
attitudine a dimenticare ciò che era stato un giorno deposto nel cuore, ha
presto appreso a vivere come se Dio non esistesse. Se non che, prima o poi,
nella vita di ciascuno succede qualcosa: un lutto, una nascita, un amore che
comincia o finisce, una malattia, un incontro strabiliante, o anche solo la
necessitata partecipazione con i figli agli itinerari della loro iniziazione
cristiana. Ed ecco che il tema rimosso viene all’improvviso riaperto. Il Dio
che sembrava uscito dalla nostra vita, passa e bussa, e stavolta non si può far
finta di nulla. A volte sono eventi straordinari, un pellegrinaggio o una Gmg,
cui si partecipa più per curiosità che per convinzione. Ma scatta la scintilla
e qualcosa “dentro” la persona comincia a muoversi, a smottare.
3. È la parrocchia il “grembo” adatto per
accogliere queste persone? Tutto lascia sperare che lo sia, che in essa si
trovi quanto è necessario per la riscoperta della vita spirituale. La
parrocchia, dunque, oltre ai movimenti, come via alla Chiesa. La parrocchia con la sua accessibilità e ordinarietà,
ma anche con un suo rinnovato flusso di calore. Essa non è un luogo di routine a misura dei “soliti noti”: è il
miracolo di Dio dispiegato sul territorio, dove lo straordinario è racchiuso
sotto forme abituali ma non per questo meno perentorie e incisive: il miracolo
dell’Eucarestia, l’eloquenza dell’Anno liturgico, la potenza della Parola di
Dio, le provocazioni di una catechesi ben preparata, la disponibilità di un
animatore dell’Oratorio, la presenza di un
testimone convincente, un’esperienza forte di servizio… sono tutte circostanze
abbastanza consuete, è vero, ma perché mai la grazia non potrebbe essere in agguato sulle vie di sempre? Le
nostre parrocchie sono cellule di evangelizzazione anzitutto mettendo un’anima
missionaria nelle cose ordinarie. Alla vigilia di appuntamenti importanti, noi
vogliamo rivolgerci ai nostri amati Sacerdoti e dire loro: coraggio,
rinnoviamoci, non diamo nulla per scontato, lasciamoci provocare dalla vita,
facciamo conto di essere al nostro primo anno di Messa, dispieghiamo tutto
l’entusiasmo di cui siamo capaci, coinvolgiamo le religiose, i laici, i
genitori; non temiamo i loro
suggerimenti, rinnoviamo il tessuto delle nostre comunità rendendole ancora più
accoglienti e sorridenti, non trascurando alcun gesto né alcuna occasione della
vita quotidiana. La grazia è impaziente e
chiede tutta la nostra fiducia. Vale per questo la regola d’oro indicata
dal Papa e già citata in una precedente occasione: «La fede non deve essere presupposta
ma proposta […] deve essere sempre annunciata» (Discorso in Apertura del Convegno pastorale della diocesi di Roma, 13
giugno 2011): solo così si può toccare il cuore. Applicata alla vita concreta
di una parrocchia, questa indicazione – se ci si pensa bene – ha in sé qualcosa
di rivoluzionario. Ciò naturalmente non impedisce, anzi, che a livello
parrocchiale o zonale o diocesano, ci siano delle esperienze forti di annuncio.
È il momento che associazioni e movimenti, riscoprendo ciascuno la propria
valenza iniziatica, si innestino in una pastorale integrata, che sia di
compagnia alle solitudini di oggi e rilanci in concreto la missione sul
territorio. Si parla oggi di una crisi che avrebbe colpito la missione ad extra:
forse il modo concreto per rispondervi, è rilanciarla anzitutto ad intra.
Tanto più che fratelli africani, asiatici, latino-americani sono tra noi. Chi
ci impedisce di concepire e promuovere in maniera alta, plastica, vivace la
vita pastorale delle parrocchie? Forse la scarsità di sacerdoti? La rinnovata
vivacità delle parrocchie è grembo di vocazioni sacerdotali, così come le aggregazioni
ecclesiali. Ma ricordiamo: la vitalità non è la forza organizzativa, è
piuttosto calore di fede, intensità di preghiera, amore fraterno.
