giovedì 28 giugno 2012

Ascoltare la Parola


Per la Solennità di oggi, 29 giugno, ho pensato di proporre un testo di Enzo Bianchi sulla Lectio Divina: che "ascoltare" la Parola nella Chiesa possa essere davvero il pane quotidiano di ciascun cristiano. Buona lettura!

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ENZO BIANCHI

ASCOLTARE LA PAROLA
Bibbia e Spirito: la «lectio divina» nella chiesa




PREMESSA


Con queste elementari note sulla lectio divina abbiamo voluto dare la possibilità di gustare nuovamente un metodo di lettura antico quanto la chiesa, metodo che aveva a sua volta profonde radici nel giudaismo. Non crediamo di aver detto cose nuove, semplicemente abbiamo fatto ricorso alla tradizione patristica e monastica, che della lectio divina ha fatto il proprio cibo con l’opus Dei, la liturgia della Parola, la preghiera[1].
Quasi quarant’anni fa concludevo il mio Pregare la Parola. Introduzione alla «lectio divina», frutto della riflessione attorno alla «fine dell’esilio della Parola» sancita dal movimento biblico e dalla riforma liturgica voluta dal Vaticano II. Un libro che in seguito avrebbe conosciuto un insperato e duraturo successo sia in Italia (è giunto ormai alla ventitreesima edizione) che all’estero (è stato tradotto in una ventina di lingue, compreso russo, greco, coreano, giapponese...). Un libro che nasceva da un vissuto comunitario che mi aveva marcato in profondità: in quegli stessi mesi, infatti, assieme a sei altri fratelli, mi impegnavo definitivamente a seguire il Signore nel celibato e nella vita comune in una comunità monastica che attorno alla Parola si era venuta costituendo e strutturando. Quanto andavo scrivendo allora con audacia pari all’incoscienza della giovane età non voleva essere perciò elaborazione di una raffinata «teoria», ma schietta condivisione di intuizioni che plasmavano la vita di semplici cristiani.
Anche per questo, per aver perseverato nel cammino monastico intrapreso, per aver continuato a praticare quotidianamente la lectio divina, non mi sono certo mancate in tutti questi anni le occasioni per approfondire e rimeditare l’argomento. Soprattutto credo di aver potuto toccare con mano — per pura grazia — anche nella mia povera, quotidiana ricerca della volontà di Dio, la verità di un adagio patristico reso celebre da Gregario Magna: «Divina eloquia cum legente crescunt». Sì, davvero la Scrittura cresce con colui che la legge! Così a più riprese sono nuovamente intervenuto sul tema della «lettura della Parola», continuando a cercare — nei padri della chiesa come negli autori contemporanei, nei mistici medievali come nei riformatori quell’unica, ardente passione: veder emergere dallo «sta scritto» la Parola, il Verbo fatto carne.
Occasione privilegiata di rivisitazione di questo argomento così centrale per la vita di fede come per l’evangelizzazione è stata poi per me, una quindicina di anni fa, la risposta all’invito dell’allora cardinale Ratzinger a redigere con lui e con padre Ignace de la Potterie un volume che fornisse alcune piste di cammino per l’esegesi cristiana della Bibbia: dallo stimolo e dal dialogo con loro nacque quindi un libro che poi presentammo insieme all’Università gregoriana e al Pontificio istituto biblico[2]. Accanto a questa esperienza unica, il ministero della Parola che ho continuato a esercitare dentro e fuori la mia comunità monastica, il confronto con le più disparate realtà ecclesiali — dalle parrocchie di campagna ai missionari in Africa e in Asia, dai raduni biblici nelle grandi capitali europee ai ritiri predicati in silenziose comunità religiose — mi hanno confermato e arricchito in ciò che è sempre stata una mia profonda convinzione: la lectio divina offre la possibilità di incontrare davvero, attraverso la Scrittura, colui che parla, la Parola vivente, Dio stesso. È quella lettura arante a permettere di attingere nel testo biblico la parola viva che interpella, vivifica, plasma, orienta l’esistenza cristiana, anche se il suo operare in noi resta misterioso.
La sua pratica mi pare ancor più importante nell’attuale stagione in cui assistiamo al ritorno di forme di religiosità e di fascino per il divino in cui si corre il rischio che «Dio», o perfino «Gesù Cristo», diventino parole vuote, pronte a essere riempite dalle nostre proiezioni e dai nostri desideri: a volte c’è da chiedersi se il Dio affermato e confessato dai cristiani non sia tanto il Dio vivente, rivelato attraverso Gesù, la cui umanità spiega, rivela, racconta Dio, quanto piuttosto un Dio frutto di sogni e aspettative umane. Allora dobbiamo davvero saper ascoltare, interpretare, pregare la Scrittura per poter accedere a una conoscenza autentica di Dio e perché questo incontro sfoci in una celebrazione di alleanza.
Consapevole anche delle derive cui può andare incontro una lectio divina snaturata rispetto all’alveo della grande tradizione ecclesiale — da un lato lo spiritualismo che ricerca nella Scrittura semplici emozioni che prescindono da un radicamento nella storia e nella cultura, d’altro lato il fondamentalismo che si attacca alla «lettera che uccide» anziché allo «Spirito che dà vita» — sono ritornato a più riprese con maggior incisività sul rapporto determinante tra lectio divina e vita della chiesa: una tematica fondamentale, che non a caso è stata posta da Benedetto XVI come tema del prossimo sinodo dei vescovi.
Di tutto questo cammino, personale, comunitario ed ecclesiale, queste pagine vogliono essere un’eco umile e fedele. Come già per il volume sopra ricordato, ci sarà chi vi troverà un più maturo frutto del mio quotidiano accostarmi alla Parola, chi vi avvertirà l’eco del mio spezzare la Parola per i fratelli e le sorelle della mia comunità, chi ancora crederà di cogliervi l’esperienza maturata in lunghi anni di predicazione della Parola ad ascoltatori di ogni tipo e latitudine. lo preferisco scorgervi solo un piccolo ma sincero segno di gratitudine verso quei testimoni del Verbo che il Signore mi ha fatto incontrare, quei «martiri» della fede che hanno saputo incarnare nella loro vita l’evangelo stesso in tutta la sua ricchezza. Sì, perché ascolta veramente la parola di Dio solo chi la mette in pratica: autentica comprensione del testo biblico è infatti l’obbedienza puntuale alla parola che il Signore non si stanca di rivolgerei. Sequentia sancti evangelii, «brano dell’evangelo» per l’oggi non è quindi quanto si evince con l’erudizione della scienza, ma la vita e la testimonianza dei santi, discepoli fedeli del loro Signore, Parola fatta carne.

Enzo Bianchipriore di Bose
Bose, 3 settembre 2008
memoria di Gregorio Magno,
papa innamorato delle sacre Scritture







PARTE PRIMA

BIBBIA E SPIRITO
LE STANZE E LE CHIAVI


Una bellissima tradizione ci è stata tramandata dall’Ebreo e riguarda globalmente tutta la divina Scrittura. Secondo quest’uomo, l’insieme della Scrittura divinamente ispirata, a causa dell’oscurità che è in essa, è simile a numerose stanze chiuse a chiave in un’unica casa; accanto a ogni stanza c’è una chiave, ma non quella a essa corrispondente, e cosi le chiavi sono disperse accanto alle stanze, ma nessuna corrisponde alla stanza presso cui è posta; secondo l’Ebreo è un’impresa enorme trovare le chiavi e farle corrispondere alle stanze che possono aprire. Analogamente noi comprendiamo anche le Scritture che sono oscure proprio quando prendiamo il punto di partenza della comprensione delle une presso le altre, poiché esse hanno il proprio principio interpretativo disperso in mezzo a loro. In ogni caso io ritengo che anche l’Apostolo suggerisca un metodo di approccio simile per comprendere le parole divine quando dice: Questo lo diciamo non con parole che insegna la sapienza umana, bensì con parole che insegna lo Spirito, accostando cose spirituali a cose spirituali (1Cor 2,13)[3].
Così si esprime Origene in un testo che enuncia il caposaldo, l’elemento portante di tutta la sua esegesi[4] e anche di ogni lettura spirituale della Scrittura: Scriptura sui ipsius interpres, la Scrittura si interpreta con la Scrittura.
Le chiavi della comprensione della Scrittura, dice Origene, si trovano all’interno della Scrittura stessa: questo implica l’unità di tutta la Bibbia. E implica anche l’ispirazione della Scrittura, il fatto cioè che le sue parole sono «pneumatiche», sono «spirito e vita» (Gv 6,63), contengono la dynamis dello Spirito, sicché la conoscenza che scaturisce dalla Scrittura è «insegnamento dello Spirito», è conoscenza per rivelazione (cf. Mt 11,25-27): infatti solo «colui che detiene la chiave di David» (Ap 3,7) può aprire le porte chiuse, solo «il germoglio di David» (Ap 5,5) può aprire il libro sciogliendone i sigilli, solo colui che ha ispirato i testi sacri può svelarne il senso[5].
Il procedimento della conoscenza scritturistica non vede dunque il testo biblico unicamente come «oggetto» di conoscenza, ma come «soggetto», sicché questa conoscenza avviene in un ambito di reciprocità, di dialogo, di relazione. Il testo biblico appare quindi testo ispirante, produttore di senso, utile per la salvezza (cf. 2Tm 3,15-16). Lo statuto proprio della Scrittura comporta perciò un approccio particolare, adeguato a essa, da parte dell’interprete: richiede la fede come spazio dell’incontro con un testo che dalla fede è nato.
Fede che dunque si configura come potenzialità ermeneutica, come chiave che apre l’accesso alla conoscenza del Signore tramite la frequentazione e il dialogo con le Scritture.
Anche di fronte a un testo biblico oscuro, il richiamo di Origene è al primato della fede:
Anzitutto credi, e allora troverai una grande e santa utilità sotto a ciò che credevi essere un ostacolo[6].
Lo scandalo si muta così in rivelazione grazie alla fede da cui poi scaturisce il rendimento di grazie. A partire dal testo della Lettera ai Romani 9,20-21 Origene argomenta affermando che la Scrittura non consegna risposte a qualsivoglia domanda le venga rivolta, sicché avviene nei riguardi della Scrittura proprio come avvenne nei riguardi di Gesù: «Quanti... senza fede chiedevano al Signore con quale potere compisse ciò che faceva... non furono ritenuti degni neppure di risposta»[7].
Quando invece fu il profeta Daniele, dunque un servo fedele e prudente, che interrogò il Signore perché
desiderò conoscere la volontà del Signore — per cui fu chiamato anche uomo dei desideri (Dn 9,23, secondo la versione di Teodozione) — non gli fu detto: «Chi sei tu?» (Rm 9,20), ma gli fu inviato un angelo a istruirlo su tutti i progetti e i giudizi di Dio. Pertanto anche noi, se desideriamo conoscere qualcosa dei segreti reconditi di Dio, se siamo uomini di desideri e non di contestazioni, ricerchiamo con fedeltà e umiltà i giudizi di Dio inseriti piuttosto velatamente nelle divine Scritture. Infatti per questo anche il Signore diceva: Scrutate le Scritture (Gv 5,39), sapendo che esse non si lasciano interpretare da coloro che, occupati in altre faccende, di quando in quando o ascoltano o leggono, ma da coloro che, con cuore onesto e semplice, con ininterrotta fatica e con continue veglie, scrutano più a fondo le divine Scritture[8].
Qual è dunque il lettore che la Scrittura richiede? Origene risponde affermando che si tratta di un uomo di desideri, non di contestazioni, di un uomo cioè che desidera veramente conoscere il Signore per aderire a lui, amarlo e compiere la sua volontà.
Ma questa bella espressione origeniana non viene forse incontro a quello che è il desiderio della Scrittura stessa, la sua finalità, la sua intenzionalità, almeno quale emerge dall’autocoscienza scritturistica enunciata dal primo finale del quarto evangelo? Dice infatti Giovanni 20,31:
Questi [segni] sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
La Scrittura esige il coinvolgimento del lettore, fa appello alla sua fede: in quest’ottica l’interpretazione si configura come incontro di desideri, e categorie quali sym-patheia o, come ricorda Louis Bouyer[9], em-patheia, non appaiono come corpi estranei alla dinamica della conoscenza delle Scritture, bensì sono al suo cuore.
Nella ricca e articolata metodologia esegetica origeniana rientrano diversi altri principi. Per esempio quello della pluralità di significati del testo biblico: fondato su Proverbi 22,20 e modellato in analogia con la tripartizione antropologica di carne-anima-spirito, questo principio interpretativo discerne tre sensi — letterale, morale, spirituale — racchiusi nelle parole della Scrittura[10].
Oppure il principio che, fondato sulla Prima lettera ai Corinti 10,6.11 («Queste cose avvennero come tipo per noi», «queste cose... sono state scritte a nostro ammonimento»), esige l’attualizzazione del testo biblico nell’oggi dell’interprete[11]. E in particolare la convinzione che la Verità è mistero e che dunque la Verità — il Verbo, il Figlio di Dio — non è esaurita dalla parola scritta ma la eccede. Commentando il secondo finale del quarto evangelo («Vi sono ancora molte altre cose che Gesù fece e che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere»: Gv 21,25), Origene discerne una dimensione di non-detto, di non-scritto all’interno della Scrittura, che è anch’essa rivelativa del mistero:
La grandezza delle realtà non solo non può essere consegnata negli scritti, ma non può nemmeno essere proclamata dalla lingua carnale, né può essere espressa nei dialetti e nelle parole umane[12].
Insomma: sia le parole che i silenzi della Scrittura sono rivelativi di colui che è «la Parola uscita dal silenzio»[13]. Egli è colui alla cui conoscenza le Scritture vogliono portare il lettore. Per questo Origene afferma: «Le Scritture nel loro complesso, per quanto comprese esattamente e a fondo, non costituiscono, penso, se non i primissimi elementi e un’introduzione del tutto sommaria rispetto alla totalità della conoscenza»[14]. Al tempo stesso è solo la Scrittura che, accostata nello Spirito santo, conduce il lettore oltre se stessa introducendolo nell’«al di là dello sta-scritto» (tò hypèr hà ghégraptai: cf. 1Cor 4,6): ma questa conoscenza è azione dello Spirito che si realizza solo nel lettore disposto a lasciarsi radicalmente coinvolgere da essa.
Non a tutti è dato indagare ciò che è «oltre quello che sta scritto», se non a condizione di assimilarvisi[15].
La conoscenza di Cristo cui la Scrittura intende condurre con le sue parole e i suoi silenzi è dunque azione pneumatica, frutto di interpretazione spirituale. Non è forse la Scrittura stessa che rimanda il lettore allo Spirito santo come proprio principio ermeneutico? Non è forse il dono dello Spirito che conferisce ai discepoli l’intelligenza delle parole della Scrittura e delle parole di Gesù stesso (cf. Gv 2,22; 7,39; 14,26)? Non è forse lo Spirito santo l’ermeneuta del non-detto di Cristo che ispira ai discepoli nella storia una fedeltà non letterale né legalistica, ma creativa all’evangelo? Dice Gesù:
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per ora non potete portarle; quando però verrà lui, lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità intera, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà ascoltato, e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà (Gv 16,12-14).
Dunque «le Scritture desiderano essere lette mediante lo stesso Spirito con cui sono state scritte; e tramite esso devono essere comprese»[16].




LA LETTURA SPIRITUALE DELLE SCRITTURE È ATTUALE?


Il richiamo all’esempio di Origene ha voluto essere esemplificativo — attraverso il suo rappresentante più significativo — di una tradizione e di una struttura dell’interpretazione biblica che «è la formula stessa dell’esegesi biblica cristiana, quale è stata praticata ininterrottamente fino al XVI secolo, prima che l’età critica non la convertisse in una semplice possibilità della lettura biblica»[17]. È dunque un richiamo alla lettura biblica come «atto esegetico totale, che integra le une alle altre quelle realtà testuali, liturgiche ed esistenziali che, spesso oggi, illanguidiscono nel loro isolamento»[18].
Alcuni decenni fa è sorto un dibattito acceso circa l’interpretazione della Bibbia nella chiesa, soprattutto circa l’esegesi scientifica nell’ambito ecclesiale[19]. In particolare, iniziò a farsi sentire con forza la necessità di rifare l’unità dell’esegesi, di ritrovare una lettura spirituale della Scrittura[20], un’esegesi, cioè, che fosse anche teologia, che sapesse riportare la Scrittura al cuore della spiritualità e innestare su di essa l’omiletica e la catechesi, l’iniziazione cristiana e la traditio fidei, che coinvolgesse la vita del lettore impegnandolo in una risposta di preghiera e di prassi.
Ai nostri giorni, e ormai da un certo tempo, si è resa urgente la necessità di distinguere una sana esegesi «spirituale» da letture spiritualistiche, allegoriche, letteraliste, fondamentaliste[21].
Nostra convinzione è che la necessità della lettura della Scrittura nello Spirito sia richiesta dalla centralità della Scrittura nella vita della chiesa e sia un compito decisivo per il presente e il futuro della chiesa.

La centralità della Scrittura nella vita ecclesiale

La riscoperta operata dal concilio Vaticano II di questo statuto della Bibbia nella chiesa, di questa sua centralità che nella chiesa cattolica era da tempo offuscata e financo smarrita, si esprime nella Dei Verbum attribuendo alla Scrittura il ruolo unificante dei quattro ambiti che costituiscono la vita della chiesa: nella liturgia infatti le Scritture «fanno risuonare... la voce dello Spirito santo» e per mezzo di esse «Dio viene... incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro» (DV 21); la predicazione «deve essere nutrita e regolata dalla sacra Scrittura» (DV 21); la teologia deve basarsi «sulla parola di Dio come fondamento perenne» e lo studio della Scrittura deve essere «come l’anima della teologia» (DV 24); la vita quotidiana dei fedeli deve essere segnata dalla frequentazione assidua e orante della Scrittura (cf. DV 25).
Insomma, il primato della Parola deve riplasmare il volto della chiesa facendo di ogni cristiano un servo della Parola (cf. Lc 1,2) e di ogni ministero un servizio della Parola (cf. At 20,20)[22] : «La predicazione pastorale, la catechesi e tutta l’istruzione cristiana, in cui l’omelia liturgica ha un posto privilegiato» (DV 24), devono trovare nella Scrittura la loro linfa vitale. La centralità della Scrittura nella chiesa è volta «ad apprendere la sovreminente conoscenza di Gesù Cristo» mediante l’assiduità con essa: «L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo» (DV 25). All’interno del cristianesimo — che «non è la religione della Bibbia, ma di Gesù Cristo»[23], che non è dunque una religione del Libro ma piuttosto «religione dell’interpretazione»[24] — questa centralità diviene effettiva e operante quando si accompagna a un atto di lettura che attraverso la perscrutatio delle Scritture epifanizzi il volto del Cristo, conduca alla sua conoscenza e immetta nella relazione coinvolgente, nell’alleanza con lui. Ma è lo Spirito santo che, fecondando le Scritture nel grembo della chiesa, svela il volto di Cristo, guida all’incontro con lui e orienta le esistenze personali e comunitarie a una vita in obbedienza alla Parola emersa dallo «sta scritto».
È dunque in base non soltanto ai procedimenti di analisi filologica, storica, letteraria, ma anche all’analogia fidei e all’azione dello Spirito santo che la lettura spirituale tenta di «assicurare un giusto equilibrio tra il rispetto dell’alterità del testo e il fatto che è dato per essere vissuto»[25], e in questo movimento recupera la tradizione come momento ermeneutico essenziale della Scrittura, come epiclesi sulla «lettera» biblica testimoniata nel tempo anche dal sensum fidelium e dalla storia della santità. Questa esegesi spirituale vuole dunque essere un approccio credente alla Scrittura, a partire da quella precomprensione specifica della fede grazie alla quale nella Bibbia può essere colta la dimensione di parola di Dio[26]; essa non è una «tecnica» e neppure un «metodo» in concorrenza con altri metodi, verso i quali anzi si riconosce debitrice di molte preziose e irrinunciabili acquisizioni! Essendo esegesi in ecclesia, essa cerca di attuare un raccordo tra il principio dell’unità della Scrittura, i metodi esegetici ed ermeneutici e il vissuto dei credenti, convinta che solo da questa sinfonia può nascere un’interpretazione autenticamente ecclesiale.
Volendo salvaguardare il primato e il mistero della Parola contenuta nelle Scritture, Parola che non è esauribile da alcun metodo, essa dichiara al tempo stesso la necessità e l’insufficienza dei metodi e relativizza il metodo quando questo, facendo della Scrittura la propria giustificazione, si assolutizza ergendosi a idolo. Scrive giustamente un’introduzione ai metodi storico-critici: «I metodi storico-critici sono imperfetti come tutti i metodi; essi non forniscono risultati certi, assoluti; non danno il senso del testo come se un testo non avesse che un solo e unico senso. Tuttavia forniscono un senso possibile in mezzo ad altri»[27]. È al reperimento del senso profondo del testo, a un’intelligenza del senso che divenga interpretazione totale dell’esistenza, che tende la lettura spirituale, l’esegesi come «atto globale».
L’interpretazione ecclesiale della Parola creatrice e redentrice suppone il gioco coerente di un’esegesi pluridimensionale di cui l’esegesi detta positiva o critica deve rappresentare una dimensione importante, ma soltanto una dimensione, nell’equilibrio vivente della cattolicità della fede[28].
La lettura spirituale avvicina la Bibbia nella convinzione che «tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la divina Scrittura parla di Cristo e tutta la divina Scrittura trova in Cristo il suo compimento»[29]:
essa è tutta ordinata al fine della conoscenza di Gesù Cristo, dell’autentica «gnosi» cristiana che è dinamica, coinvolgente, penetrativa, comunionale. Mossa dallo Spirito, che è ermeneuta della parola e del silenzio di Cristo e che guida verso la pienezza della verità (cf. Gv 16,13), essa tende a porsi come esegesi veramente cattolica, katà tò hòlon, che implica il lettore credente nel «mistero» della fede, e quindi nel testo biblico che lo testimonia, portandolo a rinnovare nella propria vita quell’alleanza e quel dialogo con il Signore che intessono l’intera Scrittura. L’esegesi scritturistica diviene così esegesi vivente, storia di santità, compimento della Scrittura.

