giovedì 24 maggio 2012

Tutto nasce dal perdono (2)

Il Vangelo di oggi, 25 maggio, venerdi della VII settimana di Pasqua, merita qualche approfondimento.


Commenti patristici a Gv. 21

S. Agostino


Invitato, il Signore si reca ad un festino di nozze. C’è da meravigliarsi che vada alle nozze in quella casa, lui che è venuto a nozze in questo mondo? Se non fosse venuto a nozze, non avrebbe qui la sposa. E che senso avrebbero allora le parole dell’Apostolo: Vi ho fidanzati ad uno sposo unico, come una vergine pura da presentare a Cristo? Che cosa teme l’Apostolo? Che la verginità della sposa di Cristo venga corrotta dall’astuzia del diavolo. Temo – dice – che come nel caso di Eva, il serpente nella sua astuzia corrompa i vostri sentimenti, deviandoli dall’amore sincero e casto verso Cristo (2 Cor 11, 2-3). Il Signore ha qui, dunque, una sposa che egli ha redento col suo sangue, e alla quale ha dato come pegno lo Spirito Santo. L’ha strappata alla tirannia del diavolo, è morto per le sue colpe, è risuscitato per la sua giustificazione. Chi può offrire tanto alla sua sposa? Offrano pure gli uomini quanto c’è di meglio al mondo: oro, argento, pietre preziose, cavalli, schiavi, ville, possedimenti: ci sarà forse qualcuno che può offrire il suo sangue? Se uno offrisse il suo sangue per la sposa, come potrebbe sposarla? Il Signore invece affronta serenamente la morte, dà il suo sangue per colei che sarà sua dopo la risurrezione, colei che già aveva unito a sé nel seno della Vergine. II Verbo, infatti, è lo sposo e la carne umana è la sposa; e tutti e due sono un solo Figlio di Dio, che è al tempo stesso figlio dell’uomo. II seno della vergine Maria è il talamo dove egli divenne capo della Chiesa, e donde avanzò come sposo che esce dal talamo, secondo la profezia della Scrittura: Egli è come sposo che procede dal suo talamo, esultante come campione nella sua corsa (Sal 18, 6). Esce come sposo dalla camera nuziale e, invitato, si reca alle nozze. ...
Che il Signore abbia accettato l’invito e sia andato a nozze, a parte ogni significato mistico, è una conferma che egli è l’autore delle nozze. ... E non si può dire che siano prive di nozze quelle donne che consacrano a Dio la loro verginità, esse che occupano nella Chiesa un grado più elevato di onore e di santità; poiché anch’esse partecipano insieme con tutta la Chiesa di quelle nozze nelle quali lo sposo è Cristo. Il Signore, dunque, accettò l’invito alle nozze, per consolidare la castità coniugale, e rivelare il mistero dell’unione nuziale. Lo sposo delle nozze di Cana, infatti, cui fu detto: Hai conservato il buon vino fino ad ora, rappresentava la persona del Signore. Cristo, infatti, aveva conservato fino a quel momento il buon vino, cioè il suo Vangelo.
E così cominciamo a scoprire i significati reconditi, secondo quanto ci concede colui nel cui nome ci siamo impegnati con voi. La profezia è esistita fin dai primordi, e ogni tempo ha avuto le sue profezie; ma finché in esse non si riusciva a vedere Cristo, erano come acqua. In un certo senso, infatti, il vino è nascosto nell’acqua. L’Apostolo c’insegna che cosa dobbiamo intendere in questa acqua: Fino al giorno d’oggi, quando si legge Mosè, rimane come un velo sopra il loro cuore; e non vien tolto, perché solo il Cristo può farlo sparire. Solo quando ci si convertirà al Signore, il velo cadrà (2 Cor 3, 15-16). Il velo è l’oscurità che avvolge la profezia, sì che questa rimane inintelligibile. II velo è tolto quando ti converti al Signore: quando ti converti al Signore è tolta l’insipienza, e ciò che era acqua, per te diventa vino. Cosa c’è di più insipido, di più insignificante di tutti i libri profetici, se li leggi senza scoprire in essi il Cristo? Ma se vi scopri il Cristo, non solo acquista sapore ciò che leggi, ma addirittura ti inebria, ed elevando la tua anima ben al di sopra del corpo, ti farà dimenticare ciò che ti sta dietro, per farti protendere verso ciò che ti sta davanti.


(Dai Trattati su Giovanni 8, 4. 9, 2-3)


S. Beda il Venerabile


Perciò il Signore per la gioia delle nozze non ha voluto fare vino dal nulla, ma dopo aver comandato che si riempissero di acqua sei vasi, mirabilmente l’ha trasformata in vino, in quanto egli ha fatto dono alle sei età del mondo dell’abbondanza della sapienza, che dà la salvezza, e poi venendo in terra, l’ha arricchita di un significato più alto: quelle verità che gli uomini carnali intendevano solo secondo la carne, egli ha rivelato che erano da intendersi secondo lo spirito. Volete sentire, fratelli, come ha trasformato l’acqua in vino? Dopo la risurrezione è apparso ai due discepoli, che camminavano per la via e andava con loro e, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, interpretava loro ciò che in tutte le Scritture era scritto su di lui. Volete ora sentire in che modo i due furono inebriati da questo vino? Dopo aver conosciuto chi era colui che porgeva loro la parola di vita, dicevano tra loro: Non ci sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi, mentre ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture? (Lc 24, 32).
Gesù ordinò loro: Riempite di acqua le idrie. E le riempirono fino all’orlo. Chi sono i ministri, cui si comanda di far questo, se non i discepoli di Cristo, che hanno riempito le idrie di acqua? Non nel senso che essi abbiano fornito le passate età del mondo degli scritti legali e profetici, ma perché hanno sapientemente compreso ed esattamente spiegato che la Scrittura tramandata dai profeti era salutare per attingere la sapienza celeste e utile per la correzione del modo di vita. Riempirono le idrie fino all’orlo, poiché compresero che non c’era stata nessuna età priva di maestri, che avevano svelato ai mortali la via della vita con le parole, con gli esempi e anche con gli scritti. ...
Gesù fece questo primo dei suoi miracoli in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria. Manifestò con questo miracolo che era re della gloria e sposo della Chiesa egli che, venuto alle nozze come uomo comune, come Signore del cielo e della terra trasformava a suo piacimento gli elementi. E con suggestiva correlazione colui che aveva mutato l’acqua in vino come primo dei miracoli che da mortale avrebbe mostrato ai mortali, egli stesso come primo dei miracoli che, ormai immortale in virtù della risurrezione avrebbe mostrato a quanti avrebbero desiderato solo la vita immortale, ha imbevuto la loro mente carnale, e per così dire insipida, della scienza divina. Infatti dapprima, mentre stava in terra svelò loro col dono del suo Spirito il senso per comprendere la Scrittura e dopo, inviato dal cielo quello stesso Spirito infuse nei loro cuori più grande fragranza di amore divino e di sapienza spirituale, dando inoltre la conoscenza di tutte le lingue, per poter diffondere in tutto il mondo la grazia della vita che avevano ricevuto. Perciò, fratelli carissimi, amiamo con tutto il cuore queste nozze di Cristo e della Chiesa, che allora erano prefigurate in una sola città e ora sono celebrate in tutto il mondo; uniamoci con indefessa intenzione di buone opere al loro gaudio celeste. Dato che, grazie alla fede, siamo venuti a queste nozze, celebriamole con la pura veste dell’amore e laviamo scrupolosamente le macchie delle nostre azioni e dei nostri pensieri prima del giudizio finale, perché non avvenga che il re, che ha fatto queste nozze per suo figlio, vedendo che non abbiamo la veste nuziale dell’amore, ci scacci e ci respinga nelle tenebre esteriori, legati con mani e piedi, cioè preclusi dalla possibilità di agire bene (cfr. Mt 22, 11-13). Purifichiamo con la fede i capaci recipienti dei nostri cuori secondo la purificazione che danno i precetti celesti e riempiamoli con l’acqua della scienza che salva, attendendo con più zelo alla lettura dei sacri testi. Preghiamo il Signore che quella grazia della scienza che ci ha dato, non ci gonfi di superbia, e invece ci riscaldi col fervore del suo amore e ci volga a cercare e sapere solo le cose del cielo perché, inebriati nello spirito, possiamo cantare col profeta: Ci hai dato da bere il vino di compunzione (Sal 59, 5). Così anche a noi, se avremo bene progredito, ora in parte, per quanto ne siamo capaci, e in futuro in modo perfetto, Gesù manifesti la sua gloria, nella quale vive e regna col Padre nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.



S. Bruno di Segni


Uscirono e salirono sulla barca e in quella notte non presero nulla. Perché nella notte avevano faticato per niente e Gesù non era ancora venuto da loro, perché erano venuti a pescare per sé e non mandati da un altro. Stavano ancora a significare quelli che vengono a predicare e a reggere la Chiesa non dietro regolare mandato, ma di proprio arbitrio. I pesci di Dio li fuggono e rifiutano di entrare nelle loro reti e di ascoltare le loro predicazioni.
Fattasi ormai mattina, Gesù si presentò sulla riva ma i discepoli non si accorsero che era Gesù. Ecco che cominciano ad indicare qualcosa d’altro: non lavorano più nella notte, vengono incontro al giorno e vedono Gesù. Disse loro Gesù: Figli, non avete qualcosa da mangiare? Gli risposero: No. Disse allora Gesù: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete. Come se dicesse: Io quella volta non vi ho mandato, avete lavorato a sinistra, non avete preso nulla. Ora dunque gettate la rete a destra, faticate secondo il mio comando, predicate la mia dottrina: non sappia la vostra sinistra quel che fa la vostra destra e troverete. Pescare a destra significa predicare con sincero affetto e cuore puro la vera e cattolica dottrina. I pescatori sono gli apostoli, predicatori e dottori; le reti invece sono i vangeli e in genere ogni scritto divinamente ispirato. Per pesci si intendono i fedeli tutti. Tali pesci nuotano nel fiume del Battesimo, sono catturati dalle reti del Vangelo e dall’amore per la fede.
La gettarono dunque e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. O grande miracolo! Pur lavorando tutta la notte non avevano preso nulla ed ecco che al comando del Signore subito accorre una tal moltitudine di pesci! ...
Visto il miracolo, quel discepolo che Gesù amava, disse a Pietro: È il Signore! Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si cinse la tunica, poiché era spogliato; e si gettò in mare. Ovunque Pietro è trovato di fede più fervente e di più forte amore. Gli altri discepoli vennero con la barca; infatti non erano lontani da terra. Che cosa intendiamo per terra se non la terra dei viventi? Da essa non erano lontani, poiché sciolti dai legami del corpo, vi sarebbero giunti presto.
Traendo quasi per duecento cubiti le reti piene di pesci. Il numero di cento è già perfetto ed inoltre è duplicato quando è adempiuto con la parola e l’operaI maestri della fede traggono allora la rete piena di pesci per duecento cubiti quando con la parola e con l’opera attirano dietro di sé alla vita eterna quelli che ascoltano.
Appena scesi a terra videro un fuoco di brace e del pesce sopra e del pane. Di questo cibo si ristorano i pescatori e i predicatori di Cristo e riprendono forza quando ritornano stanchi dal loro operare. Vedono il fuoco di brace, il pesce sopra e il pane ogni volta che si ricordano della passione e della predicazione di Cristo e allora si dimenticano della fatica, della stanchezza e di tutte le loro tribolazioni. E che cosa è il pesce arrostito sulla brace se non il Cristo nella passione della croce? E che cosa è il pane, se non la predicazione evangelica, con la quale il Signore era solito ristorare i suoi discepoli dicendo: Non temete quelli che vogliono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima (Mt 10, 28)? Da queste parole i discepoli sono rinvigoriti, da queste parole sono animati e saziati e sono incitati a riprendere la loro fatica.
Dice loro il Signore: Portate qui dei pesci presi or ora. Incessantemente gli apostoli e i maestri portano pesci al Signore: sempre con l’esempio e la dottrina portano a lui l’anima dei fedeli. Perciò viene detto anche: Salì Simon Pietro e trasse a terra la rete piena di grossi pesci, centocinquantatré, e pur essendo tanti la rete non si spezzò.Erano pesci buoni quelli per cui la rete non si spezzava. Sono pesci cattivi quelli per cui la rete dei vangeli ogni giorno si spezza, gli eretici e gli scismatici. E per i centocinquantatré che cosa intendiamo se non tutti i battezzati e i fedeli? ...
Gesù disse loro. Venite a mangiare! E nessuno dei discepoli osava domandargli: Chi sei? sapendo bene che era il Signore. E venne Gesù e prese il pane e lo diede loro e così pure il pesce. Ogni giorno il Signore ci invita al suo pranzo; ogni giorno ci offre il suo cibo evangelico e le delizie del suo Corpo e del suo Sangue. Finché noi leggiamo questi Vangeli ci ritempra in terra con il cibo del suo pane. Ci offre anche il pesce arrostito, perché qui troviamo in qual modo abbia patito. E non possono trarre bene a terra le reti quelli che non si ristorano con assiduità con questo cibo.
Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli dopo essere risorto dai morti. Qui parla di quelle manifestazioni che si sono verificate a molti o a tutti insieme riuniti.
Dopo che ebbero mangiato, dice Gesù a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Gli risponde: Certo Signore, tu sai che ti amo. Il Signore chiede a Pietro se lo ama, a lui che sempre vedeva distinguersi per un più forte sentimento di amore nei suoi confronti. Così, poco prima, quando gli altri erano andati da lui con la barca, lui non aveva potuto aspettare la lentezza della barca, ma sotto l’impulso dell’amore immenso, si era gettato nel mare per poter arrivare prima al Signore.Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro, tu che dimostri verso di me un affetto più grande del loro? Gli risponde: Sì, Signore, tu sai che ti amo. Sì, Signore, ti amo e tu sai che ti amo. Tu sai quanto ti voglio bene. Io invece non so se ti amo più degli altri.
Gli dice: Pasci i miei agnelli! Il Signore non vuole affidare ad un altro i suoi, se non a chi ama, egli che li ha tanto amati da degnarsi di dare se stesso per loro. Prima interroga il pastore della Chiesa, per sapere se lo ama, poi gli affida i suoi agnelli da pascere. Gli dice di nuovo: Simone di Giovanni, mi ami? Gli risponde: Sì, Signore, tu sai che ti amo. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami? Allora Pietro, rattristato, e temendosi sospettato dal Signore, risponde dicendo: Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo. Gli dice: pasci le mie pecorelle. Prima gli affida gli agnelli, poi le pecore perché lo costituisce non solo pastore, ma pastore dei pastori. Dunque Pietro pasce gli agnelli, pasce anche le pecore; pasce i figli e pasce anche le madri: regge i sudditi e regge i capi. È pastore di tutti perché, oltre ad agnelli e pecore, nella Chiesa di Dio non c’è nulla d’altro, niente, dico, che il Signore abbia affidato ai suoi pastori.
Ecco, Pietro che per tre volte aveva rinnegato, per tre volte risponde affermando di amare il Signore: affinché l’amore distrugga la colpa, l’affetto tolga l’offesa. E gli dice ancora Gesù: Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Cosa questo significhi, lo dice lo stesso Evangelista: Questo gli disse per significare con quale morte avrebbe glorificato Dio. Infatti il beato Pietro, confitto alla croce, e su di essa stendendo le mani, fu da altri cinto e legato. Giustamente poi, dopo che per tre volte aveva risposto di amare il Signore, il Signore gli annuncia la morte con cui, in modo apertissimo, ha dimostrato quanto lo amasse davvero. Per cui anche si aggiunge: Gli dice: Seguimi! Se mi ami, seguimi, vieni dietro a me, imitami, così che come io sono morto per te così tu morirai per me.


