sabato 30 giugno 2012

Liturgia della XIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno "B"



"Ascoltino i cristiani, che ogni giorno toccano il Corpo di Cristo, quale medicina possono ricevere dal corpo stesso, se una donna carpì tutta la sua salute dal solo lembo della Sua veste".
S. Pier Crisologo, Omelia 34


   
Domani, 1 luglio, celebriamo la:

XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIOAnno B 




Noi predichiamo Cristo a tutta la terra
Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa  (Manila, 29 novembre 1970)
«Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). Io sono mandato da lui, da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l'amore che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (cfr. Mt 16, 16). Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d'ogni creatura (cfr. Col 1, 15). E' il fondamento d'ogni cosa (cfr. Col 1, 12). Egli è il Maestro dell'umanità, e il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l'amico della nostra vita. Egli è l'uomo del dolore e della speranza. E' colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, come noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Egli è la luce, è la verità, anzi egli è «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). Egli è il pane, la fonte d'acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete, egli è il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore e paziente nella sofferenza. Per noi egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare, anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l'alfa e l'omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antonomasia il Figlio dell'uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 46,2
Popoli tutti, battete le mani,
acclamate a Dio con voci di gioia.

Colletta
O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa' che non ricadiamo nelle tenebre dell'errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo...

Oppure:
O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fa' che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova. 
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio ...

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  Sap 1,13-15; 2,23-24

Per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo.

Dal libro della Sapienza
Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

 

Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 29
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato. 
 

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
  
Seconda Lettura   2 Cor 8,7.9.13-15
La vostra abbondanza supplisca all’indigenza dei fratelli poveri.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
 
Canto al Vangelo
  
Cf 2Tm 1,10
Alleluia, alleluia.

Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo
.
Alleluia.

   
   
Vangelo
   Mc 5, 21-43Fanciulla, io ti dico: 
Àlzati!

Dal vangelo secondo Marco
[
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.]
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando 
[dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
]  Parola del Signore.



COMMENTI 

1. CONGREGAZIONE PER IL CLERO

Fa che restiamo sempre luminosi nello splendore della verità”.
La supplica della Colletta trova tutta la profondità del suo significato nella Liturgia della Parola, interamente attraversata dalla narrazione dell’opera di Dio.
Una narrazione che culmina nel racconto del duplice miracolo presentato dal Vangelo: lo splendore della verità rifulge nell’opera non di una semplice guarigione, ma di una guarigione che accade perché domandata con fede.
Lo splendore della verità che rifulge nella vita umana è Dio, Lui è la Verità: “Nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore”. (Giovanni Paolo II – Lett. Enciclica “Veritatis Splendor”, 1).
Che cosa offusca lo splendore della Verità nell’esistenza dell’uomo?
L’esperienza della morte, che, seminata nel mondo dall’invidia del diavolo, sembra essere la parola definitiva, per coloro che vi appartengono (Prima Lettura).
Proprio la possibilità della morte, come ultima parola sulla vita dei protagonisti del Vangelo, è riscattata e vinta dalla presenza e dalla potenza del Signore Gesù.
Il racconto evangelico è l’intreccio di due miracoli, nei quali si respira il sopravvenire della morte: la figlia di Giairo, Capo della Sinagoga, che supplica Gesù: “La mia figlioletta sta morendo” e la donna inferma, che aveva dilapidato tutto per cercare di guarire, senza alcun vantaggio, “anzi peggiorando”.
In entrambe le scene, la verità del destino umano sembra offuscata dall’ombra della morte; ma proprio mentre sembra prevalere il buio, l’apparente sconfitta della vita, si fa presente, per entrambi i protagonisti, la possibilità di incontrare Gesù: Verità del proprio essere. L’intenzione dell’evangelista Marco, che intreccia i due racconti, è quella di presentare Gesù con le caratteristiche proprie di Dio: il Figlio dell’uomo, infatti, ha il potere di fare miracoli, compiere guarigioni e strappare la vita alla morte; ma per compiere tutto questo, è necessaria la fede, che interpella e muove alla radice la libertà dell’uomo.
Le due domande, di Giairo e della donna inferma, danno voce ad un’unica certezza che alberga nel cuore impaurito e provato: “Vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva” e “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salva”.
La certezza, presente in entrambi i protagonisti, è la salvezza come il dono, che deriva dalla presenza di Cristo.
C’è una ragione di fondo in tutto questo: continuare a credere, nonostante apparenti ombre all’orizzonte, aderendo liberamente ed umilmente all’opera della Grazia.
Il “talità kum”, pronunciato da Gesù al capezzale della figlia di Giairo, ormai morta, è parola di vita, che irrompe nel frastuono del pianto, ma che, soprattutto, “vince” nel cuore dell’uomo, ridestando il desiderio insopprimibile della vita e, con esso, della Verità.
Riconoscere questa possibilità, derivante dall’incontro con il Signore, apre il cuore, in ogni circostanza, allo stupore, ad uno sguardo ed una vita nuovi.
La Beata Vergine Maria, che ha accolto la voce del Signore, ci aiuti a dire sempre il nostro “Eccomi!”, perché la nostra vita risplenda della Verità, che è Cristo.

2. Luciano Manicardi
La volontà di Dio è la vita degli uomini (I lettura) e Gesù manifesta tale volontà guarendo una donna la cui vita era ormai sequestrata dal suo male e risuscitando una giovane già preda della morte (vangelo). Il contrasto tra vita e morte, presente nelle due letture, chiede all’uomo di accedere alla fede per ottenere liberazione, salvezza, pienezza di vita (vangelo).
Nel vangelo l’incrociarsi dei due personaggi (la donna affetta da emorragia e Giairo) mostra le diverse maniere con cui l’uomo, nel suo bisogno, si rivolge al Signore. Unico per tutti è il bisogno di vita, diverso il linguaggio che ciascuno esprime. Giairo, uomo con funzione sociale e religiosa importante, supplica, parla molto, ma ha anche il coraggio e l’umiltà di inginocchiarsi, di gettarsi a terra davanti a Gesù (Mc 5,22-23). L’emorroissa parla invece con il corpo, con il tatto, non dice parola alcuna, se non interiormente, tra sé e sé, per dotare di intenzionalità il suo toccare (Mc 5,27-28). Ognuno, nel proprio bisogno, va a Dio con il proprio linguaggio, cioè con tutto se stesso, con la verità di se stesso. Supplicare non è solo proferire parole che chiedono aiuto, ma è atto di tutta la persona che si “piega sotto”, si raggomitola all’ombra del Signore, si rifugia in lui cercando relazione e salvezza.
A Giairo, che ha ormai appreso la notizia della morte della figlia e ricevuto l’invito a non disturbare più il Maestro, Gesù dice di continuare ad avere fede (Mc 5,36); alla donna che ha toccato il suo mantello, Gesù proclama: “La tua fede ti ha salvata” (Mc 5,34). L’impotenzadell’uomo diviene luogo di dispiegamento della potenza di Dio. Giairo chiedeva la guarigione della figlia e deve scontrarsi con la sua morte; la donna chiedeva di essere salvata e Gesù attribuisce la salvezza alla sua fede. Siamo di fronte al misterioso potere dell’impotenza riconosciuta e assunta nella fede.

La fede non si limita a invocare vita e scampo dalla morte, ma è essa stessa traversata da una dinamica di morte e di vita. La fede cristiana è rischio mortale e possibilità impensata di vita. È l’atto con cui il credente partecipa al movimento pasquale della morte e della resurrezione di Cristo. Ponendo la propria fede nella fede di Gesù, il credente assume l’impotenza e la disperazione della sua situazione e, aprendosi alla potenza dell’amore di Dio, spera contro ogni speranza.
Il testo suggerisce la particolarità della comunicazione che la donna stabilisce con Gesù. Un contatto non verbale, tattile, ma carico di intenzione, che Gesù “sente” diverso dal contatto anonimo della folla che lo pressa. Contemporaneamente Gesù sente una forza uscire da lui e la donna sente nel suo corpo la guarigione avvenuta. “Essa conobbe grazie al suo corpo … Egli conobbe in se stesso” (Mc 5,29.30): da parte della donna un’intelligenza corporea, da parte di Gesù una percezione interiore. Ilcoraggio della donna che, nonostante la sua condizione di “impura”, osa toccare Gesù viene letto da Gesù nella verità della sua intenzione profonda: la sete di guarigione e di vita. Il pudore stesso della donna che, colpita da emorragia intima, non domanda e non implora, ma si limita a toccare il mantello di Gesù, diviene linguaggio ascoltato da Gesù che, fonte della vita, guarisce colei che era colpita proprio nella sorgente della vita. Del resto, il toccare è sempre reciproco: mentre tocco, sono toccato da ciò che tocco.
Gesù opera due azioni di guarigione, ma conduce anche a pienezza di relazione sia la donna che Giairo. Chiedendo “Chi mi ha toccato il mantello?”, Gesù porta la donna a vincere il timore che la teneva nel nascondimento e a passare dal gesto alla parola fino a dirsi davanti a lui, anzi, fino a dirgli “tutta la verità” (Mc 5,33). Nel caso di Giairo, che lo supplicava “molto” (Mc 5,23), e della sua casa in cui molta gente urlava e faceva trambusto, Gesù fa compiere un cammino che dalla parola e dal rumore va al silenzio. Solo nel silenzio si può discernere la verità della situazione: “la bambina non è morta, ma dorme” (Mc 5,39). L’occhio della fede vede nel silenzio.