Lunità della Scrittura

Del resto gli autori del Nuovo Testamento si muovono completamente all’interno dell’unità di tutta la Scrittura: essi «pensano» in continuità con le Scritture, in unità con quel complesso chiamato «la Legge di Mosè, i profeti e i salmi» (Lc 24,44) o «la Legge e i profeti» (Mt 5,17; 7,12) che non costituiva ancora il blocco compatto e chiuso che noi definiamo Antico Testamento. Se dunque la conoscenza storica esige che si stabilisca un rapporto, che si arrivi a entrare nella mentalità degli autori che si studiano, il presupposto dell’unità della Scrittura va preso estremamente sul serio. Come comprendere l’evento pasquale che è «secondo le Scritture» senza entrare nella prospettiva dell’unità della Scrittura? «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1Cor 15,3-4). Senza la testimonianza delle Scritture l’evento pasquale resta muto, si riduce alla stupita constatazione di una tomba vuota, e il Cristo non è più conosciuto ma rimane un estraneo come ai due discepoli di Emmaus: non è più predicabile come il Vivente, ma di lui si può solo fare un resoconto cronachistico o un onorevole necrologio (cf. Lc 24,19-24). Se invece il fatto della tomba vuota dopo tre giorni (Lc 24,1-3) viene letto alla luce della Scrittura e delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6b-7), allora può essere accolto nella fede come evento di resurrezione («Non è qui: è risorto!»: Lc 24,6), e può essere annunciato (cf. Lc 24,9), predicato (cf. At 2,22-36), tramandato (cf. 1Cor 15,3a), celebrato liturgicamente dalla comunità cristiana radunata (cf. Lc 24,34), confessato e messo per iscritto fino a diventare a sua volta Scrittura (cf. 1Cor 15,3b-4). Emerge già qui il rapporto intrinseco tra Bibbia e liturgia su cui ritorneremo, rapporto che è essenziale nel processo stesso di formazione del testo biblico.
Il caso dei salmi mostra bene che la risposta orante del popolo alla parola di Dio è parte integrante di questa stessa Parola (C. Westermann): i salmi sono il luogo biblico in cui con maggiore forza si evidenzia il carattere divino-umano della Scrittura. E sono il luogo esegetico in cui si epifanizza al meglio il fenomeno intrabiblico delle riletture (A. Gelin) e delle riscritture, per cui la redazione finale di un testo, la sua forma canonica, nasconde una stratificazione di riformulazioni del testo originario dovute alla sua «vita»: al suo uso liturgico, al suo adattamento a luoghi e tempi differenti da quello di partenza. E questo implica una polisemia della lettera stessa, una pluralità di significati. Un dato acquisito dal metodo storico-critico è la distanza fra testo ed evento, sicché il testo è già interpretazione teologica dell’evento «e il senso letterale è già, inizialmente almeno, il senso spirituale»[30]. Si pensi poi ai salmi messianici in cui dei testi composti in epoca monarchica e utilizzati nel rito di intronizzazione di un re, un mashiach, hanno continuato a essere utilizzati liturgicamente, cantati e pregati anche dopo l’esilio e la scomparsa definitiva della monarchia da Gerusalemme. L’uso liturgico ha rivitalizzato questi componimenti facendone non la memoria del messia di un tempo passato, ma la celebrazione del messia futuro, veniente: li ha cioè caricati di una valenza escatologica estranea alloro tenore originario e ha accresciuto la fede e la speranza messianica del popolo.
La semplice storia di un solo testo arriva a evidenziarlo come portatore di una molteplicità semantica: a rigore dunque il senso storico di un testo è la storia dei significati che quel testo ha assunto attraverso la sua trasmissione (paradosi), le sue riletture (deuterosi), il suo uso liturgico fino alla fissazione canonica. Si perviene così, a grandi linee, all’intuizione rabbinica e patristica della pluralità di sensi del testo biblico. Commentando Geremia 23,29 che paragona la parola di Dio a un martello che frantuma la roccia, rabbi Jishma’el afferma: «Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure un solo passo scritturistico dà luogo a molteplici sensi», per cui «ogni versetto si apre a numerose letture»[31]. E ancora: «In ogni parola brillano molte luci»[32]; «la Bibbia ha settanta volti»[33]... Non sta forse scritto: «Dio ha pronunciato una parola, due ne ho ascoltate: a Dio appartiene la forza» (Sal 62,12)? Tale è anche la convinzione patristica: «Le parole della sacra Scrittura sono pietre squadrate»[34] le cui diverse facce danno differenti sensi; «dalle stesse parole della Scrittura... si ricavano più sensi (ex eisdem Scripturae verbis... plura sentiuntur)... le stesse parole vengono intese in più modi (eadem verba pluribus intellegantur modis[35]. Si potrebbe arrivare a dire con Hans Urs von Balthasar:
I quattro sensi scritturistici celebrano una loro nascosta resurrezione nella teologia odierna: infatti il senso letterale appare come quello da far emergere in quanto storico-critico, quello spirituale in quanto kerigmatico, quello tropo logico in quanto esistenziale e quello anagogico come l’escatologico[36].
Quell’elemento così tipico della lettura spirituale della Scrittura che è il coinvolgimento del lettore — che implica la coscienza che la Scrittura parla della e alla propria esistenza oggi ed esige una risposta di preghiera e di vita; che implica inoltre il carattere ecclesiale-liturgico della Scrittura e il riferimento essenziale alla tradizione, cioè al «tessuto vivente sul quale si inscrive tutta la Scrittura»[37] — viene oggi raggiunto, per aliam viam, dalle svariate discipline che si occupano dell’atto di lettura[38]. Il testo non è solo un prodotto di determinazioni storiche, ma è a sua volta elemento produttore di storia e può dispiegare il suo senso quando è attivato da una comunità che lo legge e lo recepisce come vitalmente rivolto a sé. La storicità di un testo biblico non è esaurita dalla conoscenza archeologica dell’autore, dei destinatari, della data e del luogo di composizione, perché il testo canonico estende a dismisura, nello spazio e nel tempo, la cerchia dei destinatari sottraendo i vari libri ai loro autori umani e dichiarandone autore Dio per la mediazione dello Spirito. Il testo biblico canonico esige perciò anche una lettura teleologica che colga la sua posteriorità, i suoi effetti nella storia, la sua vita nella tradizione: il testo non solo «ha» un senso, ma «produce» senso.
A questa Wirkungsgeschichte (H.-G. Gadamer)[39] l’esegesi biblica ha cominciato a prestare attenzione: al convegno della Studiorum Novi Testamenti Societas del 1990 l’esegeta svizzero Ulrich Luz, svolgendo una relazione su «Il testo del primato (Mt 16,17-19) alla luce della storia del suo influsso (Wirkungsgeschichte)», ha descritto la «storia degli effetti» come tensione verso la totalità della comprensione che esamina il modo in cui i testi furono compresi e vissuti nella storia, tiene in considerazione il potere performante dei testi che origina novità nella comprensione, include la vita dell’uomo: «La storia degli effetti rivela ciò che siamo divenuti attraverso i testi nel corso della storia e ciò che potremmo essere divenuti»[40].
Interrogandosi poi sui criteri di verità, cioè di adesione autentica al senso del testo, delle svariate interpretazioni sorte nel corso della storia, Luz ha proposto un criterio di corrispondenza alle linee di vita di Gesù e un criterio pratico, il criterio dellamore: «La nuova interpretazione è vera in quanto suscita e causa amore», amore da intendersi cristologicamente come realtà del Signore risorto[41]. Viene così ripreso il criterio già formulato da Agostino per cui l’interpretazione delle Scritture deve essere utile a edificare la carità: «Chiunque crede di aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se mediante tale comprensione non riesce a innalzare l’edificio di questa duplice carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite»[42]; si deve dunque vegliare tanto a lungo sulle Scritture e con così grande e amorosa attenzione «fino a quando l’interpretazione non raggiunga i confini del regno della carità (donec ad regnum caritatis interpretatio perducatur[43]. Si ritrova così un principio essenziale della lettura spirituale, principio che attraversa tanto l’esegesi rabbinica[44] quanto quella patristica[45]: si comprende la Scrittura nella misura in cui la si vive[46].
Per il credente che, grazie appunto alla fede, riconosce nella Scrittura la Parola vivente, penetrante, che giudica le sue profondità (cf. Eb 4,12) e che vi discerne un’interpellazione che investe la sua vita qui e ora, questo criterio lo porta a fare l’esegesi della Scrittura che chiede di amare Dio e i fratelli (cf. Dt 6,5; Lv 19,18; Mc 12,29-31; Mt 22,37-40; Lc 10,26-28) amando appunto Dio e i fratelli nella vita e lo conduce a sintetizzare cristologicamente questo comando del mandatum novum: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34).
Da ultimo è significativo ricordare che ricerche esegetiche ed ermeneutiche intravedono la verità profonda del testo in sue dimensioni nascoste, interiori, e invitano ad andare «al di là del versetto» (E. Lévinas), «oltre la parabola» (V. Fusco) per intravedere la verità del versetto e della parabola. Il non-detto del testo è significativo[47] e questo vuol dire che l’operazione di intelligenza del testo comporta un inter-legere, un leggere tra le righe, e un intus-legere, un leggere in profondità entrando nell’interiorità nascosta del testo, nell’intimità della vita divina racchiusa dalle parole scritte, per giungere a quella conoscenza coinvolgente del Signore che è un vero (ri)nascere-con lui a vita nuova.

Langustia spirituale

Essendo la lettura della Scrittura un «atto ecclesiale», non può essere considerata e affrontata solo come problema tecnico, ma deve essere situata nel più ampio contesto ecclesiale e antropologico. Viviamo infatti in un contesto culturale che, dominato com’è dal paradigma dell’homo technologicus, appare parcellizzato in una molteplicità di specializzazioni, rattrappito su di sé per assolvere le esigenze e per mantenere i ritmi necessari alla propria stessa sussistenza e quindi incapace di grandi respiri, di dischiudere orizzonti vasti e aperti. Un clima che, segnato dall’ansia del breve periodo, resta costretto all’esteriorità, alla superficie della realtà, e che dunque, per molti versi, potremmo definire di «angustia spirituale».
Si evidenziano così numerosi ostacoli che rendono estremamente problematico l’accesso alle Scritture come a luogo produttore di senso e di speranza, ispiratore di prassi, capace di agire sulla persona e sulla vita. Queste difficoltà sorgono nel clima culturale dominante: consumismo, imperativo dell’efficienza e della produttività, primato dell’immagine e del suono, mito della spontaneità e del «tutto e subito», velocizzazione dei ritmi sociali e di lavoro, occupazione e organizzazione massiccia del tempo libero individuale, eccetera; e anche all’interno della chiesa: frattura irrisolta tra preghiera e vita e, più ampiamente, tra spiritualità e vita, tra piano spirituale e piano umano, mancanza di padri spirituali, primato accordato alle molteplici attività parrocchiali e pastorali, burocratizzazione della vita parrocchiale e diocesana, dimissione sovente constatabile da parte dei presbiteri dal compito essenziale di trasmissione della «gnosi» cristiana, della conoscenza della parola di Dio (cf. Mal 2,7)... Tali ostacoli possono da un lato ingenerare il senso dell’inattualità della Scrittura e, dall’altro, ridurre la lectio biblica a un’attività fra le tante. Inoltre in un mondo in cui si legge poco, si legge in fretta, si legge spesso per distrarsi, si legge soprattutto per consumare, si legge per informarsi cercando di immagazzinare il massimo possibile nel minimo tempo, la lettura di un libro esigente come la Bibbia, lettura chiamata a divenire scoperta di una presenza e quindi incontro e relazione con l’Altro, non è certo immediatamente motivata.
Emerge pertanto oggi una pressante domanda di senso che si declina come bisogno di significato della vita e come ricerca di direzione, richiesta di orientamento e ordinamento di tutta la sfera relazionale in cui si articola l’esistenza personale. In un contesto di anonimato e concorrenzialità, spersonalizzazione e individualismo si fa strada l’esigenza di una cultura della presenza; dall’atomizzazione e frammentazione della vita odierna sorge un anelito di unificazione e di comunione, il bisogno di un riferimento unificante che salvi dalla disgregazione l’io personale sedotto da molteplici tentazioni centrifughe; all’imperativo attuale della produttività e dell’efficienza, idolo cui è sacrificato l’umano, si affianca il gemito che anela gratuità e recupero della dimensione dell’essere sulla dominante del fare; da una situazione di opulenza, di abbondanza, di possesso di molte cose emerge l’istanza di semplificazione, di riduzione all’essenziale, di passaggio dall’esteriorità alla profondità, dal molteplice all’unitario: un’istanza di radicalità.
Nell’ambito ecclesiale questo significa un ritorno alle fonti, alla radice che può far rifiorire unità dove c’è divisione e scissione, e riaprire spazi e prospettive dove c’è soffocamento; significa riandare al primato e all’essenzialità della fede e della conoscenza di Gesù, il Signore — primato cui è sottomesso e ordinato anche 1’atto ecclesiale di lettura delle Scritture — nella coscienza che il cristiano è anzitutto colui che è definito dalla relazione di fede e di amore che lo unisce al suo Signore (cf. 1Pt 1,8). In questo senso la diffusione del ricorso alla Scrittura mediante la pratica della lectio divina, prassi fiorita negli anni postconciliari anche fuori dei tradizionali ambiti monastici, ci sembra esemplare di questo recupero della radicalità cristiana e del tentativo di saldare in unità preghiera e vita, spiritualità e autenticità umana.






PAROLA DI DIO E SCRITTURA SANTA



Se i primi due capitoli di questa riflessione fornivano alcuni elementi di risposta al perché dell’esegesi spirituale, quelli che seguono si interrogano sul come, sul chi e sul dove della stessa, ovvero sul modo, sul soggetto e sul luogo della lettura spirituale della Scrittura. Per far questo occorre preliminarmente dire qualcosa riguardo allo statuto proprio della Scrittura e sul suo posto all’interno della chiesa.

La Scrittura contiene la parola di Dio

Che rapporto intercorre tra parola di Dio e Bibbia, tra Parola e Scrittura? È la stessa testimonianza biblica che mostra che non vi è coincidenza tra le due realtà e che la Parola eccede la Scrittura e non ne è esaurita.
La parola di Dio è un’energia, una realtà vivente, operante, efficace (cf. Is 55, 10-11; Eb 4,12-13), eterna (cf. Sal 119,89; Is 40,8; 1Pt 1,25), onnipotente (cf. Sap 18,15). Dio parla e la potenza della sua parola si manifesta negli ambiti della creazione e della storia. Dio parla e la sua parola «chiama all’essere ciò che non è» (Rm 4,17), è parola creatrice (cf. Gen 1,3 ss.; Sal 33,6.9; Sap 9,1; Eb 11,3) ed è parola instauratrice di storia: non a caso il termine davar («parola») è utilizzato dalla Bibbia anche nel significato di «storia» (cf. 1Re 11,41; 14,19.29; 15,7.23.31 e passim). La parola di Dio è dunque realtà ben più ampia della Scrittura. Il davar è essenzialmente realtà teologica, è rivelazione di Dio, «è l’intervento di Dio nell’evoluzione morale e fisica del mondo»[48], è il dirsi di Dio che sempre si accompagna all’invio del suo spirito, della sua ruach — nella Bibbia infatti «lo spirito e la parola sono due forme di rivelazione costantemente contemporanee»[49] — e diviene così un darsi, un instaurare una presenza dialogica che incontra l’uomo nella berit, nell’alleanza.
Il Nuovo Testamento dirà che negli ultimi giorni «Dio ha parlato nel Figlio» (Eb 1,2): questi, l’Unigenito del Padre, è la Parola definitiva di Dio. Egli è il Logos che era in principio presso Dio, era Dio, ha presieduto alla creazione (cf. Gv 1,1 ss.) e si è fatto carne (cf. Gv 1,14) nascendo da donna (cf. Gal 4,4) per la potenza dello Spirito santo (cf. Lc 1,35). Nell’economia neotestamentaria la parola di Dio diventa il «tu» del Padre, il Figlio stesso che narra il Padre e che apre ai credenti la via alla comunione con il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18). Appare allora chiaro che la Scrittura non è immediatamente parola di Dio e che pertanto non è esatto dire che la Bibbia è parola di Dio.
È estremamente significativo, a questo proposito, l’iter percorso da un passaggio della Dei Verbum (nr. 24) prima di giungere alla formulazione finale. Nel textus prior si diceva:
Le sacre Scritture non solo contengono la parola di Dio, ma sono veramente parola di Dio.
Nel textus emendatus questo passo conobbe un primo ritocco consistente nell’omissione del «non solo» (non tantum), così che suonava:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e sono veramente parola di Dio.
Giustamente però i padri conciliari non si limitarono a questa correzione e rielaborano ulteriormente il testo con l’inserzione di un’espressione di capitale importanza che si trova sia nel textus denuo emendatus che nel textus adprobatus:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate (quia inspiratae), sono veramente parola di Dio (verbum Dei).
Questa affermazione va accostata a quella di Dei Verbum 9 (assente nel textus prior):
La sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito divino[50] .
La Scrittura è verbum Dei o locutio Dei in quanto ispirata divinamente: dall’evoluzione dei testi sembra emergere la preoccupazione dei padri conciliari di evitare l’affermazione che la Bibbia è direttamente e immediatamente parola di Dio. Quest’ultima infatti trascende la Scrittura, e poiché gli autori biblici sono e restano uomini, noi dobbiamo dire che «la parola di Dio è contenuta nelle Scritture» e che queste sono parola di Dio solo grazie allo Spirito santo. Riprendendo da Origene l’interpretazione allegorica dell’episodio in cui Gesù, montato su un’asina e un puledro, entra in Gerusalemme, possiamo dire che «le Scritture, Antico e Nuovo Testamento, trasportano il Logos di Dio»[51], la parola di Dio. Oppure, con Gaudenzio da Brescia:
«L’intero corpo della divina Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, contiene il Figlio di Dio»[52].
Nell’economia giudaica la Scrittura è un «portaparola», «l’interprete di una parola originaria essa stessa sottratta all’interpretazione», «il testimone del processo per cui il davar, questa parola infinita, si è contratta nelle lettere quadrate pur senza sincronizzarsi con i segni che la captano», senza esserne esaurita[53]. La Torà scritta è ormai codificata, un insieme definito: per aprirla (patach) occorre scrutarla, sollecitarla (darash) con l’infinito lavoro di interpretazione. La Torà stessa esige di essere interpretata, come appare dalle parole che si trovano al suo cuore: il Talmud riferisce una tradizione secondo cui il computo delle parole della Torà mostra che il suo centro è costituito dal verbo raddoppiato darosh darash («fece intense ricerche») di Levitico 10,16. Da questa radice verbale proviene anche il termine midrash.
I primi sapienti erano chiamati soferim perché contavano (verbo safar) ogni lettera della Torà. Essi dicevano che… l’espressione darosh darash (Lv 10,16) segna la metà delle parole della Torà[54].
Analogamente, nell’economia cristiana, la Scrittura è il testimone della parola di Dio, ma non coincide con essa. Il Figlio Gesù Cristo, parola eterna di Dio, non è contenuto solamente nella parola umana ed esaurito da essa, e anche i quattro evangeli, con parole umane differenti e da diverse prospettive, si avvicinano alla parola eterna, ma non la esauriscono. E poiché non vi è immediatezza di coincidenza tra Parola e Scrittura[55], ma la Parola è infinitamente più grande di tutto ciò che è nella Scrittura, essa può essere ascoltata, colta, solo grazie all’interpretazione dello Spirito, il quale deve spiegare ciò che è depositato nelle Scritture sul Figlio e sul Padre. Gesù non ha scritto nulla e il Nuovo Testamento è già interpretazione: esso è testimonianza del Cristo che ha interpretato la Torà compiendola, è rilettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento) alla luce della fede nel Cristo risorto e testimonianza della vita e del ministero, della morte e della resurrezione di Gesù alla luce delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento).
Se dunque la Parola precede ed eccede la Scrittura, è anche vero che, per certi aspetti, la Scrittura precede la Parola, sicché tra Parola e Scrittura si instaura una pericoresi, una circolarità: «La Parola avvenuta diviene Scrittura proprio per tornare sempre di nuovo a essere Parola con l’aiuto della Scrittura e cosi realizzarsi come Parola interpretante la Scrittura»[56].
La comprensione cristiana ribadita in tutta la tradizione è che «Christus in littera continetur»[57]: «La Scrittura è dunque tutta intera un grande ‘sacramento’ che contiene in una specie di involucro sensibile il mistero della salvezza che si incentra in Cristo[58]. Sotto la guida dello Spirito devo inoltrar mi attraverso la ‘lettera’ fino alle profondità del mistero ove mi incontro con lui»[59]. La comprensione tradizionale della Scrittura ha perciò sempre fatto ricorso all’analogia dell’incarnazione.

Lanalogia dellincarnazione

La lettura credente della Scrittura la confessa come corpo di Cristo: «Il suo corpo è la trasmissione ininterrotta delle Scritture»[60]; il corpo scritturistico è tradizionalmente considerato, per analogia con il corpo fisico del Cristo, come forma di incorporazione (ensomatosis) del Logos.
Il Credo stesso pone uno stretto parallelismo tra l’incarnazione del Verbo nella vergine Maria (et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine) e il farsi carne della parola di Dio nella parola dei profeti (credo in Spiritum Sanctum... qui locutus est per prophetas): l’una e l’altra operazione sono presiedute dallo Spirito santo.
Come c’è una kenosi, una discesa della Parola nella carne (sarx), cosi c’è una kenosi, un abbassamento della Parola in parole umane, in parole scritte (graphé). Questa analogia dell’incarnazione, che ritorna continuamente nei padri, è ripresa dalla Dei Verbum:
Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza, affinché comprendiamo l’ineffabile benignità di Dio e quanto egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini (nr. 13).
La Dei Verbum riprende il tema biblico e poi patristico della condiscendenza (synkatàbasis) di Dio, l’atteggiamento cioè che designa il piegarsi, il discendere di Dio necessario perché l’uomo venga da lui raggiunto nella situazione in cui si trova. La condiscendenza è l’atto misericordioso con cui Dio pone la sua dimora tra gli uomini: questo atto è rivelato sia dal farsi Scrittura che dal farsi carne della parola di Dio. Ma la condiscendenza, che pure ha portato la Parola a rendersi presente in testi scritti sottomessi ai rischi della redazione e della trasmissione di un testo e che ha presieduto all’incarnazione del Verbo fino alla morte e alla morte di croce, non ha pregiudicato la verità e la santità di Dio.
Se il Figlio si è fatto carne ed è divenuto simile in tutto agli uomini «eccetto il peccato» (Eb 4,15), la parola di Dio è entrata nella parola umana, nella Scrittura, senza divenire per questo «menzogna» o «peccato», ma «fatta salva la verità e la santità».
Ecco lo scandalo dell’incarnazione e della Scrittura! Come si deve riconoscere il Cristo in Gesù di Nazaret (cf. Mc 8,29), il Figlio di Dio nel crocifisso (cf. Mc 15,39), il Santo in colui che è stato reso peccato (cf. 2Cor 5,21), il Giusto nell’annoverato tra i malfattori (cf. Lc 22,37), la Presenza di Dio nel luogo a-teo della crocifissione[61], cosi si è chiamati a discernere la parola di Dio nella Scrittura umana, l’unica Parola nella molteplicità dei libri, nella diversità delle forme espressive, nelle tensioni e nelle contraddizioni dei contenuti e delle prospettive teologiche, a riconoscere l’azione dello Spirito nella storicità costitutiva del testo scritturistico: tradizione orale, stesura scritta, rilettura e riscrittura, corruzioni, glosse e rimaneggiamenti nella trasmissione del testo... Chi accetta il mistero dell’incarnazione può anche accettare il mistero della parola di Dio nelle Scritture, e viceversa: ma questa è operazione pneumatica che avviene nella fede.
La parola di Dio va accettata nell’espressione incompleta e umana, così come la qualità divina del Figlio va accettata nella carne fragile e umana di Gesù. Questa analogia tra Scrittura e incarnazione è stata molto sondata dai padri della chiesa, soprattutto a partire da Origene[62], e in occidente è soprattutto Agostino che ha saputo mostrare come la pienezza della rivelazione di Dio sia avvenuta tramite una kenosi che si è evidenziata nell’umiltà della lettera e nell’umiltà della carne:
Ben ricorda la vostra carità come, pur essendo uno solo il discorso di Dio che si sviluppa in tutta la sacra Scrittura, e uno solo il Verbo che risuona sulla bocca di tanti santi, il quale essendo in principio Dio presso Dio, non conosce sillabazione perché è fuori del tempo (né dobbiamo meravigliarci se, a motivo della nostra debolezza, egli si abbassò ad articolare le nostre parole, quando si abbassò per assumere la debolezza stessa del nostro corpo)[63]...
In oriente, sulla scia della tradizione origeniana, Massimo il Confessore ribadisce questa comprensione:
Il Logos di Dio è detto carne non solo perché si è incarnato, ma perché il Dio Logos inteso semplicemente nel principio presso Dio Padre (cf. Gv 1,1)... quando viene agli uomini... dialogando a partire da cose a essi familiari, cioè presentandosi per mezzo di una varietà di racconti, enigmi, parabole e discorsi oscuri, diventa carne. Infatti, al primo contatto, il nostro intelletto non può accostarsi al Logos nudo, ma incarnato, cioè alla varietà delle sue espressioni: Logos nella sua natura, ma carne nel suo apparire. Cosicché i più credono di vedere la carne e non il Logos, anche se è in verità il Logos. Infatti il senso della Scrittura non è quello che sembra ai più. Perché il Logos diventa carne mediante ciascuno dei termini scritti[64].
Come l’incarnazione è finalizzata all’incontro e alla comunione, al dialogo e all’alleanza tra Dio e uomo, così anche la Scrittura: «Sempre il Verbo si è fatto carne nelle Scritture per porre la sua tenda tra di noi», scrive Origene[65], applicando alla Scrittura ciò che il Prologo del quarto evangelo dice dell’incarnazione (cf. Gv 1,14). Nelle Scritture è contenuto il Cristo come Verbum abbreviatum[66], come Parola unica di Dio che condensa e sintetizza in sé le molte parole attraverso cui Dio si è progressivamente rivelato, Parola già presente come Verbum incarnandum nell’Antico Testamento.
La Scrittura è così costituita mediatrice dell’unico Verbo di Dio: analogamente all’eucaristia, essa «contiene il Signore come Verbo e come Spirito[67] e, come l’eucaristia, comunica il Signore a chi l’accosta nella fede e sotto la guida dello Spirito.