4. C’è tuttavia una seconda via cui
vogliamo accennare, comprensiva della precedente, ed è quella suggerita dal 50°
anniversario dell’Apertura del Concilio Vaticano II, evento che si è posto in
dialogo con l’uomo di oggi. Anzi, si è in un certo modo identificato con le sue
ansie e le sue paure, oltre che con le sue speranze e le sue gioie (cfr GS n.1). Quanto prima detto è già un
modo per riaprire le nostre comunità ecclesiali al Vaticano II, dato troppo
spesso per acquisito, mentre in realtà resta da leggere; in ogni caso
rileggere, meditando e amando ciò che lì vi è scritto, in particolare sul
mistero di Cristo e della Chiesa e sulla vocazione di ogni persona (cfr
Benedetto XVI, Videomessaggio alla Chiesa
di Francia, 26 marzo 2012). In particolare è il volto interiore della
Chiesa quello che dobbiamo coltivare con ogni premura e amore, assecondando e
non ostacolando in nessun modo quel movimento di riforma a cui Papa Benedetto è
impegnato con tutta la sua persuasiva e delicata intraprendenza. La discreta
distanza che ormai ci separa da quell’evento conciliare – e anche dallo
spirito, genuino ma apocrifo, del ’68 – ci può consentire una serena
valutazione di ciò che ha rappresentato nelle nostre Chiese. Quanta vita di
fede espressa fino ad allora dal popolo di Dio è stata messa come tra parentesi
anziché essere ripensata con strumenti idonei, rielaborata, rimotivata,
rilanciata? E quanto dell’antica, solida fede del popolo cristiano, siamo così
riusciti a traslitterare nel nuovo linguaggio ispirato al Concilio?
Naturalmente non c’è ombra polemica in queste domande (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Dottrina della
Fede, 27 gennaio 2012). Siamo tutti figli grati del Vaticano II, e in
particolare desidero con voi riconoscere che la grandissima parte dei nostri
confratelli Sacerdoti si è mossa con saggezza e misura. È straordinario,
letteralmente straordinario, ciò che si è fatto per rinnovare la catechesi in
Italia. Ciò nonostante, persiste un pronunciato analfabetismo catechistico (cfr
Benedetto XVI, Incontro con i Parroci di
Roma, 23 febbraio 2012). Certo, le persone apprendono e dimenticano. Ma è
su quel secondo verbo che si dovrà operare per dare risposte adeguate, in un
tempo nel quale più che in altri è chiesto di dar ragione della nostra fede
(cfr 1 Pt 3,15). Il Papa annotava: «Perciò Anno
della fede, Anno del Concilio – per essere molto pratico – sono collegati
imprescindibilmente. Rinnoveremo il Concilio solo rinnovando il contenuto –
condensato poi di nuovo – del Catechismo della Chiesa cattolica» (ib). In ogni caso, ci accostiamo al
giubileo conciliare con il passo consapevole di chi vuol far memoria di una
stagione straordinaria della vita di Chiesa. Diciamo meglio: di chi vuol
riconoscersi, incrementandola, nella risposta ad una domanda d’amore che il
Signore ha rivolto alla sua Chiesa tramite il Concilio Vaticano II, vero transitus Domini, come amava dire il Cardinale Poma, Presidente di questa Conferenza
che, con gratitudine e ammirazione, ricordiamo a ridosso dell’anno centenario
della sua nascita. Ci rammarichiamo che qualcuno, magari per semplice
anticonformismo, si possa distaccare dall’insegnamento conciliare, e lo faccia
ostentatamente, quasi a provocare una reazione. Ebbene, se è dai Vescovi che
questa è attesa, noi non possiamo non dire che il Vaticano II è «un autentico
dono di Dio» (Benedetto XVI, ib), dal
quale certo non intendiamo staccarci. Con l’intenso afflato pastorale che in
esso si respira, intendiamo in questi frangenti metterci a fianco dei nostri
concittadini e, se anche non fosse possibile convincerli su Gesù Cristo e la Chiesa, essere loro almeno
solidali ed amici.