3. Enzo Bianchi
Dalla terra pagana di Gerasa, Gesù fa ritorno alla riva del lago adiacente a Cafarnao, e qui molta folla si raduna attorno a lui: Gesù è ormai conosciuto, è ritenuto maestro e profeta da molti che lo cercano e vanno a lui per ascoltarlo e, nello stesso tempo, per presentargli la loro situazione di bisogno, sperando di ottenere liberazione da ciò che minaccia la loro esistenza.
 Anche Giairo, un capo della sinagoga, un uomo che aveva cioè una funzione socio-religiosa ufficiale all’interno del popolo di Israele, incurante dell’inimicizia e dei sospetti nutriti dalle autorità giudaiche verso Gesù, si reca da lui a chiedergli aiuto per la figlia dodicenne, gravemente malata e ormai prossima alla morte. Quest’uomo prega secondo le proprie capacità: «si gettò ai piedi di Gesù e lo supplicava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva!”». Subito Gesù acconsente e si incammina verso la casa di Giairo, mentre la folla che lo segue si accalca intorno a lui…
 In quella ressa tumultuosa una donna cerca di mettersi in relazione con Gesù per essere guarita: è malata di emorragia, si trova dunque in uno stato di impurità secondo la Legge (cf. Lv 25,25-30) che la costringerebbe a vivere segregata, astenendosi da ogni contatto con altre persone; eppure, spinta dalla fede in quel profeta di Galilea e dalla speranza nella sua “forza”, cerca di toccare il suo mantello. È un altro modo per avvicinarsi a Gesù e porsi in relazione con lui: senza proferire parola, ma semplicemente toccandolo (cf. 1Gv 1,1). «E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male».

 Gesù avverte però di essere stato toccato in modo particolare da quella donna; nonostante la calca egli sente infatti uscire dal suo corpo una potenza risanante, una risposta alla domanda di chi ha fede in lui: siamo qui di fronte a un evento di straordinaria comunicazione tra le fede della donna che sfiora Gesù e la compassione dello stesso Gesù che immediatamente le risponde… Ora, secondo la Legge Gesù ha appena contratto l’impurità che grava su quella donna, eppure non la rimprovera, non conferma le barriere innalzate dalle prescrizioni religiose; al contrario, le rivolge parole frutto di profondo discernimento e di grande umanità: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Non è avvenuta alcuna azione di magia, bensì un evento dovuto alla fede, un segno di salvezza e di pace messianica offerto a chi si è avvicinato a Gesù con fede!
 Dopo questo inciso, l’evangelista riprende la narrazione dell’episodio precedente: «Mentre ancora Gesù parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?”». Ancora una volta, però, Gesù reagisce con parole che disorientano i suoi interlocutori; egli si rivolge a Giairo dicendo: «Non temere, continua solo ad avere fede! … La bambina non è morta, ma dorme». Sì, la fede non può essere un fatto di breve durata, ma deve essere adesione salda e perseverante, anche di fronte alle contraddizioni più gravi: in caso contrario non è fede autentica, ma solo un effimero slancio del cuore (cf. Mc 4,16-17)! Ecco infatti che Gesù, seguito dai tre discepoli più intimi, quelli che saranno i testimoni della trasfigurazione (cf. Mc 9,2) e dell’agonia al Getsemani (cf. Mc 14,33), rivela la sua potenza sul male estremo, la morte: «Presa la mano della bambina, le disse: “Fanciulla, io ti dico, svegliati!”. Subito la fanciulla si rialzò». In questo episodio così quotidiano fa capolino il linguaggio cristiano per parlare della resurrezione (cf. Ef 5,14), profeticamente annunciata in questo segno operato da Gesù: aver fede in Gesù significa mettere in lui la propria speranza, riconoscendolo pienamente Signore su ogni male, e addirittura sulla morte.
Ancora oggi noi che cerchiamo Gesù andiamo a lui gridando il nostro bisogno, oppure in preda alla vergogna di chi non osa neppure chiamare per nome le malattie che lo assalgono. Eppure non dobbiamo temere nulla: basta che noi desideriamo con cuore sincero il contatto e la relazione con lui, «il Santo di Dio» (cf. Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), per essere da lui purificati, guariti e santificati.

4. p. Raniero Cantalamessa ofmcapp
Talità kum, fanciulla alzati!

Il brano evangelico di questa domenica è costituito da scene che si svolgono in rapida successione, in luoghi diversi. C’è anzitutto la scena sulle rive del lago. Gesù è attorniato da molta folla, quando un uomo si getta ai suoi piedi e gli rivolge una supplica: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù lascia a metà il suo discorso e si avvia con l’uomo verso casa.

La seconda scena è lungo la strada. Una donna che soffriva di emorragia si avvicina di nascosto a Gesù per toccargli il mantello, e si ritrova guarita. Mentre Gesù stava parlando con lei, dalla casa di Giairo vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. Gesù che ha udito tutto, dice al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”. 

Ed eccoci alla scena cruciale, nella casa di Giairo. Grande trambusto, gente che piange e urla, come è comprensibile di fronte al decesso appena avvenuto di un adolescente. “Entrato, dice loro: Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. Quindi, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: Talità kum, che significa: “Fanciulla, alzati! ” Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare. 

Il brano evangelico suggerisce un’osservazione. Si torna continuamente a discutere del grado di storicità e di attendibilità dei vangeli. Abbiamo assistito di recente al tentativo di mettere sullo stesso piano, come se avessero la stessa autorità, i quattro vangeli canonici e i vangeli apocrifi del II-III secolo. 

Ma questo tentativo è semplicemente assurdo e tradisce anche una buona dose di cattiva fede. I vangeli apocrifi, soprattutto quelli di origine gnostica, furono scritti diverse generazioni dopo, da persone che avevano perso ogni contatto con i fatti e che, per di più, non si preoccupavano minimamente di fare della storia, ma solo di mettere sulle labbra di Cristo gli insegnamenti propri della loro scuola. I vangeli canonici, al contrario, furono scritti da testimoni oculari dei fatti o da persone che erano state in contatto con i testimoni oculari. Marco, di cui leggiamo quest’anno il vangelo, fu in stretto rapporto con l’apostolo Pietro di cui riferisce tanti episodi che lo ebbero protagonista. 

Il brano di questa domenica ci offre un esempio di questo carattere storico dei vangeli. Il ritratto nitido di Giairio e la sua domanda angosciata di aiuto, l’episodio della donna incontrata lungo il percorso verso la sua casa, l’atteggiamento scettico dei messaggeri verso Gesú, la tenacia di Cristo, il quadro della gente che piange la fanciulla morta, il comando di Gesú riferito nella lingua originale aramaica, la sollecitudine commovente di Gesú di dare qualcosa da mangiare alla fanciulla risuscitata. Tutto fa pensare a un racconto che risale a un testimone oculare del fatto.

Ora una breve applicazione alla vita del vangelo di domani. Non c’è solo la morte del corpo, c’è anche la morte del cuore. La morte del cuore è quando si vive nell’angoscia, nello scoraggiamento o in una tristezza cronica. Le parole di Gesù: Talità kum, fanciulla, alzati! non sono dunque rivolte solo a ragazzi e ragazze morte, ma anche a ragazzi e ragazze viventi. Quanto è triste vedere dei giovani…tristi. E ce ne sono tantissimi intorno a noi. La tristezza, il pessimismo, la non-voglia di vivere sono sempre cose brutte, ma quando li si vede o li si sente esprimere da ragazzi ancora di più stringono il cuore. 