(dal Commento a Giovanni, III, 55-56)



S.
 Agostino


Voi ricordate che l’apostolo Pietro, il primo di tutti gli Apostoli, si turbò nella passione del Signore. Da sé si turbò, ma fu rinnovato da Cristo. Un primo tempo fu infatti un audace presuntuoso, ma poi divenne un timido rinnegatore. Aveva promesso che sarebbe morto per il Signore, mentre sarebbe morto prima, per lui, il Signore. Perciò quando diceva: Sarò con te fino alla morte (Lc 22, 23); e Darò la mia vita per te gli replicò il Signore: Darai la tua vita per me ? In verità, ti dico: Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte (Gv 13, 37-38). Si giunse al momento e poiché Cristo era Dio, Pietro, invece, un uomo, si compì la Scrittura: Io ho detto nel mio sgomento: Ogni uomo è mentitore (Sal 115, 11). Dice l’Apostolo: Poiché Dio è verace, ogni uomo invero è mentitore (Rm 3, 4). Verace Cristo mentitore Pietro.
E che? Proprio a lui si rivolge il Signore, come avete ascoltato durante la lettura del Vangelo, e gli domanda: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Quello risponde dicendo: Sì; certamente, tu sai che ti amo. E il Signore glielo chiede di nuovo e gli ripete la domanda una terza volta. Ed a lui che rispondeva di amare, affidò il gregge. Infatti, ogni volta, a Pietro che asseriva: Ti amo, il Signore Gesù assegnava: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Nel solo Pietro era figurata l’unità di tutti i pastori, ma dei buoni, di quelli che sanno pascere le pecore di Cristo non per sé, ma per Cristo. In questo momento Pietro era forse mentitore, oppure mentiva nel rispondere al Signore che lo amava? La sua risposta era pienamente sincera: infatti rispondeva ciò che scopriva nel suo cuore. Quando poi aveva detto:Darò la mia vita per te, volle presumere delle sue future capacità. Ma ogni uomo forse conosce quale egli è oggi che parla; chi conosce di sé quale sarà domani? Perciò Pietro volgeva gli occhi all’interno del suo cuore quando veniva interrogato dal Signore e, fidandosi, rispondeva quanto vedeva dentro: Sì; certamente, Signore, tu sai che ti amo. Tu conosci quello che ti dico: vedi anche tu ciò che io vedo nel mio cuore. Non ardì tuttavia rispondere a tutto ciò che il Signore aveva domandato. Il Signore infatti non aveva detto semplicemente: Mi ami, ma aveva aggiunto: Mi ami più di costoro? Cioè: Mi ami più di quanto mi amano costoro? Si riferiva agli altri discepoli; quello poté dire solo: Ti amo, non osò ammettere: più di costoro. Non volle essere di nuovo mentitore. Gli era bastato dare testimonianza al proprio cuore: non dovette essere giudice del cuore altrui.
Verace, dunque, Pietro, o piuttosto, verace Cristo in Pietro? Ma il Signore Gesù Cristo, quando volle, lasciò Pietro a se stesso e Pietro si scoprì uomo; quando poi al Signore Gesù Cristo piacque, ispirò Pietro e si constatò che Pietro era verace. La pietra aveva reso verace Pietro; la pietra era Cristo infatti. E di che lo fece avvertito quando per la terza volta il Signore a Pietro affidò le sue pecorelle? Gli fece prevedere la sua passione: Quando eri più giovane - disse - ti cingevi da solo, e andavi dove volevi: ma quando sarai vecchio, tenderai le mani e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi. L’Evangelista ci ha spiegato il senso delle parole di Cristo. Ma gli diceva questo - dice - per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio: che doveva essere crocifisso per Cristo; questo vuol dire infatti: tenderai le tue mani. Dov’è il rinnegatore? Dette queste cose, il Signore aggiunse: Seguimi. Non così come prima, quando chiamò i discepoli. Infatti anche in quel caso disse: Seguimi, ma allora era per la formazione, ora per la corona. Forse che non ebbe timore di essere ucciso quando rinnegò Cristo? Ebbe timore di patire ciò che Cristo soffrì. Ma ora non c’era da temere. Vedeva vivente nella carne colui che aveva veduto appeso al legno. Risorgendo, Cristo fece sparire il timore della morte e, poiché aveva tolto il timore della morte, a ragione interpellava l’amore di Pietro. Il timore aveva rinnegato tre volte, tre volte confessò l’amore. Triplice rinnegamento: l’abbandono della verità; triplice confessione: la testimonianza dell’amore.


(dal Discorso 147)


Tutte le cose che al presente si leggono nel santo Vangelo sono fatti e detti del tempo dopo la risurrezione. Perciò abbiamo ascoltato il Signore Gesù Cristo che interrogava l’apostolo Pietro, chiedendogli se l’amasse. Così il Signore interrogava il servo, il Maestro il discepolo, il Creatore l’uomo, il Redentore il redento, l’Immutabilità l’esitante, il Presago l’ignaro; e, quando egli mostrava il bisogno di sapere, allora si rivelava maestro. Infatti non è che Cristo poteva ignorare che cosa Pietro portasse nel cuore. Interroga una volta, quello risponde. Non basta, interroga di nuovo, e non su altro, ma su ciò che aveva domandato: anche quello ripete la stessa risposta. La domanda è ripetuta per la terza volta, per la terza volta risponde l’amore. Infatti quello che tre volte aveva negato per timore, tre volte è interrogato per amore. Quando il Signore doveva morire, ebbe timore, si sgomentò e negò; ma risorgendo, il Signore gli infuse l’amore, dissipò il timore. In realtà chi doveva temere ormai Pietro? Infatti quando negò, proprio per questo negò, perché ebbe paura di morire; una volta risorto il Signore, nel quale constatava che era morta la morte, che doveva temere? Davvero vivo, proprio quello stesso che rivolgeva la domanda, colui che, morto era stato sepolto; era presente colui che era stato sospeso sulla croce. Quando il Signore nostro Gesù Cristo era stato condannato dai Giudei allora Pietro, interrogato - quel che è peggio da una donna e, particolare assai indecoroso, da una serva - ebbe timore e negò; davanti ad una serva ebbe paura, alla presenza del Signore fu padrone di sé. Ma a chi confessava il suo amore una volta, e una seconda, e una terza, affidò le sue pecore. Mi ami? domandò. Signore, tu sai che ti amo. Ed egli: Pasci i miei agnelli. Questo una prima volta, questo una seconda, questo una terza; come se Pietro non avesse avuto altro modo di dimostrare il suo amore per Cristo, che con l’essere pastore fedele sotto il Principe di tutti i pastori. Mi ami? Ti amo. E quale sarà la tua corrispondenza amandomi? Che offrirai tu, uomo, a me tuo Creatore? Che prova darai del tuo amore, tu, riscattato, al tuo Redentore, tu che al più sei soldato, al tuo Re? Che darai? Esigo questo solo: Pasci le mie pecore.


(Dal Discorso 147/A, 1)
* * *

Don Giussani: La virtù dell'amicizia di Cristo. Meditazioni su Gv. 21

La virtù dell'amicizia o: dell'amicizia di Cristo 
Luigi Giussani
Brani da alcune meditazioni di Luigi Giussani intorno al capitolo 21 del Vangelo di san Giovanni
1994-1995


Dio è diventato un uomo dentro le viscere di una donna, fatto di quelle viscere: ha incominciato a balbettare così come ha sentito parlare, ha incominciato a stupire, ha incominciato ad attrarre gente, ha incominciato a parlare con Giovanni e Andrea, ha incominciato a parlare con Zaccheo e la Samaritana: ha finito chiedendo a un uomo se lo amava.













E attraverso la risposta di quell'uomo si è messo in cammino per conquistare la storia, per conquistarsi il mondo, ha iniziato una storia nuova nel mondo. Attraverso la risposta di Simon Pietro, attraverso quel «sì, Signore, tu lo sai che io ti amo», attraverso quelle parole e quel sentimento, ha iniziato un nuovo cammino nel tempo, ha iniziato una storia dentro la storia umana, ha iniziato una storia nel tempo, una storia nuova nel tempo.
Come è entrato nelle viscere, come ha iniziato il suo cammino sulla terra entrando nelle viscere di una donna, è nelle viscere del nostro riconoscimento, è nelle viscere del nostro amore che continua ad essere presente «qui ed ora». Questo «qui ed ora» è tutto: se non fosse vero questo, il mondo sarebbe un cumulo di immondizia in cenere. (...)

Il Mistero fatto carne nel seno, nelle viscere, di quella giovane donna si comunica giorno per giorno, lungo tutto il tempo dei secoli, cioè in tutta la storia - ha cominciato a comunicarsi allora e si comunica fino alla fine - attraverso il visibile. Entra nell'esperienza come fattore dell'esperienza umana solita, per cui, qualsiasi esperienza umana, se è compiuta nella coscienza della Sua presenza «dentro», diventa prendere per la mano, prendere per un braccio la Sua presenza, diventa mettere la testa sopra la Sua spalla, come ha fatto Giovanni nell'Ultima Cena, diventa sentirLo dire, lì seduto mentre si mangia il pesce alla mattina presto: «Simone, mi ami tu?».
Tutto il mondo dovrebbe amarTi! Tu hai scelto chi Ti amasse. Me hai scelto, nonostante tutte le mie ribellioni, i miei ribollimenti, le mie deflagrazioni di ira o di istinto! «Signore, Tu sai che io Ti amo». «Ti amo» non è lo staccarmi dal rapporto umano, dalla visibilità della realtà in cui sto impegnandomi, con cui sto unendomi; non è staccarmi dall'esperienza dell'istante per scivolare in un tempo senza tempo, per un volto immaginato, per una presenza casomai forzosamente affermata, e dire: «Signore, Tu lo sai che io Ti amo». No. In questo rapporto, nel rapporto con mia mamma, nel rapporto con questa ragazza, nel rapporto col mio amico, nel rapporto col mio nemico, nel rapporto con tutta la gente che mi scivola affianco per la strada quando vado a prendere la metropolitana, dentro, dentro l'esperienza che sto facendo (l'esperienza è un contenuto di rapporti con cose e persone), dentro questo io Ti riconosco come la consistenza di tutto. Il Tuo volto è la consistenza di tutto! Ed è l'attrattiva che può rimanere in qualsiasi brandello di carne, in qualsiasi brandello di cosa.
(...)

Non possiamo guardarTi senza la nostra compagnia, se non attraverso la nostra compagnia. GuardarTi vuol dire creare la nostra compagnia. E qui veramente Tu dimostri chi sei, perché nella nostra compagnia è abolita l'estraneità e l'inimicizia fino al punto che, nonostante le estraneità e le inimicizie cui si può dare spazio, c'è tra noi un amore più grande. Un amore più grande: l'amore a Te. Tra di noi, l'amore a Te (...).
Quello che ci dici oggi, o Signore, è l'ultima parola che hai detto nel vangelo di san Giovanni: «Simone, mi ami tu?». Non hai detto: «Non peccare, non tradire, non essere incoerente». Non hai toccato nulla di questo. Hai detto: «Simone, mi ami tu?». Questa è la voce che echeggia dalla capanna di Betlemme: «Mi ami tu?». Ognuno di noi non riesce a sfuggire completamente al fatto che Cristo è amabile da noi esattamente così come siamo, più di qualsiasi altro essere di cui ci si innamori. Anzi, splendore diventa la preferenza solo se investita dallo sguardo che uno porta a Cristo: Cristo coincide con la preferenza più grande che possiamo avere nella vita. «O quam amabilis, dulcis Jesu». (...)

Non vi ricordate di quella mezza pagina di Vangelo? «Simone, mi ami tu?». Affermare una presenza è un amore. Osservare delle leggi è una routine, un'abitudine, una convenienza, qualcosa «a Dio spiacente ed ai nemici sui» che non vale granché, che non vale niente, che non impone molto da scegliere.
È la differenza tra il moralismo e la rivoluzione morale cristiana, che nasce dall'incontro con una presenza da cui scaturisce un amore che, lasciandoti tale e quale, con tutti i tuoi sbagli, con tutti i tuoi errori, ti cambia. La rivoluzione morale cristiana, che è un cammino teso a realizzare un destino, spinto e attratto da un amore, si differenzia dal moralismo, che è un insieme di leggi, di norme applicate, un buon ordine applicato.
La questione è grossissima, amico mio. Se tutto parte dal riconoscimento di una presenza, nasce da un amore. Se parte, invece, non dal riconoscimento nudo e crudo di una presenza, ma anche da qualche altra cosa, è moralismo. Non è più amore, ma è un'abitudine, una soggezione, un tornaconto. (...)