Parola ed eucaristia

Questo parallelismo tra Parola ed eucaristia è stato insistentemente ribadito dal concilio Vaticano II in molti testi: Sacrosanctum Concilium 48; 51; Dei Verbum 26; Ad Gentes 6; 15; Presbyterorum Ordinis 18; Perfectae caritatis 6; ma soprattutto in Sacrosanctum Concilium 56 e Dei Verbum 21.
Dice la costituzione liturgica:
La liturgia della Parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto (SC 56).
Viene così affermato che la chiesa realizza la sua essenza nella liturgia in cui Scrittura e pane diventano, attraverso il metabolismo, parola e corpo del Signore. Vi è cioè un’unità intrinseca tra Parola e sacramento, realtà inclusive l’una nell’altra che, nella loro pericoresi, epifanizzano nell’oggi la pienezza dell’evento di salvezza compiutosi nel Signore Gesù Cristo.
La Dei Verbum afferma:
La chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per (sicut et) il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli (nr. 21).
Il testo finale, purtroppo, ha molto affievolito il parallelismo tra Scrittura e corpo del Signore sostituendo il «velut» del textus denuo emendatus con «sicut et» per venire incontro a quei padri che temevano la troppo stretta assimilazione (nimis assimilare) della mensa della Parola e di quella dell’eucaristia.
Lo slittamento da «velut» a «sicut et», rispetto alla precedente stesura, sottolinea così il diverso modo in cui la chiesa venera Scrittura e corpo del Signore. Questo e anche altri testi conciliari sopra ricordati risentono certo delle strozzature congiunturali che durante i dibattiti in aula portarono a soluzioni di compromesso, e tuttavia hanno aperto una strada che occorre proseguire per attuare lo spirito del concilio stesso. Del resto l’intima connessione tra Parola ed eucaristia è radicata nella stessa testimonianza scritturistica, è attestata dai padri della chiesa fin da Ignazio di Antiochia, è ribadita dagli autori cistercensi e vittorini nel medioevo, ed è confermata dall’uso, almeno a partire da Origene, di uno stesso linguaggio simbolico e teologico per parlare dell’incarnazione, delle Scritture e dell’eucaristia. Nel capitolo 6 dell’Evangelo di Giovanni il Cristo si proclama «pane di vita» (vv. 35.41.48.51) in un duplice senso: in quanto Logos, parola di Dio, rivelatore del Padre, e in quanto cibo e bevanda eucaristici[68]. Se Ignazio di Antiochia afferma di rifugiarsi «nell’evangelo come nella carne di Gesù»[69], Girolamo scrive:
Poiché la carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda, secondo il senso anagogico, questo è l’unico bene nel mondo presente: cibarsi della sua carne e del suo sangue non solo nel mistero dell’altare, ma anche nella lettura delle Scritture. Vero cibo e vera bevanda, infatti, è quello che si riceve dalla parola di Dio, cioè la conoscenza delle Scritture[70].
Nella tradizione si arriva così a parlare di Gesù che spezza il pane e spezza le Scritture, di manducazione del pane e manducazione delle Scritture (del resto esistevano già gli esempi biblici di Ezechiele che mangia il rotolo scritto che Dio stesso gli porge: cf. Ez 2,8-3,3, e di Giovanni il veggente che divora il piccolo libro preso dalla mano dell’angelo: cf. Ap 10,8-11), della Parola che si fa carne in Maria e della Parola che si incarna nelle Scritture, del Verbo concepito per opera dello Spirito santo in Maria e del Verbo concepito nella lectio divina per Spirito santo in ogni credente.
I padri mostrano di avere chiara coscienza del fatto che la lettura della Scrittura è incontro con Dio e instaurazione della comunione con lui come avviene nel sacramento eucaristico. Girolamo scrive: «Preghi? Parli con lo Sposo. Leggi? È lui che ti parla»[71], e Ambrogio di Milano: «Parliamo con lui [Dio] quando preghiamo; lo ascoltiamo quando leggiamo gli scritti ispirati da Dio»[72].
Quando dunque la Scrittura è accostata nello Spirito santo, è letta nella sua unità in Cristo, è accolta con fede nel cuore del credente all’interno della comunità ecclesiale, allora essa dispiega la sua efficacia di nutrimento potente, di cibo dato da Dio, di «pane di vita». A partire dalle affermazioni bibliche che parlano di fame e sete della parola di Dio, e dunque di questa come cibo e nutrimento spirituale[73], è scaturita una tradizione patristica che ha sviluppato questo tema mostrando il legame fra cibo della Parola e cibo eucaristico e giungendo a parlare delle due mense: la tavola della Parola e la tavola del pane e del vino eucaristici.
La parola di Dio è cibo vitale per il credente: «Chi non si nutre della parola di Dio, non vive»[74]. Questa parola è efficace, non è neutrale, anzi porta con sé un giudizio: «La parola di Dio è la nostra manna; e la parola divina, venendo a noi, porta agli uni la salvezza, agli altri il castigo»[75].
La Scrittura ha dunque una valenza sacramentale in quanto può operare il contatto con il Cristo che tramite essa parla:
Chi comprende perfettamente il significato di uno scritto apostolico senza deformarlo riceve, con l’apostolo, il Cristo che parla e che vive con l’apostolo, e possiede pure l’insegnamento del Cristo[76].
Scriverà Ruperto di Deutz:
La totalità della Scrittura è l’unica parola di Dio... Quando dunque leggiamo la santa Scrittura, tocchiamo la parola di Dio e abbiamo dinanzi agli occhi il Figlio di Dio come in uno specchio e in enigma (1Cor 13,12)[77].
L’autore del De unitate Ecclesiae conservanda afferma in modo lapidario: «Per corpo di Cristo si intende anche la Scrittura di Dio»[78].
Scrittura ed eucaristia sono dunque entrambe corpo sacramentale del Cristo: le parole dell’istituzione eucaristica si riferiscono adeguatamente anche alla parola della Scrittura. Scrive Origene:
Non quel pane visibile che teneva tra le mani, il Dio Verbo chiamava suo corpo, bensì il Verbo nel cui mistero quel pane doveva essere spezzato. E non quella bevanda visibile chiamava suo sangue, ma il Verbo nel cui mistero quella bevanda doveva essere versata[79].
E Girolamo, sulla scia di Origene:
Io considero l’evangelo come il corpo di Gesù... E quando dice «chi mangia la mia carne»... benché questo possa intendersi anche del sacramento, tuttavia corpo e sangue di Cristo, in senso più vero, è la parola delle Scritture[80] .
Questo non significa negare la realtà di quel corpo eucaristico che Origene chiama «tipico e simbolico»[81], ma attestare che il corpo ricevuto nell’eucaristia è simbolico in rapporto al Logos stesso di cui la Scrittura è, in senso più proprio e profondo, corpo e sangue[82].
La Scrittura, carne e sangue della parola di Dio, è cibo e bevanda destinata a saziare tutta l’umanità[83]; accostarsi alle Scritture significa pertanto mangiare e bere il Cristo presente nelle Scritture:
Bevi tutt’e due i calici, dell’Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo (quia in utroque Christum bibis)... La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora... non di solo pane vive luomo, ma di ogni parola di Dio (Lc 4,4)[84].
La liturgia eucaristica è il memoriale dell’evento in cui Gesù ha raccolto la Scrittura tutta nelle sue mani, proprio come il pane eucaristico e l’ha offerta ai credenti affinché diventasse loro cibo e sostentamento. Val la pena di ricordare l’audace testo di Ruperto di Deutz contenuto nel suo commento a Giovanni:
[Gesù] prese il libro... e lo aprì, cioè ricevette dalla potenza di Dio tutta la santa Scrittura per adempierla in se stesso... Il Signore Gesù dunque prese il pane delle Scritture nelle sue mani quando, incarnato secondo le Scritture, subì la passione e resuscitò; allora egli prese il pane nelle sue mani e rese grazie quando, adempiendo le Scritture, offrì se stesso al Padre in sacrificio di grazia e di verità[85].
La tradizione liturgica delle chiese d’oriente e d’occidente ha sempre venerato la Scrittura come la persona vivente del Signore riconoscendone la presenza in essa come nel pane e nel vino eucaristici[86]. Tra Scrittura ed eucaristia vi è dunque un rapporto intrinseco, una pericoresi. Di entrambe l’unico fondamento è l’autodonazione di Dio che emette il Verbo: in entrambe Dio si dona e questa donazione avviene in virtù dello Spirito santo. L’epiclesi è dunque essenziale a ogni celebrazione della Parola — che in virtù della sacramentalità della Scrittura ha non solo una propria legittimità, ma anche una dignità ed efficacia autonome — come lo è per la celebrazione eucaristica. Occorre allora riconoscere che vi è uno statuto ecclesiale della Scrittura che possiamo enunciare così: la Scrittura è un sacramento.

La Scrittura è un sacramento

«Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro; nella parola di Dio poi è insita tanta potenza ed efficacia... da essere sorgente perenne della vita spirituale» (DV 21); nella liturgia «il Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7): tramite le Scritture dunque «Dio parla al suo popolo, Cristo annunzia ancora l’evangelo» (SC 33). Il concilio ha aperto la strada per giungere a riconoscere alla Parola la capacità efficace dell’alleanza, la sua qualità di dono offerto a tutto il popolo santo e di luogo della presenza divina.
Permane ancora, purtroppo, nella ricezione postconciliare la separazione tra sacramento e Parola, la concezione che il sacramento dona la grazia mentre la parola biblica dona la dottrina, che il sacramento è efficace mentre la parola può solo preparare il sacramento e insegnare. Ma se la parola di Dio non è vissuta nell’economia sacramentale fino a essere accolta come sacramento, come trasmissione di potenza e di grazia — e non solo come comunicazione di verità, di precetto e di dottrina —, resterà sempre parola su Dio e sarà soltanto un preludio alla celebrazione del sacramento[87].
Si deve sottolineare che unica è la presenza del Cristo nella parola di Dio come nell’eucaristia. Il Cristo ha donato la vita predicando la Parola e spiegando la Scrittura, e ha spiegato la Scrittura e svelato la Parola consegnando il suo corpo e il suo sangue. L’eucaristia è dunque al contempo gesto e annuncio (cf. 1Cor 11,26), e la parola efficace, che si realizza, è a sua volta annuncio e gesto. «L’economia della rivelazione avviene con eventi e parole interamente connessi tra loro, in modo che le azioni compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le azioni e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2). La rivelazione non è soltanto locutio Dei, perché dicere Dei est facere e facere Dei est dicere!
Dunque, questa economia della rivelazione in cui Dio «nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cf. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con loro (cf. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2), e che ha in Cristo il suo sacramento primordiale (Origene) perché egli è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1Tm 2,5), trova un suo sacramento nella chiesa, «che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio per l’uomo» (GS 45), nelleucaristia, che è epifania dell’amore fino alla fine con cui il Cristo ha amato l’umanità, e nella Scrittura, che comunica la parola di Dio e in cui «il Padre viene con sovrabbondanza d’amore incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro» (DV 21). Secondo modalità differenti Scrittura, eucaristia e chiesa sono «corpo» del Cristo che si illuminano e interpretano reciprocamente e ci dicono che la lettura del testo scritturistico deve sempre avvenire in un organico legame con la comunità ecclesiale e deve sempre avere come proprio télos l’eucaristia.
La Scrittura dunque, con la sua qualità teandrica, è un sacramento: signum dotato di un elemento sensibile che contiene e manifesta il mistero di Cristo, luogo di un vero incontro personale tra noi che ascoltiamo e il Dio che parla e parlando ci rivela il suo mistero personale facendosi conoscere nel volto del Cristo e cosi offre a noi una potenzialità nuova di amore e di comunione con lui. La lettura della Scrittura realizza cosi quella dinamica di ascolto-conoscenza-amore che è esigenza centrale di tutta la Scrittura, come appare dallo Shema’: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio...» (Dt 6,4-5; Mc 12,29). Come Cristo nella sua incarnazione è stato il sacramentum Dei, cosi la Scrittura è nell’economia rivelativa il sacramentum Dei che prolunga l’azione, l’evento di Cristo nella chiesa insieme a tutti gli altri sacramenti. Gregorio Magno pone la Scrittura e Cristo in rapporto intrinseco e afferma la presenza reale dell’opera salvifica del Redentore nelle Scritture: in esse «è contenuta l’incarnazione, la passione, la morte, la resurrezione e l’ascensione del Signore»[88]. «Gregorio descrive la natura del rapporto Scrittura-Cristo in termini sacramentali: la Scrittura, infatti, oltre a essere una significazione anticipata del mistero di Cristo, ne sarebbe anche un’iniziale attuazione»[89].
La Scrittura è un sacramento. Possiamo anche dire che la Scrittura è un libro, come l’eucaristia è pane e vino, ma dobbiamo subito aggiungere che essa è un sacramento e dunque un luogo di effusione della grazia, un mezzo di comunione con Dio, una rivelazione della sua presenza. Il «libro» che è la Scrittura in verità è un segno della comunicazione che avviene tra Dio e noi e, come ogni sacramento, va accolto nella fede, altrimenti non produce grazia né genera comunione. Solo quando è accostata nella fede la Scrittura può liberare «l’evangelo che è potenza di Dio per la salvezza di chiunque ha fede... La giustizia di Dio infatti si rivela in esso di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,16-17).
La Scrittura ha dunque una struttura sacramentale in quanto riveste un aspetto esteriore e uno interno, cosi che il credente deve passare dal primo al secondo grazie all’azione rivelante di Dio attuata dallo Spirito santo. Qui si innesta la necessità della lettura spirituale della Scrittura come — secondo le espressioni patristiche — passaggio dalla lettera allo spirito, rinvenimento del midollo dietro la corteccia, del frutto dietro il fogliame... non però nel senso di rinvenire un «altro» significato in base a inaccettabili allegorizzazioni, ma la profondità relativa e comunionale del testo stesso. Questa profondità si identifica con il Cristo che è l’unità e il compimento di tutte le Scritture e che vuole stabilire un’alleanza con il credente-lettore. Occorre dunque chinare il capo sulle Scritture come il discepolo amato sul petto di Gesù, sul suo cuore: infatti «per cuore di Cristo si intende la sacra Scrittura che rivela il cuore di Cristo»[90]. Il lettore deve poi tener presente il fatto che la Scrittura è costitutivamente storica, teologica e liturgica al tempo stesso: testimonianza di eventi storici interpretati teologicamente alla luce della fede e rivissuti e rigenerati all’interno della celebrazione liturgica.
La struttura sacramentale della Scrittura è inscindibile dalla struttura sacramentale dell’eucaristia, come ricordava il vescovo melkita, monsignor Neophytos Edelby, arcivescovo titolare di Edessa e consigliere patriarcale, in un intervento in aula il 5 ottobre 1964 durante la terza sessione del concilio mentre si discuteva la seconda parte dello schema sulla divina rivelazione. Dopo aver affermato che «il primo principio teologico di ogni interpretazione della sacra Scrittura» è che «non si può separare l’invio dello Spirito santo dall’invio del Verbo incarnato» e dopo aver ricordato che «il fine dell’esegesi cristiana è l’intelligenza della Scrittura alla luce di Cristo risorto», con estrema forza monsignor Edelby ha proseguito: «La Scrittura è realtà liturgica e profetica, è annuncio (kérygma) prima di essere libro, è la testimonianza dello Spirito santo sulla venuta di Cristo, di cui il momento privilegiato è la liturgia eucaristica». Se «la controversia post-tridentina ha soprattutto visto nella Scrittura una norma scritta», essa invece va considerata come «la consacrazione della storia della salvezza sotto le specie della parola umana che non può essere separata dalla consacrazione eucaristica in cui tutta la storia è ricapitolata nel corpo di Cristo». A questo punto si inserisce anche il rapporto con la tradizione: «Questa consacrazione necessita di una epiclesi, e questa è appunto la sana tradizione. La tradizione è l’epiclesi della storia di salvezza, la teofania dello Spirito santo, senza la quale la storia è incomprensibile e la Scrittura resta lettera morta».
La Scrittura deve perciò essere interpretata «nella totalità della storia di salvezza»[91]. Certamente, è soprattutto nella liturgia, e sommamente nella celebrazione eucaristica, che la proclamazione della Scrittura può dispiegare la sua efficacia di emergenza della presenza del Signore e di comunione con lui, ma è pur vero che anche nella lectio divina personale (e tanto più se comunitaria) può autenticamente avvenire un’esperienza reale di comunione con il Cristo. Quando attraverso la Scrittura noi ascoltiamo e accogliamo la parola di Dio nella fede, non soltanto la sentiamo rivolta in modo personalissimo a noi, ma di essa facciamo l’esperienza reale vedendo, ascoltando, toccando il Verbo di vita (cf. 1Gv l,1). La Scrittura infatti si rivolge sempre contemporaneamente a tutti e a ciascuno: quando la parola della Scrittura si rivolge al «voi» dell’intera comunità radunata, lo fa coinvolgendo il «tu» di ciascun membro; e quando si rivolge al singolo, lo fa avendo di mira la sua collocazione ecclesiale, il suo essere destinatario della Parola in quanto organicamente inserito nella struttura comunitaria.




LUNITÀ DI TUTTA LA BIBBIA



L’atteggiamento di «religioso ascolto della parola di Dio» (DV 1), che si esprime con «l’interpretazione della Scrittura nello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12), implica la considerazione dell’’’unità di tutta la Scrittura» (DV 12). Solo questa unità della Scrittura, su cui si fonda il suo uso liturgico, consente di concepire e salvaguardare il suo aspetto sacramentale, la sua qualità rivelativa, ispirante, il suo essere incarnazione della Parola. Posto dunque il primato dell’ascolto per un’interpretazione spirituale ed ecclesiale della Scrittura, occorre specificare che la Bibbia da ascoltare è quella che si presenta a noi come il testo attuale e canonico.

Il canone

Senza entrare nella problematica storica del «farsi» del canone scritturistico ci basta rilevare che la chiusura del canone fu sostanzialmente la ratifica di un dato di tradizione tanto per gli ebrei quanto per i cristiani: furono riconosciuti canonici quei libri la cui lettura costituiva il momento fondamentale nelle assemblee liturgiche giudaiche e cristiane. La canonicità risponde dunque a un dato di tradizione e presenta un aspetto costitutivamente ecclesiale-liturgico[92]: sono canonici i libri che hanno saputo reggere il dialogo tra il popolo e il suo Dio, mostrando così di contenere la parola di Dio e di far vivere il popolo nell’alleanza, alla presenza di Dio. Il canone istituisce dunque un’appartenenza reciproca tra comunità e Scrittura. Secondo Neemia 8 la Torà divenne «canonica» quando quei testi giuridici e narrativi di autorità già riconosciuta furono proclamati liturgicamente e fatti comprendere a tutto il popolo radunato che, raggiunto dalla Parola, pianse (cf. Ne 8,9). Appare qui che la canonicità è «il punto di articolazione della ‘Scrittura’ e della ‘lettura’ biblica: nel crogiuolo del canone, la Scrittura si trova consacrata nella sua finalità di miqra (di ‘lettura’)»[93].
Il già citato studio di Anne-Marie Pelletier sul Cantico dei cantici (un testo la cui canonicità fu molto discussa e contrastata), a partire dalla tradizione di lettura e di uso del Cantico stesso che non mirava tanto a «spiegarlo» quanto piuttosto a far entrare il lettore-ascoltatore nel dialogo a due voci che lo costituisce, ipotizza che proprio questa forma di dialogo, che fa del Cantico un testo di rivelazione, giustifichi la sua inserzione nel canone. Al cuore della Bibbia il Cantico dei cantici rappresenta allora sinteticamente in sé il dialogo d’amore che attraversa la Scrittura tutta e che la Scrittura canonica vuole suscitare nei suoi lettori. Il Cantico dei cantici diviene così come un «duplicato interiore» della Bibbia tutta, un testo che riflette in sé, in piccolo, il macrotesto biblico. Le «necessità spirituali»[94] che hanno portato a canonizzare il Cantico sono cioè le stesse esigenze cui il Cantico e la Scrittura canonica continuano a rispondere: invitare il lettore a entrare nel dialogo io-tu, nella relazione d’amore, nella grazia esigente dell’alleanza. Del resto «l’autorità del canone è nel dialogo vivificante che la comunità intrattiene con esso»[95]. Così i molti libri (tà biblìa) chiusi nel canone si aprono nell’unico Libro la cui unità testimonia a un tempo l’unità diacronica e sincronica del popolo credente e l’unicità del Dio che ne è «autore» (DV 11).

Il livello redazionale

Parallelamente all’unità canonica della Scriptura tota, si deve ricordare che l’ascolto della Parola leggendo la Scrittura avviene sul testo nella sua redazione definitiva. Sia la redazione finale di un testo sia il canone hanno valore ermeneutico, ed è tramite essi che ci raggiunge il messaggio, la parola di Dio. Lo studio delle redazioni successive di un testo, delle differenti tradizioni che lo compongono, ci mostra il cammino della rivelazione, l’azione dello Spirito nella storia, però è tramite il testo nella sua redazione finale che Dio ci parla oggi, non in ipotetici testi originali ricostruiti. Circa la formazione del Pentateuco, la cosiddetta «nuova critica» pone l’accento sulla redazione finale dei testi piuttosto che sulle sue origini e sugli ipotetici «documenti» che lo formavano. Il lavoro compositivo che ha presieduto al formarsi dell’Antico Testamento presenta riletture differenti per epoca di origine e prospettiva teologica dello stesso evento (per esempio l’esodo); accosta narrazioni teologicamente distanti di uno stesso evento (si pensi ai due racconti della creazione presenti nei primi due capitoli della Genesi); conserva e riporta leggi che danno indicazioni divergenti sugli stessi argomenti[96]; integra in uno stesso libro (il Salterio) acquisizioni teologiche recenti — come la vita eterna dell’uomo nella comunione con Dio (cf. Sal 49), e la credenza radicata della morte come orizzonte ultimo, senza vita eterna, dell’esistenza umana —; ci porta a prendere sul serio l’unità composita della Scrittura: riscoprire l’unità del Pentateuco dai vari codici legislativi che vi sono compresenti e dalle differenti teologie che lo attraversano[97], l’unità redazionale del libro di Isaia in cui le parti attribuite al secondo e al terzo Isaia sono riletture e attualizzazioni degli oracoli dell’Isaia dell’VIII secolo... Insomma, se «è attraverso il profeta che Dio ha parlato agli uomini di Gerusalemme, è attraverso il libro di Isaia che Dio ci parla oggi»[98].