In questo senso, Gesú continua a risuscitare anche oggi fanciulle e fanciulli morti. Lo fa con la sua parola e anche inviando ad essi i suoi discepoli che, in nome suo e con il suo stesso amore, ripetono ai giovani d’oggi quel suo grido: Talita kum: Ragazzo, alzati! Riprendi a vivere.

Un costante "Sì" a Dio

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ROMA, sabato, 30 giugno 2012  - Benedetto XVI ha autorizzato giovedì, 28 giugno, la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare decreti relativi a 16 cause di canonizzazione. Tra questi il decreto sulle virtù eroiche del vescovo Álvaro del Portillo (1914-1944), Prelato dell’Opus Dei.
Alla notizia dell'annuncio dalla Sala Stampa della Santa Sede, l’attuale Prelato dell'Opus Dei, Mons. Javier Echevarría, principale collaboratore del nuovo venerabile dal 1975 al 1994, ha manifestato “gratitudine a Dio per questo pastore esemplare che amò il Signore e la sua Chiesa”.
Álvaro del Portillo, nato a Madrid l’11 marzo 1914, entrò a far parte dell’Opus Dei all’età di 21 anni. Nel 1944 fu ordinato sacerdote e ben presto san Josemaría trovò in lui il collaboratore più valido. Grazie alla sua attività intellettuale accanto al fondatore e al suo lavoro nella Santa Sede – tra cui la partecipazione al Concilio Vaticano II e l’incarico di consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede - elaborò una profonda riflessione sul ruolo e la responsabilità dei fedeli laici nella missione della Chiesa attraverso il lavoro e le relazioni sociali e familiari.
Tra il 1947 e il 1950 avviò le attività apostoliche dell’Opus Dei a Roma, Milano, Napoli, Palermo e in altre città italiane, promuovendo numerose attività di formazione cristiana. Nel ‘75, pochi mesi dopo la scomparsa di san Josemarìa, fu eletto primo successore alla guida dell’Opus Dei.
Il 28 novembre 1982, il beato Giovanni Paolo II lo designò Prelato, per poi nominarlo vescovo nel dicembre 1990. Morì all’alba del 23 marzo 1994, poche ore dopo il rientro da un pellegrinaggio in Terra Santa. Nel 1997, fu avviata la Causa di canonizzazione e nominato postulatore mons. Flavio Capucci. Una causa che ha richiesto due processi in parallelo e coinvolto 133 testimoni sparsi in tutto il mondo, come  racconta il Postulatore, mons. Capucci, nell’intervista che riporto di seguito.
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Perché Mons. Álvaro del Portillo è un candidato alla beatificazione? Che cosa ha fatto?
Mons. Capucci: La sua vita appare come un sì costante alle richieste del Signore. Mons. del Portillo si è speso eroicamente al servizio della Chiesa e delle anime, fedele all’esempio di san Josemaría Escrivá. Ha avvicinato a Dio tantissime persone.
Per aprire una causa di canonizzazione l’elemento determinante è l’esistenza di una solida fama di santità spontanea e diffusa in una parte significativa del popolo di Dio. La causa di Mons. del Portillo fu iniziata perché, fin dal giorno della sua morte, si sono avute evidenti dimostrazioni di questa fama. Molta gente nel mondo intero era convinta che fosse santo e invocava la sua intercessione allo scopo di ottenere favori dal Cielo.
Oltre al suo impegno personale di santità, bisogna anche considerare l’impulso decisivo per la creazione di strutture destinate al bene della gente, come l’Ospedale Monkole a Kinshasa, l’ospedale Niger Foundation di Enugu (Nigeria), l’università Campus Bio-medico a Roma, la Pontificia Università della Santa Croce e il Collegio Ecclesiastico Internazionale Sedes Sapientiae, sempre a Roma, dove migliaia di seminaristi e sacerdoti ricevono un’accurata formazione dottrinale e spirituale.
Qual è il messaggio principale dei suoi insegnamenti?
Mons. Capucci: Oltre agli aspetti più specificamente dottrinali - come il ruolo dei laici nella Chiesa (il suo libro Fedeli e laici nella Chiesa è considerato un classico del pensiero teologico e canonistico in proposito); i fondamenti sull’importanza e la bellezza del ministero sacerdotale; l’unità con il Sommo Pontefice e la gerarchia - io sottolineerei la virtù della fedeltà. Fu un esempio di profonda fedeltà alla Chiesa, ai Papi con cui fu in contatto, alla vocazione e al fondatore dell’Opus Dei.
Nello studio delle diverse virtù, quale metterebbe in risalto?
Mons. Capucci: Coloro che lo hanno conosciuto più da vicino, mettono in risalto l’affabilità, la mansuetudine e la capacità di diffondere intorno a sé un clima di serenità, anche nei momenti difficili. Non si può dimenticare la sua laboriosità: aveva un ritmo di lavoro incredibile, non si concedeva soste, sempre col sorriso sulle labbra. Era molto esigente con sé stesso e con gli altri, dava il massimo e chiedeva il massimo.
Oltre a questo, bisogna ricordare soprattutto la carità: amava Dio e gli altri con tutto il cuore. Aveva il dono di una profonda paternità spirituale, coloro che lo avvicinarono ricordano un padre buono, che comprende, perdona, ha una fiducia incondizionata negli altri e nella loro lealtà. Infine, mi piace ricordare la sua umiltà. Non cercava mai di imporre sé stesso o le proprie opinioni. Quando fu chiamato a succedere a san Josemaría nella guida dell’Opus Dei, il suo programma di governo ebbe una sola meta: la continuità con l’esempio del fondatore.
La devozione a Mons. Álvaro del Portillo è limitata all’Opus Dei?
Mons. Capucci: No, la sua fama di santità è un vero fenomeno ecclesiale. Ci sono giunte 12.000 relazioni firmate di favori ottenuti per sua intercessione, spesso da paesi in cui l’Opus Dei non è nemmeno presente. Il notiziario sulla sua causa di canonizzazione ha raggiunto i 5 milioni di copie, mentre le immaginette per la devozione privata hanno raggiunto il totale di 10 milioni. Si può senz’altro dire che Mons. del Portillo è un dono della Chiesa e per la Chiesa.
Alla sua morte, Giovanni Paolo II volle ricordare “la zelante vita sacerdotale ed episcopale del Prelato, l’esempio di fortezza e di fiducia nella provvidenza divina da lui costantemente offerto, nonché la sua fedeltà alla sede di Pietro”. L’allora card. Ratzinger evocò il servizio reso per tanti anni da Mons. del Portillo alla Congregazione per la Dottrina della Fede, risaltando “la sua modestia e la disponibilità in ogni circostanza, arricchendo in modo singolare questa Congregazione con la sua competenza e la sua esperienza”.
Qual è stato il ruolo di Mons. Del Portillo nel Concilio Vaticano II e in generale nella Santa Sede?
Mons. Capucci: Durante il Concilio fu Segretario della Commissione De disciplina cleri et populi christiani, artefice del decreto Presbyterorum Ordinis e Perito delle Commissioni De Episcopis et dioecesium regimine e De religiosis. In seguito fu Consultore della Sacra Congregazione del Concilio e della Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto canonico. Tra gli altri incarichi svolti: Giudice del Tribunale per le cause di competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede; Segretario della Commissione per gli Istituti Secolari presso la S. Congregazione dei Religiosi; Consultore della Congregazione per il clero; Consultore del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali e della Congregazione per le Cause dei Santi.
C'è anche qualche messaggio di Mons. Alvaro del Portillo per i non cattolici?
Mons. Capucci: Il nucleo del messaggio dell’Opus Dei, predicato instancabilmente da san Josemaría, è quello della santificazione del lavoro. Mons. Del Portillo ha incarnato in modo esemplare questo insegnamento. Per tutta la vita lavorò senza sosta, prima come ingegnere, poi come sacerdote e negli ultimi anni come vescovo, dando un senso alto al suo operato, nel quale cercava la gloria di Dio e il bene degli altri. Penso che l’aver vissuto nel lavoro il cardine della santità sia un suo insegnamento di valenza universale, per i cattolici e per tutti coloro che sono sensibili al valore, anche spirituale, dell’impegno per dare un senso non effimero alle realtà terrene.
Ci può dare alcuni dati sul processo? Chi sono i testi?
Mons. Capucci: Si sono svolti due processi paralleli: uno presso il Tribunale della Prelatura dell’Opus Dei, in quanto il Prelato è stato riconosciuto come Vescovo competente in questa causa. Dato però che il suo nome compariva nell’elenco dei testi, ritenne preferibile non essere interrogato dal proprio Tribunale, ma da un Tribunale esterno, allo scopo di meglio garantire la neutralità dell’istruttoria. Quindi chiese al Cardinale Vicario di Roma di designare il Tribunale del Vicariato allo scopo di interrogare lui e i principali collaboratori di Mons. del Portillo nel governo dell’Opus Dei, oltre a diversi ecclesiastici residenti a Roma.
Dato l’elevato numero di testi residenti lontano da Roma, sono stati celebrati altri 8 processi rogatoriali: a Madrid, Pamplona, Fatima-Leiria, Montréal, Washington, Varsavia, Quito e Sydney. In tutto sono stati interrogati 133 testi (tutti de visu, tranne due che hanno raccontato due miracoli attribuiti al Servo di Dio), fra cui 19 Cardinali e 12 fra Arcivescovi e Vescovi. I testi della Prelatura sono 62 e 71 quelli non appartenenti all’Opus Dei.
Fonte: Zenit