Pomeriggio tardo, sera. Una casupola sui monti della Giudea. Seduti ad un tavolo due extrapaesani (moltissimi che viaggiavano si ritrovavano in quel posto) e uno che parlava. Ci siamo raccomandati tante volte di immaginarci come fossero quegli occhi che «mangiavano vivo» l'uomo che parlava: «Lo guardavano parlare». Abbiamo usato come termine più chiaro l'espressione «Lo guardavano parlare». Era la posizione di Giovanni e Andrea di fronte a Cristo: «Lo guardavano parlare». Siccome non capivano niente, come spesso accade, Lo guardavano parlare. E non capivano niente. Ma l'accento che quell'Uomo usava si ripercuoteva in loro e loro non ne facevano l'analisi, lo sentivano (Gv 1, 35 ss).
Folla. Lui parlava come a Giovanni e Andrea e tutta la folla era là a guardarLo come Lo avevano guardato Giovanni e Andrea. Sono colpiti, tant'è vero che un giovane di una famiglia ricca si è avvicinato e il servo gli fa largo, gli fende la folla, finché arriva vicino a Chi parla. Per un po' non può non rimanere con la bocca aperta, colpito da quella Presenza; poi, ad un certo punto, supera questo stato di frustrata contrizione e dice: «Senti» - vuole entrare in dialettica con Lui, entrare in dialettica vuol dire affermare, cercare di affermare la propria via di fronte al Tu - «Maestro buono, che cosa devo fare per entrare nella vita eterna?». «Osserva i Comandamenti». «Tutte queste cose le ho osservate da quando ero bambino». «Gesù lo scrutò e lo amò [e ha pensato: è vero, è un puro]: "Se vuoi raggiungere il Regno dei cieli, va' a casa, da' via tutto quello che hai, poi vieni con me". Quello - immaginiamocelo - si ritira e se ne va triste. Era infatti molto ricco» (Mc 10, 17-20; Mt 19, 16-22). È il giovane ricco.
Matteo, cap. 26, 69-75. In quel momento il gallo cantò per la terza volta. Gesù uscì dalla sala trascinato dai soldati, incatenato, guardando dalla sua parte. Simon Pietro, che era là in un angolo ad aspettare, seguendo il rumore, Lo vide. E «pianse amaramente».
Giovanni, cap. 21. Lo stesso Pietro, che da quel momento era diventato vergognoso e intimidito, perennemente intimidito, anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali (li compiva e poi si fermava, bloccato dalla vergogna del ricordo), era là in disparte quella mattina sulla riva, e tutti mangiavano il pesce preparato dal Signore. Il Signore gli si stese vicino. Lo guardava. Lui «sguardava», sguardava ma non guardava, perché aveva vergogna più del solito. Finché Gesù gli disse: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?». «Signore, Tu lo sai che Ti amo». Non poteva non voltare la faccia e dirgli la sua risposta. Non poteva, sarebbe stata una menzogna. Gli voleva bene. L'aveva tradito, ma Gli voleva bene e perciò si è voltato verso di Lui, si è voltato verso di Lui e Gli ha dato quella risposta che non era mai venuta meno, eccetto che in quei momenti terribili. Gli ha dato la risposta per cui lui era continuamente voltato verso di Lui, dovunque fosse; dovunque fosse, sulla barca in mare come quel mattino, o tra la folla sulla montagna. Anche quando era a casa e Lui non c'era, sempre era rivolto a Lui.
Avete dunque quattro esempi di «conversione» come posizione verso la presenza di Cristo.
La prima: ingenua e grande, da uomini grandi. La posizione più bella, fino in fondo al cuore, senza sapersi dare ragione.
La seconda, quella di un uomo giovane, come l'ha chiamato il Vangelo, di un uomo che non era voltato verso Gesù come Giovanni e Andrea, che Lo guardavano parlare. Anche lui guardava Gesù parlare, ma, oltre il breve centimetro del primo fascino, voleva interloquire. Voleva raggiungere un suo scopo, voleva servirsi di quell'Uomo per essere tranquillo con la sua coscienza: per essere onorato nella sua onorabilità di giovane morale, moralmente ben educato. Voleva che tutti sapessero che lui meritava le lodi di quell'Uomo. Perciò era uno voltato a Cristo problematicamente, meglio, forse, criticamente (la problematica e la critica sono sempre in funzione di uno scopo fissato da sé): voltato verso Cristo, ma centrato su di sé.
La terza posizione è quella dell'uomo voltato verso Cristo con il cuore schiantato, con la coscienza della propria meschinità e vigliaccheria: vigliacco, potremmo dire un «peccatore». Il giovane ricco non era un «peccatore»: lo divenne per la posizione che acquistò verso Cristo. Invece Pietro, al tribunale di Pilato, era un uomo schiacciato dalla sua coscienza di essere peccatore, schiacciato dal suo sbaglio, che era proprio il contrario di quello che avrebbe mai voluto, il contrario dei sentimenti che aveva sempre nutrito per Gesù. Cosa mi è successo? Come mai ho fatto così? Chi sono io? Cos'è l'uomo?
La quarta posizione: lo stesso uomo, lo stesso identico uomo - con la stessa identica coscienza di essere un povero disgraziato che ha contraddetto se stesso ed è diventato menzogna - che ha il coraggio di assumere una posizione in cui la sua menzogna, il suo delitto è come soffiato via. Rinnega il suo delitto: «Non è vero che io Ti ho odiato, non è vero che non Ti ho amato, perché Tu lo sai, Signore, io Ti amo».
Quattro posizioni: di entusiasmo, di atteggiamento critico, di senso del proprio niente; e, infine, nello stesso tempo, dentro questo senso del proprio niente, una evidenza permanente di rapporto, l'evidenza di un rapporto permanente: «Signore, Tu lo sai che io Ti amo». Ma è il contrario di quel che hai fatto? «Io non so come sia, so che è così».
Il primo punto, dunque, è la conversione come «posizione» di fronte a una presenza. Potete prendere tutti i sostantivi e gli aggettivi che volete: indifferenza, menefreghismo, passione, curiosità, superficialità, pietà. Andate sul vocabolario e tirate fuori tutte le parole che possono applicarsi a: «posizione di fronte ad una presenza». Nella nostra vita ci sono tutte. Nella vita degli apostoli, dei primi cristiani, ci furono tutte. Alcune di queste posizioni erano giuste, comprensibili, ragionevoli, corrispondevano a quello che quell'Uomo era, e altre no. Alcune corrispondevano a quello che Cristo era, alcune posizioni erano giuste, e altre sbagliate.
Possiamo definire quale sia la posizione giusta? Era giusta la posizione di Andrea e di Giovanni, ma era giusta anche la posizione di Pietro che rispose: «Signore, Tu lo sai che Ti amo». Quando la posizione è giusta? Si potrebbe definire? C'è un evento per definirla? Sì. Quando uno è nella posizione del bambino che guarda. Il rapporto che c'è tra un bambino che guarda e la realtà che lui guarda è analogo al rapporto che c'è tra noi che guardiamo e Cristo. Che differenza stabilisce, a che cosa dà l'allarme questa osservazione? Dà l'allarme al fatto che la posizione giusta verso una presenza, cioè la conversione, non c'è attraverso lo sforzo razionale e volontaristico di una scelta e di un giudizio, anche se, ultimamente, si arriva a queste due parole: giudizio e scelta. Ciò che però produce questo giudizio e questa scelta è un altro atteggiamento: quello del bambino che guarda con gli occhi sbarrati e la bocca aperta una cosa che ha davanti.
Matteo, cap. 11, 25-27. «In quel tempo Gesù disse: "Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché non hai svelato queste cose a chi è dotto o a chi è scaltro, ma le hai svelate a chi è piccolo"».
Marco, cap. 8, 31-33. Gesù disse per la prima volta che il Figlio dell'Uomo avrebbe dovuto «molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso». San Pietro non aveva ancora sbagliato grosso, perciò si sentiva sicuro, tranquillo del suo sentimento, e disse che piuttosto si sarebbe fatto tagliare la testa. E Gesù gli disse: «Lungi da me, Satana!», va' via da me, Satana. Pietro aveva giudicato la previsione di Cristo secondo una scelta e un giudizio basati su un progetto suo, di uomo. Attaccato a Cristo, discepolo di Cristo e uomo affezionato a Cristo, aveva pensato: «Per l'amor di Dio, piuttosto che ammazzino Te, passino sul mio cadavere». Ma non era giusta come posizione, perché non era quella del bambino.
Dopo aver tradito risponde: «Sì, Signore, Tu lo sai che io Ti amo», traforando tutta la memoria di ciò che aveva fatto: questo è l'atteggiamento del bambino.
Ciò che definisce una posizione giusta verso la Presenza è lo sguardo del bambino di fronte al reale. Ma l'uomo non è un bambino. Nello sguardo del bambino vibra tutto quanto il grido che il cuore dell'uomo suggerisce alla mancanza di interiorità propria di chi è piccolo. Lo sguardo del bambino conforma ad essere in una posizione giusta di fronte alla presenza della realtà, cioè di Cristo: domanda. (...)

Quest'uomo, Gesù, ha una caratteristica umana molto semplice: è un uomo da cui promana una simpatia umana. E allora la moralità, cioè la vittoria sul nichilismo, non è non sbagliare, non fare errori, ma, pur facendo gli errori, sbagliando, alla fine: «Simone, mi ami tu?», «Sì, Signore, io Ti amo», io ci sto; io ci sto alla simpatia umana che promana da Te, Gesù di Nazareth, io ci sto. E dentro questa simpatia che promana da Te io imparo, imparo a vivere, imparo ad essere uomo. È semplicissima la moralità: è starci ad una simpatia, una simpatia umana. Umana come la simpatia che la madre prova per il proprio figlio e il figlio prova per la propria madre. Perché da Gesù nasce questa simpatia; Gesù ha questa simpatia umana per te, per me, e io, nonostante che sbagli, dico: «Sì, Signore, io ci sto a questa simpatia». Quest'ultima affermazione è l'ultima possibilità per vincere il nichilismo che noi «prendiamo» per contagio dalla società in cui viviamo. Mi preme che voi rimaniate su quello che ho detto alla fine, e cioè che la moralità - il rispondere «sì» a Cristo che ti chiede: «Mi ami tu?» - ha un inizio semplicissimo, che è la semplicità dello starci a una simpatia. E lo starci a una simpatia ha un inizio semplicissimo, che è un guardare: uno sguardo a Cristo. (...)

Quando uno s'arresta fisso con gli occhi o col muso dentro alle scorie dei suoi peccati, come Miguel Mañara quando entra in monastero, s'annichila: vincono i suoi peccati, è stretto d'assedio, imprigionato, distrutto come speranza da quello che ha fatto. Quello che ha fatto! Vi ricordate che cosa diceva Miguel Mañara a Girolama? «Come è triste la vita: quello che è fatto è fatto, quello che è compiuto è compiuto!». E, d'impeto, Girolama risponde: «Non sono affatto d'accordo!»1. Che cosa le poteva far pronunciare questa ribellione? L'esistenza di un Altro, la presenza di un Altro. Perché altrimenti anche lei avrebbe dovuto dire lo stesso, come tu dici lo stesso, come tutti diciamo lo stesso: tutti siamo imprigionati da quello che abbiamo fatto, il passato ci lega, il futuro non è più in mano nostra (così possiamo fare per il futuro ciò che ci pare e piace, possiamo, oltre che aver dissolto il passato, dissolvere anche il futuro). (...)
Che cosa spezza questa malìa del passato, questa malìa del malvagio, questa suggestione del male? La suggestione del male fatto è molto peggiore che il male fatto. Che cosa spacca questa malìa, questa magia, questa suggestione? Che cosa? L'attimo presente, il quale può essere un «no», un «no» che quindi conferma il passato, conclude il passato, sotterra l'individuo, rende male anche il presente, oppure, «Simone, mi ami tu?», quel «sì»: il respiro con cui Pietro rispose «sì» era il presente che annulla il passato, il presente che aprendosi al divino permette che il divino azzeri tutto il passato.
La morale non incomincia con l'elencare tutte le coerenze che abbiamo avuto, tutte le cose buone che abbiamo fatto. La morale incomincia col «sì» che un bambino potrebbe dire a sua madre. Perché un bambino potrebbe fare arrabbiare la mamma mille volte in una giornata; se la sera la mamma, prendendolo in braccio, gli dicesse: «Vuoi bene a tua mamma?», il bambino si caccerebbe tra le braccia della mamma, si nasconderebbe dentro il seno della madre e, sorridendo, direbbe: «Sì». Il «sì» di san Pietro non coincideva con l'irresponsabile sorriso del bambino che, immediatamente, non si ricorda più di tutta la giornata passata, ma con la coscienza della responsabilità di fronte all'essere proprio di un uomo anziano.
Simon Pietro, mentre dice «sì» a Gesù, affermando col presente un divino che atterra e azzera tutto il male passato, permette al divino di entrare nel presente. Dire a Gesù: «Sì, Tu lo sai che io Ti amo» è uguale a dire: «Signore, vieni». «Vieni, Signore». Non per nulla la storia umana si conclude, come dice la Bibbia, col «Vieni, Signore», che azzera tutta la storia disgraziata dell'uomo perché il Signore venga. (...)

Il testo Riconoscere Cristo, pubblicato ne Il tempo e il tempio, ha come sottotitolo: Primi accenti di una moralità nuova. Qual è questa moralità nuova? «Nuova» vuol dire senza nessun paragone più morale di quella di prima, eppure stranissimamente più semplice e più suggestiva. Tutte le morali, tutte - su mille religioni che ci fossero, mille hanno la morale che nasce così - nascono come analisi dettagliata dei fattori che costituiscono una dialettica, una dinamica, letta nel suo svolgimento: sono una enucleazione delle leggi di questo svolgimento. L'uomo, dunque, se osserva queste leggi, rispetta lo svolgimento.
La morale cristiana non nasce così. Quella ebraica sì, anche se un po' corretta. La morale ebraica nasceva dall'analisi di quello che è l'uomo: creatura; analisi però un po' corretta, perché c'è sempre il riferimento alla storia: «Siate buoni con gli stranieri, perché anche voi siete stati in Egitto e sapete cosa vuol dire essere stranieri»; una analisi corretta dalla storia, dunque.
La morale cristiana non nasce così. Qui è solo storia, ma non una storia lunga duecento anni: una storia brevissima, di tre anni, che culmina in quella domanda furtiva che Gesù fece, inaspettata, a san Pietro: «Simone, mi ami tu?». E Pietro disse: «Sì», trapassando con questo «sì» tutti i ricordi malevoli che oberavano la sua memoria di quel che aveva fatto in quegli anni (era l'unico ad avere avuto l'«onore» di essere chiamato «Satana» da Gesù); capiva che tutto quello non c'entrava: lui gli voleva bene. «Pietro, mi vuoi bene?». «Sì, sì». «Ma, mi vuoi bene?». «Eh sì!». «Ma mi vuoi proprio bene più di questi?» (che è un paragone assolutamente contingente, pratico, concreto, materiale, carnale). «Io non so come sia, ma è così, ti devo dire di sì!» Questo è l'inizio della morale. Infatti, uno che dice «sì» così può sbagliare ancora tutti i giorni, può far male dieci volte al giorno tutti i giorni, ma piuttosto che lasciare l'uomo cui dice «sì» muore, accetta di morire: è più facile accettare di morire che evitare gli sbagli tutti i giorni. Perciò gli sbagli di tutti i giorni sono perdonati, perché «molto è perdonato a chi molto ha amato»; «non c'è nessuno che ama tanto come chi è pronto a dare la vita per l'amico»; o, secondo quella perfetta, completa osservazione che ha dato titolo a un nostro pezzo: «Non c'è sacrificio più grande che dare la vita per l'opera di un Altro». Ma è questo il paradosso. Ognuno di voi capisce che è proprio così. Un bambino, un ragazzo che ne fa «di cotte e di crude», che fa lo scapestrato e fa piangere sua madre tutti i giorni, se gli tocchi sua madre ti sbrana. Ma se ama sua madre così, presto o tardi, anche dopo trent'anni cambierà: «mia madre vorrebbe che, direbbe che».
Credo che questa sia l'osservazione più bella che si possa fare nella concezione dell'uomo cristiano: la moralità nasce come simpatia prevalente, irresistibile, a una persona presente. Non a delle leggi, non ad una purità, ma a una persona presente. E, infatti, la verginità è l'amore a una persona presente, non ad una purità. La traduzione più bella è di san Giovanni stesso: «Chiunque ha questa speranza in Lui [Simone guardò a Gesù come la sua speranza, quella da cui sarebbe venuto tutto] si purifica come Egli è puro». «Si purifica come Egli è puro»: per far capire questo «si purifica», cioè questa attività etica, morale, abbiamo sempre tradotto: «si sforza di essere puro», «cerca di essere puro». Soltanto che ciò è totalmente lontano dal nostro modo di concepire questo verbo così com'è sul vocabolario: non c'è nessuna pretesa infatti! Uno capisce che non ha alcuna pretesa. Perciò, ultimamente, questo sforzo si traduce, s'annida, in un grande grido di domanda, in una grande domanda, o in una grande mendicanza. Non troverete nessuna religione in cui la morale sorge in questo modo: sorge cioè al di fuori del campo morale, sorge per un incontro, sorge per una presenza. È per questo che tutta la legge, diceva Gesù in Matteo, «tutta la legge si raccoglie in una sola parola: ama il prossimo tuo come te stesso». (...)

Perché quando spiego, cerco di spiegare Giovanni 21 nessuno capisce perché insisto e che cosa significhi che il «sì» di Pietro a Cristo è l'inizio della moralità? Perché c'è una mentalità formalista e moralistica ingenerata dalla collettività - che è il luogo dove l'uomo è più schiavo e meno libero - che non permette al cristianesimo di avere una concezione del rapporto tra l'Infinito e l'io così libero, così grande, così misericordioso - da parte di Dio! (...)