«Scriptura sui ipsius interpres»

È solo l’unità della Scrittura che consente di attivare il principio per cui la Scrittura è interprete di se stessa. Questo non significa certo negare i debiti che molti testi o istituzioni bibliche (si pensi alla monarchia veterotestamentaria) hanno contratto nei confronti delle letterature e delle culture dell’ambiente circostante e quindi la necessità di ricorrere al mondo extrabiblico per spiegare adeguatamente la Bibbia. Ma significa che il contesto biblico (Antico e Nuovo Testamento) dà un significato e un orientamento radicalmente nuovo a ciò che è mutuato da altrove.
Sono noti i rapporti che uniscono una sezione del libro dei Proverbi (22,17-23,32) e il testo egiziano dell’Insegnamento di Amenemope[99], così com’è noto che nella Lettera ai Filippesi 4,8 Paolo propone ai cristiani di Filippi alcuni ideali etici propri della morale stoica. Ma l’insegnamento sapienziale egiziano viene nel testo biblico espressamente finalizzato alla fede in JHWH (cf. Pr 22,19) e l’insegnamento etico è posto sotto la luce rivelativa dell’azione di JHWH goel (cf. Pr 22,22-23). Così nella Lettera ai Filippesi Paolo consiglia ai cristiani di far oggetto del proprio sentire e pensare (phronein) alcune virtù etiche tipiche della filosofia stoica, ma subordina il discorso al comando di «rimanere saldi nel Signore» (Fil 4,2), di avere in sé lo stesso sentire e pensare (phronein) che fu in Cristo Gesù (cf. Fil 2,5), e lo accompagna al comando di praticare ciò che hanno ascoltato, imparato, ricevuto, visto in lui (cf. Fil 4,9). Il discorso di Paolo nei primi capitoli della Prima lettera ai Corinti mostra il necessario urto che le sapienze umane devono fare con l’evangelo, il quale nel suo nucleo irriducibile è «parola della croce» (1Cor 1,18) e dunque ciò che meno è assimilabile al mondo e che anzi lo contesta radicalmente.
«Scriptura sui ipsius interpres» significa allora che vi è all’interno della Scrittura un principio fondamentale, la fede in JHWH Dio unico che liberando Israele dalla schiavitù si è rivelato nella storia come Dio personale per instaurare una relazione di alleanza con lui: «Io sono JHWH, il tuo Dio»; e che questo principio conferisce unità profonda ai molti e diversi testi e riorienta ciò che è desunto da altre culture. Così nel Nuovo Testamento è la fede in Gesù Cristo morto e risorto, definitiva rivelazione del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, mediatore dell’alleanza nuova e migliore (cf. Eb 7,22; 8,6; 9,15 e passim), il principio ermeneutico unificante. Questa fede che ha prodotto e che anima i testi biblici fa di essi dei testi di rivelazione, non etici o edificanti, e della loro lettura un luogo di esperienza e di incontro con l’unico Dio.

La tipologia

Le riletture intrascritturistiche ci forniscono anche molti esempi di come la Scrittura «si» legge. L’evento esodo, per esempio, attraversa tutta la Scrittura mediante numerose reinterpretazioni e si possono elencare vari modelli di attualizzazione, di rilettura: dal modello cultuale (cf. Es 12,1-13,16 e passim) a quello narrativo-teologico, dal modello profetico-tipologico (Amos, Osea, Geremia, secondo Isaia...) a quello midrashico (cf. Sap 10,15-12,27; 16,1-19,22), eccetera[100].
La tipologia in particolare gioca un ruolo di rilievo anche nei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento essendo usata dagli scrittori neotestamentari: importante per la comprensione spirituale delle Scritture, essa però, oggi molto contestata, richiede discernimento. Anzitutto occorre ricordare con Origene che un rapporto di corrispondenza tipologica tra una situazione dell’Antico e una del Nuovo Testamento non significa l’abolizione del valore storico della prima, anzi si fonda proprio sulla sua storicità. Commentando la Lettera ai Galati 4,21-24 Origene scrive: «Che, dunque? Isacco non è nato secondo la carne? Non lo ha partorito Sara? Non è stato circonciso?... Questo è mirabile nell’intendimento dell’Apostolo: che egli dica di significato allegorico fatti dei quali non si può dubitare che siano stati compiuti secondo la carne»[101]. E ancora: «Anche nel passo in cui l’Apostolo dice: ‘Abramo ebbe due figli...’, chi dubita che queste cose debbano essere prese alla lettera?... Ma l’Apostolo aggiunge: ‘Queste sono allegorie’»[102].
Inoltre la tipologia conferma il permanente valore profetico dell’evento «tipo»: le stesse molteplici e sempre rinnovate letture dell’esodo scaglionate su molti secoli da parte dell’Israele veterotestamentario ci dicono questo. Anche nell’ambito del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento occorrerebbe sviluppare (sempre sulla scia di Origene, che parla di ombra-immagine-verità), una tipologia non bipolare ma a tre tappe, in cui situazione tipica e antitipica restano aperte alla pienezza escatologica che deve ancora realizzarsi tanto per l’ebreo quanto per il cristiano. Il compimento in Cristo confessato dai cristiani è un già aperto su un non-ancora e non esautora, non rende vana l’attesa di Israele né abolisce la corposità storica o la potenza profetica delle sue Scritture. Con questa apertura escatologica la tipologia accentua la sua valenza di mostrare la continuità dell’azione rivelante di Dio nel corso della storia tutta, fino alla pienezza escatologica.

Lunità cristologica delle Scritture

Dalla Scrittura stessa noi riceviamo un principio ermeneutico unificante e assolutamente centrale: il mistero pasquale[103].
L’evento pasquale veterotestamentario appare profezia compiuta nell’evento pasquale neotestamentario e la Scrittura può essere letta alla luce di questo principio unitario e apparire come la sintesi narrativa dell’unico mistero teologico che si di spiega dalla visione» dell’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo» (Ap 13,8) alla venuta escatologica dell’«Agnello immolato e ritto in piedi» (Ap 5,6; 14,1).
Ma questo significa anche la centralità cristologica di tutte le Scritture: l’unità delle Scritture è unità in Cristo. La tradizione è unanime su questo punto. Il Cristo è a un tempo «il Signore dei profeti»[104] e colui che adempie le profezie, colui «intorno al quale e per il quale è ogni profezia»[105], è colui che «risorgendo e ascendendo al cielo ha aperto il libro»[106], è la Parola e 1’esegesi della Parola, è colui che solo può spiegare le Scritture perché»ha creato le parole dei santi Testamenti ed egli stesso ce ne ha rivelato il senso»[107].
Egli è colui di cui ha scritto Mosè (cf. Gv 5,46), di cui parlano la Legge di Mosè, i profeti e i salmi (cf. Lc 24,44) ed è colui che apre la mente all’intelligenza delle Scritture (cf. Lc 24,45), spiega le Scritture e così svela se stesso. Il capitolo finale dell’evangelo lucano presenta l’episodio dei due di Emmaus in inclusione con l’episodio iniziale del ritrovamento di Gesù al Tempio da parte dei genitori, «dopo tre giorni» (Lc 2,46), mentre discute con i dottori spiegando le Scritture. Anche i due di Emmaus, tre giorni dopo la sua morte (cf. Lc 24,21), lo incontrano vivente come colui che spiega le Scritture (cf. Lc 24,27). Il Cristo risorto lo si incontra nella spiegazione delle Scritture. E le Scritture sono comprese quando il Cristo ne appare il centro ermeneutico: allora avviene il passaggio dalla non-fede (cf. Lc 24,41) alla fede e alla lode a Dio (cf. Lc 24,53). L’esegesi credente sfocia nella preghiera: esegesi e teologia, intelligenza della Scrittura e preghiera appaiono qui unificate nel mistero della fede. Ignazio di Antiochia a quanti scindono Antico e Nuovo Testamento oppone il Cristo come contenuto unitario e decisivo delle Scritture che tutto riporta a unità: «I miei archivi sono Gesù Cristo! Gli archivi inviolabili sono la sua croce, la sua morte, la sua resurrezione e la fede che [ci viene] per mezzo di lui»[108].
Il rapporto tra evento cristico e Scritture antiche è posto dalla predicazione apostolica in modo tale che non si può parlare di semplice successione, ma di illuminazione reciproca. L’evento pasquale cristiano è evento interpretato alla luce delle Scritture ma anche interpretante le Scritture e così costituisce la «chiave ermeneutica che permette di comprendere le Scritture che l’avevano annunciato, ma senza l’illuminazione delle Scritture l’esperienza pasquale resterebbe un enigma»[109]. La lettura cristiana delle Scritture cerca dunque la reciprocità e l’interdipendenza fra i due Testamenti i quali hanno nel Cristo la loro chiave di volta: «Nei due Testamenti si trova il Cristo, perché il Cristo stesso è il loro consensus»[110]. I padri hanno perciò parlato dell’intrinsecità dei due Testamenti: «Il Vecchio Testamento è rivelato nel Nuovo (revelatum), e... il Nuovo Testamento è velato nel Vecchio (velatum[111]; è infatti in Cristo che viene tolto il velo che ancora permane alla lettura giudaica dell’Antico Testamento (cf. 2Cor 3,14).
È il Cristo che «compie» la Scrittura (cf. Gv 19,28), e il «compimento» di tutte le cose scritte su di lui nella Legge, nei profeti e nei salmi (cf. Lc 24,44) non significa una realizzazione letteralistica ma il discernimento e il compimento della volontà di Dio rivelata nelle Scritture. Questo ci dice quel dei, «è necessario», che rimanda a una necessità divina ed è ripetuto tre volte nel capitolo 24 dell’Evangelo di Luca (vv. 7.26-44) a proposito della passione-morte-resurrezione come dossologico compimento della Tanakh, dello «sta scritto» (cf. Lc 18,31-33). Il compimento delle Scritture in Cristo è evento di rivelazione che prosegue la rivelazione e ordina ciò che era precedentemente rivelato: non è dunque un movimento unidirezionale, ma uno scambio in cui la realizzazione cristologica getta obiettivamente nuovo senso sulle Scritture a cui è inestricabilmente connessa. L’Antico Testamento è essenziale, imprescindibile per conoscere e incontrare il Cristo risorto, e l’Antico Testamento compiuto in Cristo è costitutivo della testimonianza neotestamentaria e della vita della chiesa. Secondo l’Evangelo di Luca 24,46-48 la missione stessa della chiesa di predicare conversione e perdono dei peccati è compimento delle Scritture in continuità con l’evento pasquale!

Il criterio sintetico-dossologico

Il criterio sintetico-dossologico che unifica l’intera testimonianza scritturistica intorno all’evento pasquale della nuova alleanza, alla vita del Figlio che nella sua interezza è narrazione di Dio, conferisce un’importanza particolare e un’eccellenza a quei testi che più da vicino danno la conoscenza del Cristo. Dire questo non significa aprire vie alla tentazione di creare un canone nel canone privilegiando l’uno o l’altro testo, ma ribadire con Origene che» gli evangeli sono primizia di tutta la Scrittura»[112] e ripetere con la Dei Verbum che «fra tutte le Scritture, anche nel Nuovo Testamento, gli evangeli meritatamente eccellono, in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e all’insegnamento del Verbo incarnato, nostro salvatore» (nr. 18).
Non si tratta di scegliere un testo, fosse anche uno degli evangeli, o una testimonianza scritturistica (per esempio l’«evangelo» paolino) come portatore della purezza evangelica e far ne il criterio discriminante all’interno del canone, ma si tratta di ricordare il primato della conoscenza di Gesù, il Signore, cui la lettura della Scrittura è sottomessa, e che tale conoscenza è data dagli evangeli e dalla loro quadriforme testimonianza. È questa conoscenza che il lettore credente cerca nelle Scritture tutte.
Da tutto questo emerge che la lettura della Scrittura deve essere ascolto integrale della stessa (cf. Ap 22,18-19; Dt 4,2) e ricerca del consensus tra Antica e Nuova Alleanza che si risolve in ricerca del volto di Cristo. È solo alla luce dell’unità cristocentrica di tutta la Bibbia che i cosiddetti «salmi imprecatori», possono cessare di essere considerati come isolate pietre di inciampo, per ridivenire pietre da costruzione pienamente integrate all’interno dell’edificio scritturistico che nella sua unità è corpo di Cristo e profezia cristologica. Del resto anche questi salmi soggiacciono al principio ermeneutico posto da Gesù in Luca 24,44 («È necessario che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi») e vanno letti nel contesto di tutta la Bibbia e alla luce dell’evento pasquale che li svela come profezia e prefigurazione della passione-morte di Gesù Cristo. Si tratta di comprendere che le maledizioni invocate dal salmista su nemici ed empi si sono abbattute sul Servo sofferente, Gesù il Cristo, nella passione e morte di croce e che, in lui, è Dio stesso che le ha assunte su di sé. Leggere quei salmi alla luce di Isaia 53 e dei racconti evangelici della passione li svela come profezia della passione e come elemento essenziale per la comprensione di un aspetto fondamentale della morte di Gesù che è quello della vergogna: è la morte del maledetto, dell’annoverato tra i malfattori. Inoltre, colui che nello Spirito li prega sentendo rivolte a sé, al male che è in lui, al peccato che lo abita, al Nemico che in lui opera, le richieste di annientamento della potenza del male, si conosce come innestato per grazia nella nuova alleanza mediante il sangue di Cristo morto per i nostri peccati. Anche questi testi «scandalosi» sono cosi assorbiti nello scandalo della croce e diventano luogo di conoscenza dell’amore di Dio per noi mentre eravamo e siamo peccatori (cf. Rm 5,6-11), luogo di esperienza della sua misericordia a caro prezzo.
L’esempio di Esodo 2, 11-22, che narra l’omicidio dell’egiziano compiuto da Mosè, la sua condanna a morte da parte del faraone e la sua fuga in Madian, ci presenta l’inizio di ciò che potremmo chiamare «la passione di Mosè». La rilettura che ne fanno gli Atti degli apostoli 7,23-29.35 sottolinea l’aspetto del rifiuto del ministero di riconciliazione (verbo synallassein: At 7,26) di Mosè da parte dei suoi fratelli ebrei (cf. Es 2,13-14). Il testo esodico diviene cosi, nel discorso di Stefano, un esempio della disobbedienza e del rigetto dell’inviato di Dio da parte del suo popolo, rigetto che culmina nel rifiuto e nell’uccisione del Giusto (cf. At 7,52): la passione di Mosè prefigura la passione del Cristo.
Il passo della Lettera agli Ebrei 11,24-28 interpreta liberamente Esodo 2,11-22 vedendolo dominato dalla scelta di Mosè che non accettando» di essere chiamato figlio della figlia del faraone... rifiutò di godere per breve tempo del peccato» (Eb 11,24-25). L’interpretazione poi si fa direttamente cristologica: «Stimava infatti la vergogna di Cristo ricchezza maggiore dei tesori di Egitto» (Eb 11,26). Mosè si immerse in una situazione di passione che è diretta partecipazione alla vergogna di Cristo, cosi come vi partecipano direttamente i santi dopo Cristo (cf. Eb 10,33; 13,13). E Mosè lasciò l’Egitto rimanendo saldo «come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27): il Cristo appare già misteriosamente presente nell’Antico Testamento (cf. 1Cor 10,4).
Entrambi i testi del Nuovo Testamento, pur in maniere cosi differenti, si ritrovano nel far emergere dal testo esodico il volto del Cristo e nel riconoscere in quello stesso testo la profezia della croce. Dirà Evagrio Pontico: «L’Antico Testamento predica il Cristo crocifisso»[113].

Lunità sincronica e diacronica del popolo di Dio

Infine, l’attualizzazione all’interno dell’Antico Testamento è fondata sul fatto che Israele si concepisce come unità nel tempo e nello spazio: la parola di Dio eterna lo concerne dunque tutto e sempre. E lo concerne nel suo essere unità collettiva e nei singoli che lo compongono. Il concetto di personalità corporativa (H. W. Robinson), connesso all’appartenenza reciproca tra Dio e il popolo nell’alleanza, fa si che la parola di Dio sia entità che parla all’intero popolo come a «un solo uomo» (Ne 8,1) e a ciascun uomo in quanto membro del popolo. Di qui la valenza ecclesiale anche della lectio divina personale. L’eterna Parola del Dio unico che si è manifestata nei profeti e nel Figlio fa si che i cristiani riconoscano nel popolo di Dio, Israele, i loro padri (cf. 1Cor 10,6) e che i due popoli, seppur divisi, siano chiamati a formare l’unico popolo escatologico. Ma poi anche l’immensa moltitudine del popolo che viene dopo Gesù costituisce un’unità diacronica e sincronica.
Di tutto questo occorre tenere conto nella lettura spirituale delle Scritture: il ricorso intelligente alla tradizione giudaica di lettura del testo biblico, soprattutto al Targum, può allora non solo essere richiesto dalla necessità di una migliore comprensione del Nuovo Testamento, ma può anche divenire luogo di maggior conoscenza, tramite l’accostamento della sua comprensione biblica, dell’alterità del popolo santo su cui siamo innestati. Al tempo stesso il ricorso alle antiche versioni bibliche, soprattutto a quella dei LXX, che è stata la Bibbia dei primi quattro secoli della chiesa, e poi alla Vulgata di Girolamo, diviene un’attuazione pratica dell’efficacia ermeneutica della tradizione. Agostino afferma l’utilità spirituale che può venire ai lettori avvertiti (scienter legentibus) dalle differenti traduzioni di uno stesso passo e cita il caso di Isaia 7,9 che nella Vulgata ricalca il testo ebraico («Se non crederete, non avrete stabilità») e nei LXX porta: «Se non crederete, non comprenderete»[114]. Inoltre il ricorso ad altre versioni bibliche può aprire ecumenicamente alla conoscenza di altre chiese e svelare tesori di intelligenza spirituale delle Scritture. Penso, per esempio, all’antica versione siriaca (Peshitta) che nel Salterio fa precedere ogni salmo da un «titolo» che ne costituisce una ricca chiave di lettura spirituale. Cosi il titolo del salmo 1 («Beato l’uomo...») lo accosta alle beatitudini di Matteo e il titolo del salmo 2 ne sottolinea l’aspetto di profezia della passione di Cristo e della chiamata delle genti. Inoltre, comprendere spiritualmente la Scrittura implica anche conoscere l’uso liturgico delle varie chiese in cui i testi biblici continuano a vivere e ad arricchirsi di senso nel dialogo con le comunità cristiane[115].
Del resto è la liturgia, e in particolare la liturgia eucaristica, il luogo in cui la Scrittura dispiega pienamente le sue efficaci energie di incontro con il Signore. Un bel testo di Gregorio Magno svela la valenza ermeneutica del contesto comunitario, soprattutto liturgico:

Molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratribus meis positus intellexi)... Mi sono reso conto per merito di chi io ricevessi tale capacità di comprensione[116].

Scrittura e comunità

Il testo di Gregorio appena citato ricorda, a mio avviso, che un altro criterio ermeneutico per comprendere la Scrittura è la concreta vita comunitaria. Esegesi in ecclesia significa anzitutto questo: vivere concretamente la vita comunitaria, ecclesiale. È da questa reale vita in koinonia che possono nascere quell’esperienza umana e spirituale, quella sensibilità e quel discernimento che consentono una penetrazione nella vita di cui i testi sono, appunto, i testimoni. La vita comune può cosi diventare esperienza della Parola:
Le Scritture si rivelano a noi più chiaramente e ci aprono il loro cuore e quasi il loro midollo, quando la nostra esperienza non solo ci permette di conoscerle, ma fa sì che ne preveniamo la stessa conoscenza, e il senso delle parole non ci è rivelato da qualche spiegazione, ma dall’esperienza viva che ne abbiamo fatto[117].
Paul Ricoeur ha ricordato il «carattere comunitario dell’interpretazione» affermando con forza che «è sempre sull’orizzonte di una comunità d’interpretazione che si distacca un lavoro individuale di esegesi»[118].
Così la Scrittura è sottratta alla «privata spiegazione» (2Pt 1,20) trovando nella vita liturgica e nella quotidiana, concreta vita cristiana due loci exegetici fra loro complementari. Inoltre l’ecclesialità costitutiva della Scrittura fa sì che tutti i membri della chiesa (christifideles omnes: DV 25) siano chiamati a essere soggetto della sua interpretazione spirituale[119]: essa non può essere appannaggio di addetti ai lavori che pretendono di detenerne in esclusiva le chiavi! La frequentazione assidua alle Scritture, l’immersione quotidiana in esse diviene così per ogni battezzato occasione di rinnovamento dell’immersione battesimale e di consolidamento della propria vocazione cristiana.

Scrittura e martirio

La Scrittura ispirata esige un lettore che lasci dispiegare in sé, grazie all’obbedienza della fede, la potenza della Parola e la dynamis dello Spirito. Così la lettura spirituale della Scrittura tende a divenire testimonianza della Presenza, martyria, e trova il suo naturale compimento nel martirio, nel dono della vita per amore.
Rabbi ‘Agiva ha vissuto il suo martirio come il compimento naturale della richiesta dello Shema’: «Amerai [Dio] con tutta la tua vita» (Dt 6,5). Mentre il suo corpo veniva scarnificato dai torturatori, rabbi ‘Agiva recitava lo Shema e ai discepoli che lo volevano interrompere rispose:

Per tutta la vita mi sono preoccupato di questo versetto: «Amerai Dio con tutta la tua vita», cioè lo amerai anche nel caso che ti tolga la vita, e dicevo: Quando mi sarà possibile compiere ciò? E ora che mi è possibile non dovrei adempierlo[120]?

La Parola che ha illuminato la vita arriva a vivificare la morte. Gesù fa della croce il luogo in cui amando il Padre con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la vita fino all’estremo[121] e il suo prossimo più di se stesso, compie le Scritture: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30; cf. 19,28-29). Così Gesù ha lasciato dispiegare pienamente in sé la potenza pneumatica della Scrittura che è potenza di resurrezione!