La Chiesa Sposa di Cristo - Quarta ed ultima parte

Di seguito un'analisi del pensiero di sant'Efrem il Siro, a cura di Robert Cheaib.



http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/7/7c/Sant%27Efrem.jpg/225px-Sant%27Efrem.jpg

ROMA, sabato, 30 giugno 2012.

4. Trasposizione vitale
Vorrei concludere questo intervento con una trasposizione vitale. Finora, abbiamo parlato di ciò che il Signore ha fatto per la sua Chiesa-sposa. Ma entrare nella sensibilità di Efrem – l’asceta, il proto-monaco e l’innamorato di Cristo – ci spinge a vedere quali atteggiamenti dovrebbe assumere la Chiesa di fronte all’iniziativa mirabile del suo Sposo. Anche qui, il pensiero di Efrem non si presenta in un sistema, ma credo che possiamo raccogliere tre parole, ovvero tre indicazioni fondamentali per il nostro cammino come Chiesa-sposa.
4.1.  Vegliare
Nell’attesa della manifestazione escatologica dello Sposo, Efrem invita la Chiesa a vegliare. Il diacono esperto di discernimento di spiriti avverte che bisogna sapere come vegliare. Egli fa notare che il ricco sta sveglio perché il suo sonno è perseguitato da Mammona; e l’ansioso veglia perché il suo sonno è ingoiato dall’ansia. Perciò Efrem avverte: «è satana, fratelli miei, che insegna / una veglia al posto della veglia, / a dormire nelle cose buone / e a essere svegli e vigilanti per quelle odiose».
Tra l’altro anche Giuda veglia per tradire il Signore «vendendo il sangue del Giusto che ha acquistato la creazione intera», perciò Efrem avverte: «Chi non veglia in purezza, / la sua veglia è sonno. / E chi non veglia in castità, / anche il suo vegliare è contro di lui».
Vegliare in purezza vuol dire vegliare nell’integrità di tutto l’essere al cospetto di Dio; è risplendere della sua luce: «State svegli, voi, come luci, / in questa notte di luce,/poiché anche se nero è il suo colore esteriore / essa risplende per la sua forza interiore».
4.2.  Trasfigurare
In Efrem c’è una coscienza ecologica profetica, ma che dona all’ecologia non il suo attuale senso panteistico (la natura è divina), e neppure il suo attuale fondamento egoistico (conserviamo la natura perché la natura ci conservi), ma un fondamento teologico. La natura è specchio del Creatore, e come tale bisogna preservarla limpida e bella per rispecchiare il Suo volto. La creazione gioca in Efrem il ruolo di vestigia che rispecchia la gloria del Creatore.
Ma la vera ecologia – se mi si permetta il gioco di parole – è che l’uomo diventi «eco del Logos», che sia cioè divinizzato. La Theosis resa famosa dai padri Greci non è estranea alla tradizione siriaca, e alla teologia di Efrem. Ciò che afferma sant’Atanasio: «Dio si fa uomo affinché l’uomo diventi Dio», trova in Efrem un corrispondente poetico. Parlando del mistero dell’Incarnazione, l’Arpa dello Spirito dice: «Oggi si è impressa / la divinità nell’umanità / affinché anche l’umanità / fosse intagliata nel sigillo della divinità».
Nella teologia di Efrem, Dio si spoglia della sua gloria eterna per vestirsi di Adamo, il quale si era spogliato della gloria ricevuta con la prima creazione. E l’obiettivo per cui Cristo si riveste di noi è che noi potessimo rivestirci di lui ed essere trasformati da/in Lui.
Mentre l’Incarnazione viene rappresentata dall’immagine della trasformazione, il battesimo è rappresentato dall’immagine della mescolanza. Nel battesimo la natura umana è mescolata con la natura divina. La luce divina scende e lo spirito dell’uomo sale, per l’unione di entrambi in un solo amore, e per l’ingresso dell’uomo nella piena e definitiva familiarità con Dio, nella stirpe di Cristo. Con l’Incarnazione, Cristo entra nella stirpe degli uomini; con il battesimo, l’uomo entra nella stirpe di Dio. La spada del Cherubino che bloccava l’ingresso al gnuno – alla stanza nuziale - viene tolta definitivamente.
In questa vita, la stanza nuziale è costituita per eccellenza dall’unione con Dio nella preghiera e nei sacramenti. Abbiamo già visto come l’Eucaristia costituisce il «Farmaco di vita». Della preghiera, Efrem dice: «La preghiera che è stata purificata è una vergine nella / “camera nuziale”: / se passa la porta della bocca, va perduta. / La verità è la sua camera, l’amore la sua corona, / la calma e il silenzio sono gli eunuchi fidanti alla sua porta / essa è promessa al Figlio del Re; che essa non esca fuori spensieratamente, / ma che la Fede, che è pubblicamente la sposa, sia scortata / nelle strade, caricata sul dorso della voce / dalla bocca ad un’altra camera nuziale, quella dell’orecchio».
La preghiera è un’esperienza di esultanza che nasce dalla presa di coscienza della presenza dell’Amato nella vita e nell’essere dell’amata:
«L’anima è la tua sposa, il corpo la Tua stanza nuziale, / i Tuoi invitati sono i sensi e i pensieri. / E se un solo corpo è per te una festa di nozze, / la Chiesa intera è il tuo banchetto nuziale!».
4.3.  Generare
Chi ha sperimentato il mistero nuziale (sia nella consacrazione battesimale, sia nel mistero delle nozze cristiane, e sia nella consacrazione particolare) sa che la legge delle nozze è una legge di fecondità che costituisce un criterio di discernimento della vera unione. Chi vive il mistero dell’amore nuziale in qualsiasi sua manifestazione, diventa necessariamente padre e madre.  Questa legge di fecondità si applica alla Chiesa Sposa. In questo, Maria costituisce il typosdella Chiesa, e la Chiesa è prefigurata in Maria. Maria, la figlia di Sion diventa la Theotokos, e la Chiesa – dal volto e dal destino mariano – compie il suo destino generando Dio nella storia. In Efrem troviamo un corrispondente di ciò che dice in modo molto incisivo san Gregorio di Nissa: «Quello che si verificò fisicamente in Maria immacolata quando la pienezza della divinità risplendette in Cristo attraverso la verginità, si ripete anche in ogni anima che resta vergine secondo la ragione[kata Logon]».
A questo scrive Efrem scrive: «Benedetta sei tu o Chiesa perché Isaia / esultò in te nella sua profezia / “ecco la vergine concepirà e portorirà / un figlio” il cui nome è un simbolo potente. / Oh, il significato è stato rivelato nella Chiesa! / due nomi si sono uniti e sono diventati uno / Emmanuele, Dio con te tutto il tempo / perché ti ha unito alle sue membra».
La Chiesa sposa realizza la sua vocazione nuziale quando diventa madre, nel suo sguardo sul mondo, nella sua sensibilità, e nella sua pastorale. La Chiesa diventa Sposa quando nel mondo esprime le contrazioni delle viscere di misericordia (Rahamim) di Dio.
Fonte: Zenit

venerdì 29 giugno 2012

« Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto »

Di seguito il Vangelo di oggi, 30 giugno, sabato della XII settimana del T.O., con un commento e qualche testo per la meditazione.