Immaginiamo che io sia san Pietro, Simone, figlio di Giovanni. Sono là perché, pieno di vergogna, temo: «Chissà dov'è Gesù, chissà dov'è il Signore?». Lo vedo qui a mezzo metro. Mi chiama. «Chissà cosa mi dice adesso! Mi ricorderà questo e quest'altro». Macché! «Mi ami tu?». Capisci che tutto quello che io ho fatto prima, in quel momento (per san Pietro, per Simone) è bruciato via?! È investito dalla domanda: «Mi ami tu?». Il resto non ha più spazio, non c'è più un buco nell'armadio. Capisci?
E san Pietro non è stato lì a dire: «Mah, adesso chissà cosa penserà? Forse mi dirà: è una bugia che mi dici». Ha detto «sì!», perché avevano vissuto tre anni insieme ed era stato stupefatto - stupefatto! - di quel che era quell'uomo. Se poi l'ha offeso o gli è andato contro, se è stato scomposto, se è stato risentito, indiscreto con lui centinaia di volte, non se lo ricorda più. Ti giuro che in quel momento si è scordato di tutto, perché era troppo imponente l'essenza della questione: «Mi ami tu?». Allora gli dice «sì», e per tre volte gli ha detto «sì». La terza volta si è un po' inquietato: «Perché - dice - non ci crede? Allora dà peso ai miei errori?». E invece no! Era solo per dirgli: «Allora ti affido tutto il mio gregge. Ti affido il mio popolo». «Il mio popolo». A lui! E neanche per una frazione di secondo ha pensato: «Ma chissà domani, sbaglierò ancora. Devo dirGli sì o no, o mah: devo dirGli mah, perché sbaglierò ancora?». Il «sì» gli è venuto fuori come conseguenza dello stupore con cui Lo guardava, Lo riguardava tutte le mattine, Lo guardava la sera allontanandosi. Mi capisci? Devi guardarLo! Ma per guardarLo, devi guardare le persone vive: ce ne fosse una su cento, devi andare dov'è. Mi capisci?
Ma la questione è immedesimarti col fatto di Simone. «Tutto quello che è stato non è mai stato: Egli solo è». Questa è matematica! È la stessa matematica che più «leggermente» era all'inizio, quando suo fratello Andrea e Giovanni si erano seduti un po' straniti nella Sua casupola e Lui aveva incominciato a parlare mentre prendeva da bere per loro: ha incominciato a parlare, e il resto non esisteva più.
Il problema del dolore dei peccati è a questo livello che giunge al suo punto esatto. Altrimenti è orgoglio personale, affermazione inutilmente tentata di sé, disperazione senza ragione. Perciò ricordati quello che è stato detto prima: il «sì» a questo punto rallegra la vita. Il «sì» a Gesù ha rallegrato Simone. (...)


L'obiezione non nasce da cose negative; nasce da una cosa positiva, da una capacità dell'uomo che viene esaltata, come la rana rupta et bos, come una rana che vede il bue e dice: «Voglio diventare anch'io grande così», e allora si gonfia, si gonfia, si gonfia per diventare come il bue, ma siccome la sua pelle non è fatta per diventare bue, a un certo punto scoppia. È questo il vero punto da cui nasce la fragilità nostra di fronte all'appartenenza a Cristo, ed è questo che ci insegna il passo mirabile di Simone, di san Giovanni 21.
Non ha fatto obiezione, Simone, di fronte a quella terribile, decisiva domanda. Non gli hanno fatto obiezione tutti i suoi errori: «Io non sono capace». C'è stata una volta in cui l'ha detto, alla lavanda dei piedi, ma era in tutt'altro contesto, aveva un altro significato. Invece, quando Gesù gli ha detto: «Mi ami?». «Sì». Chiunque fosse stato lì a sentirlo, prima di dire «sì» avrebbe enumerati migliaia di errori che aveva fatto.
Ciò che rende fragile la nostra adesione è proprio questa capacità che noi abbiamo, che è partecipazione al mistero dell'Essere, ma che si pone normalmente - normalmente! - come autonomia. L'uomo è capace di voler bene, di amare! Ma non si accorge che questo voler bene e amare, così com'è capacità in lui è immediatamente equivoco: «sta» fino a quando non è contraddetto. È l'affermazione di sé invece che l'affermazione di Dio. Questa è la grande alternativa, come dice il romanzo di Van der Meersch: la vita o è l'affermazione di Dio fino al sacrificio della vita per Lui, o è l'affermazione di sé fino alla morte di Dio2. (...)

Non è immediato obbedire perché l'autonomia filtra dentro il rapporto e ti piega, cerca di piegarti a sentirlo, cioè ad interpretarlo, come vuoi tu. Per questo, se non avesse parlato non sapremmo cosa vuol dire che Dio ci ama. (...)


Uno di voi ha detto: «Nel "sì" della Madonna, nel "sì" di Pietro, era proprio tutta la libertà della persona che aderiva e diceva "io voglio"». Sì, ma è l'immagine che avete della questione che è sbagliata, non l'affermazione come tale! Deve passare attraverso la libertà, certo. Ma è sbagliato il modo di concepirla questa libertà, come se fosse un atto deciso da me: io decido di dirti di sì, io decido di dire «sia fatta la tua volontà». Ma va! È un'altra cosa! Perché, di fronte a Cristo che chiedeva: «Mi ami tu?», anche il tradimento di pochi giorni prima non si opponeva. L'ultimo pensiero che infatti aveva san Pietro era star lì a calcolare o a risentire gli echi dei suoi sbagli. Di fronte al «mi ami tu?», fu «sì», immediatamente, come conseguenza di uno stupore incominciato a Betania quando Andrea, il fratello, l'aveva portato da Cristo e lui si era sentito guardare in modo tale da essere trapassato da quello sguardo e definito nella sua qualità d'uomo, nel suo carattere, tanto che gli aveva cambiato il nome. Sono andati a casa quella sera che erano sconvolti, perché non avevano mai trovato un uomo così!
Dominava lo stupore o la meraviglia per l'eccezionalità di quella presenza, lo stupore dell'esperienza, la constatazione della eccezionalità di un'esperienza, l'esperienza di quella sera, della possibilità di un domani, di alcuni giorni dopo quando ha cambiato l'acqua in vino: e tutti i giorni era la stessa cosa! Perciò s'aggravava, di giorno in giorno s'aggravava l'evidenza di una adesione, di una simpatia e di una adesione, di una fiducia, di una certezza. Tanto che, quando a un certo punto Gesù dice: «Vi darò la mia carne da mangiare» e tutti gridano: «È pazzo!», Pietro dice: «Anche noi non comprendiamo quello che tu dici, ma se andiamo via da Te, dove andiamo? Non c'è niente uguale a Te!» (cfr. Gv, 6). Il «sì» sul lago di Tiberiade è il proseguimento di questo attaccamento, di questa meraviglia, di questa ammirazione che è durata due anni, tre anni. (...)


Il «sì» di Pietro può accadere per l'attaccamento realizzato sin dall'inizio, come conseguenza di un incontro con un uomo il cui atteggiamento commuoveva chi era presente di uno stupore inspiegabile, che prendeva tutto l'essere. Era un inizio che si ripeteva tutti i giorni. Tutti i giorni che Pietro, Andrea e Giovanni andavano là, si ripeteva la stessa questione. Perciò era come calcare, fare un segno con la matita e calcarlo due volte, tre volte, quattro volte, cinque volte, venti volte, cinquanta volte: si buca anche il quaderno. Il «sì» di Pietro è il risultato piuttosto di una semplicità come virtù che aderiva, aderiva all'evidenza dello stupore che quell'uomo destava: «Ma chi è questo qui? Come fa ad essere così?». E san Pietro, sant'Andrea e san Giovanni erano leali, semplici e leali con questo, con l'evidenza che subivano. Furono leali un giorno, due giorni, un anno, due anni, tre anni, di fronte a un potere applicato in modo diversissimo e sempre più potente, sempre più potente. A un certo punto quell'uomo chiese a san Pietro: «Ma tu mi ami?». Il «sì» - non ci ha pensato neanche un istante! - era la vidimazione di una cosa che c'era e viveva già da anni, cominciata nel passato e tutta quanta tesa al futuro. Per questo si chiamava anche «promessa». Quell'uomo, dalla prima volta che l'avevano sentito, era come una promessa: lo stupore che suscitava era come una promessa, una promessa di qualcosa di meglio, di migliore, di più forte, di più vero, di più amoroso, di più compassionevole, di più veramente vita. Era una promessa! Quando san Pietro ha detto «sì» era per la semplicità con cui quella promessa l'aveva sempre pensata, l'aveva sempre tenuta presente anche senza volerlo. Il «sì» esprime la semplicità della fedeltà a un incontro fatto, secondo il valore che quell'incontro ha destato e proseguito nella storia della sua esperienza. (...)


Da che cosa è nato l'interesse di Simone per Gesù? Da una curiosità iniziale! Quando suo fratello Andrea l'ha portato là, la curiosità si è mutata in uno shock non indifferente, che si è trasformato subito in un'affezione cocente. Tutti i giorni andava là a sentire quell'uomo, a vedere che facesse: questo l'ha fatto diventare amico, tant'è vero che Gesù l'ha portato con sé anche al matrimonio di Cana. E lui passava di stupore in stupore. Se quando gli ha domandato: «Mi ami tu?», fosse stato lì a dire: «Certo, io L'ho tradito, mi ha dato del "Satana", tante volte sono intervenuto a testa bassa contro di Lui, anche adesso non so cosa potrà succedere tra un minuto, tra cinque minuti, tra mezz'ora, domani: e se mi "prendesse la mano" e mi mandasse in un anfiteatro ad essere mangiato dalle fiere? Ma chi è che lo può sapere?». () Se san Pietro fosse rimasto lì a dire: «Signore, io ho sbagliato, ho tradito, domani posso sbagliare in modo ancora peggiore», o se avesse detto al massimo: «Però mi pare proprio di amarti», avrebbe introdotto qualcosa di estraneo rispetto alla radice del suo rapporto con Cristo. Perché la radice del suo rapporto con Cristo era lo stupore conseguito alla curiosità che lo aveva fatto andare a vedere. «Nessuno parla come quest'uomo». Lo stupore era per la superiorità di quell'uomo e per la coincidenza di questa superiorità con il desiderio del suo cuore.
Il pensiero dei peccati, dei tradimenti, sarebbe stato un pensiero estraneo, naturalmente estraneo alla radice del suo rapporto con Cristo, della simpatia che gli ha destato Cristo - simpatia, stupore - proprio per quello che gli ha detto appena lo ha visto. Sarebbe stata una complicazione. Avrebbe complicato una cosa semplice. Lo sentiva: «Sì, dico di sì!». Allora l'altro insiste altre due volte e la terza volta Pietro non sa più come cavarsela, e dice (ho tradotto così il suo atteggiamento): «Senti, io non lo so come, ma Ti voglio bene!».
Note
1 Cfr. O.V. Milosz, Miguel Mañara, Milano 1991, p. 36.
2 Cfr. M. Van Der Meersch, Corpi e anime, Milano 1964, p. 617.


* * *


Commento di padre Raniero Cantalamessa a Gv. 21

Leggendo il Vangelo di Giovanni si capisce che esso originariamente terminava con il capitolo 20. Se fu aggiunto questo nuovo capitolo 21, è perché l'evangelista stesso o qualcuno dei suoi discepoli ha sentito il bisogno di insistere ancora una volta sulla realtà della risurrezione di Cristo. Questo è infatti l'insegnamento che si deduce dal brano evangelico: che Gesù non è risorto per modo di dire, ma realmente, nel suo vero corpo. "Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti", dirà Pietro negli Atti degli apostoli, riferendosi probabilmente proprio a questo episodio (At 10, 4). 
Alla scena di Gesù che mangia con gli apostoli del pesce arrostito segue il dialogo tra Gesù e Pietro. Tre domande: "Mi ami tu?"; tre risposte: "Tu sai che ti amo"; tre conclusioni: "Pasci le mie pecore!". Con queste parole Gesù conferisce di fatto a Pietro – e, secondo l'interpretazione cattolica, ai suoi successori – il compito di supremo e universale pastore del gregge di Cristo. Gli conferisce quel primato che gli aveva promesso quando aveva detto: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei cieli" (Mt 16, 18-19). 
La cosa che più commuove di questa pagina del Vangelo è che Gesù resta fedele alla promessa fatta a Pietro, nonostante Pietro fosse stato infedele alla promessa fatta a Gesù di non tradirlo mai, anche a costo della vita (cf. Mt 26, 35). (La triplice domanda di Gesù si spiega con il desiderio di dare a Pietro la possibilità di cancellare il suo triplice rinnegamento durante la passione). Dio dà sempre agli uomini una seconda possibilità; spesso una terza, una quarta e infinite possibilità. Non radia le persone dal suo libro, al loro primo errore. Intanto cosa succede? La fiducia e il perdono del Maestro hanno fatto di Pietro una persona nuova, forte, fedele fino alla morte. Egli ha pascolato il gregge di Cristo nei difficili momenti dei suoi inizi, quando bisognava uscire dalla Galilea e lanciarsi per le strade del mondo. Pietro sarà in grado di mantenere, finalmente, la sua promessa di dare la vita per Cristo. Se imparassimo la lezione contenuta nell'agire di Cristo con Pietro, dando fiducia a qualcuno anche dopo che ha sbagliato una volta, quante meno persone fallite ed emarginate ci sarebbero nel mondo! 
Il dialogo tra Gesù e Pietro va trasferito nella vita di ognuno di noi. Sant'Agostino, commentando questo brano evangelico, dice: "Interrogando Pietro, Gesù interrogava anche ciascuno di noi". La domanda: "Mi ami tu?" è rivolta a ogni discepolo. Il cristianesimo non è un insieme di dottrine e di pratiche; è qualcosa di molto più intimo e profondo. È un rapporto di amicizia con la persona di Gesù Cristo. Tante volte, durante la sua vita terrena, aveva chiesto alle persone: "Credi tu?", ma mai: "Mi ami tu?". Lo fa solo ora, dopo che, nella sua passione e morte, ha dato la prova di quanto lui ha amato noi. 
Gesù fa consistere l'amore per lui, nel servire gli altri: "Mi ami tu? Pasci le mie pecorelle". Non vuole essere lui a ricevere i frutti di questo amore, ma vuole che siano le sue pecore. Egli è il destinatario dell'amore di Pietro, ma non il beneficiario. È come se gli dicesse: "Considero fatto a me quello che farai per il mio gregge". Anche il nostro amore per Cristo non deve restare un fatto intimistico e sentimentale, ma si deve esprimere nel servizio degli altri, nel fare del bene al prossimo. Madre Teresa di Calcutta era solita dire : "Il frutto dell'amore è il servizio e il frutto del servizio è la pace".

* * *

Gv. 21. Commento esegetico di Silvano Fausti



«Mi ami?». Sono le parole di Gesù, morto e risorto, a Pietro. Ogni lettore le sente rivolte a sé, come fine o, meglio, principio di tutto il Vangelo. Il racconto del quarto Vangelo è già perfettamente concluso con il c. 20. Ma il c. 21 non è un'aggiunta, più o meno superflua. È come il ripetersi successivo di quell'ondata che Gesù ha messo in moto; ora essa si ripercuote nei discepoli e, tramite loro, si allarga all'infinito, vivificando del suo Spirito il mondo intero. Questo capitolo si può chiamare un «epilogo» del Vangelo, iniziato con un «prologo». Il prologo ci ha presentato «la preistoria di Gesù»: il Verbo eterno di Dio, vita e luce del mondo, è diventato carne. Il racconto del Vangelo ci ha presentato «la storia di Gesù»: la sua carne ci ha rivelato il Padre e ci ha donato di diventare suoi figli. L'epilogo ci presenta «la storia dopo Gesù»: i discepoli continuano la sua opera e lo testimoniano al mondo. Nel c. 20 i discepoli hanno visto il Risorto, accolto il suo Spirito, ricevuto la sua missione e creduto in lui, Signore e Dio, per avere vita. Ora vediamo come Gesù si «manifesta» loro mentre continuano la missione loro affidata. Egli è presente nella «pesca» (vv. 1-8), che raffigura la loro attività apostolica rivolta ai fratelli, e nel «banchetto» (vv. 9-14), che richiama l'eucaristia, principio e fine di ogni missione. Particolare attenzione è rivolta ai due aspetti essenziali della comunità, ambedue fondati sull'amore e sulla sequela: la dimensione «istituzionale», rappresentata da Pietro (vv. 15-19), e quella «carismatica», rappresentata dal discepolo che Gesù amava (vv. 20-23). Sono due istanze diverse, una pastorale, più attenta alla struttura e conservatrice, l'altra creativa, più attenta alle persone e libera. Il conflitto inevitabile tra i due aspetti trova qui una soluzione ideale, legittimando ambedue e dando la priorità all'amore e alla libertà. Alla fine il redattore conclude indicando nel di-scepolo che Gesù amava l'autore del Vangelo (vv. 24-25). Troviamo parte di questo materiale anche nei sinottici: la pesca (cf. Le 5,1-11; cf. Mc 1,16-20p), il pasto con il Risorto (Le 24,30s.41-43), il ruolo di Pietro (Mt 16,18) e l'invito alla sequela. Tutto è liberamente rielaborato e intrecciato sul tema dell'amore. Probabilmente è materiale giovanneo, redatto da altri e posto nel finale, con somiglianze e differenze di vocabolario, di stile e di temi rispetto al resto del Vangelo. Il e. 21 sta al Vangelo di Giovanni come gli Atti degli Apostoli al Vangelo di Luca. Dopo il racconto di ciò che Gesù ha fatto e detto (At 1,1), si narra in modo sintetico e paradigmatico ciò che i suoi discepoli fanno e dicono. Nel Figlio dell'uo-mo innalzato tutto è compiuto: la «cristologia» dei cc. 1-19 culmina sulla croce, do-ve Gesù rivela l'amore estremo e consegna lo Spirito. Nel c. 20 la cristologia diven-ta «pneumatologia»: i discepoli vedono il Risorto, accolgono lo Spirito e sono invia-ti al mondo. Nel c. 21 cristologia e pneumatologia diventano «ecclesiologia»: chi ha visto la carne di Gesù e accolto il suo Spirito, diventa figlio e continua nel mondo la missione di rivelare il Padre. Ora i discepoli sono all'opera. Non sono più di sera e al chiuso in Gerusalemme (20,19), ma di mattina e all'aperto sul lago di Tiberiade, luogo della vita quotidiana, loro e di Gesù. Il tempo e il luogo sono significativi: l'alba è il limite tra notte e giorno, il litorale è il limite tra mare e terra. Alba e litorale sono il tempo e il luogo tipico dell'uomo, posto tra due realtà contrarie, chiamato a varcare la soglia dalla tenebra alla luce, dalla morte alla vita. I discepoli sono usciti da dove il Signore ha lavato loro i piedi (cf.14,31) e affrontano con lui e come lui il mondo. Dopo il dono di Gesù, che li ha amati fino a dare se stesso ed è tornato mostrandosi vincitore della morte e principe della vita, inizia il giorno del Signore: è ogni giorno, da vivere ormai nell'amore del Padre e dei fratelli.