LASCOLTO


L’approccio alla Scrittura, per essere fecondo, deve avvenire nello spazio dell’ascolto, perciò esige «un cuore che ascolta» (lev shomea’: 1Re 3,9) da parte dell’uditore-lettore. Infatti il fondamento di tutta la Bibbia è che Dio parla e il popolo ascolta: l’uomo biblico cammina alla luce della fede, non della visione, pertanto è solo nell’ascolto che può avvenire l’incontro con il Dio vivente. Si, l’ascolto è costitutivo tanto di Israele come popolo di Dio (si vedano soprattutto Deuteronomio e Geremia) quanto della chiesa che è appunto lekklesía, l’assemblea convocata dalla parola di Dio e riunita intorno al Cristo risorto e vivente, parola definitiva di Dio all’umanità. L’esigenza dell’ascolto è cosi centrale, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, perché richiesta dalla struttura stessa dell’alleanza.
Nell’Esodo Mosè è chiamato al monte Sinai ed è invitato a proclamare da parte di Dio ai figli di Israele: «Voi stessi avete visto ciò che ho fatto agli egiziani e come vi ho portati su ali di aquila conducendovi fino a me. Ora, se voi ascolterete la mia voce e custodirete la mia alleanza, sarete per me un possesso particolare fra tutti i popoli: certo, mia è tutta la terra, ma voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa» (Es 19,3-6)[122].
La liberazione esodale è finalizzata alla comunione con Dio, all’appartenenza reciproca tra il popolo e JHWH, e questo avviene nell’ascolto della Torà donata al Sinai: «Ascoltate la mia voce, eseguite tutto ciò che vi ho comandato, allora voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ger 11,6). Ma questa esigenza permane anche nel Nuovo Testamento come ascolto del Figlio: il comando è ormai di ascoltare lui, «il Figlio» (cf. Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35), colui che è il mediatore della nuova alleanza, «non della lettera, ma dello Spirito» (2Cor 3,6). Così, se Gesù può proclamare: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28) e, rivolto ai discepoli, può dichiarare: «Beati i vostri orecchi perché ascoltano ciò che molti profeti e giusti desiderarono ascoltare» (cf. Mt 13,16-17; Lc 10,23-24), l’autore dell’Apocalisse può applicare questa beatitudine allettare della Scrittura: «Beato colui che legge e quelli che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3).
È la stessa struttura dialogica costitutiva della Scrittura che esige ascolto: ed è per questo che la Scrittura, tanto nella tradizione giudaica quanto in quella patristica cristiana, è destinata a essere letta ad alta voce. Nell’antichità e nel medioevo si leggeva non con gli occhi, «ma con le labbra e con le orecchie, pronunciando cioè la parola, esprimendola e ascoltando quello che si pronuncia, intendendo così le voces paginarum. In questo modo la lettura è una vera audizione: legere significa nello stesso tempo audire»[123]. In questo senso è il termine ebraico miqra che designa nel modo più appropriato il testo scritturistico, più di Scrittura (graphé) e di Bibbia (tà biblía, «i libri»). Esso infatti significa tanto lettura quanto convocazione e «integra la Scrittura nella lettura»[124]; designa il testo biblico in quanto letto ad alta voce, proclamato liturgicamente nel contesto dell’assemblea radunata affinché ogni figlio di Israele ascolti, sia istruito e metta in pratica le parole della Torà (cf. Dt 31,10-12). Il termine miqra’, formato dalla radice qara’, «chiamare», «leggere», e dal prefisso m- che indica provenienza, designa il luogo dell’appello e della convocazione: è il libro che ci interpella e ci chiama a uscire da... per andare verso... Leggere la Scrittura significa sempre compiere un esodo in vista di un incontro, significa entrare in una relazione dialogica in cui il testo con la sua dynamis richiede e rende possibile allettare dei cambiamenti, una «conversione» in vista della comunione con il Signore.
Essendo dunque movimento dialogico-relazionale, l’ascolto della Parola implica anzitutto l’accettazione e la conoscenza dell’alterità del testo, la presa di coscienza della sua differenza e distanza culturale, ed esige la messa in opera di tutta la strumentazione filologica e linguistica, storica e archeologica, letteraria e comparativistica... per cogliere il più oggettivamente possibile la parola di Dio nel testo biblico. E tuttavia tutto questo resta su un piano sostanzialmente strumentale che deve sempre essere accompagnato dalla fede che in quel testo biblico, così come si presenta nella sua stesura attuale, Dio parla a me oggi. E questo fa sì che anche chi è demunito di strumenti di analisi del testo possa pervenire, nel suo sforzo personale, a una corretta interpretazione grazie allo Spirito santo che riposa su di lui e guida indefettibilmente il suo sensus fidei. Del resto anche l’approccio storico del testo scritturistico esige che si apra «la propria storia alla parola che da quella storia ci viene incontro. E questa apertura necessaria alla storia che ci parla nel Nuovo Testamento è la fede»[125].

Ascolto nella fede

L’ascolto della Scrittura deve essere dunque ascolto nella fede. Per la Scrittura ascoltare (shama’) significa obbedire: la fede nasce dall’ascolto (fides ex auditu: Rm 10,17) e la vita cristiana si configura come chiamata all’obbedienza della fede (oboeditio fidei: Rm 16,26). Cosi le Scritture stesse esigono obbedienza (hypakouein: 2Ts 3,14), ascolto fattivo, anzi esigono il si preliminare a colui che parla tramite esse. Quando la mediazione mosaica dell’alleanza sinaitica trova la sua compiutezza nella redazione scritta del «libro dell’alleanza» (Es 24,4), la risposta del popolo alla lettura del libro è: «Tutto ciò che il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7), cioè lo metteremo in pratica e cosi lo ascolteremo veramente, lo comprenderemo.
Ma proprio questo testo dell’Esodo ci rivela che ascolto nella fede significa anche radicale coinvolgimento del lettore che è destinatario della parola scritturistica. Grazie al libro scritto i «figli di Israele» (Es 19,1.3.6 e passim) implicati nel testo sono anche tutti i futuri lettori del libro che, tramite l’ascolto obbediente delle parole del racconto, lasceranno avvenire nella loro vita l’evento sempre attuale della parola di Dio entrando nell’alleanza con il loro Signore [126]. La lettura della Scrittura è dunque mediazione profetica per entrare e vivere nell’alleanza. Il problema serio è entrare nella Scrittura, più ancora che spiegarla, e «il mondo della Scrittura è un mondo in cui si entra affidandosi a esso: ‘Noi faremo e ascolteremo’» [127]. La natura stessa della parola biblica come parola della fede, come linguaggio della fede, «che vincola colui che la pronuncia, in un atto di radicale abbandono confidente, alla Parola che si rivela»[128], richiede una lettura della Scrittura che sia atto di fede confessata.
La confessione del Cristo morto e risorto come appare nella Prima lettera ai Corinti 15,3-5, il kérygma pasquale che è il nucleo neotestamentario della fede cristiana, è evento di linguaggio che non trasmette solo un fatto, ma il modo stesso di cogliere questo evento e renderlo nuovamente operante mediante — secondo l’espressione di Jean-Pierre Sonnet — la sua ri-enunciazione confessante. Quando Paolo «narra» la morte-resurrezione di Cristo nella Prima lettera ai Corinti 15,3 ss. lo fa tramite una enunciazione confessante che lo integra alla storia confessata («... da ultimo apparve anche a me»: 1Cor 15,8), tramite dunque un coinvolgimento radicale della sua persona nell’evento da lui stesso annunciato. E lo fa tramite il proprio inserimento in una tradizione («Vi ho trasmesso ciò che io stesso ho ricevuto...»: 1Cor 15,3; cf. 15,5-7). L’annuncio pasquale, poi, si produce esso stesso come evento:
L’enunciazione kerigmatica crea una situazione nuova; anche se non accolta, essa non lascia i suoi ascoltatori nello stato in cui si trovavano precedentemente. La potenza di Dio che si è manifestata nella resurrezione si manifesta ugualmente nell’annuncio di questa resurrezione. Il Cristo è resuscitato fin nel kérygma si deve dire con Heinrich Schlier: «L’evento pasquale... si è come raddoppiato nel suo annuncio, consegnandosi irreversibilmente nel kérygma, rifrangendo si in un ‘evento di parola’»[129].
Se dunque la confessione dell’evento appartiene pienamente alla realtà stessa dell’evento, occorre allora «non separare ciò che è unito: evento confessato e confessione dell’evento»[130]. Il lettore-ascoltatore è pertanto colui che, mosso dallo Spirito e incorporato nel corpo ecclesiale-comunitario, lascia operare in sé, per mezzo della fede, la performatività originaria della parola di Dio presente nella Scrittura ispirata, scoprendosi cosi in grado, a sua volta, di riannunciarla con potenza, di testimoniarla efficacemente, di metterla in pratica[131].

Ascolto nello Spirito

L’aspetto di performatività proprio del linguaggio della fede dice la potenza, l’energia, la dynamis della parola scritturistica, che è la dynamis stessa dello Spirito santo. L’ascolto della Scrittura ispirata deve essere perciò ascolto nello Spirito santo (cf. DV 12). Ogni Scrittura «è ispirata da Dio» (theopneustos: 2Tm 3,16), cioè «le sacre Scritture hanno il potere (dynamena) di comunicare la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù» (2Tm 3,15). La Scrittura svela una dynamis che le è propria e che è direttamente orientata alla salvezza. Il valore della Scrittura non è anzitutto pedagogico o morale o didattico, ma soteriologico. «Essa dà salvezza mediante la fede»[132] e rende capaci di carità, di operare il bene (cf. 2Tm 3,17). Questo potere è fondato sull’azione dello Spirito che con le sue energie accompagna la Scrittura e dona salvezza a chi la accosta nella fede. Dice Tommaso d’Aquino: «I sacramenti traggono la loro efficacia dalla fede»[133] e questo vale anche per quel sacramento che è la Scrittura. Giovanni Crisostomo può esclamare: «Grande è la potenza della divina Scrittura»[134]; infatti la Scrittura «proviene dallo Spirito santo»[135] cosi che, animata dal dinamismo dello Spirito «ogni parola di Dio contenuta nelle Scritture divine ci chiama alla speranza dei beni celesti»[136].
Già il Nuovo Testamento introduce spesso delle citazioni dell’Antico Testamento con annotazioni che affermano che lo Spirito santo ha detto..., ha profetizzato[137]... Del resto il fenomeno della rilettura spirituale è costitutivo del processo di formazione del testo scritturistico, tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento[138], sicché le Scritture sono profetiche e la loro ermeneutica è operazione profetica. La Scrittura è parola umana, storica, «la Torà parla il linguaggio degli uomini»[139], ma la Scrittura santa (cf. 1Mac 12,9) o sacra (cf. 2Mac 8,23) partecipa dell’alterità e santità di Dio mediante lo Spirito stesso di Dio. Lo Spirito, secondo la rivelazione biblica, è criterio di comunione nell’alterità e nella differenza, è potenza dall’alto comunicata all’uomo, è presenza elusiva del Cristo nei tempi tra la Pasqua e la parusia, è dynamis che personalizza il credente, facendolo passare dall’anonimato dello schiavo (chiamato aprosopos, «senza volto», nell’antichità) all’identità del figlio (cf. Rm 8,15-17; Gal 4,6-7), dall’isolamento alla relazione con Dio e con gli uomini. Se la parola scritta testimonia un’assenza e una distanza, una differenza e uno scarto (in quanto testimonia eventi storici passati e indica un referente che la eccede), lo Spirito rende questa parola capace di instaurare una presenza nell’assenza, una vicinanza nella lontananza, una comunione nella differenza tra il lettore-ascoltatore e il Dio che rivelandosi nella Parola e nello Spirito ha lasciato nella Scrittura ispirata un signum della sua rivelazione.
Lo Spirito santo è dunque colui che articola lettera e spirito del testo biblico e guida il lettore a una comprensione spirituale, cioè comunionale, del testo fino a fare della lettura una stipulazione di alleanza. «Dobbiamo dunque — dice Origene — intendere secondo lo Spirito ciò che dice lo Spirito»[140], e Girolamo: «Abbiamo sempre bisogno della venuta dello Spirito per commentare le sacre Scritture»[141].
Opera dello Spirito, come l’umanità del Cristo, l’eucaristia e la chiesa, questi altri segni sensibili tramite i quali il Verbo si comunica agli uomini, anche la Scrittura esige, per essere compresa, che si raggiunga il suo dinamismo, quello dello Spirito. Solo una lettura spirituale della Scrittura permette di percepire nelle parole la Parola a cui queste rinviano, cosi come solo una comprensione spirituale dell’umanità di Gesù, dell’eucaristia e della chiesa permette di percepire nel rabbi giudeo, nel pane e nel vino, nel gruppo sociologico, la realtà di cui sono il segno. Ciò che fa difficoltà non sono questi segni, che sono veramente segni di ciò che significano perché lo Spirito è in essi, ma la nostra cecità naturale che è tolta solo dall’adesione allo Spirito che li anima[142].
Vi è un problema di intelligenza delle Scritture, per cui non basta scrutarle per avere la salvezza (cf. Gv 5,39.47), ma occorre la fede e l’ammaestramento dello Spirito santo che rende quanti lo accolgono dei teodidatti, «istruiti da Dio» (cf. Gv 6,45; Is 54,13). L’opera di Luca associa sempre il compimento della Scrittura alla discesa dello Spirito e attesta che l’intelligenza profonda delle Scritture, la loro «apertura» (verbo dianoigo: Lc 24,32) esige e provoca l’apertura (verbo dianoigo) della mente (Lc 24,45), del cuore (At 16,14), degli occhi (Lc 24,31). Cioè il coinvolgimento radicale del credente il cui ascolto diviene esperienza della presenza del Signore.
La Scrittura ispirata è anche ispirante e manifesta la sua potenza nel frutto di santità che fa germogliare nel lettore, nella testimonianza di colui che lascia dispiegare in sé la potenza della Parola accolta fino a testimoniarne la potenza vivificante dando la propria vita con il martirio. La Scrittura trova nel martire, il pneumatoforo per eccellenza, la figura confessante che in modo insuperabile ne testimonia l’ispirazione e la forza ispirante.

Ascolto nelloggi

Per questo occorre una lettura contemporanea, un ascolto in cui il testo è sentito rivolto direttamente al lettore nel suo oggi. Già i quattro evangeli sono riletture spirituali differenti dell’unico evento-Cristo, attuate in epoche differenti da comunità cristiane diverse e situate in aree culturali differenziate: ma tutte queste comunità hanno sentito l’evangelo di Cristo come parola attuale, vivente e rivolta a loro.
Il processo di attualizzazione, applicato soprattutto ai grandi eventi della storia di salvezza come l’esodo, attraversa tanto l’Antico quanto il Nuovo Testamento ed è stato determinante nella formazione e nella strutturazione del corpo scritturistico[143]. La Scrittura è tramite della parola di Dio che rimane in eterno (cf. 1Pt 1,25), consegna l’evangelo eterno (cf. Ap 14,6), annuncia il Cristo che è lo stesso ieri, oggi e sempre (cf. Eb 13,8): occorre dunque percepire che «ciò che è stato scritto prima di noi è stato scritto per nostra istruzione» (Rm 15,4), per noi che viviamo gli ultimi tempi (cf. 1Cor 10,11). Bisogna certamente saper risalire dal gramma al pneùma, dalla lettera allo spirito, attraverso i necessari passaggi ermeneutici, ma essenziale è questo atteggiamento di fede per cui ognuno personalmente in ogni momento storico deve sentirsi interpellato dalla Scrittura, giudicato, sottomesso al suo primato in modo tale da lasciarsi purificare e ricevere da essa il discernimento dei «segni dei tempi» senza imporli alla Scrittura a partire dalle proprie precomprensioni particolari.
Il testo presenta sovente degli elementi che svolgono la funzione di innestare il presente del lettore nel passato del testo stesso[144]. Per esempio il racconto dell’alleanza sinaitica inizia con le parole:
Al terzo mese dell’uscita dei figli di Israele dal paese d’Egitto, in questo giorno (ba-jom ha-zè) essi arrivarono al deserto del Sinai (Es 19,1).
E Rashi cosi commenta:
Il testo avrebbe dovuto portare: in quel giorno. Che cosa significa: in questo giorno? È per dirti che le parole della Torà devono essere per te sempre nuove, come se Dio te le avesse date oggi stesso[145].
Sì, ogni giorno Dio vuole instaurare l’alleanza tramite la sua parola; ogni giorno si deve pertanto rinnovare l’ascolto, come sta scritto nel salmo 95,7-9:
Ascoltate oggi la sua voce:
«Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove i vostri padri mi tentarono,
mi misero alla prova pur avendo visto la mia azione».
Questo oggi è esteso dalla rilettura della Lettera agli Ebrei 3,12-13 a «ogni giorno, finché dura questoggi», ed è il tempo in cui occorre che i cristiani vigilino e si esortino a vicenda per non indurire il cuore nel peccato. È quanto chiede anche l’attualizzazione liturgica della liturgia delle ore cattolica che fa pregare questo salmo ogni mattina.

Ascolto nella preghiera

L’ascolto poi deve essere orante. «La lettura della Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo» (DV 25). Già l’ascolto è l’inizio di questo dialogo, ma poi, tramite l’esposizione di sé al testo e l’applicazione del testo a sé, la Scrittura non solo viene capita, ma rivitalizzata producendo un’autentica teologia, un parlare non tanto di Dio, quanto a Dio, in risposta alla sua parola. Agostino avverte coloro che studiano la Scrittura che è necessario «conoscere i generi letterari in uso nelle sacre Scritture e penetrare con solerzia il modo come ogni cosa ivi è di solito espressa, ritenendola poi a memoria». Ma egli prosegue:
[È necessario] pregare per ottenere l’intelligenza (orent ut intellegant), essendo la preghiera il mezzo principale e più necessario. In quelle lettere infatti di cui sono appassionati leggono che il Signore dà la sapienza e dal suo volto derivano scienza e intelligenza (Pr 2,6). Da lui hanno infatti ricevuto il loro stesso trasporto quando esso è unito alla pietà[146].
Essendo la lettura spirituale finalizzata alla conoscenza del Signore e all’adesione a lui obbedendo alla sua parola, appare evidente la rilevanza ermeneutica della preghiera del testo biblico: si tratta di comprendere pregando, con la preghiera, e soprattutto di pregare per entrare pienamente, con tutto il proprio essere, nel dialogo con il Signore!

Sensi della Scrittura e «lectio divina»

Infine questo ascolto, che cerca di operare il passaggio dalla lettera allo spirito, che finalizza gli strumenti interpretativi del testo alla conoscenza della volontà e dell’intenzione del Dio che parla per pervenire all’obbedienza della fede, opera un approfondimento dei livelli semantici del testo biblico analogo allo schema dei quattro sensi della Scrittura presente tanto nel giudaismo quanto nel cristianesimo. Sviluppando la distinzione lettera-spirito nell’ambito di un’unità fondamentale proveniente in ultima istanza dall’unicità di Dio, l’esegesi giudaica è giunta a formulare un modello di lettura dinamico del testo biblico fatto di approfondimenti successivi[147]. Pur con tutte le ovvie modificazioni, questo schema si ritrova sostanzialmente nell’esegesi cristiana medievale che parla di senso letterale, allegorico (o spirituale), tropo logico (o morale), anagogico[148].
Una lettura spirituale nell’oggi intravede in un testo biblico il significato storico, e nel contempo la sua portata rivelativa, soprattutto la sua valenza cristologica, che coinvolge e impegna eticamente l’esistenza del cristiano, e infine il suo livello contemplativo ed escatologico. Di fatto, questi sono i livelli che la lectio divina porta naturalmente a discernere nel testo biblico in un movimento unitario che dall’esame del livello storico-letterale del testo (lectio) passa al suo approfondimento rivelativo, facendone emergere il volto del Cristo (meditatio), con cui si entra nel dialogo che coinvolge la persona e ne impegna e trasforma l’esistenza (oratio), fino a renderla partecipe della makrothymia di Dio verso le realtà umane, nella speranza del compimento escatologico, del Regno, dell’incontro faccia a faccia con il Signore tanto cercato nelle Scritture (contemplatio).
La lettura spirituale appare così attività teologale che suscita e alimenta fede, speranza, carità e ordina queste realtà in riferimento alla centralità del mistero di Cristo. Lo stesso senso tropologico, dipendente com’è dal senso critico e tutto teso a innestare l’uomo nella storia della salvezza, «non ha niente a che vedere con la morale nel senso stretto e astratto che riveste questa parola nel nostro vocabolario»[149], ma tende a inserire l’uomo e il suo agire etico nel divenire totale dell’alleanza che si ricapitola nella vita in Cristo. L’ermeneutica spirituale unifica rivelazione ed etica nell’apertura all’alterità di Dio che si manifesta in Cristo e all’alterità dell’altro uomo in cui è riconoscibile il Cristo. La lettura spirituale della Scrittura trova così nell’operazione di «trasformare lo sguardo» una delle sue funzioni principali sul piano morale ed è operazione che avviene particolarmente nella preghiera, liturgica certo, ma soprattutto personale, «nel segreto», nell’intimità con il Padre. Infatti è la preghiera il primo uso della Scrittura nella chiesa[150].
Ci serviamo del salmo 2 per mostrare un esempio di questa lettura spirituale che scopre i quattro sensi.
1. Il livello storico vi riconosce un antico salmo regale di incoronazione di un re davidico con l’evocazione dei torbidi sorti nel momento di interregno (cf. vv. 1-3) cui pone fine l’ascesa al trono del nuovo re (cf. vv. 4-6) che, durante il rito di intronizzazione, proclama pubblicamente il decreto che legittima divinamente il suo potere («Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato»: v. 7), compie con lo scettro ricevuto un gesto esecratorio spezzando i vasi che recano scritti i nomi delle nazioni nemiche (cf. vv. 8-9) e infine riceve un atto di omaggio da parte dei sudditi e dei rappresentanti dei paesi stranieri (cf. vv. 10-12).
2. Il livello spirituale vede nel figlio generato oggi da Dio (cf. v. 7) Gesù, il Messia che ha subito la passione a opera delle genti e dei popoli di Israele (cf. At 4,25-26) e che Dio ha resuscitato (cf. At 13,30.32-33) dandogli quel nome di Figlio che è superiore a ogni nome (cf. Fil 2,9) e che lo rivela superiore anche agli angeli (cf. Eb 1,5).
3. Il lettore è raggiunto nel suo oggi dal testo che lo invita a riconoscere la signoria del Cristo risorto e vivente e lo trascina a vivere più autenticamente la propria filiazione divina, la propria vocazione battesimale. Egli allora, in virtù dello Spirito del Cristo, che è il Figlio che non si è vergognato di chiamarci fratelli (cf. Eb 2,11), può entrare nel dialogo io-tu (‘ani-attà: v. 7) del salmo e rispondere «Abba» (Gal 4,6; Rm 8,15) a Dio che gli dice: «Tu sei mio figlio» (v. 7).
4. Questa parola che si è pienamente compiuta in Cristo resta una promessa escatologica per il credente che deve ancora combattere per lasciar regnare più radicalmente nella sua vita il Cristo. È nella Gerusalemme celeste che «il vincitore erediterà questo: io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 2 1,7). Ed è solo nel Regno che il Cristo eserciterà la sua regalità universale, perché solo allora sarà annientato l’ultimo nemico, la morte (cf. 1Cor 15,26), ed egli «pascerà (Sal 2,9 LXX) le genti con scettro di ferro» (Ap 2,27; 12,5; 19,15).





PARTE SECONDA
LA «LECTIO DIVINA» NELLA CHIESA

LEGGERE LA BIBBIA, ASCOLTARE LA PAROLA DI DIO



La Bibbia e la sua lettura

Per cercare di porre in luce un’ermeneutica della Scrittura che conduca all’incontro con il Cristo, parola definitiva di Dio all’umanità, dobbiamo qui ricapitolare — sia pure in modo rapido e sintetico — i diversi modi in cui la Bibbia è stata letta nella storia.