È senza parola la Parola del Padre, 
che ha fatto ogni creatura che parla; 
senza vita sono gli occhi spenti di colui 
alla cui parola e al cui cenno si muove tutto ciò che ha vita

Massimo il Confessore, La vita di Maria, n.89





Dal Vangelo secondo Matteo 8,5-17.

Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: «Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente». Gesù gli rispose: «Io verrò e lo curerò». Ma il centurione riprese: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Fà questo, ed egli lo fa». All'udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti». E Gesù disse al centurione: «Và, e sia fatto secondo la tua fede». In quell'istante il servo guarì. Entrato Gesù nella casa di Pietro, vide la suocera di lui che giaceva a letto con la febbre. Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo. Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie. 


IL COMMENTO


Il miracolo è già tutto compiuto nella Parola. L'annuncio dice di un fatto che si compie nello stesso istante in cui è annunciato. Come fu per la notte della creazione. Come fu per Abramo, per Mosè ed il popolo in Egitto. Come fu per la Vergine Maria quando udì le parole dell'angelo. Come per i discepoli sulle rive di Cafarnao e del Giordano. “Accade un fatto imprevedibile e incredibile, eppure reale: nello spessore della vita, in cui l’impotenza e la rassegnazione sembrano inevitabili, c’è una presenza che cambia i termini della questione. Li cambia oggettivamente per una pretesa che pone” (L. Negri, Essere prete oggi). La pretesa di essere vera. Reale. La pretesa di avere un’autenticità e un potere unici. Una pretesa che si può “verificare”.

La fede è questa verifica, un cammino nella storia reale dove si realizza la Parola, ed in essa tutto ciò che pretende. La fede è un cammino al vero appoggiato ad una parola. Spesso assurda e in contrasto con l'evidenza. L'annuncio svela sempre un impossibile che si fa possibile, un figlio nato da una carne sterile, il concepimento in un seno vergine, la guarigione di chi è ormai senza speranza, il perdono dei peccati e la possibilità reale d’una vita nuova nella sequela del Signore. Nell'annuncio appare sempre la vita trionfante sulla morte. La Parola è la vita e il suo annuncio ne attesta il compimento. Ascoltare e credere è andare a vedere il prodigio operato dalla Parola.Verificarlo. Abramo esce dalla sua terra e spera contro ogni speranza. Mosè lancia il popolo nel mare, Maria corre da Elisabetta, i discepoli lasciano tutto e seguono il Signore, il centurione va abbrancato ad una Parola, e scende da suo figlio.

Vi è dunque un cammino in discesa da percorrere, la scala che conduce alle acque del battesimo; una notte da attraversare, e trepidazione, speranza, desiderio, stanchezza, scoramento per incontrare la luce della risurrezione, la vita nuova in Cristo. Un tempo, l'esistenza che ci è data. Un tempo, questa giornata che si dischiude dinnanzi ai nostri occhi. E le Sue orme, le Parole che ci dice nella Sua Parola, proclamata, ascoltata, meditata, pregata. Un crinale di morte si spalanca ogni giorno davanti a noi, la reale situazione di preoccupazione, di precarietà, di solitudine, di angoscia. Quel letto d’ospedale, quelle analisi, quel fidanzato che se n’è andato, quel figlio che sembra perduto, quel lavoro stressante, il combattimento per difendere la castità nel fidanzamento prima e nel matrimonio poi, il timore nell'aprirsi alla vita dopo cinque parti cesarei, le angherie sul lavoro, la fatica dei pomeriggi sui libri mentre fuori sboccia la primavera. Scendere, che è obbedire, che è ascoltare, che è libertà. Nella storia buia aggrappati alla Sua Parola che scende con noi.

Anche quando la Parola non si ode più: "È senza parola la Parola del Padre, che ha fatto ogni creatura che parla; senza vita sono gli occhi spenti di colui alla cui parola e al cui cenno si muove tutto ciò che ha vita" (Massimo il Confessore, La vita di Maria, n.89). Entrare nella notte oscura della vita per sperimentare il potere straordinario della Parola che si è fatta silenzio per dare una Parola di vita al silenzio delle speranze umane. "Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. Solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui... C’è un’angoscia che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita"(J. Ratzinger, Meditazione sul sabato santo).

Sì, l'odore di morte, la sofferenza, le delusioni, non ci sono estranee. Questa nostra vita scorre in una "valle di lacrime", ed è inutile ogni alienazione. Eppure ad ogni lacrima è data una Parola. Tutte sono raccolte nelle Sue mani, in ciascuna v'è un seme di vita. Anche laddove sembra impossibile. Scendere oggi dove Lui è già sceso, quel sepolcro che ci spaventa ci consegna la vita invece della morte. "Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce" (J. Ratzinger, Meditazione...). Scendere e riconoscere che proprio nell'istante in cui ci era stato annunciata la parola ed avevamo ascoltato l'invito a scendere nella storia di dolore e morte che ci attendeva, in quel momento la Parola aveva già operato il prodigio: dove la carne aveva visto la morte, lo Spirito aveva dischiuso la vita. Il matrimonio che credevamo fallito, il lavoro senza senso, l'amicizia tradita, la malattia gravida di morte, in tutto verificare il potere della Parola predicata dalla Chiesa. Le tue parole Signore sono Spirito e Vita.

* * *

Baldovino di Ford ( ? - circa 1190), abate cistercense
Omelia sulla lettera agli Ebrei 4, 12 ; PL 204, 451-453

« Quell'uomo credette alla parola che gli era stata annunciata »


« La parola di Dio è viva » (Eb 4, 12). Ecco quanto è grande la potenza e la sapienza racchiusa nella parola di Dio ! Il testo è altamente significativo per chi cerca Cristo, che è precisamente la parola, la potenza e la sapienza di Dio. Questa parola, fin dal principio coeterna col Padre, a suo tempo fu rivelata agli apostoli, e per mezzo di essi fu annunziata e accolta con umile fede dai popoli credenti...

Questa parola di Dio è viva, e ad essa il Padre ha dato il potere di avere la vita in se stessa, né più né meno come il Padre ha la vita in se stesso (Gv 5, 26). Per cui il Verbo non solo è vivo, ma è anche vita, come egli stesso dice : « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14, 6). È quindi vita, è vivo, e può dare la vita. Infatti « come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole » (Gv 5, 21). E dà la vita quando chiama il morto dal sepolcro e dice : « Lazzaro, vieni fuori ! » (Gv 11, 43). Quando questa parola viene predicata, il Cristo dona alla voce del predicatore, che si percepisce esteriormente, la virtù di operare interiormente, per cui i morti riacquistano la vita, e rinascono nella gioia dei figli di Abramo (Mt 3, 9). Questa parola è dunque viva nel cuore del Padre, viva sulla bocca del predicatore, viva nel cuore di chi crede e di chi ama.




Sant'Agostino (354-430), vescovo d'Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorsi, 231


« Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto »


Venendo da un altro paese, Cristo ha potuto trovare qui solo ciò che vi era in abbondanza : pene, dolori e morte. Ecco quello che hai qui, ecco ciò che c'è qui in abbondanza. Egli ha mangiato con te ciò che nella povera casa della tua disgrazia c'era in abbondanza. Ha bevuto l'aceto, ha gustato il fiele (Gv 19, 29). Questo ha trovato nella tua povera casa !

Ma egli ti ha invitato alla sua mensa magnifica, alla sua mensa del cielo, alla mensa degli angeli dove egli stesso è il pane (Gv 6, 34). Salito a casa tua e trovata la disgrazia nella tua povera casa, non si è disdegnato di sedersi alla tua mensa, così come era, e ti ha promesso la sua… Ha preso su di sè la tua disgrazia e ti darà la sua felicità. Sì, te la darà : ci ha promesso la sua vita.