Per questo i sette vanno a «pescare uomini per la vita» (cf. Lc 5,10). Come ha fatto Gesù, anch'essi strappano i fratelli dall'acqua dove annegano, per comunicare loro la sorgente d'acqua viva. Questa pesca è il «molto frutto» (15,5) che Gesù aveva promesso a chi è unito a lui, obbedendo alla sua parola e osservando il suo comando di amarci come lui ci ha amati (15,1-17). Chi non è unito a lui, rimane nella notte, come Giuda. Ogni sua fatica è infeconda e mortifera. Comunque ormai la tenebra è sconfitta e la luce è venuta: il Signore già ha fatto dono della propria vita e ha preparato il suo banchetto. Non a caso la scena si svolge sul lago di Tiberiade, dove la Parola era diventata Pane (cf. c. 6). Anche qui la missione culmina nel pasto comune (cf. Mc 6,7-13.30-44p), al quale i discepoli danno il loro contributo. Chi mangia il corpo del Signore, vive di lui e in lui: riceve il suo Spirito, che gli fa riconoscere il Risorto e lo rende capace di testimoniarlo (cf. 15,26-27). Uniti a lui e ascoltando la sua parola questa è la sottolineatura del testo la nostra pesca diventa feconda, anche più della sua (cf. 14,12). Il centro di tutto, come si vede nella triplice domanda rivolta a Pietro, è l'amore per Gesù, che lo fa dimorare in noi. Ma l'origine permanente del nostro amore per lui è il suo amore per noi, come ci testimonia il discepolo prediletto, che ha contemplato il Trafitto. Questo capitolo, posto alla fine del Vangelo, più che una conclusione è un'apertura. Dischiude infatti al mondo intero l'orizzonte della vita nuova che il Figlio offre ai fratelli. Alla luce di quanto abbiamo già visto nel Vangelo, la ricchezza di questo breve capitolo è inesauribile: si potrebbero scrivere tante cose che non basterebbe il mondo intero per contenerle (cf. v. 25). Trasformando il versetto finale del Vangelo, possiamo dire che ormai il mondo intero altro non è che la riscrittura, anzi il diventare carne della Parola, mediante la testimonianza dell'amore dato/ricevuto e corrisposto nella «pesca», che alimenta di nuovo cibo il banchetto imbandito dal Figlio. La storia del mondo è ormai storia di Dio, manifestazione progressiva della Gloria. Dio è entrato nel creato perché ogni creatura entri in Dio: il Verbo di vita è diventato carne perché ogni carne partecipi alla vita del Verbo.

La Chiesa, chiamata da Paolo «corpo di Cristo», ne è la pienezza anticipata (cf. Ef 1,1-23); come la carne di Gesù, dove tutto è compiuto. Attraverso di essa si rivela e, rivelandosi, si comunica a tutti il dono di Dio (cf. 17,22s): «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Il c. 21 è composto di due parti principali, a loro volta molto articolate, dove si riprendono i temi fondamentali della vita di Gesù, che risuonano ormai in quel-la dei discepoli. La prima parte mostra i discepoli nella loro missione, con la presenza del Signore in mezzo a loro, e culmina nell'eucaristia (vv. 1-14); la seconda riabilita Pietro e il suo ruolo pastorale, fondato sull'amore e sulla sequela (vv. 15-19), armonizzandolo con il ruolo del discepolo amato, testimone dell'amore (vv. 20-23). La conclusione finale (vv.24-25) riprende 20,30s, identificando il discepolo amato con l'autore del Vangelo. Attraverso questa aggiunta, il Vangelo, come tut-ta la Scrittura, si dichiara esplicitamente come uno «scritto aperto», da riscrivere all'infinito. Gesù ha compiuto l'opera del Figlio: amare i fratelli con lo stesso amore del Padre. Ora, salito a lui, torna a noi, anzi in noi, con il suo Spirito perché portiamo avanti la sua opera. La Chiesa, attraverso la testimonianza apostolica vitalmente ricevuta e trasmessa, diventa una «riscrittura» progressiva del Vangelo eterno di Dio nel mondo: è realmente «il quinto» Vangelo, il Vangelo vivo. Così dice Paolo alla comunità di Corinto: «Voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con l'inchio-stro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,3). Nell'ascolto di quanto Gesù ha vissuto e il Vangelo ha raccontato, la nostra storia diventa storia di Dio, rivelazione della Gloria.



v. 1: Dopo queste cose. L'espressione richiama Gesù che dona il pane (cf. 6,1) e lava i piedi a Pietro (cf. 13,7). È un'indicazione di tempo che rimanda a un prima. Il tempo successivo viene «dopo queste cose» accadute «quel giorno»: è il «giorno uno» (cf. 20,1.19), da cui tutto fluisce, come l'acqua dalla sua sorgente. È un tempo senza tempo, perché è ormai ogni tempo. 

si manifestò ancora Gesù ai discepoli. È un'ulteriore manifestazione di Gesù, diversa dalle precedenti. La parola «manifestarsi», usata da Giovanni 9 volte, è ap-plicata 3 volte agli incontri con il Risorto e tutte in questo racconto (vv. lbis.14). Manifestare (phaneróo) significa rendere chiaro. Suggerisce un uscire dall'oscurità per venire alla luce: egli è ormai sempre presente e «si manifesta così». Questo sarà d'ora innanzi il suo modo di essere con i suoi discepoli. Mentre noi siamo nel mare del mondo a compiere l'opera che ci ha affidato, lui è già a riva, sulla «terra». Da lì ci assiste e si manifesta nella Parola che rende fruttuosa la nostra pesca e nel banchetto che condivide con noi. In altre parole il Signore Risorto è sperimentato nella Parola-missione e nell'eucaristia, che ci fanno partecipare alla sua fecondità di vita. 

sul mare di Tiberiade. Il dono del pane avvenne al di là del «mare di Galilea, di Tiberiade» (6,1). Qui è chiamato solo «Tiberiade», evidenziando il nome pagano della capitale della Galilea, costruita in nome dell'imperatore Tiberio. Questo incontro con il Risorto non è nel cenacolo, dove i discepoli hanno ri-cevuto il pane, lo Spirito e la missione. Avviene all'aperto, tra i pagani. L'eucaristia che seguirà (v. 13s) è una «messa sul mondo», all'alba e in riva al mare, dove si arriva alla fine di una notte di fatica. 

si manifestò così (cf. v. 14). Questo incontro con il Risorto, diverso dai precedenti, avviene sulla soglia tra mare e terra. Su questa riva, luogo di partenza e di ap-prodo di ogni missione, il discepolo fa una spola continua tra il mondo da salvare e il Salvatore del mondo. Si dice inoltre che Gesù «manifestò se stesso», non che i discepoli lo «videro». Lo incontrano ormai come colui che si rivela attraverso l'ascolto della Parola ed è riconosciuto attraverso l'amore del discepolo prediletto e il dono del pane. Queste parole, riprese al v. 14, fanno da inclusione alla prima parte del testo e sottolineano il «così», che è il modo nuovo di presentarsi del Signore, ancora e sempre, ai discepoli. 

v. 2: erano insieme. Dopo il dono di Pasqua, i discepoli sono «insieme». Si parla di sette discepoli. Non sono i Dodici (cf. 6,70), che rappresentano le tribù d'Israele. Sono sette, numero di totalità, che rappresenta le nazioni pagane. È ormai la comunità delle sette chiese (cf. Ap 2-3), aperta al mondo. 

Simon Pietro. Gesù gli aveva promesso che, «dopo queste cose», avrebbe capito il suo gesto di lavargli i piedi (13,7). Simone, fratello di Andrea, è uno dei primi che lo ha incontrato, ricevendo il nome di Pietro (1,42). È lui che, dopo il dis-corso sul pane di vita, dice a nome di tutti: «Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68s). Lo ritroviamo nell'ultima cena a più riprese: non vuo-le che Gesù gli lavi i piedi (13,6-9), chiede all'altro discepolo di domandare chi è il traditore (13,24) e dichiara di essere disposto a seguire il Signore fino a morire per lui (13,36-38). Nel giardino estrae la spada per difenderlo (18,10s) e nel cortile, dove l'ha introdotto il discepolo amato, lo rinnega (18,15-27). Lo incontriamo, ancora insieme a lui, nella corsa mattutina al sepolcro (20,2-10). L'intreccio del loro cam-mino continua anche in questo racconto (cf. vv.1-14) e trova nel finale - come sintesi di tutto il Vangelo - la sua spiegazione (cf. vv. 15-24). 

Tommaso, detto Didimo. Tommaso si dichiara disposto a morire accanto a Gesù (11,16). Nell'ultima cena gli chiede inoltre dove va; e ottiene la risposta: «Io-Sono la via, la verità e la vita» (14,5s). Riappare nel racconto precedente come l'incredulo che raggiunge la piena fede, esclamando: «II mio Signore e il mio Dio» (20,28). 

Natanaele, quello di Cana di Galilea. È il vero israelita che, superando i suoi dubbi (1,46), per primo riconosce Gesù come Figlio di Dio e re d'Israele (1,49). Si precisa che è di Cana di Galilea, dove Gesù fece il primo segno e «manifestò la sua gloria» (2,11). 

quelli di Zebedeo. È l'unica volta che nel quarto Vangelo ricorre quest'espressione. Sappiamo dagli altri Vangeli che sono Giacomo e Giovanni (cf. Mc 1,19p), coloro che, con Pietro, partecipano alla pesca di Le 5,1ss. Nella tradizione il secondo di questi fratelli è stato identificato con il compagno anonimo di Andrea (cf. 1,35-40), «l'altro discepolo», quello che Gesù amava, autore del quarto Vangelo.

altri due dei suoi discepoli.
 Chi sono questi due altri discepoli? Inutile chiederselo, perché sono anonimi. Sappiamo che sono due, principio di molti. Rappresentano i discepoli che verranno in seguito, chiamati «altri», come l'«altro discepolo», quello che Gesù amava. 

v. 3: dice loro Simon Pietro. Nel c. 21 Simon Pietro ha un ruolo di preminenza: prende l'iniziativa della pesca (v. 3), si butta nel mare (v. 7b) e tira a riva la rete piena di pesci, senza che si rompa (v. 11). A lui, dopo il pasto, Gesù si rivolge direttamente per affidargli la sua missione di Pastore bello (vv. l5ss). Però è l'«altro discepolo» che per primo riconosce il Signore (v. 7a; cf. 20,8) e resta come testimone perenne di colui che viene (vv. 22-24). 

me ne vado a pescare. Simon Pietro non ordina agli altri di pescare. L'autorità non è comando - «armiamoci e partite!» -, ma un modello da imitare. L'imitazione dell'altro, il cui esempio dà corpo ai desideri di ognuno, è principio di ogni agire umano, nel bene e nel male. Come Gesù se ne va al Padre, Simon Pietro se ne va verso i fratelli. I discepoli sono scelti e inviati a portare avanti la missione del Figlio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto» (15,16). C'è una stretta parentela, con numerosi punti in comune, tra questo racconto e la pesca di Lc 5,1-11, dove Pietro riceve la promessa: «Da ora uomini pescherai per la vita» (Lc 5,10; cf. Mc 1,17; Mt 4,19). 

veniamo anche noi con te. Gli altri decidono spontaneamente di andare con lui. Non sono dei subordinati, più o meno insubordinati, ma persone in comunione, per libera decisione dello Spirito. Questa comunione tra di loro resta però sterile fino a quando non è comunione con Gesù, obbedienza alla sua parola. La preposizione «con» (= syn), che indica appunto comunione, appare solo al-tre due volte in Giovanni. Si parla di Lazzaro, risorto, che giace a mensa «con» Gesù (12,2) e di Gesù che entra nel giardino «con» i suoi discepoli (18,1). Per Tommaso, che dice di essere disposto a morire accanto a Gesù, si usa la preposizione greca «metà», che indica piuttosto l'essere a fianco (cf. 11,16). 

uscirono ed entrarono nella barca. Gesù è uscito dal Padre per venire nel mondo incontro ai fratelli. I discepoli escono dal luogo dove si trovano ed entrano nella barca, in mezzo al mare. La loro è la stessa missione del Figlio: pescare uomini perché vivano. Nell'acqua infatti muoiono. 

quella notte. Finora si è parlato di «quel giorno» (cf. 19,31; 20,1.19). Ma qua-lunque giorno rimane notte fino a che non si manifesta la luce del mondo: «Noi bisogna che operiamo le opere di chi mi inviò mentre è giorno; viene la notte, quando nessuno può operare. Finché sono nel mondo, sono luce del mondo» (9,4s; cf. 11,9s). Lui è ormai sempre nel mondo, ma non lo vediamo fino a quando la Parola ascoltata e il Pane condiviso non ci aprono orecchi e occhi. 

non catturarono nulla. L'iniziativa comune di Pietro e degli altri è senza risultato: «Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5,5a). Infatti «il tralcio non può portare frutto da se stesso se non dimora nella vite, così anche voi, se non dimorate in me [...]. Chi dimora in me e io in lui fa molto frutto» (15,4s). Lui dimora in noi come noi in lui, se ascoltiamo la sua parola: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui» (14,23). Gesù può manifestarsi perché l'amore, che è concreta osser-vanza della sua parola, ce lo rende presente: «Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e io amerò lui e a lui mi manifesterò» (14,21). Ogni iniziativa apostolica, con tutte le reti e le perizie del mondo, se non sca-turisce dalla comunione con il Signore, resta infruttuosa. Senza l'amore, tutto è nulla (cf.iCor 13,1-3). 

v. 4: venendo già l'alba. È preferibile leggere, con molti codici, «venendo» invece che «venuta» l'alba. Infatti la notte finisce e viene l'alba con la presenza di Gesù. Con lui inizia il giorno nuovo (20,1), che dissolve la tenebra in cui si trovano i discepoli.