5. Sull’Europa vorremmo dire una parola.
Non c’è dubbio infatti che vi sia oggi una crisi dell’uomo europeo, ieri
autorizzato ad immaginare un certo esito del processo comunitario e oggi
costretto a fare i conti con un soggetto poco riconoscibile. Si sono
moltiplicate le analisi sulla stagione dell’euro e sulle contingenze della sua
nascita. Lasciamo ai competenti elaborare le risposte più plausibili. A noi
preme rilevare un certo senso di delusione che oggi circonda l’Europa, ma anche
l’illusione, forse, di poter annegare o confondere le debolezze nazionali in
una realtà più grande. Un calcolo miope che oggi si paga a caro prezzo. Manca
una visione di ciò che desideriamo dall’Europa, e c’è piuttosto la sensazione
che abbia diritto di circolazione solo ciò che è negazione del passato e si
presenta con una cifra apparentemente neutrale, illusoriamente progressista, ma
chiaramente laicista. Se poi si
considera che l’incontrollabilità della situazione economica è il frutto di
scelte frettolose anche per l’unico comparto allora considerato, quello
economico, bisogna davvero che si chieda scusa agli europei e si domandi loro
di ricominciare da capo, includendoli però, e senza sminuire il significato
di qualche loro verdetto. Cresciuti alla
scuola di Giovanni Paolo II, l’Europa per noi è un bene troppo grande perché
resti un’incompiuta sospesa nell’aria, o un progetto abortito per il quale il
problema di ciascun membro sia trovare il modo più indolore per uscirne. Proprio
le inattese difficoltà di cui stiamo facendo esperienza, ci parlano della
necessità dell’Europa e dei rischi che corriamo se si tornasse indietro.
D’altra parte, non ci può essere un’Europa senza passione, senza l’interiorità
che sgorga dal patrimonio storico, culturale e religioso che i popoli europei
hanno in comune. Un’Europa che non diventi anche avventura culturale e
spirituale non riuscirà a plasmare il sentimento di appartenenza, e non sarà
mai una comunità di destino. Ci vuole il coraggio di un’autocritica condotta a
partire dal momento in cui si abbandonò il termine comunità per quello più
banale di unione, e si censurarono le radici cristiane obiettivamente storiche
del Continente, ritenendola una reticenza di stile del tutto ininfluente. È quel
vuoto invece che oggi non mobilita, perché non si ha nulla per cui
riconoscersi. Ha ragione chi osserva che non ci può essere comunità europea
senza solidarietà e senza cooperazione, poiché la sola competizione non basta,
esaspera le tensioni e logora i vincoli comunitari, lasciando i cittadini
esausti e scettici. Anche la moneta unica potrebbe paradossalmente diventare un
volano di vera integrazione, se la si ricomprendesse come un bene comune che
non misura solo la potenza degli Stati aderenti, ma alimenta le condizioni di
vita degli europei. I quali desiderano essere cittadini non solo il giorno
delle elezioni, per poi tornare a fare i sudditi di una burocrazia tecnocratica,
che cerca di forgiare una missione europea impopolare e scoraggiante. Per questa
strada si rischia di tornare ad essere europei solo geograficamente.
6. Nel nostro Paese perdura la fase
delicata che si era aperta nello scorso autunno, e che dovrà portarci non solo
fuori dalle secche ma, create le condizioni, avviarci finalmente verso la
ripresa di un processo di crescita che − abbiamo già detto − non potrà essere
quella che immaginavamo in precedenza. Ciò che è capitato nell’ultimo periodo,
non solo a noi ma all’intera Europa e oltre, ha mutato non solo i contorni ma
anche i connotati della situazione generale. Non si tratta tanto di cifre o di
dimensioni diverse, ma di convincerci a cambiare modelli di pensiero e stili di
vita. C’è un serio bisogno di riforma economica, ma prima ancora di un
gigantesco ripensamento culturale collettivo.
Per questo auspichiamo che il nostro Paese diventi come una grande aula dove
tutti ci facciamo alunni attenti per apprendere le mai concluse lezioni della
vita; per tornare alle verità perenni che hanno forgiato la saggezza dei
singoli e dei popoli. Verità che non di rado sono state oscurate da illusioni
ammalianti e voraci. Il maestro, in questa ideale aula, è la vita stessa che si
declina nelle vicende della storia di ieri e di oggi. Invero, in quanto
richiama verità universali, è eco di un altro Maestro, Cristo, la Verità piena che raccoglie
in sé tutto ciò che di vero, buono e bello vi è in questo straordinario
universo. Per questo, il Vangelo illumina il senso delle cose, interpreta le
nostre esperienze, indirizza il nostro agire: Cristo è l’Alfa della storia
umana e del cosmo, ne è il punto Omega,
il Destino. In questa aula a cielo aperto, ci sembra di sentire una prima
lezione sull’uomo, proprio su di noi, su chi siamo e dove stiamo andando.