Più incredibile ancora è quello che ha realizzato : ci ha dato in pegno la propria morte. È come se dicesse : « Vi invito alla mia mensa, dove nessuno muore, dove si trova la vera felicità, dove il cibo non si corrompe, dove ristora, non manca mai e colma ogni cosa. Vedete dove io vi invito. Nel paese degli angeli, all'amicizia del Padre e dello Spirito Santo, ad un pranzo di eternità, nella mia amicizia fraterna. Infine, vi invito a me stesso, vi invito alla mia stessa vita. Non volete credere che io vi darò la mia vita ? Prendete la mia morte come pegno ! » 


APPROFONDIMENTI 

 

VA', IL TUO FIGLIO VIVE! 

Commento di Silvano Fausti

4,43 Dopo due giorni
uscì di là per la Galilea.
44 Lo stesso Gesù testimoniò infatti
che un profeta non ha onore nella sua patria.
45 Quando dunque venne nella Galilea
10 accolsero i galilei,
avendo visto tutte quante le cose che fece a Gerusalemme nella festa; anch'essi infatti vennero alla festa.
46 Venne dunque di nuovo a Cana di Galilea,
dove dell'acqua fece vino. E c'era un certo (ufficiale) regio
11 cui figlio era infermo in Cafarnao.
47 Questi, udito che Gesù era venuto
dalla Giudea nella Galilea,
andò da lui e pregava
che scendesse e guarisse il suo figlio;
stava infatti per morire.
48 Disse dunque Gesù a lui:
Se non vedete segni e prodigi, non credete per niente.
49 Dice a lui (l'ufficiale) regio:
Signore, scendi
prima che muoia il mio bambino.
50 Gli dice Gesù:
Va', il tuo figlio vive! Credette l'uomo alla parola che gli disse Gesù e andava.
51 Ora, mentre egli già scendeva,
i suoi servi gli vennero incontro dicendo che il suo ragazzo vive.
52 Chiese dunque loro
l'ora in cui era stato meglio. Gli dissero dunque:
Ieri, all'ora settima, lo lasciò la febbre.
53 Conobbe dunque il padre
che era quell'ora
in cui Gesù gli disse: II tuo figlio vive!
e credette, lui e la sua casa intera. Ora anche questo secondo segno fece Gesù, venuto dalla Giudea nella Galilea.
1. Messaggio nel contesto
«Va', il tuo figlio vive/», dice Gesù al funzionario del re. E questi gli crede, sulla parola. Il racconto mostra che vivere è credere alla Parola. Essa infatti è vita di ciò che esiste e ha il potere di generare figli di Dio quanti l'accolgono (I,3b-4a.l2s).
Gesù torna a Cana di Galilea, dove aveva fatto quello che fu il «principio dei segni» (cf. 2,lss). Lo scopo della sua attività è far conoscere il dono di Dio: Dio che si dona all'uomo. È di ritorno dalla prima visita «tra i suoi», a Gerusalemme, dove non l'hanno accolto (1,11). Le istituzioni religiose - rappresentate dall'alleanza, dal tempio e dalla legge, di cui si è parlato nei capitoli precedenti - lo rifiutano. Le mediazioni di Dio sono infatti diventate fine a se stesse: la promessa sostituisce il promesso, l'alleanza l'alleato, la legge l'amore, il tempio Dio. In una parola: il segno si è sostituito al suo significato. È ciò che i profeti da sempre hanno denunciato. Le istituzioni, sedimentazioni della cultura, sono un po' come la tecnica: l'uomo l'ha inventata per difendersi dalla natura; ora il problema è come difendersi da essa e dai suoi effetti indesiderati.
La Parola, che genera dall'alto chi l'accoglie, nel brano precedente è acqua zampillante: ora è vita. Il dono di Dio, annunciato in Gerusalemme a Nicodemo, accolto a Salini dal Battista e a Sicar dalla Samaritana, ora si offre a un ufficiale regio, che sappiamo da Mt 8,5-13 e Le 7,1-10 essere un centurione, ovviamente pagano. Ma Giovanni tace questo particolare, perché vuoi completare il quadro dell'accoglienza che la Parola ha avuto in Galilea.
Questo «secondo segno», che l'evangelista narra (anche se ne conosce altri: cf. 2,23; 4,45), chiude un primo cerchio dell'attività di Gesù, tutta incentrata sulla fede. Il dono della vita fisica, accordato al figlio, è segno del dono della vita eterna, accordato al padre per la fede in Gesù.
La fede non chiede di vedere segni e prodigi; sa invece «leggere» il significato di quel segno che è la Parola, scoprendo cosa dice, chi la dice e perché la dice. La Parola del Signore, per il funzionario regio che sa leggerla, è certezza di vita. Anche noi, attraverso il racconto di ciò che è accaduto a lui, siamo chiamati a credere come lui, senza vedere il prodigio. Il vero prodigio che si narra è quello della fede del padre: la vita restituita al figlio ne è il riflesso speculare. Il funzionario del re è come Abramo, nostro padre nella fede: la sua vita è credere alla promessa del Signore.
Il racconto ci mostra come anche noi, che non abbiamo visto il Signore come la Samaritana, possiamo incontrarlo direttamente attraverso la fede nella Parola.
Questo racconto conclude la prima parte del «libro dei segni» e apre alla seconda, nella quale si compie l'esodo definitivo, alla sequela di Gesù. Per questo ci darà piedi per camminare (5,1-47), pane e acqua per vivere (6,1-71; 7,1-8,51), luce per illuminare le nostre tenebre e condurci verso la libertà (9,1-10,21). Al rifiuto da parte dei capi del popolo (10,22-42), il Signore risponderà con il dono della vita (11,1-54), che farà a prezzo della sua morte (12,1-50).
Si tratta del «secondo» segno, che specifica il significato del precedente, avvenuto pure a Cana (cf. 2,lss). I due segni si illuminano a vicenda, dando un senso compiuto all'opera di Gesù: la Parola da «il vino bello», l'amore, e questo amore è «la vita» stessa di chi l'accoglie.
I due racconti hanno una struttura simile: rispettivamente una madre e un padre presentano la situazione di un terzo (v. 47 = 2,3), Gesù da un ordine che è accolto (v. 50 = 2,7s), si constata il prodigio (v. 51s = 2,9s) e ne consegue la fede (v. 53 = 2,11). Anche l'argomento è simmetrico: Israele, la sposa di Dio senza vino e senza amore, corrisponde all'uomo davanti alla malattia e alla morte. Tutti, con o senza legge, siamo privi della gloria di Dio (Rm 3,23)! Il tema di fondo poi è il medesimo: Gesù opera il prodigio del vino bello e della vita mediante l'accoglienza della sua parola, il cui effetto produce la fede degli astanti, che vedono come la Parola sia viva ed efficace e operi ciò che dice in chi crede (cf. Eb 4,12; ITs 2,13).
II passo parallelo di Mt 8,5-13 e Le 7,1-10 (cf. anche il racconto della sirofenicia di Me 7,24-30 e Mt 15,21-28) sottolinea la fede nella Parola: essa, anche a distanza e in assenza di Gesù, fa ciò che dice. Questo vale, ovviamente, anche per Giovanni. Egli ha però un punto di vista particolare: si pone dalla parte del lettore, che, come il padre, non vede il segno, ma crede al racconto di esso (w. 51-53; cf. 20,30s). Di lui infatti si dice due volte che crede: prima da solo (v. 50), poi, dopo il racconto del segno avvenuto, con tutta la famiglia (v. 53). Giovanni quindi mette l'accento sulla fede che viene dal «segno raccontato»: la Parola narra ciò che Dio nel suo amore ha compiuto e compie anche per noi che gli crediamo. Mediante la fede, Gesù, ormai distante nel tempo e fisicamente assente, è presente e agisce ora. La fede non pretende di vedere segni e prodigi, per verificare se il Signore ci ama; crede invece al suo amore sulla sola Parola, che racconta i segni che già ha operato. Questa fiducia è la vita stessa dell'uomo.
Parola e fede, amore e vita sono inseparabili, come, d'altra parte, menzogna e diffidenza, infermità e morte. La fede è l'unico accesso alla Parola, che è vita. Cosai avverrebbe all'uomo se non potesse fidarsi di nessuna parola, neppure nel rappor- i to padre/figlio?
È da notare la pluralità di nomi con cui sono chiamati i due beneficiari dell'intervento di Gesù. Il funzionario «regio», che ha il figlio infermo e prega (vv. 46.49), diventa «l'uomo» quando crede alla Parola (v. 50) e infine «il padre» quando il figlio è guarito e lui crede in Gesù (v. 53); l'infermo/moribondo è chiamato «bambino» (pai-dìon - ragazzo o servo al diminutivo) dall'ufficiale regio (v. 49), «ragazzo» (pois = ragazzo o servo) dai servi (v. 51) e «figlio» dall'evangelista e da Gesù (vv. 46.47.50.53).