Gesù stette (in piedi) sul litorale. Gesù è ritto in piedi sulla riva, come prima nel cenacolo (20,19.26). Al v. 13, descrivendo il gesto eucaristico, si dirà che «viene», come in 20,26. 

non sapevano i discepoli che è Gesù.
 Gesù, compiuta la sua missione, è già arrivato a riva. Da lì è presente ai discepoli che continuano la sua missione. Ma questa rimane sterile, e lui non riconosciuto, fino a quando non osservano la sua parola.

v. 5: dice loro Gesù: Figlioli. È un appellativo affettuoso, usato per il figlio del funzionario regio che sta per morire (4,49) e per l'uomo nuovo che viene al mondo (16,21). In questo racconto è salvata da sicura morte la comunità nascente ed è generata l'umanità nuova.

avete qualcosa di companatico?
 Gesù interroga i discepoli sulla fatica notturna: chiede loro del «companatico». Il «pane» c'è già: è lui, che ha dato se stes-so per la vita del mondo. Manca il «companatico» da aggiungere a questo pane: è la risposta al suo amore, che solo noi possiamo dare. Essa consiste nel nostro andare verso i fratelli in obbedienza alla sua parola. Il nostro cibo è il medesimo del Figlio: compiere l'opera del Padre (4,34), che vuol salvare tutti i suoi figli, con l'ultimo dei quali Gesù si è identificato. Nell'ultimo dei fratelli infatti vediamo il Figlio da amare. 

gli risposero: no!
 Gesù aveva promesso ai discepoli che avrebbero compiuto le sue opere e anche di più grandi (14,12). La loro risposta è un secco «no», pieno di delusione. Quante volte, nonostante il nostro darci da fare con perizia e impegno, brancoliamo nella notte e non peschiamo nulla (cf. Lc 5,5). Se la missione è senza frutto, significa che non siamo uniti a lui, che non ascoltiamo la sua parola. 

v. 6: gettate la rete dalla parte destra, ecc. Gesù ordina di gettare la rete da una parte precisa, l'unica che può essere feconda di vita. Per questo ci ha dato un preciso comando, il «suo», offrendoci il potere divino (richiamato dall'espressione «la parte destra») di amarci a vicenda con lo stesso amore con il quale lui ci ha amati. Solo l'obbedienza a questo comando fa dimorare lui in noi e ci dona la sua vita. Come Maria disse: «Avvenga a me secondo la tua parola» (Lc 1,38), anche il discepolo dice: «Sulla tua parola, getterò le reti» (Lc 5,5b).

e non riuscivano più a tirarla per la moltitudine dei pesci.
 In obbedienza al «comando» del Signore la loro pesca è abbondante: si può «catturare» alla vita solo mediante l'amore. Il termine «moltitudine», che in greco indica «pienezza» (plèthos), ricorre a proposito degli infermi ai bordi della piscina che attendono salvezza (5,3). Nella rete tirata a terra c'è una «moltitudine» di uomini salvati dalle acque, una «pienezza» che abbraccia l'umanità intera. È il molto frutto del tralcio unito alla vite (15,5). La missione non è opera nostra, ma dello Spirito che Gesù ci ha donato (cf. 20,22s). Dal frutto si riconosce l'albero (cf. Mt 7,20).

v. 7: allora quel discepolo che Gesù amava. È colui che conosce l'amore di Gesù: posava il capo sul suo grembo e sul suo petto quando Pietro gli chiese di informarsi sul traditore (13,23ss). Egli introdusse Pietro nel luogo in cui Gesù dava testimonianza (18,15s) e corse con lui, precedendolo, al sepolcro (20,2ss). Egli inoltre stava con la Madre ai piedi della croce (19,26) e contemplò il Trafitto, che testimoniò a noi nel Vangelo (19,35).

dice a Pietro.
 Questo discepolo, come già detto, appare sempre vicino e in contrappunto a Pietro. 

è il Signore. È lui che notifica a Pietro la presenza del Signore. Solo l'amore vede (cf. 20,8) e segnala, a Pietro come a tutti, la via migliore (cf. 1Cor 12,31-13,13): quella di Gesù, verità della vita, che è l'amore

Simon Pietro, udito che è il Signore, si cinse la veste, ecc.
 Questo versetto contiene vocaboli altamente evocativi. Saranno ripresi nei vv. 18-19, quando si dirà che anche Pietro, finalmente, può seguire Gesù e diventare come lui. Simon Pietro si cinge la veste e si butta nel mare, come prima era entrato nel sepolcro (20,6). Gettarsi in acqua e risalire, nudità e veste sono allusioni al battesimo. Simon Pietro seppellisce il suo passato, affogando presunzioni e colpe, per risalire a riva e incontrare Gesù. La parola «cingersi» esce nella lavanda dei piedi, quando Gesù si cinge il panno del servo (13,4s). Qui la veste di Pietro è chiamata «sopraveste», che egli mette sopra la sua nudità. È la veste del Signore stesso, che lo avvolge nel suo amore e gli permette di affrontare il mare. Proprio qui, «dopo queste cose», anche lui riconosce chi è il Signore e Maestro (13,7.13). Sembra strano cingersi la veste per gettarsi in acqua; ma quando si pesca di notte, per proteggersi dal freddo, si indossa sulla pelle un camiciotto che di giorno si toglie. Pietro si cinge di questo indumento, che ha un profondo significato: la veste con la quale si battezza nel mare per risalire a terra richiama l'eredità che il Crocifisso lasciò ai suoi crocìfissori (19,23). 

v. 8: gli altri discepoli vennero con la barchetta. Mentre Simon Pietro scompare nell'acqua, gli altri vengono con la barchetta, portando la moltitudine di pesci. Le due barche di Lc 5,7 sono diventate una e, per giunta, piccola. La Chiesa è una sola e abbraccia tutti; rimane però sempre una barchetta e non diventa mai un transatlantico.

non erano lontani dalla terra.
 «La terra», per antonomasia, è la terra promessa, dove Gesù è già arrivato e i discepoli approdano con il frutto della loro missione.

circa duecento cubiti.
 1200 cubiti richiamano i 200 denari necessari per sfamare la folla (6,7). La distanza dal mare alla terra ha un costo: quello del pane che Gesù ha offerto gratuitamente. La gratuità è l'unico prezzo della vita.

trascinando la rete dei pesci.
 Come la barchetta, anche la rete è unica: i vari di-scepoli compiono la stessa missione, in obbedienza al comando dell'amore. La rete - nominata 4 volte (cf. vv. 6.8.1 Ibis), numero di totalità - è ciò che raccoglie in «uno» gli uomini, per portarli a salvezza: tutti gli uomini sono uniti, in libera comunione tra di loro.

v. 9: quando discesero sulla terra. «La terra» è dove ormai Gesù sta e si mani-festa: è da dove si parte per la missione e dove si torna portando nuovi fratelli. È il luogo dell'eucaristia, vera terra promessa, dove si vive da figli e da fratelli.

guardano brace distesa e pesce sopra e pane. Non si dice che vedono Gesù, ma brace con pesce e pane. La brace, evocando il rinnegamento di Pietro (cf. 18,18), prepara il seguito della scena. Pesce e pane - c'è una sovrimpressione tra Gesù e i doni eucaristici - richiamano il fatto dei pani e dei pesci, quando Gesù anticipò la sua Pasqua (6,9-11). Ora i discepoli capiscono il suo discorso fatto nella sinagoga di Cafarnao sul pane di vita (6,26-59): Gesù è il pane offerto. Anche il pesce, che vive nell'abisso e viene sulla terra per essere cotto e diventare cibo, è lui: «Il pesce arro-stito sul fuoco rappresenta Cristo nella passione» (sant'Agostino). Infatti il pesce vive nella morte (= mare) e, morendo sulla terra, si dona come vita per gli altri. Piscis assus, Christus passus: Gesù, proprio in quanto rinnegato e ucciso, è cibo per tutti. Ora che lui ci ha amati fino al dono di sé, anche noi abbiamo il suo Spirito e possiamo fare come lui. Dall'eucaristia del Figlio, celebrata in solitudine sulla cro-ce, scaturisce la nostra eucaristia di fratelli, partecipi della sua missione e del suo frutto. Dall'eucaristia si parte da figli verso i fratelli, all'eucaristia si torna con nuo-vi fratelli che diventano figli, capaci di andare a loro volta verso altri fratelli. E così via, finché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). Allora i figli di Dio, dispersi, saranno raccolti in unità nel Figlio (cf. 11,51s). E il Padre suo diventerà Padre nostro, di tutti (cf. 20,17).

v. 10: portate dei pesci che avete catturato adesso. La nostra pesca, prima infrut-tuosa (cf. v. 3), «adesso» è feconda perché abbiamo ascoltato il comando dell'amore. La parola «cattura» finora era riferita a Gesù, che si consegnò a chi voleva cat-turarlo (cf. 7,30.32.44; 8,20; 10,39; 11,57). Anche altri fratelli, «catturati» dall'amore grazie alla nostra testimonianza, sono diventati come lui, che si fa cibo per la vita del mondo. Questo è il frutto della missione, che trasforma gli uomini in figli che sanno amare i fratelli come il Figlio li ha amati. L'imperativo è al plurale, come nel v. 6: «Gettate le reti». Tutti i discepoli partecipano, per ordine diretto del Signore, alla fatica e al frutto. Pietro si distingue per la sua iniziativa di dare il buon esempio e di mantenere l'unità della rete (cf. v. 11). 

v. 11: Pietro salì. Pietro ora sale dall'acqua dove si è immerso, come Gesù nel suo battesimo (cf. Mc 1,10). Ora Simone diventerà Pietro, con il suo nome nuovo. 
tirò la rete sulla terra. Pietro non «tira» più la spada per uccidere (18,10), ma ti-ra verso la vita la grande moltitudine di uomini, perché anche lui, come tutti, è stato (at)tirato dall'amore del Crocifisso (cf. 12,32). La rete tiene unito il frutto della pesca, mentre è trascinato sulla «terra» dove sta il Figlio. Questi infatti aveva pregato il Padre affinché i fratelli fossero «uno» nell'amore (17,11.21-23).

piena di grandi pesci, centocinquantatré. Si sottolinea l'abbondanza della pesca. Questi pesci, attratti dal Figlio innalzato (12,32), sono assimilati a lui, pesce e pane offerto per la vita del mondo. La cifra ha certamente un significato. Ci sono varie interpretazioni, nuove e antiche, più o meno plausibili. Ne offriamo alcune per mostrarne l'infinita varietà. San Girolamo, commentando Ez 47,6-12, dice che gli zoologi contavano 153 specie di pesci. La cifra indicherebbe quindi la totalità degli uomini. Sant'Agostino nota che 153 è la somma dei numeri naturali da 1 a 17. Il numero 17 a sua volta è la somma di 10 e di 7, che rappresentano rispettivamente il Decalogo della legge e lo Spirito con i suoi doni. Il numero 153 indicherebbe tutti i salvati: essi, con la grazia dello Spirito, osservano la legge, che non è più per la morte, ma per la vita. Si può inoltre osservare che 10 è il numero della comunità e 7 il numero della moltitudine: la rete, simbolo della Chiesa, è la comunità che contiene la moltitudine degli uomini portati a salvezza. Un'ulteriore interpretazione richiama l'attenzione sul fatto che 17 è la somma di 5 e di 12, cifre che richiamano il dono del pane a Tiberiade, dove dei 5 pani sovrabbondarono 12 ceste (cf. 6,9.13): grazie alla missione, la moltitudine degli uomini diventa eucaristia, assimilata al corpo del Figlio. Ancora partendo dall'intuizione di sant'Agostino: tenendo presente che in ebraico ogni lettera dell'alfabeto corrisponde a un numero (a = 1, b = 2, c = 3, ecc.), 17 è il valore numerico della parola ebraica tov (= buono, bello); allora 153, che contiene tutti i numeri da 1 a 17, allude a quella bontà/bellezza che abbraccia in unità ogni singolarità. Un'altra interpretazione dice: «Il significato della cifra può chiarirsi prestando attenzione ai dati del Vangelo e al linguaggio di quella cultura. La cifra 153 è la somma di tre gruppi di 50, più un 3 che è appunto il moltiplicatore. Il numero 50, posto in relazione con i 5.000 dell'episodio dei pani, designa una comunità come profetica, la comunità dello Spirito (vedi commento a 6,10). Ciascun gruppo di 50 pesci "grandi" corrisponde perciò a una comunità di "uomini adulti" (6,10; Cf. 9,20-21), la creazione dei quali cioè è completata dallo Spirito. Il numero 3, che moltiplica la comunità, è il numero della divinità, e qui potrebbe rappresentare Gesù (20,28: "Signore mio e Dio mio!"). La cifra 153 indicherebbe pertanto che le comunità dello Spirito (il frutto) si moltiplicano esattamente in proporzione alla sua presenza» (J. Mateos - J. Barreto). Facendo calcoli più complessi, si possono dare altre interpretazioni: in ebraico 153 è il valore numerico delle espressioni «la Chiesa dell'amore», «il mondo che viene», «figli di Dio», ecc. Al di là di ogni possibile interpretazione, non sappiamo con precisione cosa l'autore intendesse. Sembra che voglia lasciare più che mai spazio alla fantasia: chi più ne ha, più ne metta, se gli giova. Certamente vuol indicare «il molto frutto» (Cf. 12,24; 15,5) della missione di colui che è il salvatore del mondo (4,42) e tutti vuol attrarre a sé (12,32). 

pur essendo così tanti.
 Tutti gli uomini - e sono «così tanti» -, sono «in rete», collegati in unità. La missione del Figlio è riunire in «uno» i fratelli (10,16; 11,52; 17,11.21-23). Questa unione, è utile ribadirlo, non è mai uniformità e omologazione, quasi un frullato indistinto di individui, ma libertà nella distinzione, propria delle persone che si amano.

non si squarciò la rete. Il verbo squarciare (skízo) richiama «scisma», la divisione all'interno della comunità. Quest'unità non si lacera, perché è nell'amore che accetta e mantiene ogni diversità. Non va squarciata, come la tunica inconsutile, tessuta dall'alto in basso, tutta di un pezzo (Cf 19,23). Dividersi tra fratelli è divi-dere il corpo del Figlio. Anche per questo le sue ferite resteranno aperte, fino a quando un solo uomo al mondo sarà escluso dalla comunità dei fratelli. Nell'ultima cena Gesù aveva pregato perché fossimo «uno» con lui e il Padre, «perfetti nell'unità», «perché il mondo sappia che tu mi amasti e li amasti come ami me» (cf. 17,20-23). Solo attraverso l'unione dei fratelli si conosce il Padre comune: la credibilità di Dio è affidata all'amore tra di noi. Le scissioni al nostro interno sono il grande peccato: oscurano al mondo la Gloria, unità perfetta tra Padre e Figlio nell'identico Spirito.

v. 12: venite, pranzate. Gesù invita al banchetto: è il pasto eucaristico che, unendoci al Figlio e al Padre nell'unico amore, ci fa entrare in seno alla Trinità. Contro ogni aspettativa (cf. Lc 17,7s), quando il servo torna dal lavoro, il suo Signore lo invita a tavola, si cinge la veste e si mette a servirlo. Colui che ci ha lavato i piedi è sempre in mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27). Il Signore non può essere che servo. Infatti, essendo tutto non ha bisogno di nulla, essendo amore dà tutto se stesso a servizio degli altri. La missione parte dall'eucaristia e porta all'eucaristia. In essa, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana», si mangia e si ringrazia di ciò che è stato donato, anticipo di ciò che sarà ulteriormente donato in forza di questo mangiare e ringraziare.