Le letture della Bibbia nella storia

Gli inizi della storia della lettura della Bibbia sono attestati all’interno della Bibbia stessa. La parola di Dio trasmessa da un profeta viene sentita nella sua forza di perennità che trascende la situazione in cui è stata emessa e viene riletta e reinterpretata da profeti posteriori (il secondo Isaia rilegge il primo Isaia; il terzo Isaia riprende il secondo Isaia). L’evento salvifico compiuto da Dio mediante l’esodo del suo popolo dall’Egitto viene sentito come il paradigma dell’intervento salvifico di Dio nella storia e riattualizzato — riletto e riscritto — in differenti epoche (Sapienza 10-19 è un midrash sull’Esodo). L’Antico Testamento presenta così numerosi esempi in cui la Bibbia interpreta se stessa stabilendo delle intertestualità attraverso citazioni e allusioni, così come presenta esempi di lettura midrashica, cioè di riattualizzazione in un nuovo contesto del senso di un passo o di un evento. Derivato dalla radice d r sh che significa «investigare», «cercare», il termine midrash è arrivato a indicare tecnicamente il metodo giudaico di studio della Scrittura (e i prodotti di tale studio, cioè i commenti). La lettura dell’Antico Testamento nel Nuovo può essere definita una specie di midrash, con la differenza fondamentale che il punto di riferimento ultimo non è, come nel giudaismo, la Torà, ma Gesù Cristo, che diventa la chiave di interpretazione di tutti i passi della Scrittura. Gli autori neotestamentari utilizzano i procedimenti in uso nell’esegesi giudaica del tempo: sviluppi dottrinali-narrativi dedotti da un testo biblico (Mt 22,23-32: midrash haggadà); principi normativi desunti da un passo dell’Antico Testamento (Mt 19,5-6; midrash halakhà); in Paolo troviamo casi di applicazione del ragionamento a fortiori e della deduzione per analogia, due delle sette regole (middot) esegetiche attribuite a rabbi Hillel (morto verso il 20 d.C.). Sempre Paolo presenta una modalità di riferimento all’Antico Testamento che fa di quest’ultimo un contenitore di tipi, figure, simboli e profezie che troveranno il loro antitipo, la loro realtà e il loro compimento in Gesù di Nazaret, il Messia (cf. 1Cor 10,1-4; Gal 4,21-31). Si pongono così le basi per la lettura tipologica e allegorica che sarà ampiamente utilizzata presso i padri della chiesa.
Sviluppando la dicotomia paolina lettera-spirito (cf. 2Cor 3,6), Origene instrada la lettura cristiana della Bibbia nella ricerca di un senso spirituale che si cela dietro il senso letterale del testo biblico. Presupposto di questa lettura è ovviamente il dato teologico dell’ispirazione scritturistica. Abbiamo detto che Origene perverrà a distinguere tre sensi della Scrittura: un senso letterale (storico); un senso mistico (relativo al mistero della storia di salvezza compiuto si in Cristo e dunque concernente le realtà di fede), un senso morale (riguardante l’applicazione pratica, il piano etico). Siamo alle radici di quella dottrina dei quattro sensi della Scrittura che caratterizzerà la lettura medievale delle Scritture. Rivediamo sinteticamente questo schema di approfondimento progressivo del senso del testo biblico ben espresso dal distico di Agostino di Dacia (XIII secolo):
Littera gesta docet, quid credas allegoria,moralis quid agas, quo tendas anagogia.
Il senso letterale ci informa sui fatti, sugli eventi successi, sulla storia (littera gesta docet); il senso allegorico o spirituale esprime l’oggetto della fede, conduce al mistero celato dietro il senso ovvio (quid credas allegoria); il senso morale o tropologico concerne il piano pratico e spirituale della vita del credente (moralis quid agas); il senso anagogico, o escatologico, dischiude la speranza del credente verso le realtà ultime (quo tendas anagogia). È importante sottolineare che in verità non si tratta tanto di quattro sensi, quanto piuttosto di un unico senso compreso a diversi livelli di profondità.
Nel medioevo accanto alla lectio divina, lettura sapienziale che nel testo biblico cerca la conoscenza amorosa di Cristo e il nutrimento per la fede — lettura coltivata soprattutto negli ambienti monastici —, si sviluppa, raggiungendo la sua massima fioritura tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, la lectio scholastica, in cui il testo biblico viene letto e usato per suffragare determinate posizioni teologiche: è una lettura tecnica, attenta al senso letterale che appare come l’unico che può essere fondativo in teologia (Tommaso d’Aquino). Ma è a partire dal XIV secolo che l’interpretazione cristiana della Scrittura, essenzialmente allegorica e spirituale, porta alle estreme conseguenze i rischi insiti in tale tipo di lettura: ovvero l’allontanamento dalla storia. Essa cade in procedimenti di astrazione sempre più complessi e in allegorizzazioni artificiose che segnano la sua decadenza e aprono la strada all’epoca moderna dell’interpretazione biblica.
Epoca segnata da una nuova considerazione del senso letterale, cosa questa che permane fino ai nostri giorni. Numerosi fattori contribuirono a questa rivalutazione: l’invenzione della stampa (XV secolo), che progressivamente porterà una moltitudine di lettori a un faccia a faccia con la Bibbia prima impossibile; il bisogno di un ritorno alla Scrittura come elemento di purificazione in un’epoca di decadenza dei costumi della chiesa (siamo nell’epoca della Riforma); il ritorno alle fonti e alla conoscenza delle lingue antiche propugnato dagli umanisti (Lorenzo Valla, nel XV secolo, propone il ritorno alla verità greca delle Scritture, dopo l’epoca medievale in cui aveva dominato la Bibbia latina). Sradicamento del «testo sacro» dal suo contesto religioso ecclesiale e necessità di un suo «trattamento» alla stregua di ogni testo antico, sviluppo del pensiero scientifico, acuirsi della coscienza storica, sono solo alcuni degli elementi che porteranno l’approccio alla Bibbia a incanalarsi, soprattutto a partire dai secoli XVII e XVIII, sui binari di una critica storica e letteraria. Siamo alle origini di quel metodo storico-critico (ma si potrebbe parlare al plurale di metodi storico-critici) che è dominante ancora oggi e che il documento della Pontificia commissione biblica, Linterpretazione della Bibbia nella chiesa, ritiene indispensabile per la «giusta comprensione» delle Scritture. Esso cerca di chiarire i processi storici di produzione del testo biblico, la sua evoluzione diacronica, eccetera. È critico perché si avvale dell’ausilio di criteri scientifici il più possibile obiettivi per ricostruire il testo, quindi per analizzarlo linguisticamente e letterariamente (individuazione delle unità testuali, esistenza di doppioni, valutazione del genere letterario, dell’apporto di elementi precedenti al testo finale stesso, esame dell’apporto del redattore finale, eccetera). Fine di questo metodo è pervenire, per quanto possibile, al senso del testo.
Poiché però nessun metodo può assurgere a idolo assolutizzandosi, e poiché nessun metodo può esaurire l’immensa ricchezza del complesso testo biblico, sono sorti molti altri approcci biblici e, in particolare in questi ultimi anni, soprattutto i metodi sincronici (che esaminano il testo così come si presenta nella sua stesura finale) hanno goduto di notevole favore. Si tratta, dal punto di vista letterario, dell’analisi retorica, dell’analisi narrativa, dell’analisi semiotica. Particolarmente interessanti sono l’approccio canonico, quello che si rifà alle tradizioni interpretative giudaiche (di quel mondo culturale e religioso in cui ha preso la sua forma finale l’Antico Testamento, in cui è vissuto Gesù e in cui è sorto il Nuovo Testamento) e quello che studia la storia degli effetti del testo biblico (la sua ricezione e la sua lettura nella storia). Altri approcci biblici sono mediati dalle scienze umane (sociologia, antropologia culturale, psicologia e psicanalisi, eccetera).

Il Dio che parla

Il credente: colui che ascolta

Fondamento teologico della Bibbia è che Dio parla. Di fronte a questo atto originario di Dio, il partner di Dio è colui che ascolta. Abbiamo già visto come la Scrittura attesti a più riprese che l’ascolto è ciò che rende Israele popolo di Dio. L’ascolto crea un’appartenenza, un legame, fa entrare nell’alleanza. Nel Nuovo Testamento l’ascolto è diretto alla persona di Gesù, il Figlio di Dio: «Questi è il mio Figlio amato, in cui mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17,5 e par.). La Scrittura contiene dunque un appello e chiede al suo lettore di farsi ascoltatore e rispondente. Leggere la Scrittura significa compiere un esodo in vista di un incontro, significa aprirsi a una relazione, entrare nel dialogo in cui essenziale è il movimento dell’ascolto. Il credente è»1’ascoltante». Chi ascolta confessa la presenza di colui che parla e vuole coinvolgersi con lui; chi ascolta scava in sé uno spazio all’inabitazione dell’altro; chi ascolta si dispone con fiducia all’altro che parla. Perciò gli evangeli chiedono discernimento su ciò che si ascolta (cf. Mc 4,24) e su come si ascolta (cf. Lc 8,18): infatti noi siamo ciò che ascoltiamo! La figura antropologica che la Bibbia vuole costruire è dunque quella di un uomo capace di ascoltare, abitato da un «cuore che ascolta» (1Re 3,9). È il cuore, infatti, che ascolta, cioè la totalità dell’uomo: il nucleo più profondo dell’uomo è forgiato dall’ascolto. Così, ascoltando la Parola, l’uomo si struttura come accoglienza dell’Altro. Essendo questo ascolto non una mera audizione di frasi bibliche, ma discernimento pneumatico della parola di Dio, esso richiede la fede e deve avvenire nello Spirito santo. Condizioni che ci rinviano alla lettura biblica nello spazio liturgico e nella lectio divina.

Liturgia

La Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo. Essa è un’eredità, un «testamento» consegnato a lettori-destinatari che subentrano agli autori attualizzando nella loro storia e nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto. Vi è pertanto un rapporto di reciproca appartenenza fra popolo e libro: la Bibbia non è nulla senza il popolo, ma anche il popolo non può sussistere senza il libro, perché in esso trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione, la sua identità. Questa mutua appartenenza fra popolo e Bibbia, che significa più in profondità l’appartenenza del popolo a Dio mediante l’alleanza, è celebrata nella liturgia, che è anche il luogo in cui avviene l’opera di ricezione della Bibbia. O meglio, questa ricezione avviene nella comunità riunita nell’assemblea liturgica. Il testo di Luca 4,16-21 (la proclamazione liturgica del brano scritturistico e l’omelia fatta da Gesù nella sinagoga di Nazaret) è significativo a questo proposito, tanto a livello teologico, quanto a livello antropologico. Quello che avviene lì avviene anche ogni volta che vi è una proclamazione della parola di Dio in una liturgia. Il testo della Scrittura viene letto e proclamato come parola viva per l’oggi, per una precisa comunità radunata in assemblea («Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi»: Lc 4,21): è la comunità radunata dalla parola di Dio, la comunità dell’ascolto, l’ekklesia. Nell’assemblea liturgica un lettore vivente dà il suo corpo al libro che così può risuonare come parola significativa oggi, come parola rivolta a una comunità determinata. Il lettore con la sua mano apre il libro, con gli occhi guarda il testo, con la bocca legge e presta la sua voce alla Scrittura: lo «sta scritto» risuscita così a parola vivente oggi. Questa operazione è pneumatica, è azione dello Spirito che, come ha presieduto al farsi libro della Parola, ora, nella liturgia, presiede al farsi Parola dello scritto («Lo Spirito del Signore è su di me»: Lc 4,18). È infatti grazie all’azione vivificante dello Spirito che la parola di Dio può risuonare nell’assemblea riunita e divenire fondamento dell’azione liturgica.
La necessaria presenza dello Spirito nella proclamazione della Parola nella liturgia è ben espressa dall’Eucologio di Serapione (IV secolo) che — conformemente alla tradizione alessandrina che comporta una doppia epiclesi all’anafora — contiene un’invocazione allo Spirito prima della proclamazione delle letture, e una dopo l’omelia. Epiclesi volte da un lato a far sì che lo Spirito guidi il presidente dell’assemblea nel compito profetico di comprendere, proclamare e spezzare adeguatamente la parola di Dio all’assemblea, e da un altro lato a invocare una giusta e degna ricezione della Parola da parte della comunità radunata. Nella liturgia, e massimamente nella liturgia eucaristica, avviene la resurrezione della Scrittura in Parola, sicché possiamo dire che leggere la Scrittura nel contesto liturgico significa inserirsi nella dinamica pasquale. Ovviamente questo evento avviene nella liturgia che è caratterizzata da quattro elementi costitutivi: c’è una lettura dei testi della Bibbia canonicamente ricevuta; questi testi sono proclamati come parola vivente di Dio per l’oggi, sono rivolti a un’assemblea che vi riconosce la propria identità, sotto la presidenza di un garante che attesta l’autenticità fondante di quanto viene letto.
L’assemblea liturgica, grazie allo Spirito santo, ascolta Cristo che parla» giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la Scrittura» (SC 7), si pone alla presenza di «Cristo che annuncia ancora il suo evangelo» (SC 33), consente a Dio di entrare in alleanza con il suo popolo, realizza il passaggio di Dio in mezzo al suo popolo. Scrittura e liturgia convergono dunque nell’unico fine di portare il popolo a quel dialogo con il Signore che è il fine profondo della parola di Dio. La parola uscita dalla bocca di Dio e testimoniata nelle Scritture torna a Dio in forma di risposta orante del popolo (cf. Is 55, I 0- I I): per questo al cuore della Scrittura si trovano i salmi che nel culto e nella liturgia esprimono la risposta del popolo all’azione di Dio nella storia. Il dinamismo profondo della liturgia è dialogico: Dio convoca il suo popolo; la lettura della Scrittura evoca gli interventi salvifici di Dio nella storia; 1’assemblea risponde ringraziando e invocando la bontà del Padre. Come dunque la Parola tende alla liturgia, cosi nella liturgia avviene la rigenerazione della Parola che si manifesta come vivente, attuale, efficace, conducendo il popolo all’alleanza. La struttura dia logica della liturgia si incontra con la finalità dialogica della Scrittura, ben mostrata dal Cantico dei cantici.

«Lectio divina»

Se già Origene parla di theia anagnosis, «divina lettura», la formulazione più pregnante di questa arte di ascolto della Parola la troviamo in Guigo il Certosino:
Un giorno, mentre ero occupato nel lavoro manuale, presi a riflettere sull’attività spirituale dell’uomo. Allora improvvisamente quattro gradini spirituali si offersero alla mia riflessione, e cioè la lettura, la meditazione, l’orazione e la contemplazione... La lettura è un accurato esame delle Scritture che muove da un impegno dello spirito. La meditazione è un’opera della mente che si applica a scavare nella verità più nascosta sotto la guida della propria ragione. L’orazione è un impegno amante del cuore in Dio allo scopo di estirpare il male e conseguire il bene. La contemplazione è come un innalzamento al di sopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio che gusta le gioie della dolcezza eterna[151].
Proprio della lectio divina (sia personale che comunitaria) è il contesto di fede e di preghiera in cui essa avviene: si apre con il silenzio, con la confessione di fede che attraverso la pagina biblica il Signore parla a me oggi, con l’invocazione allo Spirito e 1’apertura umile alla sua azione: la comprensione del testo è evento pneumatico, non operazione intellettuale. Lo studio rientra certamente all’interno del movimento della lectio divina: la meditatio non è infatti un’introspezione o un’autoanalisi psicologizzante, ma 1’approfondimento del senso del testo (anche mediante il ricorso a strumenti che vanno dalle note della Bibbia che si sta usando a un commentario, a un dizionario biblico, eccetera) perché emerga la punta teologica, il kérygma, il messaggio centrale. Dalla pagina letta e ascoltata si passerà poi alla presenza pregata, contemplata: un po’ come avviene in Luca 4,16-21 in cui si assiste plasticamente al passaggio dalla lettura del testo biblico (Gesù legge dal rotolo del profeta Isaia: cf. Lc 4,16-19) alla visione della persona di Cristo («gli occhi di tutti erano fissi su di lui»: Lc 4,20). Cosi la lectio divina, iniziata nella preghiera, sfocia nella preghiera: preghiera di ringraziamento o di adorazione, di lode o di supplica, silenzio che contempla la presenza del Signore o invocazione che la cerca, sempre sarà una preghiera ispirata dalla parola ascoltata e meditata.
Nella lectio divina si passa dalla lettura del testo per cogliere la Parola alla lettura di sé e del proprio vissuto davanti a questa stessa Parola. E si sperimenta l’unificazione a cui essa conduce: unificazione tra fede e vita, tra preghiera personale e liturgia, tra interiorità e impegno storico. Ma anche, per quanto riguarda il testo biblico stesso, unità tra Antico e Nuovo Testamento. La lectio divina infatti cerca di unificare la Scrittura all’interno del principio ermeneutico cristiano fondamentale delle Scritture stesse: Cristo morto e risorto, Parola definitiva di Dio all’umanità. E in questo modo sa cogliere il compimento alla luce della promessa e sa vedere che il compimento non solo non è senza la promessa, ma non esautora la promessa, anzi la rilancia verso un compimento escatologico. Il compimento in Cristo diviene la promessa in Cristo. Il Cristo, morto e risorto «secondo le Scritture» (1Cor 15,3-4), cioè secondo «la Legge, i profeti e i salmi» (Lc 24,44), non esaurisce la profezia dell’Antico Testamento, ma la risignifica rilanciandola verso il Regno, vero compimento del disegno di salvezza di Dio per l’umanità.

Linterpretazione del testo biblico

La Bibbia è un libro plurale: è una biblioteca di libri diversi, composti in epoche e luoghi diversi, scritti in tre lingue diverse (ebraico, greco, e in minima parte aramaico) e caratterizzati da generi letterari differenziati (lettere, testi poetici, annali, novelle...). Grande è dunque la distanza culturale dal lettore odierno. Questi sperimenta anzitutto l’alterità del testo. Come in una relazione umana con una persona occorre conoscere l’altro, ascoltarlo, sapere il suo passato, discernere il suo volere e il suo desiderio per poter entrare con lui in un dialogo costruttivo e per poterlo incontrare in verità, evitando di fagocitarlo o di lasciarsi assorbire da lui, così anche di fronte al testo biblico occorre mettere in atto una serie di passi che rendano possibile l’incontro fecondo, cercando di evitare la manipolazione della parola. Poiché la Bibbia è un libro in cui la parola di Dio è contenuta e trasmessa da parole umane, essa è sempre caratterizzata da un elemento teologico (per esempio la fede nel Dio che agisce nella storia e che, nel Nuovo Testamento, si manifesta pienamente in Gesù di Nazaret, il Cristo) e da un elemento culturale variabile secondo le epoche, i luoghi, gli autori (per esempio i generi letterari, i procedimenti stilistici, gli influssi di altre culture e letterature...), un’ermeneutica globale richiede da un lato un approccio esegetico che prenda sul serio l’alterità del testo, e dall’altro un’ermeneutica spirituale che faccia entrare nella relazione con il Dio che parla attraverso la parola umana. La fatica del lavoro esegetico è richiesta dal carattere storico della parola biblica e dalla centralità dell’incarnazione nella fede cristiana.
Il lavoro esegetico si snoda essenzialmente attraverso le tre tappe della critica testuale, della critica letteraria e della critica storica. In questo modo si cerca di stabilire il testo filologicamente più sicuro a partire dalle molte testimonianze manoscritte; di studiare i criteri linguistici e compositivi del testo, la sua struttura, il suo genere letterario, di individuare le fonti eventualmente utilizzate e la redazione dell’autore; infine di valutare storicamente il testo. Grazie a questo lavoro dovrebbe emergere con una certa oggettività il senso del testo (anche al di là dell’intenzione dell’autore, che spesso è utopico pensare di poter ricostruire). A questo punto entra in gioco il fattore più propriamente ermeneutico, quello che cerca di stabilire un ponte fra il testo e noi oggi. Possiamo esemplificare questo processo richiamando il prologo del terzo evangelo (cf. Lc 1,1-4). Il testo parla di quattro tappe: gli eventi storici (cf. Lc 1,1); la trasmissione della memoria di questi fatti operata da testimoni oculari e avvenuta all’interno di comunità cristiane che leggevano nella fede gli eventi «compiutisi» (cf. Lc 1,2; 1,1); la redazione scritta degli evangeli (cf. Lc 1,3, ma anche 1,1); i destinatari dello scritto («per te, illustre Teofilo»: Lc 1,4). Ricostruire le prime tre tappe della storia della composizione di un evangelo è il compito dell’esegesi, della critica storica (i fatti avvenuti), della critica testuale e della critica letteraria (redazione degli evangeli e loro preistoria). Scoperto ciò che il testo dice, si tratta ora di far emergere ciò che dice a me, a noi, oggi: questo è il compito dell’ermeneutica.
Nell’interpretazione, l’orizzonte del lettore si fonde con l’orizzonte del testo dando origine a una nuova realtà, a un significato vitale per l’oggi. Questa operazione di «traduzione» nel contesto culturale contemporaneo dell’antico testo biblico non è semplicemente tecnica, ma pneumatica. Essa richiede la fede, la quale, pur essendo sempre culturalmente segnata, è criterio ermeneutico decisivo per cogliere quanto è stato scritto all’interno e a partire della fede stessa. Quindi richiede l’assistenza dello Spirito santo, perché la Scrittura deve essere interpretata «nello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12). Si tratta quindi di un’ermeneutica che avviene in un contesto di preghiera (cf. DV 25), in particolare nella preghiera liturgica. Solo così la Scrittura è colta come sacramento che dona la parola di Dio e non solamente come libro che contiene idee e concezioni su Dio. È poi un’ermeneutica non individualistica (cf. 2Pt 1,20), ma comunitaria, ecclesiale. Questa operazione recupera l’unità della Bibbia, nella coscienza che la Bibbia nel suo insieme, Antico e Nuovo Testamento, è il libro della chiesa, e che il canone è criterio ermeneutico decisivo. E recupera l’unità sincronica e diacronica del popolo di Dio all’interno del quale la Scrittura ha vissuto e vive, ovvero la Bibbia non può essere scissa dal flusso di tradizione che la trasmette e veicola. La Scrittura poi, che secondo la tradizione è una lettera di Dio agli uomini, è data per essere vissuta, per essere obbedita. Vivere la Parola diviene così un criterio ermeneutico fondamentale per comprendere la Scrittura, la quale si svela a noi in maniera differente quando è vissuta rispetto a quando è semplicemente letta o studiata: avviene il passaggio pasquale dalla pagina alla vita.