Ognuno, è evidente, ha le proprie risposte personali, ma non sarà possibile
averne anche alcune comuni? Come vivere insieme, se ognuno fosse chiuso dentro
al recinto delle proprie individuali opinioni?
Ma – intimamente connessa – sentiamo anche che la riflessione sulla
vita, con la sua ricaduta sociale, deve fare i conti con il “limite”, categoria
oggi invisa perché avvertita da una certa cultura come
negazione della libertà individuale e collettiva, convinti di avere il diritto di
fare tutto ciò che la tecnica consente a prescindere dal valore morale. Ma dove
ci ha portati questo rifiuto del limite nel campo del profitto, del progresso,
del benessere, della tecnologia, della competizione…? Non dobbiamo forse
ripensare tale preziosa categoria - inscritta nella struttura fisica dell’uomo
quasi per ricordargli che in tutto deve mantenere la misura morale - perché non
nascano mostri contro la persona e il suo primato? Nell’aula vasta quanto l’Italia, ma che
vorremmo grande come l’Europa e il mondo, risuona anche la lezione sul
servizio. Una concezione individualistica della vita – dove domina il benessere
individuale, dell’io anziché del noi – ha portato al ripiegamento su se stessi,
alla ricerca del massimo risultato, in tempi minimi e in qualunque situazione:
politica, finanza, economia, salute, affetti… Quasi che vivere intensamente
significasse spremere la vita in funzione di sé. Non ha, questa lezione, solo
una valenza etica, ma è anche conveniente come peraltro è conveniente al
soggetto e alla collettività tutto ciò che è veramente morale. Infatti, un crescente
benessere individuale, isolato dagli altri, porta a non radicarsi in nulla –
famiglia, comunità, territorio – perché i legami sono avvertiti come costrizione
anziché come condizione di libertà e di vita solida. Quando la forbice tra
ricchezza e povertà si allarga, la società è a rischio non solo sul piano della
coesione ma anche dell’economia. Se senza i consumi il sistema globale va in
crisi, per consumare – seppure nella giusta misura – bisogna che tutti abbiano
i mezzi. È necessario, dunque, rompere il cerchio mortale dell’individualismo,
che corrompe il tessuto sociale; ed è urgente ricostruire la “cultura dei
legami” che si esprime nella famiglia, nel vicinato, nell’amicizia, nei luoghi
del lavoro, nel percepire la società come parte di noi, così come ognuno, in
una certa misura, è parte della società.
E’ vitale riscoprire non solo individualmente ma anche culturalmente la
lezione del servizio, che è scuola di attenzione a chi ha più bisogno, di
accompagnamento, di sacrificio nel segno della gratuità: in una parola, del
dono. Ecco perché la società intera, non solo la Chiesa, dovrebbe favorire
forme organiche di volontariato per tutti i giovani come tempo di tirocinio di
vita personale e iniziazione alla vita sociale. Quando si parla di servizio e di
dono, d’istinto si pensa ad alcuni ambiti, quello domestico, dei rapporti
amicali, del tempo libero; senza dirlo, se ne escludono altri che appaiono
assolutamente incompatibili. Ma siamo così certi che ambiti come la politica,
l’economia, la finanza e altri, siano incompatibili con la dimensione del
servizio? È forse utopia, la nostra, che non tiene conto della realtà? Ma gli
esiti disastrosi che ci mordono, da quale realismo derivano? La grande aula,
dunque, invita il nostro popolo a riscoprire la gioia di servire, insieme di
guardare avanti, insieme di camminare per costruire non per deprimerci. La più
grande paura è solitudine, madre di ogni crisi; e la prima risposta è la
compagnia buona degli altri. La gioia di servire non ammette confronti con il gusto acre
dell’avere a scapito del prossimo, e invita a riscoprire il volontariato come
laboratorio di umanità aperta, e tirocinio mai concluso per una società
solidale, fedele alle sue radici cristiane. A tale riguardo, vogliamo esprimere
tutto il nostro sdegno per gli attentati di cui sono vittime preferite i
cristiani in vari Paesi del mondo: singoli ammazzamenti o vere e proprie
stragi, gli uni e le altre inaccettabili per qualunque consapevolezza dei
diritti umani più elementari. Quanto a lungo la comunità internazionale è
disposta a sopportare simili affronti?