nessuno dei discepoli osava chiedergli.
 Per chi partecipa all'eucaristia, ricevendo e dando amore, è evidente «che è il Signore». Il riconoscimento di Gesù viene dalla comunione con lui, dal mangiare e vivere di lui. Allora lo vediamo, perché lui vive e noi viviamo (Cf. 14,19). Spezzare il pane, facendo memoria e vivendo del suo amore per noi, ci apre gli occhi e ce lo fa riconoscere (cf. Lc 24,30s.35). In quell'ora c'è una gioia che nessuno ci può togliere, perché attingiamo alla sorgente dell'amore. È giunto «quel giorno» nel quale non gli chiediamo più nulla (16,22s), perché ab-biamo tutto. La nostra gioia è completa, perché è la sua gioia (17,13).

tu, chi sei? Era la domanda rivolta al Battista (1,19) e poi a Gesù (8,25). Il Battista rispose: «Io-non-sono» (1,20) e Gesù rispose: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete Io-Sono» (8,28). 

sapendo che è il Signore. Come il discepolo amato (v. 7), ora anche gli altri riconoscono Io-Sono, il Signore. È il banchetto della nuova alleanza, che ci salva dal mare dei nostri fallimenti, offrendoci il perdono dei peccati. Qui tutti conosciamo il Signore, dal più piccolo al più grande (cf. Ger 31,31-34): è colui che fa rivivere le ossa aride, apre le nostre tombe e ci fa riposare sulla terra. «Allora saprete che io sono il Signore. L'ho detto e lo farò. Oracolo del Signore Dio» (Ez 37,13s). Ora che quanto fu preannunciato è compiuto, vedendo il suo amore anche noi lo amiamo e osserviamo il suo comando di amarci gli uni gli altri (14,15). In questo sta il suo ritorno a noi, che ce lo fa vedere perché lui, il Vivente, vive in noi che lo amiamo (14,18). L'evangelista evita di dire che i discepoli vedono il Signore: si dice per tre volte che «si manifesta» (vv. 1bis.14), preludio del suo manifestarsi successivo ai credenti che non l'hanno visto (cf. 20,29). I primi l'hanno visto con gli occhi della carne e hanno saputo con il cuore che è il Signore. Anche noi, come i discepoli di questo racconto, sappiamo che il Signore è presente. Con gli occhi vediamo solo brace, pane e pesce: il banchetto da lui preparato. Ma lo riconosciamo dall'abbondante frut-to dell'obbedienza al suo comando, che ci fa partecipare attivamente al dono che lui fa di sé nel suo pasto (cf. v. 13).

v. 13: viene Gesù.
 Prima Gesù stava ritto a riva: è il Risorto, già arrivato sulla «terra», tornato al Padre e presente ai fratelli. Ora si dice che viene, come in 20,26. Infatti il Risorto viene a noi nell'eucaristia. Egli è «il Veniente», che di continuo viene a noi nel memoriale del suo amore. Attende solo di essere accolto, per accoglier-ci con sé in seno al Padre. 

prende il pane e lo dà loro; e similmente il pesce. L'espressione richiama il dono dei pani e dei pesci (6,11). «Prendere il pane e dare» sono le parole dell'eucaristia, dove riceviamo il pane del cielo che dà vita eterna: chi lo mangia entra in comunione con lui e vive di lui, come lui del Padre (cf. 6,48-58). Questo pane ci rende capaci di amare come lui ci ha amati: allora lui dimora in noi come noi in lui (cf. 14,20-23). È il compimento in noi del dono del Figlio. I verbi, coniugati al presente (cf. invece 6,11, dove sono al passato), indicano che la Presenza è ormai sempre presente. In questo banchetto, oltre al pane e al pesce che Gesù ha donato, c'è anche quanto noi abbiamo pescato (v. 10), che serve da companatico (v. 5), da aggiungere al cibo che lui ci dà. Questa «aggiunta» è la nostra risposta al suo dono, che ci fa par-tecipare pienamente alla sua natura di Figlio che, come riceve dal Padre, così dà ai fratelli amore e vita. L'eucaristia coinvolge noi e coloro ai quali ci rivolgiamo, fino ad abbracciare il mondo intero, raffigurato nella moltitudine di pesci. C'è una stretta relazione tra eucaristia e missione: non c'è messa senza missione (cf. 20,19-23) e non c'è missione senza messa (cf. v. 10). Per questo ogni discepolo è inviato ai fratelli, per portare loro l'amore del Padre.

v. 14: così, già per la terza volta, si manifestò Gesù ai discepoli (cf. v. 1).
 «Così», in questo modo, per la terza e definitiva volta - dopo la prima alla sera di Pasqua e la seconda otto giorni dopo -, si manifestò il Signore ai discepoli riuniti insieme. Le tre manifestazioni «graduali» indicano il passaggio da quella riservata ai primi, che «credono perché vedono», a quella rivolta a noi che «non vediamo e crediamo». In mezzo c'è l'esperienza di Tommaso, che sta tra il primo e questo terzo modo di presenza del Risorto.

Sì parla delle tre manifestazioni ai discepoli, tralasciando quella a Mariam. Non perché sia unica e riservata, ma perché indica la dimensione profonda di ogni incontro con Gesù, che si compie nell'amore.

destato dai morti.
 L'incontro con Gesù, destato dai morti, ci ridesta dalla mor-te, comunicandoci il suo amore per il Padre e i fratelli. Qui finisce la prima parte del c. 21, che mostra il modo nel quale ormai il Signore si manifesta perennemente alla sua comunità. 

v. 15: quando ebbero dunque pranzato. Inizia la seconda parte del racconto che, dopo la missione e il banchetto eucaristico, tocca il nodo dei rapporti all'interno della comunità. La partecipazione al corpo dato è per i discepoli principio di comprensione e norma di azione: il Pane apre gli occhi sul Signore, ma anche su di sé e sugli altri. Per questo, dopo il banchetto, si chiariscono i rispettivi ruoli di Pietro e del discepolo amato. La loro differenza emerge già nella pesca: Pietro prende l'iniziativa che gli altri seguono (v. 3), si butta in mare e tira a terra la rete senza che si laceri (vv. 7b.11), mentre l'altro discepolo riconosce per primo il Signore (v. 7a). In questa seconda parte si esplicita il rapporto di Pietro con Gesù e con i fratel-lì (vv. 15-19), in particolare con l'altro discepolo (vv. 20-23). Si tratta del servizio di Pietro, della sua sequela e del suo martirio. Il suo ministero è visto in stretta relazione con l'altro discepolo, quello che Gesù amava. Ogni aspetto istituzionale è animato e misurato dall'amore, altrimenti non ha nulla a che fare con Gesù e il suo comando. La Chiesa è un'istituzione che ha l'amore come principio e come fine la libertà.

dice Gesù a Simon Pietro.
 C'è un dialogo serrato, con dieci scambi di parola tra Gesù e Simon Pietro. Tema è il suo ruolo di guida e custode dell'unità, già emerso durante la pesca. Dopo il dialogo, centrato sull'amore, c'è la chiamata a seguire il Pastore bello che dà la vita per le pecore. Gesù si rivolge a Pietro all'interno della comunità dei discepoli. Rimane ancora aperta la ferita del suo triplice rinnegamento, che Gesù aveva predetto (13,38). Ma questa non è la parola definitiva. Il suo peccato lo apre a una storia nuova: lo rende capace di capire il mistero del Signore come perdono e della debolezza, propria e altrui, come luogo di maggior amore.

Simone di Giovanni. Gesù lo chiama con il nome suo e di suo padre, come al-l'inizio (cf. 1,42a). Dopo l'esperienza dell'amore e della fedeltà del Signore per lui, diventerà Pietro, come gli fu detto nel primo incontro (1,42b). 

mi ami tu più di costoro?
 Colpiscono queste parole rivolte a Pietro e a ciascu-no di noi che le ascoltiamo. Fa tenerezza un Dio che mi chiede: «Mi ami tu?». Dopo averci svelato sulla croce il suo amore estremo, può ormai esporre senza pudore questa richiesta, fondamentale per chiunque ama: l'amore desidera essere amato. La domanda di Gesù può significare: «Ami me più di quanto ami costoro?», oppure: «Ami me più di quanto costoro mi amano?». Certamente l'autore intende il secondo senso, alludendo alla pretesa di Pietro che disse: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò» (Mc 14,29p). Gli aveva infatti protestato il suo amore fino a dare la vita per lui (13,36s); si era esposto per difenderlo nell'orto (18,10) e l'aveva seguito dentro il cortile di Anna, disposto a tutto, tranne che a rinnegarlo (18,15ss). Gesù usa la parola agapào, che indica l'amore originario e gratuito con il quale Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio (3,16), l'amore estremo con il quale Gesù ci ha amati (13,1), che è lo stesso con il quale il Padre ama noi (15,9). È l'amore con il quale ora anche noi possiamo amarci gli uni gli altri (13,34; 15,12.17), fino a dare la vita (15,13). È quell'amore la cui forza è la debolezza di chi espone, dispone e depone la propria vita per l'amato, gli lava i piedi e gli si dona senza riserva, come nel boccone offerto a Giuda. Gesù chiede a Pietro se ha accolto l'amore che gli ha mostrato. Ora, dopo la croce, può capirlo. Gesù chiede a Pietro se lo ama «più» degli altri per ridimensionare la sua pretesa di essere migliore degli altri. Ma non solo: l'amore ha come molla il «più». E infatti sempre una competizione; ma non con gli altri, bensì con se stessi, per vincere egoismo, orgoglio e paura. L'amore è sempre un di «più» - se non cresce, diminuisce - nell'umiltà e nella dedizione. E la nostra partecipazione al magis proprio della «maestà» (majestas deriva da magis = più) del Dio amore, a immagine del quale siamo creati. Il nostro cuore infatti è spinto dal desiderio insaziabile di un di più senza fine. Ciò che finisce è finito, ma non perfetto. Questo «di più», marchio divino dell'uomo, è il suo tormentoso destino, di felicità o di dannazione: segna il progres-so della sua storia se investito nell'amore, il regresso se investito nell'egoismo. La scena, alludendo al rinnegamento di Simon Pietro, richiama la parola di Gesù a Simone il fariseo a proposito della peccatrice: «Chi amerà di più?». La risposta è: «Colui al quale è stato perdonato di più» (Lc 7,42s). Nessuna persona religiosa è in grado di capire quest'ovvietà, perché intenta alla propria perfezione e al proprio amore per Dio più che alla perfezione di Dio e al suo amore per lui. Pietro, pur disposto a morire per Gesù, non era disposto ad accettare che lui gli lavasse i piedi. Il nostro amore è risposta all'amore ricevuto, proporzionato ad esso. E l'amore ricevuto si realizza massimamente nel perdono, dove rivela la sua essenza di gratuità, amando ciò che non è amabile.

sì, Signore, tu sai che ti sono amico. La risposta affermativa di Pietro non si fon-da sulla sua sicurezza di dare la vita per Gesù (cf. 13,37). Si fonda su quanto il Signore sa: gli aveva predetto la sua defezione (13,38), ma pure che lo avrebbe seguito più tardi (13,36b). Pietro lascia perdere l'emulazione con gli altri: non risponde al «più di costo-ro». Inoltre non usa la parola di Gesù (agapào), bensì philéo, che significa essere amico. Non è una semplice variazione stilistica. Il verbo agapào indica l'amore che dà la vita: origine di questo amore è solo lui, il Signore. Quando accettiamo che lui ci lavi i piedi, allora anche noi possiamo amare come lui. Il verbo philéo aggiunge sfumature di amicizia e reciprocità affettiva, ormai possibile perché abbiamo accol-to il suo amore assoluto. «Nessuno ha un amore più grande di questo, che qualcuno ponga la propria vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando» (15,13s), amandovi gli uni gli altri con l'amore con cui io ho amato voi (15,12).

pasci i miei agnelli. Grazie all'esperienza di amore ricevuto, Pietro è associato alla missione del Pastore bello. L'essere pastore non è onore, ma onere. Scaturisce dal pondus amoris, da quel peso di amore noto solo a colui al quale è perdonato di più. Pietro è posto a servizio dell'unità tra i fratelli perché, nel suo peccato perdonato, ha coscienza dell'amore di Cristo. Per questo il suo ministero sarà contrassegnato da perdono e riconciliazione. La sua preminenza non è nel dominio, ma nel servizio di misericordia e perdono (cf. 20,21-23). Istituzione e amore non vanno mai separati. Senza amore ogni istituzione è perversione; anzi, più l'istituzione è perfetta, più grande è la perversione. La Chiesa è un'istituzione che ha come fine quello di amare l'uomo per-ché sia libero di amare. Cristo ci ha liberati per questa libertà (cf. Gal 5,1.13). La parola «pascere» è in connessione con la pastura, il cibo da procurare al gregge. Il vero cibo è la carne di colui che ha dato la vita per i fratelli. Parola e pane sono il cibo da garantire: quella Parola che si è fatta pane, quel Pane che la Parola stessa dà.

«Agnelli» richiama l'«agnello di Dio» (1,29.36): i discepoli di Gesù sono identificati con lui. Qui si parla di «agnelli», piccoli, e poi di pecore, grandi. I due termi-ni contrapposti indicano la totalità, che coniuga insieme distinzione e uguaglianza. Pietro è chiamato ad essere pastore al seguito di Gesù, entrando per quella porta che è lui stesso (10,9). Come il nostro Pastore è l'Agnello che ha portato su di sé il peccato del mondo, così ogni pastore è una pecora che sa come il Pastore bello ha dato la vita per lei. Pietro è pastore sotto il segno del perdono, prima ricevuto e poi accordato. 

v. 16: gli dice ancora una seconda volta.
 Non basta una volta: la domanda di Gesù sarà ripetuta sempre un'altra volta. La coscienza del suo amore deve essere senza limite, come la nostra fragilità e capacità di oblio. Simone di Giovanni, mi ami? Gesù ripete la stessa domanda, tralasciando il «più di costoro». Pietro, nella sua esperienza di tradimento, è già sufficientemente guarito dalla pretesa di essere meglio degli altri. Però non è ancora guarito dalla sfiducia che gli impedisce di amare. Il più dell'amore è proporzionato al meno dell'or-goglio, ma anche al più della fiducia; altrimenti l'umiltà diventa maschera di pusillanimità invece che stimolo alla magnanimità (cf. il Magnificat). Le parole tra Gesù e Simone di Giovanni sono un dialogo di guarigione. Il vecchio Simone, tanto generoso e volenteroso quanto fragile e presuntuoso, viene alla luce come Pietro; diventa stabile come la Roccia da cui è tratto (cf. Is 51,1), fratello di colui che è la Pietra (cf.1Cor 10,4), scartata dai costruttori e diventata pietra angolare (cf. Mc 12,10; At 4,11). 
sì, Signore, tu sai che ti sono amico. La seconda risposta di Pietro è identica alla prima. Conferma la propria amicizia, fondata non su di sé, ma su di lui che sa ogni cosa. Gesù, oltre al tradimento di Giuda, sapeva anche del suo rinnegamento, prima ,che lui ne sospettasse la possibilità. La sua conoscenza divina è elemento comune alle tre risposte di Pietro.

pascola le mie pecore. Gesù ribadisce la sua fiducia in lui. Rispetto al v. 15 c'è «pascola» invece di «pasci» e «pecore» invece di «agnelli». Pascolare, termine più ampio di pascere, indica l'azione del pastore che guida il gregge (cf. Sal 23). Gesù affida a Pietro piccoli e grandi, agnelli e pecore, perché provveda loro il cibo, guidandoli ai pascoli. Pietro è associato al servizio di Gesù, senza però sostituirsi a lui. Non gli dice che è pastore: unico è il Pastore, l'Agnello che ha dato la vita per tutti e a tutti. Pietro deve condurre il gregge a quel pascolo dove il Signore è pastore e pastura. Questo servizio è connesso alla sua esperienza dell'amore gratuito di colui che gli ha lavato i piedi. Gesù parla sempre di «miei» agnelli (v. 15) e di «mie» pecore (vv. 16.17). Agnelli e pecore sono sempre e solo del Figlio e del Padre, non di Pietro. Il gregge non appartiene a lui: non è il padrone, ma il servo della sua fede (cf. 1Pt 5,1-4). Il gregge è di Dio stesso, che comunica a tutti e a ciascuno la Gloria. Il servizio di Pietro è dare l'esempio (cf. 1Cor 11,1;1Tm 4,12) e conservare l'unità nella diversità. Infatti l'essere «uno» nell'amore è la testimonianza al mondo della Gloria (cf. 17,20-23).

v. 17: gli dice la terza volta.
 Questa terza volta è sottolineata nella sua diversità dalle altre e richiama il triplice rinnegamento (13,38; 18,17.25-27).