LA «LECTIO DIVINA»: FONDAMENTI E PRASSI


I fondamenti

Dopo aver rapidamente accennato a questioni basilari, che fondano la possibilità stessa della lectio, possiamo mostrare il carattere tradizionale, e al tempo stesso attualissimo, della lectio divina come metodo ecclesiale e orante di lettura delle Scritture.
La lectio divina, abbiamo detto, è un atto di lettura della Bibbia chiamato a divenire ascolto della parola di Dio, incontro e relazione con il Signore che parla attraverso la pagina biblica. La lectio vuole attuare un’ermeneutica spirituale della Scrittura, ma questo significa che solo attraverso un’introduzione e un’iniziazione a una prassi di lettura della Bibbia nello Spirito si può dare sostanza alla ritrovata centralità della parola di Dio all’interno della chiesa, che altrimenti resta uno slogan vuoto.
Abbiamo visto come la lectio divina riproponga i principi basilari di lettura della Scrittura elaborati già all’interno del giudaismo e poi passati nella tradizione cristiana[152]. La lectio è una lettura della Scrittura che, avvenendo nella fede, nella preghiera, nell’apertura allo Spirito, diviene un ascolto della parola di Dio che tramite la pagina biblica si rivolge «a noi oggi».
Gli schemi elaborati dalla tradizione cristiana di varie tappe o gradini che strutturano la lectio divina, tra cui certamente emerge per incisività quello di Guigo II il Certosino che distingue lectio-meditatio-oratio-contemplatio[153], possono essere oggi reinterpretati come la necessaria iniziazione all’arte dell’incontro con l’Altro, come l’ascesi del corpo e dello spirito richiesta per entrare nel dialogo e nella relazione con il Signore che parla attraverso il testo, e per vivere alla sua presenza.
Ripercorriamo ora il cammino della lectio divina. L’invocazione iniziale allo Spirito, l’atmosfera orante in cui ci si dispone a uscire da sé per incontrare il volto del Cristo che per fede si confessa presente nella Scrittura, e quindi la lectio stessa (tesa all’oggettiva e corretta comprensione della lettera del testo ed esercitata su un testo seguito in lettura continua per evitare «piluccamenti» soggettivi e spontaneismo) convogliano lo sforzo di ripudio del soggettivismo per accedere allo «sta scritto» nella sua alterità e conoscere con oggettività quel testo che ci parla del Signore e pervenire poi a discernere il Signore che ci parla attraverso di esso.
Nella meditatio si approfondisce questa conoscenza mediante la riflessione e lo studio, finché il messaggio della Scrittura emerge a tal punto da raggiungere il lettore-ascoltatore ferendolo o consolandolo, ma sempre rivelando il Cristo crocifisso e risorto. La Scrittura è allora Parola che mi parla, rivelazione di un evento che mi riguarda, svelamento dell’amore del Cristo che «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La meditatio comporta pertanto il doppio movimento di sistole e diastole, di applicazione del testo a se stessi e di se stessi al testo[154] fino a «respirare le Scritture»[155]. La meditatio diviene così il luogo in cui leggo e giudico la mia vita personale e comunitaria davanti a Dio e alla sua parola, in cui mi penso in relazione alle esigenze della Parola per arrivare poi ad agire in obbedienza alla parola di Dio nella vita quotidiana.
Il pensare si trova così integrato al pregare, e la vita personale è portata oggettivamente davanti a Dio, proprio come nella struttura dei salmi di supplica individuale dell’Antico Testamento dove compare l’elemento dell’’’esposizione del caso», della lettura della propria situazione davanti a Dio. Di fronte alla Scrittura che ha liberato una parola rivolta a me, inizia il dialogo, l’oratio, l’ingresso nel gioco di reciprocità io-tu cui la Scrittura conduce, e avviene l’accoglienza dell’alleanza che è grazia a caro prezzo.
Grazie alla Scrittura accostata con fede e nell’apertura all’azione dello Spirito, la preghiera non è più monologo, né introspezione, né moralistica disamina dei propri atti, ma ha un partner, avviene davanti a una presenza e conduce alla contemplatio, alla rivelazione di questa Presenza in se stessi, alla scoperta che il proprio corpo, la propria vita sono chiamati a farsi trasparenza del Cristo agli uomini. La contemplatio fa sì che il volto di Cristo che è stato svelato dalle Scritture lo si sappia ora discernere nel volto del fratello, nella storia e nel creato, grazie appunto all’intimità con lo spirito dell’evangelo, con il respiro di Cristo, con lo sguardo di Dio.
La lectio divina è così la lettura spirituale delle Scritture che consente alla Parola inviata da Dio di compiere il suo tragitto fino a fruttificare nel cuore dell’uomo e a mostrare la sua efficacia (cf. Is 55, 10-11) plasmando la santità di una vita eucaristica (eucharistoi ghinesthe, «diventate eucaristici»: cf. Col 3,15) e di conversione. La lectio impegna tutto il lettore della Scrittura esigendo da lui anche riflessione, capacità di pensare per conoscere se stesso, per porsi in verità davanti alla parola di Dio e ricevere la propria identità in questa relazione, in questo dialogo, in questa alleanza che esige cambiamenti in sé e nella propria vita. Sicché essa è anche luogo della scelta, dell’apprendimento del discernimento e del dominio di sé; è luogo che può vitalmente rinnovare l’agire e l’operare del cristiano perché ne rinnova il volere e il sentire, l’interiorità!
La dinamica che l’incontro con il Signore tramite la lectio delle Scritture comporta non è fondamentalmente dissimile dalla dinamica antropologica richiesta dall’incontro con l’altro. Esodo da sé, morte al proprio narcisismo, ascolto dell’altro, perscrutatio del suo volto per coglierne l’animo, la dimensione profonda, conoscenza dell’altro, rispetto della sua differenza e alterità, accettazione di sé come relativo all’altro... sono i movimenti essenziali per accedere all’autentica relazione umana, segnata da libertà e amore, e vivere un’avventura di comunione[156].
Da tutto questo scaturisce un compito per la chiesa, la quale non può sottrarsi alla richiesta dei figli che domandano pane, il pane della Parola, e che deve pertanto spezzare questo pane, trasmettere la Scrittura come cibo e nutrimento vitali insegnando a «pregare la Parola», ad ascoltare la Parola leggendo le Scritture, introducendo cioè all’arte della lettura della Scrittura nello Spirito.
Infatti trasmettere la fede significa trasmettere le Scritture! «Scripturae faciunt christianos» è stato scritto parafrasando un’espressione di Agostino[157]. Ed è lo stesso Agostino che afferma che «il nostro pane quotidiano... il nostro cibo quotidiano su questa terra è la parola di Dio, che sempre viene distribuita nelle chiese»[158].
Si tratta di prendere sul serio il carattere divino-umano della Scrittura, il suo essere testimone dell’incarnazione perché essa stessa, in quanto graphé, in quanto «scrittura», è forma di incarnazione del Logos analoga al corpo fisico del Cristo[159].
Più che mai oggi la lettura della Scrittura deve coglierne e trasmetterne la portata sapienziale, la doppia valenza di parola di Dio e parola dell’uomo, deve mostrarla come il luogo di un’alleanza e di un incontro non relegati al passato ma che raggiungono l’umanità dell’uomo di oggi.
Occorre dunque una lettura delle Scritture che ne colga la perenne contemporaneità nell’annuncio, presente fin dalle prime pagine della Genesi, di ciò che è umanamente primordiale, universale e costante; lettura che, illuminata dalla centralità del Cristo che è apparso nel mondo come portatore di salvezza per tutti gli uomini e che ci insegna a vivere (cf. Tt 2,11-12), si ordini e si organizzi intorno alla testimonianza del divenire uomo di Gesù, del suo crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52) e pervenga così a orientare la crescita umana e spirituale del lettore alla statura di Cristo (cf. Ef 4,13).
La necessità di tale lettura nello Spirito è resa ancora più urgente dalla presenza nella chiesa di letture depauperate della Scrittura che non sanno mantenere il suo delicato equilibrio di parola divino-umana. Si incontrano così tendenze fondamentaliste, letteraliste; riduzioni della Bibbia a libro umano, di pietà, edificante, oppure a prodotto culturale, a momento ideologico; tentazioni marcionite di lacerazione della Scrittura, soprattutto svalutazioni dell’Antico Testamento rispetto al Nuovo[160].
Queste patologie sembrano significativamente riproporre nei confronti della Scrittura le antiche eresie cristologiche: dal monofisismo al nestorianesimo al docetismo... Di fronte dunque ai rischi dell’archeologismo della lettera e del narcisismo spirituale, di una lettura fusionale che non coglie l’alterità del testo e spinge l’«io» del lettore a fagocitarlo, oppure di una lettura storicistica che misconosce l’intenzionalità di trascendenza del testo stesso, occorre ricordare l’organico rapporto tra forma letteraria e contenuto spirituale della Scrittura: l’analogia della Scrittura con l’incarnazione di Cristo implica che, come non si perviene a Dio né alla divinità del Cristo se si astrae dalla sua umanità, ma solo attraverso di essa, così avviene anche per la Scrittura. E come è lo Spirito che presiede all’incarnazione, così è lo Spirito che deve presiedere alla lettura della Scrittura; come è lo Spirito che guida alla pienezza della verità, così è lo Spirito che guida il credente all’intelligenza della Scrittura. È lo Spirito il criterio della comunione nell’alterità, è lo Spirito il soffio che porta la parola di Dio e la rivolge all’uomo, è lo Spirito che suscita nell’uomo la risposta al Dio che parla: è lo Spirito che regge il dialogo tra Dio e l’uomo attraverso la Scrittura. Infatti lo stesso Spirito che è presente nella Scrittura e che anima il lettore, produce una sinergia in cui la Scrittura cresce con chi la legge e il lettore cresce a opera della Scrittura.
Alla luce di quanto detto, dovrebbe risultare chiaro che la lectio divina tende a fare l’unità tra vita e fede, tra esistenza e preghiera, tra umano e spirituale, tra interiorità ed esteriorità. Nell’accostamento alla Scrittura essa cerca di integrare lo studio, l’analisi critica del testo all’interno di un approccio sapienziale e orante, dunque un approccio di fede.

La prassi

Un tempo e uno spazio

Alla lectio divina occorre anzitutto un luogo di solitudine e di silenzio. Si tratta di cercare e ascoltare Dio «che è nel segreto» (Mt 6,6). Per disporsi ad ascoltare la Parola occorre far tacere le molte parole e i rumori che assordano il cuore, occorre entrare nell’essenzialità del silenzio e della solitudine, operando una presa di distanza dalle molte presenze che giornalmente ci assediano. Una parola autorevole può nascere solo dal silenzio, da un lungo ascolto, dalla capacità di meditare e pensare, di riflettere e ponderare. Per aiutarsi alla lectio divina si può ricorrere a un’icona, a un cero acceso; certamente è essenziale coinvolgere il corpo nell’incontro con il Signore a cui ci si sta disponendo: la lectio divina non è meramente intellettuale, ma vuole riguardare tutta la persona, tutto il corpo. Alla lectio divina è bene dedicare un tempo fissato nella giornata, un tempo cui restare fedeli, non i ritagli lasciati dai molti impegni. Un tempo adeguato alla serietà che deve contraddistinguere la lectio è un’ora, ma certamente è la perseveranza, la quotidianità che porta frutto, al di là della misura di tempo che dipende anche dallo status e dagli impegni di colui che vi si consacra.
La lectio divina edifica il sensus fidei, è alla base della capacità di discernimento, ed è anche sforzo ascetico: essa necessita di interiorizzazione perché il seme della Parola possa attecchire e mettere radici; di perseveranza perché un ascolto entusiasta ma incapace di durare nel tempo resta sterile; di lotta spirituale per trattenere la Parola e non lasciarla soffocare dai rovi dei desideri mondani (cf. Mc 4,13-20). Così, molto concretamente, la lectio divina consente alla parola di Dio di esercitare una reale signoria sulla vita del credente. Anche queste ultime considerazioni mostrano che essa non è un’attività che coincida con lo studio di un testo e in tale studio si esaurisca, ma certamente le persone «intellettuali» corrono sempre il rischio di ridurre la lectio divina a un’esperienza di fruizione intellettuale o estetica: il testo fa sorgere idee brillanti nelle quali ci si compiace, oppure viene colto nella sua «bellezza» e di questa intuizione ci si gratifica, precludendo si però il frutto spirituale vero e profondo.

La preghiera

Alla lectio divina ci si prepara, dunque, con il silenzio, con l’esodo da se stessi, ma poi con la preghiera. E anzitutto con l’epiclesi, con l’invocazione allo Spirito santo il quale può aprire gli orecchi del nostro cuore per darci l’intelligenza della Parola. Dopo la preghiera allo Spirito, per entrare nel clima di ascolto e dialogo amoroso con il Signore che parla tramite la pagina biblica, può essere di aiuto la lettura di una strofa del salmo dell’ascolto (Sal 119), vero e proprio duetto di amore assimilabile al Cantico dei cantici. Si entra così sempre più nella lectio divina come luogo sacramentale di esperienza dell’amore di Dio.

«Lectio»

L’atto iniziale della lectio divina vera e propria è un atto di lettura. Credo che oggi occorra imparare e insegnare a leggere, a rapportarsi dialetticamente soprattutto a quel libro così esigente che è la Bibbia. È sulla Bibbia, infatti, e solo su di essa, che si esercita la lectio divina. Certamente la tradizione cristiana ci fornisce esempi di un’accezione più larga della lectio nel senso che essa è stata consigliata ed esercitata anche in rapporto a testi autorevoli di padri della chiesa, eccetera. Tuttavia solo la Bibbia gode di quello statuto particolarissimo nella chiesa che la rende sacramento della parola di Dio. Inoltre, se questa lettura è «divina», è appunto perché si esercita sulle Scritture ispirate. Gli altri libri (testi dei padri, testi eucologici...) possono intervenire in sede di allargamento e commento del testo biblico, oppure possono essere oggetto di una lettura spirituale, ma la lectio divina è lettura della Scrittura.
Come scegliere i testi da leggere? O si sceglie un libro e se ne fa una lettura continua (leggendolo pericope per pericope, giorno dopo giorno), oppure si fa la lectio divina sui testi (o su un solo testo) della liturgia del giorno. Nel primo caso l’arricchimento è costituito dal poter entrare in profondità in un libro biblico cogliendolo nel suo complesso, mentre nel secondo è dato dalla compenetrazione fra preghiera personale e preghiera liturgica. Sicuramente il lezionario festivo della chiesa cattolica è molto ricco e offre la possibilità di lectio che colgano l’unità che traversa tutte e tre le letture, o almeno il brano dell’Antico Testamento e l’evangelo; il lezionario feriale, invece, non consente questo. In ogni caso è spiritualmente utile fare la lectio divina su un testo biblico che si adatti al tempo liturgico che si sta vivendo.
Inoltre, se qualcuno ha poca o nessuna conoscenza biblica, è bene per lui avere una certa gradualità di introduzione alla Scrittura, iniziandola da un testo semplice e fondamentale al tempo stesso (per esempio l’Evangelo di Marco, cui può seguire Esodo 1-24, poi Atti degli apostoli, quindi un profeta...), e lasciando a più tardi, quando si avrà maggiore competenza e scioltezza nel maneggiare la Scrittura, libri come Daniele, Lettera ai Romani, Lettera ai Galati, Lettera agli Ebrei, Apocalisse...
Di fronte al testo occorre finalmente iniziare a leggere. Si legga il testo più volte: anche quattro, cinque volte. Se si tratta di testi già noti, il rischio è quello di leggere superficialmente, di non soffermarsi sul testo, così da perderne la ricchezza. Può allora essere utile scrivere il testo ricopiandolo. Questo obbliga a uno sforzo di concentrazione notevole e spesso capace di far cogliere dimensioni e aspetti del testo di cui non ci si era mai accorti. Se poi si conoscono le lingue ebraica e greca, allora si può leggere la Bibbia nell’originale, attingendo a quella grande ricchezza che inevitabilmente viene offuscata o a volte nascosta del tutto in una traduzione. In ogni caso una buona traduzione, o una traduzione confrontata con altre, può soddisfare alla necessità di avere una seria base di partenza. Può essere utile spiritualmente utilizzare certi strumenti, tra cui basilari sono le concordanze, e se si legge un evangelo la sinossi.
Anche se si sta facendo la lectio divina nel chiuso della propria stanza, in perfetta solitudine, si legga ad alta voce, in modo da ascoltare fisicamente ciò che viene letto. I padri medievali insistevano sull’importanza dell’ascoltare le voces paginarum: l’ascolto è già preghiera, è già accoglienza in sé della parola e dunque della presenza di colui che parla.

«Meditatio»

La meditazione non deve essere intesa nel senso di una meditazione introspettiva di stampo loyoliano o di una autoanalisi psicologizzante. Essa è invece un approfondimento del senso del testo letto, e in questa operazione di approfondimento possono intervenire degli strumenti di studio, di consultazione, dunque dizionari biblici, commentari, eccetera. La lectio divina non va confusa con lo studio di un testo biblico, però lo studio può e deve essere integrato in essa. Si tratta infatti di superare l’alterità del testo, la distanza che ci separa da testi scritti molto tempo fa e in lingue e contesti culturali molto diversi dai nostri. Occorre prendere sul serio questa alterità del testo per non rischiare di cadere nel soggettivismo e per non far dire al testo ciò che il testo non ha proprio mai detto. È questione di obbedienza alla Parola, di non manipolazione della Parola. Pertanto è bene deporre anche quegli slogan a volte ripetuti che tacciano di intellettualismo, di operazione «meramente culturale» un approccio alla Bibbia che semplicemente voglia essere rispettoso dell’alterità del testo scritturistico. Rifiutare lo studio, lo sforzo di approfondimento è un atteggiamento che prepara la via all’abbrutimento e alla decadenza di una persona o di una comunità. Comunque, quali che siano gli strumenti messi in atto per meglio comprendere il testo biblico in questione, saranno sempre gli sforzi personali che si riveleranno i più fecondi.
Nella meditatio si deve tendere a far emergere l’apice teologico del testo, il suo messaggio centrale, o comunque un suo aspetto rilevante. Inizia cioè il dialogo fra la persona e il testo, l’interazione tra la vita del lettore e il messaggio del testo. È a questo punto che, naturalmente, sorge la preghiera.

«Oratio»

Il movimento dialogico che si instaura fra il lettore e il testo diviene il dialogo orante in cui il credente si rivolge a Dio con il «tu». Qui ovviamente non ci sono indicazioni precise da dare, se non l’esortazione alla docilità allo Spirito e alla Parola ascoltata. Questa Parola infatti plasma la preghiera orientandola nel senso dell’intercessione o del ringraziamento o della supplica o dell’invocazione. Può avvenire che la preghiera si manifesti semplicemente con un silenzio di adorazione, o addirittura con il gioioso dono delle lacrime di compunzione. Occorre anche ricordare che a volte la lectio divina resta nell’aridità del deserto: il testo resiste ai nostri sforzi di comprensione, la Parola resta muta, e anche la nostra preghiera non sgorga... All’interno di una relazione autentica avviene anche questo, ci sono anche questi momenti, e la relazione con il Signore non ne è esente. Il Signore chiama a uscire nel deserto per incontrarlo, ma a volte il deserto non diviene luogo di incontro bensì solamente di aridità e di fatica. Eppure anche allora occorre perseverare, rimanere, offrire il corpo atono in preghiera muta. Il Signore sa discernere anche il desiderio di preghiera. E comunque l’efficacia dell’assiduità con la parola di Dio nella lectio divina si misura sul lungo periodo. L’esercizio all’ascolto crea nel credente uno spazio di accoglienza per il Signore, e la Parola accolta rigenera il credente a figlio di Dio (cf. Gv 1,12), lo rende capace di contemplazione.

«Contemplatio»

La contemplazione è appunto l’ultimo «gradino» di questa scala ideale. Il credente si sente visitato dalla presenza di Dio e conosce la «gioia indicibile» (1Pt 1,8) di tale inabitazione. Bernardo di Clairvaux ha parlato di tale esperienza:
Confesso che il Verbo mi ha visitato, e parecchie volte. Sebbene molto spesso sia entrato in me, io non me ne sono neppure accorto. Sentivo che era presente, ricordo che era venuto; a volte ho potuto presentire la sua visita, ma non sentirla; e neppure sentivo il suo andarsene, poiché di dove sia entrato in me, o dove se ne sia andato lasciandomi di nuovo, e per dove sia entrato o uscito, anche ora confesso di ignorarlo, secondo quanto è detto: Non sai di dove venga e dove vada (Gv 3,8)[161].
La contemplazione non designa uno stato estatico e neppure allude a «visioni», ma indica la progressiva conformazione dello sguardo dell’uomo a quello divino; indica così l’acquisizione di uno spirito di ringraziamento e di compassione, di discernimento e di makrothymia, di pazienza e di pace. Come la Parola tende all’eucaristia, così la lectio divina plasma progressivamente un uomo eucaristico, capace di gratitudine e di gratuità, di discernimento della presenza del Signore nell’altro e nelle diverse situazioni dell’esistenza. Quest’uomo sarà anche un uomo di carità, capace di agape. La lectio divina sfocia nella vita, manifesta la sua fecondità nella vita di un uomo.
La lectio divina disegna così una parabola dalla preghiera alla preghiera: iniziata con l’invocazione dello Spirito, essa sfocia nella contemplazione, nel ringraziamento, nella lode.





LE SFIDE DELLA «LECTIO DIVINA»



Non c’è dubbio che questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della parola di Dio... In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza[162].
Con queste parole, all’inizio del terzo millennio cristiano per la primissima volta una lettera apostolica indirizzata all’insieme dei fedeli indicava nella lectio divina una prassi feconda per la vita spirituale di tutti i cristiani. Questo invito insistente di Giovanni Paolo II si rivela particolarmente opportuno. In effetti, oggi siamo in grado di constatare il ruolo centrale che la Scrittura ha ritrovato nella vita della chiesa cattolica e di valutarne l’importanza.
Dopo secoli di disaffezione, da qualche decennio assistiamo a una riscoperta della Bibbia da parte dei credenti cattolici, che avevano perso il contatto diretto con la Scrittura e che di conseguenza non potevano più fame l’alimento quotidiano della loro vita di fede e della loro testimonianza nel mondo. La chiesa cattolica continuava, certamente, a vivere di parola di Dio, specie nella liturgia, ma non era più una parola di Dio ascoltata, celebrata, meditata, conservata nel cuore in modo da nutrire la fede delle persone e dei gruppi.
Ricollocata oggi al cuore della vita ecclesiale, la Bibbia rimette in moto un processo che per secoli era rimasto bloccato, completamente atrofizzato: grazie all’assidua frequentazione delle Scritture, il cristiano alimenta la sua fede, può discernere quale sia il suo posto tra gli altri uomini, e soprattutto si immerge in quel processo di epignosis, di sovraconoscenza di Cristo, e dunque del mistero di Dio, che lo conduce a una fede di credente adulto (téleios, «perfetto»). Oggi la predicazione, specie nel contesto della liturgia, si nutre delle sacre Scritture e fa risuonare la parola di Dio nella comunità cristiana. Si, la parola di Dio prosegue la sua corsa, come auspica l’apostolo Paolo: «Pregate, affinché la parola del Signore porti a compimento la sua corsa» (2Ts 3,1). Senza rischio di equivoci, attualmente si può rilevare una fame, un desiderio profondo della parola di Dio, soprattutto nei paesi latini.
Sono convinto che di tutti i frutti portati dal concilio Vaticano II il più evidente è proprio questa restituzione della parola di Dio al popolo di Dio[163]. Tuttavia, a oltre quarant’anni dalla fine del concilio ci sono ancora importanti obiettivi da raggiungere. E innanzi tutto è necessario prendere pienamente coscienza delle implicazioni di una frequentazione assidua della Scrittura, specie nella lectio divina. Evidenzio soltanto alcuni punti, peraltro già da me affrontati in diverse pubblicazioni[164].

La lettura assidua della Scrittura

Se la Scrittura ha ritrovato, a grandi linee, un ruolo centrale in alcuni ambiti della vita ecclesiale (liturgia, pastorale, catechesi), bisogna però riconoscere che si è ben lontani dal poter dire lo stesso della vita personale dei fedeli cattolici, che sicuramente non praticano una lettura quotidiana attenta delle Scritture. Certamente ci sono preti, religiosi, laici più sensibilizzati alla Bibbia (perché maggiormente preparati dal punto di vista culturale), movimenti ecclesiali che hanno una spiritualità interamente fondata sulla lettura biblica, ma la maggior parte dei fedeli non ha alcun contatto personale con la sacra Scrittura. Anche se una Bibbia si trova in ogni famiglia, molto spesso non è che un elemento decorativo ed è piuttosto raro che venga utilizzata per pregare o per 1’ascolto della parola di Dio. Si osserva anzi una certa diffidenza nei confronti di una lettura assidua della Bibbia, considerata come una prassi estranea alla tradizione cattolica. Inoltre un ostacolo è costituito dalla mancanza di preparazione dei presbiteri che di conseguenza mostrano scarsa sollecitudine nell’invitare i fedeli a questa lettura, e soprattutto non sono in grado di offrire loro un’iniziazione veramente soddisfacente.
Eppure una lettura personale della Bibbia sarebbe particolarmente auspicabile nel contesto della società attuale — pluralista, diversificata, multireligiosa e multiculturale — nella quale i cristiani non costituiscono più un insieme omogeneo e la loro situazione di diaspora emerge in modo sempre più evidente. Perché la fede abbia un radicamento solido e profondo ci vuole la frequentazione permanente di questa sorgente viva di vita spirituale. Un po’ ovunque si registra una diminuzione della frequenza alla messa quotidiana, se non addirittura la sua scomparsa: di conseguenza, il cristiano deve poter trovare un alimento per la sua fede nell’ascolto diretto della Scrittura. La vita comunitaria non è più sufficientemente intensa per plasmare la fede del cristiano e aiutarlo a viverla nel mondo: dunque è la parola di Dio nella sacra Scrittura ciò che gli può permettere di nutrirsi spiritualmente, trovare regole di condotta, discernere i segni dei tempi e pregare.
Ma quali sono, concretamente, i mezzi proposti per l’ascolto e la meditazione della Scrittura a una generazione che concepisce la preghiera più come una meditazione davanti a Dio che come un dialogo con lui? La dimensione orante e meditativa nell’approccio alle Scritture a livello personale è un punto cruciale per la trasmissione della fede alle generazioni future. Il giudaismo ci ha mostrato in qual modo la fede può sopravvivere nella diaspora grazie alla frequentazione assidua della Scrittura e alla santificazione del sabato a essa legata. In un memorabile intervento al Consiglio delle Conferenze episcopali europee, nel 2001, l’allora cardinale Ratzinger sottolineava con forza che, anche ai nostri giorni, il sensus fidei cresce grazie alla frequentazione assidua e fedele della Scrittura: «Sono convinto che la lectio divina è l’elemento fondamentale nella formazione del sensus fidei e di conseguenza l’impegno più importante per un vescovo maestro della fede»[165].