Dobbiamo riportarci al livello delle nostre
reali possibilità, smettendola di far ricorso allo strumento debitorio. Per
questo erano necessarie le riforme già impostate, ed è importante che queste
siano ora completate con il massimo dell’equità e del consenso possibile.
Stupisce l’incertezza dei partiti che, dopo una fase di intelligente
comprensione delle difficoltà in cui versava il Paese, ma anche delle loro
dirette responsabilità, paiono a momenti volersi come ritrarre. Non ci sarebbe
di peggio che lasciare incompiuta un’azione costata realmente molti sacrifici
agli italiani. Per questo non ci può
essere ora alcun processo involutivo: bisogna operare alacremente affinché i
sacrifici affrontati possano ritornare il prima possibile a beneficio in
particolare dei più deboli, dei disoccupati, degli inoccupati. E si possa
dispiegare quella strategia pubblica di superamento della povertà, delle
pesanti disuguaglianze e della vulnerabilità, che – accanto alla fittissima
rete ecclesiale di solidarietà – possa rispondere a bisogni vecchi e nuovi. I
recenti risultati elettorali, poi, non possono incentivare involuzioni del
quadro della responsabilità politica, né demagogie e furbizie, grossolane o
sottili che siano. Riconoscendo le persone oneste e perbene che – indubbiamente
– ci sono e operano con impegno nel quadrante politico, non si può tacere però
di quanti, lasciandosi andare a pratiche corruttive, a ragione vengono oggi
ritenuti alla stregua di “traditori della politica”. Il latrocinio, in questo
caso, riveste una duplice gravità: in sé e per il furto di ideali che esso
rappresenta. La politica è, invece, arte nobile e necessaria per servire la
giustizia di un Paese, mentre ogni corruzione – in qualunque ambiente si
consumi – è un tradimento del bene comune. Vorremmo davvero che i partiti,
strumenti indispensabili alla gestione della polis, profittassero di questa stagione per produrre mutamenti
strutturali, visibili e rapidi, nel loro costume politico e nella stessa
offerta politica. È la gente che aspetta di vedere dei segni concreti,
immediati ed efficaci. Il cittadino, infatti, vuole ricuperare nonostante tutto
la piena fiducia nella politica e nei partiti. Le astensioni dalle urne, le
schede bianche, le schede nulle sono un messaggio chiaro da prendere sul serio.
Ma perché lo scoramento e la disaffezione non prevalgano, occorre che la
politica si rigeneri nel segno della sobrietà e della capacità di visione. Nessuno si illuda che il Paese tolleri
facilmente di ritornare alla condizione quo
ante. Si deve piuttosto scommettere sull’intelligenza dei cittadini, ormai
disincantati e stanchi.
7. Non è più l’ora di ricambi di facciata
o di mediocri tatticismi spacciati per visioni politiche. Di pari passo al
lavoro sulla dimensione etica, urgono le iniziative che portino crescita e
assorbano disagio sociale. C’è bisogno di lavoro, lavoro, lavoro. Ce lo dice
con parole scolpite il Santo Padre: «La dignità della persona e le esigenze
della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, […] si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al
lavoro o il suo mantenimento, per tutti» (Caritas in veritate, n. 32). Non smetteremo di chiederlo, tanto il
lavoro è connesso con la dignità delle persone e la serenità delle
famiglie. Invitiamo tutti a rileggere
l’appena citata Caritas in veritate,
documento più superficialmente evocato che effettivamente conosciuto,
soprattutto là dove avverte che «tutta l’economia e tutta la finanza, non solo
alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo
etico» (n.65). I giovani in particolare devono finalmente ricevere dei segnali
concreti, che vadano oltre la precarietà, la discriminazione, l’arbitrarietà.
Le misure necessarie per le nuove generazioni e i diritti che esse vedono oggi
riconosciuti, devono effettivamente compensarsi anche attraverso una scrupolosa
revisione delle garanzie, che non possono valere solo per determinate fasce.