Simone di Giovanni, mi sei amico? Gesù ora lo interroga su ciò che due volte Pietro ha affermato: è sicuro di essergli amico? Vuole fargli esplicitare che questa sicurezza c'è; ma non deriva dalla sua bravura, bensì dall'esperienza del triplice rinnegamento. Grazie a esso ha sperimentato il perdono di colui che lo conosce meglio di quanto lui conosca se stesso, perché lo ama più di se stesso. Solo allora è sicuro che nulla lo può ormai separare dall'amore di Dio. Non dal suo amore per Dio, ma da quello di Dio per lui in Cristo Gesù ( cf. Rm 8,32-39). La sua sicurezza non è più presunzione, perché è fondata sul «tu sai». 

si contristò Pietro perché gli disse la terza volta, ecc. Pietro si contrista al ricordo della sua infedeltà. Eppure proprio questa è il fondamento del suo «amare di più», come Gesù gli ha chiesto all'inizio. È nella sua infedeltà che sperimenta chi è il Signore, fedele e misericordioso. Pietro considera ancora la sua infedeltà come ombra, fonte di tristezza, non come luce e gioia del perdono. Per questo Gesù continua con lui il dialogo di guarigione. Il servizio di Pietro, che mantiene l'unità dei fratelli nella fedeltà del Signore, continuerà anche dopo di lui. Quest'unità sarà sempre garantita da un «di più» nell'amore, che scaturisce da un «di più» di perdono nella coscienza del proprio peccato. L'unità tra i fratelli non può fondarsi che sul perdono.

Signore, tu sai tutto.
 Pietro amplia la prima parte delle due risposte precedenti. Tu, Signore, sai tutto di me (cf. Sal 139); e io so che sei tu a dare la vita per me, non io per te. Tu sai che io ti rinnego e sai che, nella tua fedeltà a me, anch'io saprò riconoscerti e amarti.

tu conosci che ti sono amico.
 Tu sai che il mio esserti amico non è capacità mia, ma dono tuo, che mi hai promesso che capirò ciò che tu mi hai fatto (13,7) e poi ti seguirò (13,36b). 

pasci le mie pecore.
 Per la terza volta gli è confermata la fiducia. Quest'ultima risposta di Gesù sintetizza le altre due: dice «pasci» come la prima volta e «le mie pecore» come la seconda. Pietro, con e come il Pastore bello, pasce le sue pecore nell'amore, perché ci sia un solo gregge libero, un solo pastore (cf. 10,16b). Egli ha l'iniziativa nella missione e conserva l'unione del frutto abbondante, perché non si laceri l'essere «uno» dei salvati. Il ricordo della sua infedeltà e del suo peccato lo rende «sacramento» di unità nel perdono. Pietro ricorda a tutti l'amore del Pastore bello, che nessuno esclude. Questo amore per noi è il centro della nostra fede: «Abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi» (1Gv 4,16).

v. 18: amen, amen ti dico: quando eri più giovane, ecc.
 Gesù predice a Pietro che ora sarà in grado di seguirlo e andare dove lui stesso è andato (cf. 13,36). Il testo è un contrappunto giovane/vecchio, cingersi/essere cinto, andare/essere portato, volere/non volere. C'è una differenza tra il precedente Simone, che da giovane si cinge-va la veste credendo di andare dove voleva, e il nuovo Simone, che da vecchio sarà cinto della veste da un altro e sarà portato dove non vuole. E proprio quello il luogo dove prima voleva, ma non poteva andare (cf. 13,36): è lo stesso dove il suo Signore e Maestro è andato, ponendo la propria vita a servizio dei fratelli. Se Pietro voleva dare la vita per Gesù, Gesù ha dato la vita per lui. Lavandogli i piedi, gli ha dato la libertà di amare come è amato. Per questo «tenderà le mani» e sarà condotto a morire accanto a Gesù, come i due malfattori. Infatti, crocifis-so nel 64 d.C., stenderà le mani sul patibolo della croce. Eusebio dirà che fu crocifisso a testa in giù. Solo in questo capovolgimento si raddrizzerà. Allora si compirà il suo battesimo, iniziato nel suo buttarsi in mare cinto della veste (cf. v. 7). Crocifisso con Cristo (cf. Rm 6,6), deporrà definitivamente l'uomo vecchio e rivestirà l'uomo nuovo: diventerà come il Pastore bello che sa dare la vita (10,11). Così gli sarà veramente amico (15,13).

v. 19: questo disse significando con quale morte avrebbe glorificato Dio. È il commento del redattore: Gesù ha predetto il martirio del suo discepolo. Come era stato promesso, la Gloria che il Padre ha dato al Figlio, questi l'ha data ai discepoli (17,22). Ora anche per Pietro l'andarsene dal mondo non sarà più un morire, ma un glorificare Dio (cf. 11,4), manifestando in sé il suo amore (cf. 12,26-33). 

segui me.
 Come Filippo all'inizio (1,43), ora anche Pietro è chiamato dal Signore a seguirlo. Se prima non poteva (13,36), adesso può, perché nel perdono conosce il suo amore. Pietro non è il pastore da seguire, ma l'agnello che segue l'Agnello, fino al martirio. Con la sua testimonianza offrirà ai fratelli il cibo di cui lui stesso si è nutrito. Seguire Gesù è un'espressione che dice in sintesi tutta la vita cri-stiana: si segue chi si ama, per essere con lui e come lui. 

* * *

Omelia di Giovanni Paolo II su Gv. 21

GIOVANNI PAOLO II UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 9 dicembre 1992
1. La promessa fatta da Gesù a Simon Pietro, di costituirlo pietra fondamentale della sua Chiesa, ha riscontro nel mandato che il Cristo gli affida dopo la risurrezione: “Pasci i miei agnelli”, “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17). Vi è un oggettivo rapporto tra il conferimento della missione attestato dal racconto di Giovanni, e la promessa riferita da Matteo (cf. Mt 16, 18-19). Nel testo di Matteo vi era un annuncio. In quello di Giovanni vi è l’adempimento dell’annuncio. Le parole: “Pasci le mie pecorelle” manifestano l’intenzione di Gesù di assicurare il futuro della Chiesa da lui fondata, sotto la guida di un pastore universale, ossia Pietro, al quale egli ha detto che, per sua grazia, sarà “pietra” e che avrà le “chiavi del regno dei cieli”, col potere “di legare e di sciogliere”. Gesù, dopo la risurrezione, dà una forma concreta all’annuncio e alla promessa di Cesarea di Filippo, istituendo l’autorità di Pietro come ministero pastorale della Chiesa, a raggio universale. 
2. Diciamo subito che in tale missione pastorale s’integra il compito di “confermare i fratelli” nella fede, di cui abbiamo trattato nella precedente catechesi. “Confermare i fratelli” e “pascere le pecore” costituiscono congiuntamente la missione di Pietro: si direbbe il proprium del suo ministero universale. Come afferma il Concilio Vaticano I, la costante tradizione della Chiesa ha giustamente ritenuto che il primato apostolico di Pietro “comprende pure la suprema potestà di magistero” (cf. Denz.-S. 3065). Sia il primato che la potestà di magistero sono conferiti direttamente da Gesù a Pietro come persona singolare, anche se ambedue le prerogative sono ordinate alla Chiesa, senza però derivare dalla Chiesa, ma solo da Cristo. Il primato è dato a Pietro (cf. Mt 16, 18) come - l’espressione è di Agostino - “totius Ecclesiae figuram gerenti” (Epist., 53,1.2), ossia in quanto egli personalmente rappresenta la Chiesa intera; e il compito e potere di magistero gli è conferito come fede confermata perché sia confermante per tutti i “fratelli” (cf. Lc 22, 31 s). Ma tutto è nella Chiesa e per la Chiesa, di cui Pietro è fondamento, clavigero e pastore nella sua struttura visibile, in nome e per mandato di Cristo. 
3. Gesù aveva preannunciato questa missione a Pietro non solo a Cesarea di Filippo, ma anche nella prima pesca miracolosa, quando, a Simone che si riconosceva peccatore, aveva detto: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 10). In tale circostanza, Gesù aveva riservato a Pietro personalmente questo annuncio, distinguendolo dai suoi compagni e soci, tra i quali i “figli di Zebedeo”, Giacomo e Giovanni (cf. Lc 5, 10). Anche nella seconda pesca miracolosa, dopo la risurrezione, emerge la persona di Pietro in mezzo agli altri Apostoli, secondo la descrizione dell’avvenimento fatta da Giovanni (Gv 21, 2 ss), quasi a tramandarne il ricordo nel quadro di una simbologia profetica della fecondità della missione affidata da Cristo a quei pescatori. 
4. Quando Gesù sta per conferire la missione a Pietro, si rivolge a lui con un appellativo ufficiale: “Simone, figlio di Giovanni” (Gv 21, 15), ma assume poi un tono familiare e d’amicizia: “Mi ami tu più di costoro?”. Questa domanda esprime un interesse per la persona di Simon Pietro e sta in rapporto con la sua elezione per una missione personale. Gesù la formula a tre riprese, non senza un implicito riferimento al triplice rinnegamento. E Pietro dà una risposta che non è fondata sulla fiducia nelle proprie forze e capacità personali, sui propri meriti. Ormai sa bene che deve riporre tutta la sua fiducia soltanto in Cristo: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo” (Gv 21, 17). Evidentemente il compito di pastore richiede un amore particolare verso Cristo. Ma è lui, è Dio che dà tutto, anche la capacità di rispondere alla vocazione, di adempiere la propria missione. Sì, bisogna dire che “tutto è grazia”, specialmente a quel livello! 
5. E avuta la risposta desiderata, Gesù conferisce a Simon Pietro la missione pastorale: “Pasci i miei agnelli”; “Pasci le mie pecorelle”. È come un prolungamento della missione di Gesù, che ha detto di sé: “Io sono il buon Pastore” (Gv 10, 11). Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli . . . le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro. Gli appartengono come a “buon Pastore”, che “offre la vita per le sue pecore” (Gv 10, 11). Pietro deve assumersi il ministero pastorale nei riguardi degli uomini redenti “con il sangue prezioso di Cristo” (1 Pt 1, 19). Sul rapporto tra Cristo e gli uomini, diventati sua proprietà mediante la redenzione, si fonda il carattere di servizio che contrassegna il potere annesso alla missione conferita a Pietro: servizio a Colui che solo è “pastore e guardiano delle nostre anime” (1 Pt 2, 25), e nello stesso tempo a tutti coloro che Cristo-buon Pastore ha redento a prezzo del sacrificio della croce. È chiaro, peraltro, il contenuto di tale servizio: come il pastore guida le pecore verso i luoghi in cui possono trovare cibo e sicurezza, così il pastore delle anime deve offrir loro il cibo della parola di Dio e della sua santa volontà (cf. Gv 4, 34), assicurando l’unità del gregge e difendendolo da ogni ostile incursione. 
6. Certo, la missione comporta un potere, ma per Pietro - e per i suoi successori - è una potestà ordinata al servizio, a un servizio specifico, un ministerium. Pietro la riceve nella comunità dei Dodici. Egli è uno della comunità degli Apostoli. Ma non c’è dubbio che Gesù, sia mediante l’annuncio (cf. Mt 16, 18-19), sia mediante il conferimento della missione dopo la sua risurrezione, riferisce in modo particolare a Pietro quanto trasmette a tutti gli Apostoli, come missione e come potere. Solo a lui Gesù dice: “Pasci”, ripetendoglielo tre volte. Ne deriva che, nell’ambito del comune compito dei Dodici, si delineano per Pietro una missione e un potere, che toccano soltanto a lui. 
7. Gesù si rivolge a Pietro come a persona singola in mezzo ai Dodici, non soltanto come a un rappresentante di questi Dodici: “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21, 15). A questo soggetto - il tu di Pietro - è chiesta la dichiarazione d’amore ed è conferita questa missione e autorità singolare. Pietro è dunque distinto tra gli altri Apostoli. Anche la triplice ripetizione della domanda sull’amore di Pietro, probabilmente in rapporto con il suo triplice rinnegamento di Cristo, accentua il fatto del conferimento a lui di un particolare ministerium, come decisione di Cristo stesso, indipendentemente da qualunque qualità o merito dell’Apostolo, e anzi nonostante la sua momentanea infedeltà. 
8. La comunione nella missione messianica, stabilita da Gesù con Pietro mediante quel mandato: “Pasci i miei agnelli . . .”, non può non comportare una partecipazione dell’Apostolo-Pastore allo stato sacrificale di Cristo-buon Pastore “che offre la vita per le sue pecore”. Questa è la chiave di interpretazione di molte vicende, che si ritrovano nella storia del pontificato dei successori di Pietro. Su tutto l’arco di questa storia aleggia quella predizione di Gesù: “Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18). Era la predizione della conferma che Pietro avrebbe dato al suo ministero pastorale con la morte per martirio. Come dice Giovanni, con tale morte Pietro “avrebbe glorificato Dio” (Gv 21, 19). Il servizio pastorale, affidato a Pietro nella Chiesa, avrebbe avuto la sua consumazione nella partecipazione al sacrificio della croce, offerto da Cristo per la redenzione del mondo. La croce, che aveva redento Pietro, sarebbe così diventata per lui il mezzo privilegiato per esercitare fino in fondo il suo compito di “Servo dei servi di Dio”. 

* * *

Benedetto XV: Pietro, l’apostolo

di Benedetto XVI, 24 maggio 2006 

La generosità irruente di Pietro non lo salvaguarda, tuttavia, dai rischi connessi con l’umana debolezza. È quanto, del resto, anche noi possiamo riconoscere sulla base della nostra vita. Pietro ha seguito Gesù con slancio, ha superato la prova della fede, abbandonandosi a Lui. Viene tuttavia il momento in cui anche lui cede alla paura e cade: tradisce il Maestro (cfr Marco 14,66-72). La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. 
Pietro, che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione. 
In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. È l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo "filéo" esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo "agapáo" significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. 
Gesù domanda a Pietro la prima volta: “Simone, mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Giovanni 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’apostolo avrebbe certamente detto: "Ti amo (agapô-se) incondizionatamente". Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: "Signore, ti voglio bene (filô-se)", cioè "ti amo del mio povero amore umano". Il Cristo insiste: "Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?". E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: "Kyrie, filô-se", "Signore, ti voglio bene come so voler bene". 
Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: "Fileîs-me?", "mi vuoi bene?". Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: "Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)". Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! È proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: “Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: ‘Seguimi’” (Giovanni 21,19). 
Da quel giorno Pietro ha "seguito" il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. 
Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta. È stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, "pietra" della Chiesa, perché costantemente aperto all’azione dello Spirito di Gesù. Pietro stesso si qualificherà come "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi" (1 Pietro 5,1). 
Quando scriverà queste parole sarà ormai anziano, avviato verso la conclusione della sua vita che sigillerà con il martirio. Sarà in grado, allora, di descrivere la gioia vera e di indicare dove essa può essere attinta: la sorgente è Cristo creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità. Perciò scriverà ai cristiani della sua comunità, e lo dice anche a noi: "Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime" (1 Pietro 1,8-9).