Queste variazioni di nomi suggeriscono un cambiamento di realtà: il funzionario del re diventa uomo e padre; il ragazzo, da servo, diventa libero e figlio. Infatti il I male comune a tutti, origine di ogni altro, è la cattiva relazione padre/figlio. La guarigione, che Gesù è venuto a portare, è la fede, che fa passare da un rapporto di dif-1 fidenza a un rapporto di fiducia. La guarigione che avviene nel rapporto padre/fi-1 glio, è segno di quella che avviene, per la fede nella Parola, nell'ufficiale regio nei I confronti del Padre.
Questo episodio - come l'inizio e la fine della seconda parte del «libro dei se-I gni» (cf. 5,lss; ll,lss) - è un contrappunto tra infermità/morte e guarigione/vita.I Dalla Giudea e dalla Samaria, il dono del Figlio passa alla Galilea e si offre a ogni I uomo che si confronta con i propri limiti, in termini di vita e di morte. Nessuno è I estraneo a Dio. Anzi, solo chi non accampa meriti può ricevere ciò che è puro dono. I Per tutti, vivere è credere all'amore con cui il Padre ama il Figlio: è lo stesso con cui I è amato ciascuno di noi (cf. 17,23; 15,9). Conoscere questo è la vita eterna.
A Cana, da dove era partito, termina il primo viaggio della Parola. Si è proposta al fariseo Nicodemo, al profeta Giovanni e agli infedeli samaritani, offrendo rispettivamente di rinascere, di riconoscere il Figlio di Dio e di incontrare il salvatore del mondo. Ora, all'ufficiale del re - il re rappresenta ciò che ogni uomo vorrebbe essere - offre un modo nuovo di essere uomo, libero dalla malattia mortale che lo insidia: la mancanza di fiducia, che rompe il rapporto vitale padre/figlio.
Gesù, salvatore del mondo, dona la vita a chiunque crede in lui. La vita infatti è aderire a lui, il Figlio amato dal Padre che ama i fratelli.
La Chiesa ha la sua origine nell'Israele che, come il Battista, lo riconosce. In questa radice sono innestati tutti gli uomini, mediante la fede nella Parola. Il centurione è come Abramo: figlio di pagani e padre dei credenti. Prototipo di ogni uomo che crede, è l'Adamo nuovo, guarito dalla diffidenza che a tutti procurò la morte.
2. Lettura del testo
v. 43: Dopo due giorni. Sono i due giorni che Gesù trascorre in Samaria (v. 40), dove è giunto dalla Giudea. Il primo segno a Cana avvenne «dopo tre giorni» (2,1). Giovanni sincronizza con esso non la guarigione del figlio, che avviene appunto «dopo due giorni», ma la fede del padre che, il giorno dopo, al racconto della guarigione del figlio fatto dai servi, credette con tutta la sua famiglia. Di essa facciamo parte anche noi, che come lui ascoltiamo il racconto fatto dall'evangelista e da quelli che sono i servi della Parola.
uscì di là per la Galilea. In Samaria Gesù si trova di passaggio: sta andando dalla Giudea alla Galilea (cf. vv. 3.47.54).
v. 44: un profeta non ha onore nella sua patria (cf. Me 6,4p). Per Giovanni la patria di Gesù è la Giudea, dove si concentrano le istituzioni di Israele. La Samaritana infatti lo chiama «giudeo», e riconosce che la salvezza viene dai giudei (4,9.22). La Parola è venuta nella sua casa; mentre samaritani e galilei la accolgono, i suoi la rifiutano (1,11; Ger 12,6-8). È dolorosa l'incomprensione dei familiari. Eppure, chi pretende di conoscere una persona, ne ignora il mistero più profondo.
v. 45: lo accolsero i galilei. All'ostilità incontrata a Gerusalemme (2,18.24s) si contrappone l'accoglienza ricevuta in Galilea, dove è preceduto dalla fama di ciò che ha compiuto.
v. 46: di nuovo a Cana di Galilea. Si sottolinea il ritorno a Cana per chiudere il racconto della prima attività di Gesù. Lì ha iniziato e i suoi discepoli, alla vista del segno operato dall'ascolto della sua parola, credettero in lui. Il vero prodigio è sempre l'accoglienza della Parola, principio di tutto.
dove dell'acqua fece vino. È ricordato il primo segno per collegarlo con questo secondo. Gesù, come rinnova l'alleanza con Israele mutando l'acqua in vino, così rinnova l'alleanza con ogni uomo mutando la morte in vita.
c'era un certo (ufficiale) regio. Nel testo c'è solo «regio»: un personaggio di corte, al servizio di Erode Antipa. È un subalterno al potere, che insieme subisce ed esercita.
il cui figlio era infermo. Non si tratta di «un» figlio: è «il» figlio, unico. Come può essere il figlio di un uomo di potere, se non mortalmente malato? È il primo incontro tra il salvatore del mondo e un uomo di mondo. Ed è il primo incontro tra Gesù e il problema di ogni uomo: l'infermità e la morte. Davanti ad essa, nonostante ogni pretesa, nessun potente ha potere: sperimenta l'impotenza e riconosce la realtà.
na che l'uomo costruisce - e che a sua volta costruisce l'uomo - per esorcizzare il male e la morte. La constatazione del limite rappresenta quel principio di realtà che da la vera conoscenza di sé e apre all'Altro. Si dice che il figlio è «in-fermo»: alla lettera significa «non sta in piedi» (vedi in 5,3 la massa di infermi che giacciono presso la piscina). Davanti al male e alla morte, nessuno regge: tutti vacilliamo, cadiamo a terra e diventiamo «umani», ossia «humandi» (= da mettere sotto terra) dalla pietà altrui.
v. 47: udito. La fede viene dall'ascolto (Rm 10,17) e ha sempre come oggetto la Parola.
che Gesù era venuto. Gesù viene ovunque arriva la Parola, che risuona ovun-que si parla di lui.
andò da lui. Noi possiamo andare a lui, perché lui viene a noi. Andiamo a lui mossi dal bisogno di vita, perché la Parola è vita degli uomini.
pregava. Il nostro rapporto con il dono è il desiderio, che si esprime nella preghiera. Uno desidera ciò che gli manca. La preghiera mette liberamente in comunione il desiderio e colui che può soddisfarlo.
che scendesse. Gesù è pregato di scendere da Cana a Cafarnao, che dista 26 chilometri, giù sul lago. Scendere non ha solo un senso geografico: indica la con-discen-denza del Figlio, disceso dal cielo (3,13).
e guarisse il suo figlio. Quest'uomo domanda, come chiunque, la salute, che conserva la vita mortale. Otterrà invece la salvezza, che dona la vita eterna.
stava per morire. È la prima volta che il Vangelo parla di morte fisica, limite ultimo dell'uomo. Egli avverte in sé una contraddizione ineliminabile: desidera felicità e pienezza di vita, ma sa che la sua esistenza è triste e breve (Sap 2,1), posta sotto l'ipoteca della morte. Per lui la vita è l'unica malattia incurabile, anzi mortale. Questa contraddizione è il motore stesso della cultura; la quale a sua volta, invece di risolvere, esaspera la tensione tra desiderio e limite, a meno che si anestetizzi la coscienza dell'uno e/o dell'altro. Ma questo non è mai un bene: distruggerebbe ciò che rende umano l'uomo. Ci sarà pure un'acqua che soddisfi la nostra sete, una via d'uscita che dia alla nostra vita un fine che non sia la fine!
v. 48: se non vedete segni e prodigi. Gesù si rivolge non solo al suo interlocutore, ma anche a coloro che ascoltano. Dietro il funzionario regio ci siamo tutti noi, che abbiamo il suo stesso problema e ascoltiamo ciò che avviene. «Segni e prodigi» (cf. Es 7,3) è un'espressione usuale per indicare ciò che il Signore ha compiuto per liberare il suo popolo. In quanto «segni» significano l'amore di chi interviene, in quanto «prodigi» rivelano il suo potere. Il ricordo di essi è il fondamento della fede e della vita di Israele.
Gesù rimprovera chi pretende un segno prodigioso e apodittico (cf. Mt 12,38sp). La fede non è chiedere un cumulo di segni, ai quali attaccarsi idolatricamente: è credere a Dio per quello che già ha fatto e che la Parola racconta. Il ricordo di ciò che ha compiuto nel passato, è motivo sufficiente per credere qui e ora a lui e camminare verso il futuro. L'intento del Vangelo di Giovanni è dichiaratamente questo: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (20,30s).