L’uguaglianza è condizione della fraternità. Con i diritti ci sono i doveri: in primis
quello di meritarsi il lavoro e la sua stabilità. Ci sono tentazioni
parassitarie che non fanno onore a chi vi ricorre – né a chi dovesse
assecondarle − mescolandosi accortamente con gli altri e facendo conto
strumentalmente su garanzie assicurate sulla base di giuste premesse. E c’è un
costume insano che sta prendendo piede, persino in certe campagne
pubblicitarie, secondo il quale si è spinti a spendere per i propri consumi ciò
che ancora non si è guadagnato. Indebitarsi per fare una vacanza, o per avere
in casa un oggetto superfluo, è segno di un modo di concepire la vita distorto,
triste e pericoloso. Il dramma dei suicidi di persone che si sentono
schiacciate dalle responsabilità aziendali o familiari, spesso da debiti per i
quali non hanno colpa, è un fenomeno che interroga e inquieta. Difficile
sottrarsi anche alla percezione che vi possa essere un involontario, perverso
effetto emulativo. Nel rispetto assoluto di ogni situazione, noi abbiamo il
dovere di ricordare che nulla vale il sacrificio della vita: essa è sacra,
nessuno ne può disporre a piacere e neppure a dispiacere. Vanno appurate con
diligenza le cause concrete di questi fenomeni, e vanno approntati “sportelli
amici” a cui possa rivolgersi con fiducia chi è disperato. Com’è noto, su
questo fronte la Chiesa
italiana e le varie Diocesi da tempo sono mobilitate in modo operativo e
concreto per creare – più fitta e resistente – una rete di protezione della
vita di tutti e di ciascuno. In nome di Dio, tuttavia, chiediamo a tutti di
fermarsi prima di arrivare al passo irreparabile. Proprio la perentorietà con
cui spesso si presentano le situazioni di crisi, richiede a tutti gli enti e
sportelli preposti di adottare criteri di ragionevole flessibilità. Stato,
Amministrazioni ed Enti pubblici paghino senza ulteriori indugi i debiti
contratti con i cittadini e le aziende. È semplicemente paradossale dover
chiudere un’azienda per la mancata corresponsione del dovuto da parte dell’ente
pubblico, quando poi è l’ente pubblico che dovrà in altro modo farsi carico
degli ulteriori segmenti sociali di disperazione. Sappiamo bene che gli
istituti bancari giudicano ad oggi già pericoloso il livello della loro
esposizione creditizia: ma noi non possiamo non far appello al senso civico e
al dovere della solidarietà nei confronti delle piccole aziende e delle
famiglie. Con grande rispetto, invitiamo la classe imprenditoriale a ripensare
alla facile strategia delle delocalizzazioni: la genialità che ci è
riconosciuta deve trovare esplicazione nel ciclo complessivo della produzione,
bilanciando lavoro e redditività, ma anche salvaguardando, pur in una logica
non isolazionistica, l’italianità delle industrie e delle relative dirigenze. Inoltre, l’approccio prevalentemente
finanziario ad alcuni problemi del mondo industriale forse ripiana dei vuoti,
ma rischia di spogliare il Paese del proprio patrimonio. E se i settori
complementari vengono allontanati gli uni dagli altri, ci chiediamo: sarà più
facile l’integrazione e il reciproco sostegno tra loro, oppure sarà fatale l’indebolimento
di tutti? Si dice che è da difendere la forza lavoro – ed è giusto –, ma se la
tecnologia e le professionalità prendessero le ali, non diventeremo un luogo di
assemblaggio? E allora quanto sarebbe sicuro il lavoro residuo?
Vorrei aggiungere una parola nei riguardi dei
sacerdoti che al Sud, ma ora anche al Nord, si trovano a far fronte al sistema
mafioso, alle sue minacce e alle sue intimidazioni. Noi Vescovi siamo, senza
incertezze né titubanze, schierati con loro, e ancora una volta vogliamo assicurare
che la Chiesa
mai diserterà il proprio impegno contro la malavita: non è successo nella
precedente stagione, non capiterà ora. Altre minacce ci stanno insidiando e su
di esse si sta puntando un’assidua vigilanza, insieme alla massima attenzione per
prevenire e perseguire gli autori e i fiancheggiatori di violenza. A Brindisi
c’è stato un attentato mortale in cui ha perso la vita una giovane, Melissa
Bassi, e sono state ferite altre cinque allieve, tutte che stavano entrando a
scuola per apprendere e prepararsi alla vita. Nella mia Genova, com’è pure
noto, c’è stata la gambizzazione di un alto dirigente aziendale, Roberto
Adinolfi. Lasciando agli inquirenti le conclusioni di competenza, è inevitabile
fare collegamenti col passato e intravvedere ombre eversive che cercano di
pescare nel torbido di disagi e paure per destabilizzare la vita sociale.
Nessun credito da parte di alcuno può essere dato a coloro che, comunque
travestiti, usano violenza e perpetrano crimini. L’Italia ha un’indole di
equilibrio e misura, sembra corrispondere alla bellezza e all’armonia della
nostra terra. Non tende di per sé ad eccessi né ad estremismi. L’intera Nazione
deve isolare, con sdegno compatto e univoco, coloro che sbandierano false e
mortifere utopie. Non permettiamo che questi servi della violenza ci
intimidiscano e ci assoggettino al terrore. Come credenti nel Dio della
giustizia e della pace, preghiamo per le vittime e i loro cari, e preghiamo
perché tutti siano illuminati dallo
Spirito.
8. Siamo partiti domandandoci come si
presenterà prevedibilmente la crescita a cui fortemente aspiriamo. E si diceva
che essa non si svilupperà tanto sulla quantità (di beni, di risorse, di
consumi…), quanto sulla sicurezza, la qualità delle relazioni, l’istruzione dei
nostri giovani e la riqualificazione degli adulti, la tutela
dell’ambiente, la valorizzazione
sistematica dei beni artistici, l’organizzazione del tempo, compreso il
rispetto della domenica. Molti di questi temi saranno oggetto di considerazione
nell’Incontro mondiale delle famiglie a Milano, in calendario per il 30
maggio-3 giugno, con la presenza del Santo Padre. Per questo evento esprimiamo
i nostri voti all’Arcivescovo di quella città, Cardinale Angelo Scola,
assicurandogli la nostra vicinanza e la partecipazione festosa delle nostre
comunità. Ebbene, volenti o nolenti, questo discorso ci porta ancora una volta
al crocevia in cui oggi si trova la famiglia, e non per una sorta di fissazione
monotematica, ma piuttosto per la consapevolezza del valore che è questa ineguagliabile
e spesso maltrattata struttura antropologica, l’unica che ci consenta di proiettarci nel futuro. Non a caso è un “universale
presente in ogni società” in quanto permette di tenere insieme le differenze
dell’umano, quelle relative ai sessi e quelle relative all’età. È il grembo
insostituibile in cui spunta la vita, l’identità e la maturità delle persone,
il loro equilibrio esistenziale, la loro progressiva apertura alla vita
sociale. Ovvio che, lasciata sola, magari anche denigrata, la famiglia resiste
ma patisce, nonostante alcuni promettenti segnali di sostegno che fanno ben
sperare se ulteriormente incrementati ed estesi. Esser distratti rispetto al
bene insuperabile della famiglia fa soffrire anche la società, che indebolisce
il suo più rilevante cespite di vitalità, di coesione e di futuro. Per questo,
in una cultura del tutto-provvisorio, l’introduzione di istituti che per natura
loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta contribuiscono a
diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell’amore, né alla società
stessa. La famiglia non è un aggregato di individui, o un soggetto da
ridefinire a seconda delle pressioni di costume oggi particolarmente aggressive
e strategicamente concentrate; non può essere dichiarata cosa di altri tempi.