Chiedere altri segni, o condizionare la fede all'esaudimento delle proprie richieste, significa non credere all'amore di Dio per noi. La salvezza non è la salute, la
to di qualità: il^prodigio non è guarire nel corpo, ma credere alla Parola.
v. 49: Signore, scendi. L'ufficiale regio esprime il desiderio di ogni uomo: che il Signore scenda e il suo potere di vita fecondi la terra. La sua preghiera sarà esaudita quando lui stesso, fiducioso nella Parola, scenderà verso il figlio (v. 51).
prima che muoia il mio bambino. L'ufficiale insiste. Chiede a Gesù di intervenire prima che il bimbo muoia, per mantenerlo in vita. È persuaso che finché c'è vita c'è speranza: chi imbocca la porta della morte, lascia ogni speranza. Non conosce ancora il dono di Dio: ignora che c'è una parola che vince la morte. Il figlio è chiamato «bambino», piccolo, che significa anche servo. Di fronte alla morte nessuno è libero: siamo tutti piccoli e impotenti, anche l'uomo del re e lo stesso re.
v. 50: va', il tuo figlio vive. Gesù non scende a guarire: dice solo che il suo «figlio vive». Ma il funzionario del re ha appena detto che «il bambino sta per morire»! È la parola di Gesù contraria all'evidenza, oppure l'evidenza contraria alla realtà? Gesù non da prove; semplicemente dice ciò che sa: vivere è credere alla Parola, che da la possibilità di diventare figli di Dio. La guarigione che seguirà sarà il segno del cambiamento avvenuto nel padre: la sua fede farà sì che l'infermità/morte del bambino/servo si trasformi nella nascita del figlio libero.
credette l'uomo alla parola. Il funzionario ora è chiamato uomo. Chi crede alla parola di vita non è più un funzionario del re, preso nell'ingranaggio mortale servo/padrone: è diventato uomo. Davanti alla morte ha visto il limite di ogni potere; eppure non ha perso il desiderio di vita. La fede nella Parola gli da la sua umanità piena e lo fa risorgere: da «funzionario», angosciato per la «morte» del «bambino/servo», diventa un «uomo», sicuro della «vita» del «figlio».
In Giovanni si parla della fede a vari livelli. C'è una fede idolatrica, che Gesù non approva, sempre in cerca di segni e prodigi (v. 48); c'è una fede, iniziale o solo imperfetta, che crede perché vede, come i discepoli a Cana (cf. 2,11), o addirittura solo se vede, come Tommaso (cf. 20,25.29a); c'è finalmente la fede dell'uomo che «crede alla parola» (v. 50) senza vedere segni e prodigi, che diventa, subito dopo, un «credere» al racconto del segno (v. 53), aderendo alla persona di Gesù senza vedere (cf. 20,29b). A questa fede l'evangelista vuoi portare il suo lettore.
v. 51: mentre egli già scendeva. È lui, e non Gesù (vv. 47.49), che scende verso il figlio, con la fede nella parola di vita.
i servi gli vennero incontro, ecc. I suoi servi (in greco c'è «schiavi») confermano quanto Gesù ha detto: «II tuo figlio vive!». Quest'uomo, come prima ha creduto alla parola di Gesù, ora crede alla medesima parola detta dai servi, che gli annunciano come si è avverata. Crede sia alla parola che promette, fidandosi della sola promessa, sia alla parola che racconta il compimento della promessa, senza vedere né segno né prodigio.
La fede, come viene dall'ascolto, è sempre e solo fondata sulla Parola, che, raccontando la salvezza avvenuta, la dona a chiunque l'ascolta. Ed è questa fede il vero «prodigio» che ci mette in rapporto di fiducia filiale con Dio, liberandoci dalla menzogna che uccide la verità, sua e nostra.
v. 52: chiese l'ora. È il tema dell'ora, caro a Giovanni, già uscito una prima volta a Cana (2,4).
ieri. Rispetto ai due menzionati all'inizio del racconto, siamo al terzo giorno, come nel primo segno di Cana (cf. 2,1). È trascorsa quindi la notte da quando l'uo
mo ha incontrato Gesù. Questa notte, illuminata dalla fede, conduce al terzo giorno, quello della risurrezione. Il segno avvenuto «ieri» produce «oggi» il prodigio del terzo giorno: la fede, che dona la vita a chi crede nel Figlio.
all'ora settima. È l'ora dopo la sesta (cf. v. 6!), quando inizia la glorificazione di Gesù, innalzato sulla croce (19,14-16). La parola di Gesù è stata efficace all'istante (v. 53). La fede in essa ha fatto passare dalla notte alla luce del terzo giorno quest'uomo, primizia dell'abbondante frutto che produrrà il seme deposto sotto terra (cf. 12,24).
v. 53: conobbe dunque il padre. Quest'uomo ora diventa padre, perché, per la fede nella Parola, è in cammino verso il figlio che vive. Ma è anche nostro padre nella fede, come Abramo, il primo che credette alla promessa. Di lui anche noi ci riconosciamo discendenti (cf. Gai 3,6-14).
Il rapporto padre/figlio è segno del rapporto Dio/uomo, rotto dalla diffidenza. La fede lo ristabilisce, integro e sano. Dio torna ad essere ciò che è, e noi ciò che siamo: lui è Padre nostro e noi figli suoi. Non è più un rapporto di violenza e schiavitù, ma di amore e libertà: non produce più morte, ma da vita.
era quell'ora in cui Gesù gli disse. L'ora della salvezza è la stessa della parola di Gesù: credere in lui è vivere, ritrovare la propria identità, perduta, di figli.
credette. Per la seconda volta si dice che il padre credette: prima alla parola di Gesù (v. 51) e ora al racconto dei «servi» che gli parlano del prodigio avvenuto. È, come già detto, la fede che il Vangelo propone al lettore. Il racconto di ciò che è avvenuto è sufficiente per operare il miracolo della fede, senza vedere. Questa fede in Gesù è appunto il passaggio dalla morte alla vita. È il miracolo che avviene al padre - e al lettore che, come lui, crede alla Parola che racconta il segno.
lui e la sua casa intera. L'uomo non è mai solo: è un tessuto di relazioni, malate o sane. La fede nella Parola guarisce il rapporto padre/figlio. La «casa» è il luogo primo dei rapporti, che condiziona gli altri. Essa è guarita dalla fede, perché finalmente l'uomo ritrova la sua casa ed è di casa con Dio. Lo stare insieme non è più un gioco di dominio/sudditanza, ma è quello di una famiglia, dove si rispecchia tra le persone il rapporto che ciascuno ha con il Padre. La fede non ci fa diversi dagli altri: ci fa semplicemente «casa», luogo vivibile e visibile, aperto a tutti gli uomini, generati dalla stessa Parola. Ora sia il padre che il figlio e i servi sono tutti fratelli nella fede.
v. 54: ora anche questo secondo segno fece Gesù. A Cana ci fu il primo segno che rivelò la sua gloria; ora il secondo. Nel primo credettero i suoi discepoli, che videro quanto aveva operato la Parola tramite coloro che l'avevano ascoltata. Ora un uomo crede direttamente alla Parola, anche senza vedere. Allora fu dato «il vino bello», ora «la vita». Giovanni, parlando del «secondo segno», ribadisce il legame stretto tra il vino bello e la vita (cf. anche v. 46): credere all'amore dello Sposo è la vita dell'uomo!
Dopo questo «secondo», Giovanni non numera più i segni. Questi due infatti contengono il principio e il fine di tutti gli altri, che è credere in Gesù per avere la vita. C'è un'allusione al libro dell'Esodo, quando il Signore opera due segni e dice a Mosè, incredulo sulla riuscita della sua missione presso gli egiziani: «Se non ti credono e non ascoltano la voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo. Se non credono neppure a questi due segni e non ascolteranno la tua voce, allora prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l'acqua che avrai presa dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,8s). A chi non crede al segno dell'amore e della vita, sarà dato il misterioso segno dell'acqua e del sangue (cf. 19,34)!