Ecco perché l’ipotesi del cosiddetto “divorzio breve” contraddice gravemente
qualunque possibilità di recupero, e rende complessivamente più fragili i
legami sociali. Interessante il dato emerso da una recente indagine promossa
dall’Università Bicocca di Milano, secondo cui le persone che attribuiscono più
importanza alla famiglia e alle relazioni che in essa si sviluppano sono in
genere le più felici. In Italia,
nonostante difficoltà di vario genere, la famiglia tiene e si rivela, anche in questo frangente,
il punto di tenuta affettiva, psicologica ed economica. Ma bisogna recuperare
una cultura della famiglia; una cultura che fa del nostro Paese un esempio a
cui guardare. C’è fame di famiglia perché essa è il motore della vita. Se il
profeta è colui che vede lontano, la voce della Chiesa continuerà a levarsi
alta e chiara per affermare e sostenere la missione incomparabile della
famiglia naturale come cuore pulsante e patrimonio dell’umanità. Il discorso
sembra persino ovvio se si prendono in considerazione i figli, che sono
normalmente i sostenitori più convinti dell’unità e dell’integrità della loro
famiglia. Quante volte leggiamo negli occhi dei figli la ricaduta conseguente
al naufragio del matrimonio genitoriale! Nella vita l’esperienza della
sofferenza diventa prima o dopo inevitabile, ma se proprio i genitori possono
non farla incontrare ai figli è ben meglio. Il legislatore ha in più occasioni
dimostrato di tenere in alta considerazione l’equilibrio e il benessere dei
figli, come quando, col divieto dell’eterologa, ha detto no al bambino con “tre
genitori”. L’esperienza dimostra con sempre maggior evidenza che i figli non si
accontentano dei dati di fatto, e sono esistenzialmente inquieti fino a quando
non identificano i loro veri genitori. Abbiamo così richiamato l’attenzione a
quell’insieme di valori fondamentali e fondativi che costituiscono la
cosiddetta “etica della vita”, e che si pone alla base di ogni sistema sociale
che voglia garantire l’uomo in tutto l’arco della propria esistenza. La vita,
la famiglia naturale, la libertà di educazione, sono infatti la bussola irrinunciabile
che orienta ogni dimensione del vivere comune, anche la cultura, la politica,
l’economia, la finanza…
Mi
avvio alla conclusione, evocando la
figura di un laico, e un laico di grande qualità, Giuseppe Toniolo, per la cui
beatificazione desideriamo ringraziare il Sommo Pontefice e quanti negli anni
si sono prodigati per raggiungere questo risultato, che non riguarda solo
l’Arcidiocesi di Pisa e le Diocesi di Treviso e Vittorio Veneto, e neppure solo
l’Azione Cattolica, l’Università Cattolica e le Settimane sociali, ma realmente
tutta la Chiesa
che è in Italia. La sua è una personalità chiave tra ‘800 e ‘900, che ha dato
lustro alla professione docente, all’istituto familiare, al movimento cattolico
italiano ed europeo nel suo insieme. Fu un uomo limpido e coraggioso,
anticonformista rispetto allo spirito dei tempi, ma molto attento alle
dinamiche ecclesiali tra le quali operò sempre per unire e mai per dividere.
Era un ottimista tutt’altro che ingenuo, e si dedicò con passione
all’apostolato interpersonale, anche attraverso un epistolario facondo ed
esemplare. La sua testimonianza è particolarmente attuale per gli studi a cui
si consacrò, e la capacità di sintesi sempre in divenire, di fede e vita
quotidiana, intesa anche come vita accademica: qualcosa – è stato detto – che
richiede una quotidiana risurrezione. In questo fu un anticipatore del
Concilio, specie là dove afferma che «ogni laico deve essere davanti al mondo
un testimone della risurrezione» (LG
n. 38) e per questo capace di «trasmettere alle generazioni di domani, ragioni
di vita e di speranza» (GS n. 31).
Per la stagione che il nostro laicato cattolico sta vivendo, questa
beatificazione è un autentico colpo d’ala, di cui sarà bene non disperdere la
spinta. Sembra, anzi, che essa arrivi nel momento più indicato, quando i
cattolici – sia sul versante interno che su quello esterno – stanno mettendo in
campo iniziative provvidenziali per il bene del Paese e che noi incoraggiamo.
Diceva il Papa nella recente tappa ad Arezzo e San Sepolcro, proprio in
riferimento alla figura del nuovo beato: «Alla sfiducia verso l’impegno nel
politico e nel sociale, i cristiani, specialmente i giovani sono chiamati a
contrapporre l’impegno e l’amore per la responsabilità, animati dalla carità
evangelica, che chiede di non rinchiudersi in se stessi, ma di farsi carico
degli altri». E per i giovani aggiungeva «l’invito a pensare in grande: abbiate
il coraggio di osare. Siate pronti a dare nuovo sapore all’intera società
civile, con il sale dell’onestà e dell’altruismo disinteressato» (Incontro con la cittadinanza di San Sepolcro,
13 maggio 2012).
Vi
ringrazio, venerati Confratelli, per la benevolenza nel seguire questa mia
proposta e ora nel volerla dibattere e arricchire. Ci accompagnino nei lavori
di questi giorni i Santi patroni delle nostre diocesi, san Francesco d’Assisi e
Santa Caterina da Siena, il beato Giovanni Paolo II e il beato Toniolo. La Santa Vergine, cui
un anno fa abbiamo consacrato l’Italia, ci sostenga; lo Spirito Paraclito
sempre ci ispiri e ci sorregga. Grazie.