«Divina eloquia cum legente crescunt»

La parola del Signore edifica la comunità edificando nel contempo ogni fedele. Potremmo anzi dire con Luca che «la parola di Dio cresce mentre il numero dei credenti aumenta considerevolmente» (At 6,7), o che la parola di Dio cresce nella misura in cui si diffonde: «La parola di Dio cresceva e si moltiplicava» (At 12,24). La crescita della comunità manifesta la crescita della Parola, perché la comunità è il frutto della Parola efficace di Dio, ma anche il luogo in cui questa Parola è vissuta. Se è vero che «Scripturae faciunt christianos», è altrettanto vero che «gli oracoli divini crescono con chi li legge»[166]; questo significa che la parola di Dio cresce grazie alla lettura che ne viene fatta come chiesa, e trova una sua ermeneutica vivente nella vita stessa della chiesa.
Per questo motivo la frequentazione assidua delle Scritture, in particolare nella forma della lectio divina, deve costituire un’occupazione nel contempo personale e collettiva, nelle parrocchie e nei gruppi cristiani, e non soltanto, come accade abitualmente, nelle comunità religiose. Si pensi al significato profondo che potrebbe avere una lectio divina come preparazione alla celebrazione eucaristica della domenica, dove l’omelia sarebbe la conclusione di questo atto di lettura! Dunque è importante e auspicabile che si diffonda la prassi della lectio divina comunitaria, oggi troppo rara. È necessario uno sforzo maggiore in quest’ambito: sarebbe opportuno avere il coraggio di introdurre nuove modalità che possano dare frutto.
Del resto la comunità è inseparabile dalla Scrittura perché il libro, senza una comunità che lo legge, non è nulla. Ma anche la comunità senza il libro non può sussistere: è in esso che trova la propria identità e vocazione[167]. Anche Bernardo di Clairvaux definisce la comunità come specchio del libro e il libro come specchio della comunità.

Parola e storia

Veniamo infine al rapporto tra parola di Dio e storia, e per affrontare questo problema occorre concepire correttamente la lettura, individuando prima di tutto tre tentazioni:
1. la tentazione fondamentalista, che pretende di comprendere la parola di Dio senza la fatica e la pazienza dello studio biblico, senza il ricorso all’analisi storico-critica e ad altri metodi esegetici, senza un’ermeneutica sotto la guida dello Spirito. Non è inutile ricordare qui il giudizio espresso sul fondamentalismo dal già citato documento della Pontificia commissione biblica: «Il fondamentalismo invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero»[168];
2. la tentazione spiritualistica, che crede di poter raggiungere il messaggio senza confrontarsi con la lettera del testo, con la dura scorza della parola umana. Con questa tentazione il rischio che si corre è elevato: manipolazione della parola di Dio, soggettivismo, riduzione del testo biblico a una dimensione psicologica o affettiva;
3. la tentazione di attenersi alla storia, all’analisi dello «sta scritto», senza interessarsi al messaggio. Il rischio, in questo caso, è di scindere la lettura biblica dal problema del senso.
Queste tentazioni si manifestano là dove non si tiene conto di due vie da percorrere ogni volta che ci si accosta alla Bibbia: quella che va dalla Scrittura alla vita (cf. Lc 4,16-30) e quella che va dalla vita alla Scrittura (cf. Lc 24,13-35). La prima è certamente quella che le comunità cristiane utilizzano di più, e giustamente; conferirle un primato significa infatti riconoscere la signoria della parola di Dio sulla comunità. La Parola ispira, suscita l’adesione, provoca la fede. Però è necessario seguire anche la traiettoria inversa, che richiede un’attenzione agli eventi, un’analisi delle situazioni, per discernervi un appello, un segno sia nello spazio che nel tempo. Certamente il rischio che questo secondo approccio comporta è di strumentalizzare la parola di Dio, di far ne il supporto per una precomprensione ideologica: in questo caso la Parola non sarebbe più il criterio di discernimento dei segni dei tempi, ma diventerebbe oggetto di interpretazione tendenziosa. Tuttavia è indispensabile percorrere questo itinerario dalla vita alla Scrittura per giungere a una testimonianza viva della fede nel mondo di oggi.

Le difficoltà della «lectio divina»

Ho elencato qui, molto sommariamente, alcune sfide che si presentano sulla strada della lettura assidua delle Scritture e della lectio divina. Ora vorrei tentare una valutazione di alcune delle difficoltà e dei problemi che maggiormente travagliano la pratica della lectio divina.
Sono passati diversi decenni dalla chiusura del concilio Vaticano II e dalla fine dell’esilio della Scrittura dalla vita quotidiana dei credenti cattolici. Da allora la prassi della lectio divina è stata appresa e messa in pratica da singoli e da gruppi che vi hanno riconosciuto una forma ecclesiale di leggere la Bibbia capace di nutrire e far crescere la fede. Il passare del tempo ha stemperato gli entusiasmi iniziali e ha fatto emergere la fatica e le difficoltà di questo cammino quotidiano di ascolto della parola di Dio attraverso la lettura delle Scritture.

Lefficientismo ecclesiale

Una prima difficoltà che ostacola il diffondersi e il radicarsi nelle realtà ecclesiali della pratica della lectio divina è il primato che, di fatto, viene accordato nelle parrocchie e nelle chiese locali alle molteplici attività pastorali e di animazione, sociali e caritative, di assistenza e di organizzazione, rispetto al compito essenziale di trasmettere l’arte di vivere e nutrire la fede: in concreto, l’iniziazione alla vita interiore, l’arte della preghiera personale e della lotta spirituale, la conoscenza delle Scritture e, soprattutto, degli evangeli, che donano la conoscenza di Gesù Cristo, centro della fede cristiana. Questo scollamento oggi percepibile fra «vita ecclesiale» e «vita spirituale» è un ostacolo anche alla lectio divina, che rischia di non essere compresa oppure di essere considerata come «una cosa da fare» tra le altre. Così essa finisce per essere delegata al gruppo biblico, agli «amatori» della Bibbia, e non innerva né rivitalizza e neppure innova la vita ecclesiale dei credenti. Ma una chiesa che non sappia accordare il giusto spazio alla Bibbia non rischia forse di offuscare la propria vocazione di essere ekklesía, cioè l’assemblea convocata dalla parola di Dio che risuona nelle Scritture che vengono proclamate nella liturgia eucaristica? Vi è infatti uno strettissimo rapporto fra Scrittura e chiesa, sicché il tipo di approccio alle Scritture ha una ricaduta ecclesiologica e denota il volto della chiesa.

Lignoranza di fede

Accanto al lamentato divario fra «vita ecclesiale» (nell’accezione appena proposta) e «vita secondo lo Spirito santo», e connessa a esso, sta l’ignoranza crescente dei fedeli circa le cose di fede. È probabilmente uno dei prezzi da pagare all’avvenuta fuoriuscita dal mondo della cristianità, quando la cultura stessa era intrisa delle parole e dei gesti della fede cristiana. Ed è forse anche l’effetto della sterilità impressionante della catechesi contemporanea. Di certo, oggi si può toccare con mano il deficit spaventoso sul piano della formazione cristiana: anche presso i frequentatori abituali dell’eucaristia domenicale si possono considerare come non acquisiti i punti fondamentali della formazione cristiana elementare. Siamo di fronte a una sorta di analfabetismo di fede.
Tutto questo, ovviamente, non agevola la lectio divina e rende particolarmente difficile il pervenire alla maturità di un approccio di fede alla Scrittura in cui la lettura della pagina diventi relazione personale con una Presenza. Al tempo stesso, come spesso avviene, la difficoltà o la situazione critica può rappresentare una chance. Forse si può assumere come strumento privilegiato di catechesi, di annuncio, di trasmissione della fede la Scrittura stessa, anzi, essenzialmente gli evangeli. Si formerà così, nelle nuove generazioni, una fede più biblica, più cristocentrica, presumibilmente più libera, più capace di un confronto semplice e diretto con le radici evangeliche e con la vita di Gesù. E la lectio divina verrebbe sentita quasi naturalmente come una necessaria forma di preghiera. Si tratterebbe dunque di iniziare alla conoscenza di Cristo e alle esigenze della sua sequela con l’Evangelo secondo Marco; di iniziare alla vita ecclesiale attraverso l’Evangelo secondo Matteo; alla vita secondo lo Spirito e all’esistenza quotidiana illuminata dalla luce dell’evangelo con l’Evangelo secondo Luca; alla maturità della vita spirituale e di fede con l’«evangelo spirituale» per eccellenza, l’Evangelo secondo Giovanni.

La difficoltà di leggere

La nostra epoca segna la crisi della «lettura libresca classica»[169]. Il diritto all’informazione si è tramutato nel mito (perverso) dell’informazione che conduce molti a leggere quotidiani, riviste, a inglobare quante più informazioni possibili sui più svariati argomenti, senza poter presumibilmente seguire in modo veramente adeguato l’evolversi delle differenti e particolari situazioni su cui pure «si è informati»... È un leggere che va in estensione piuttosto che in profondità, che si misura sulla quantità piuttosto che sulla qualità. Si è sacrificata l’acquisizione della sapienza sull’altare della messe di informazioni, da aversi, se possibile, in tempo reale. E spesso senza saperle e poterle elaborare criticamente. Il libro viene così sempre più estromesso dai ritmi della vita quotidiana delle persone. Del resto, la lettura esige tempo e lentezza, ma l’uomo contemporaneo non ha tempo e ha fretta. Il primato dell’immagine e della comunicazione visuale così come la diffusione capillare della televisione non favoriscono certo il radicarsi della lettura del libro (evento oggettivamente più impegnativo), mentre assecondano la pigrizia intellettuale e aiutano il processo di colonizzazione dell’interiorità, di annullamento dello spazio interiore dalla vita dell’uomo conducendolo a un atteggiamento sempre più passivo, di fruitore piuttosto che di creatore. Quando invece si comprende che il libro, e il libro della grande letteratura, è «quintessenza e simbolo della vita umana», «figura originaria in cui si riassume l’esistenza»[170], allora si comprende anche il carattere spirituale della lettura: ha a che fare con il senso della vita, è evento che coinvolge tutta la persona del lettore, che stimola e attiva la sua vita interiore. Si legge infatti per ponderare e per riflettere, per incontrare personalità più originali e geniali della nostra; si legge per comprendersi di fronte al testo, essendo chiara la comune natura che il lettore condivide con l’autore[171]. Scrive molto bene Paul Ricoeur:
Contrariamente alla tradizione del cogito e alla pretesa del soggetto di conoscere se stesso per intuizione immediata, ci si comprende passando attraverso le grandi testimonianze che l’umanità ha deposto nelle opere di cultura. Se la letteratura non avesse dato articolazione ed espressione linguistica all’amore e all’odio, ai sentimenti etici e a tutto quello che in generale forma noi stessi, ben poco ne sapremmo... Comprendere significa comprendersi davanti al testo, vale a dire non imporre al testo la propria limitata capacità di capire, bensì esporsi al testo per ricavarne una più ampia dimensione di sé[172].
La difficoltà della lettura si accompagna pertanto alla difficoltà di attivare una vita interiore e, particolarmente, di pensare. È evidente che tutto questo influisce in modo decisamente negativo anche sulla possibilità di attuare una lectio divina. Almeno, influisce negativamente sulle disposizioni interiori, sull’atteggiamento profondo del soggetto orante. Se, infatti, il metodo tradizionale della lectio divina prevede quei quattro momenti che rispondono al nome di lectio, meditatio, oratio, contemplatio, essi possono essere sintetizzati nei due fondamentali movimenti oggettivo (lectio-meditatio) e soggettivo (oratio-contemplatio). Nel primo momento si lascia parlare il testo, si fa emergere il suo messaggio, si ascolta la pagina biblica con uno sforzo di lettura attenta e di studio volto a un’approfondita comprensione; nel secondo, invece, entra in gioco la soggettività dell’orante, la sua esistenza che viene pensata e portata davanti al testo biblico; entra in scena la capacità di dialogo interiore dell’orante fra messaggio ascoltato nel testo e vita personale. L’atto di lettura si svelerà particolarmente efficace nel momento in cui il lettore si sentirà letto dal testo. La scoperta che compie chi è assiduo alla lectio divina è appunto quella di essere letto dalla pagina biblica molto meglio e più profondamente e completamente di quanto egli non legga la pagina biblica. È dunque evidente che l’arte della lectio divina avrà bisogno di persone con una vita interiore, capaci di pensare, di attivare un dialogo interiore. Tutto questo non è mai immediato e facile, ma oggi appare particolarmente difficile.

Le difficoltà della Bibbia

Se è difficile leggere, la Bibbia presenta difficoltà particolari al lettore. Si tratta delle difficoltà che possiamo raccogliere sotto la cifra dellalterità del testo. La distanza culturale che separa noi occidentali dal mondo e dalla mentalità semita che ha prodotto il testo biblico; i continui riferimenti culturali a situazioni, eventi, paesi, popoli, usi e costumi decisamente estranei a noi e alle nostre conoscenze; il linguaggio, la stessa poetica, così distanti dai modi e dalle forme del linguaggio e della poetica occidentali, sono elementi reali che dicono la distanza culturale fra il testo e noi e che impegnano nel faticoso sforzo di entrare in un mondo differente dal nostro. Si tratta peraltro di una difficoltà che è presente quando si legge qualunque testo dell’antichità o proveniente da un contesto religioso o culturale altro dal nostro. Tuttavia, in questa innegabile distanza culturale, il lettore della Bibbia spesso vede ostacoli e difficoltà quasi insormontabili o che conducono a porre l’interrogativo circa la necessità della lettura della Scrittura, soprattutto dell’Antico Testamento, e la sua significatività per l’uomo moderno. Dietro a questa obiezione si nasconde però la miopi a di chi accorda maggiore importanza all’aggettivo («moderno») che al sostantivo («uomo»). In effetti, le differenze culturali non annullano, anzi consentono di far emergere ancora meglio
la radicale unità e somiglianza di tutti gli uomini, orientali o occidentali, antichi o moderni. Se ognuno di noi scende alla profondità del sostantivo, troverà semplicemente l’«uomo»; il quale poi, nella sua realizzazione storica e individuale, si diversifica con tanti aggettivi, a diversi piani di essenzialità o accidentalità... Buona parte del linguaggio dell’Antico Testamento è vicino a questa semplicità e radicalità umana... e parla un linguaggio umano, semplicemente umano, radicalmente umano[173].
Credo dunque che, in questo caso, ci si trovi di fronte a un cattivo uso delle difficoltà. L’alterità del testo è cifra dell’alterità della persona e della difficoltà che ogni rapporto conosce se si vuole realmente entrare in relazione con l’altro. In questo senso, il movimento della lectio divina è profondamente umano e chiede all’uomo lo sforzo dell’umanizzazione: si tratta di leggere con umanità per cogliere la dimensione umano-esistenziale presente nel linguaggio umano delle Scritture. In quest’ottica si comprende come uno dei criteri ermeneutici della Scrittura che la lectio divina chiede di mettere in atto sia quello dell’esperienza esistenziale, della vita vissuta.
Ma questo ci introduce nella difficoltà forse più diffusa e rilevante che incontra chi fa la lectio divina: la difficoltà di operare il passaggio dalla pagina alla vita, di recuperare la pagina biblica al senso della vita.

Il passaggio dalla pagina alla vita

Le difficoltà circa la lectio divina che finora abbiamo esaminato riguardano o il polo soggettivo (condizioni e disposizioni dell’orante) o quello oggettivo (difficoltà inerenti alla Bibbia). Ma la difficoltà più vera della lectio divina è la relazione fra queste due istanze: come far emergere dalle frasi scritturistiche un messaggio che parli al mio oggi storico, alla mia vita? Come declinare concretamente la convinzione che la parola di Dio contenuta nelle Scritture sia parola attuale, contemporanea e rivolta a me, a noi? Le difficoltà di questa impresa conducono a reazioni molteplici e differenziate.
C’è chi si arrende e afferma che la lectio divina è per persone intellettuali, la cui formazione biblico-teologica consente loro di rendere eloquenti pagine irrimediabilmente chiuse alla comprensione dei più semplici.
Al contrario, altri riducono la lectio divina all’interno di una griglia moralistica e perfino colpevolizzante: il testo mi dice cosa io devo fare, mi indica ciò che devo essere, ma io non sono all’altezza di questo compito e mi sento colpevolizzato. La lectio divina, in questo modo, vede resa sterile la sua possibile fecondità, che consiste proprio nell’aprire il mio cuore alla contemplazione del volto di Cristo, alla sua azione salvifica, liberandomi dagli sguardi vittimisticamente centrati su di me, sulle mie miserie, sui miei peccati, sulla mia inadeguatezza.
Altri ancora, e questo rischio mi pare molto diffuso, recuperano la pagina biblica alla vita mediante una lettura psicologizzante. Allora i riferimenti a metodi psicologici, particolarmente alla psicologia del profondo, diventano la griglia di lettura dei testi. Il rischio grande, enorme, è quello di chiudersi alla novità a cui un ascolto attento e aperto del testo può condurre, spendendo le proprie energie nell’opera di cercare nel testo ciò che già si conosce. Se è vero che «l’umanità» di diverse pagine bibliche svela profondità e finezza psicologiche e rende utile e consigliabile il ricorso a elementi di psicologia per una sua più adeguata comprensione, è però vero che la griglia psicologica rischia di annacquare il messaggio della rivelazione riducendolo a uno dei tanti miti di redenzione. Paradossalmente, la parola biblica può manifestare la sua potenza terapeutica sul lettore proprio quando non viene incatenata da forme di lettura che, intendendo renderla più accessibile, in realtà la privano della sua alterità appiattendola sui desiderata del lettore e chiudendola nel suo sapere e nel suo mondo concettuale.
Un’altra reazione è quella del rifiuto della fatica dell’interpretazione. Si propugna allora una forma di lettura letterale, anzi fondamentalistica. Si tratta di una scorciatoia che non porta in realtà in alcun luogo: essa esprime solamente il rigetto della fatica ermeneutica in nome di una letteralità che finisce presto con il dare ragione all’asserzione paolina: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2Cor 3,6). Nel suo discorso di presentazione del documento della Pontificia commissione biblica, Linterpretazione della Bibbia nella chiesa, Giovanni Paolo II ha messo in guardia da questo rischio stigmatizzando quei cristiani che, mossi da
una falsa idea di Dio e dell’incarnazione... hanno tendenza a credere che, essendo Dio l’Essere assoluto, ognuna delle sue parole abbia un valore assoluto, indipendente da tutti i condizionamenti del linguaggio umano. Non vi è quindi spazio, secondo costoro, per studiare questi condizionamenti al fine di operare delle distinzioni che relativizzerebbero la portata delle parole. Ma questo significa illudersi e rifiutare, in realtà, i misteri dell’ispirazione scritturale e dell’incarnazione, rifacendosi a una falsa nozione dell’Assoluto. Il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto quello che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. È, al contrario, il Dio creatore, che ha creato la stupefacente varietà degli esseri «ognuno secondo la propria specie», come afferma e riporta il racconto della Genesi (cf. Gen 1); lungi dall’annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (cf. 1Cor 12,18.24.28); quando si esprime in un linguaggio umano, egli non dà a ogni espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumature con estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni[174].
È evidente che questa forma di non-interpretazione del testo corrisponde a una forma ecclesiale che devia verso la setta, il gruppo chiuso arroccato nella difesa della verità di cui si sa detentore e che non sopporta la dialogicità, il confronto, la messa in discussione.
L’impressione è che si fatichi molto a trovare un equilibrio fra la lettura del testo e la sua correlazione con l’ambito esistenziale. E penso che uno dei motivi essenziali di questa fatica sia l’assenza del contesto comunitario che è l’alveo proprio in cui ogni lectio divina può e deve avvenire. Solo all’interno di una reale esperienza ecclesiale, comunitaria, la Scrittura può essere letta e vivificata e risorgere a parola vivente di Dio per l’oggi storico dei credenti. Il contesto comunitario ha una valenza ermeneutica fondamentale della Scrittura. E occorrerebbe correlare maggiormente prassi di lectio divina in gruppi biblici parrocchiali e liturgia eucaristica domenicale. Ma soprattutto, finché non si perviene a una reale assiduità quotidiana, personale con le Scritture nella lectio divina, ben difficilmente si potranno conoscere i frutti che la parola di Dio non fa mancare a chi la ascolta con amore e fedeltà.

Conclusione

La lectio divina resterà sempre un’operazione spirituale che presenta difficoltà, chiede sacrificio, esige disciplina, perseveranza, interiorizzazione. La sua difficoltà la rende una vera e propria ascesi: a essa occorre esercitarsi e a essa continuamente tornare.
In verità dunque, quali che siano le difficoltà che ciascuno maggiormente prova, esse sono rivelatrici di ciò che ciascuno deve mutare o su cui deve maggiormente lavorare per crescere spiritualmente alla statura di Cristo. Insomma, le difficoltà sono necessarie, ineliminabili: sono il prezzo dell’incontro. E il desiderio dell’incontro cresce a misura dell’assiduità con la Scrittura per conoscere meglio il Signore, per stare alla sua presenza, per ascoltare la sua parola e fare la sua volontà. Le difficoltà della lectio divina non devono dunque sgomentare: sono le difficoltà della sequela del Signore!
Certo è comunque che il futuro della chiesa dovrà essere caratterizzato da una prassi sempre più diffusa di lettura della Bibbia, malgrado le difficoltà e i problemi che questo comporta. Se il secondo millennio ha conosciuto una sorta di quarantena della Scrittura, c’è da auspicare che i prossimi decenni di questo nuovo millennio continuino a essere animati dall’impulso dinamico della Dei Verbum. È quanto richiedono la nuova situazione di diaspora dei cristiani, il fatto che siano messi a confronto con altre religioni, così come la necessità di dare una forma sempre più meditativa e ricettiva alla preghiera.
Accordando un ruolo più importante alla parola di Dio nella vita di ogni cristiano come nella vita delle comunità, si va all’essenziale: si permette alla sequela sancti Evangelii di plasmare sempre di più l’esistenza dei credenti. In tal modo, nel mondo e nella storia, tra gli uomini, la vita dei cristiani diverrà esegesi vivente della Scrittura, della Parola fatta carne.
È appunto quanto invitava a fare Giovanni Paolo II, animato da sguardo profetico, quando scriveva: «Nutrirsi della Parola, per essere ‘servi della Parola’ nell’impegno dell’evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la chiesa all’inizio del nuovo millennio»[175]. È questa la posta in gioco per la lectio divina nel mondo di oggi.


[1] E. Bianchi, Pregare la Parola. Introduzione alla «lectio divina», Gribaudi, Torino 1990, p. 69.
[2] Cf. I. de la Potterie et al., Lesegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991.
[3] Origene, Filocalia 2,3 (Philocalie I-20. Sur les Écritures, a cura di M. Harl e N. De Lange, SC 302, Cerf, Paris 1983, p. 244).
[4] Sulle regole dell’interpretazione scritturistica di Origene si veda F. Cocchini, Il Paolo di Origene. Contributo alla storia della recezione delle epistole paoline nel II secolo, Edizioni Studium, Roma 1992.
[5] Cf. «Introduction», in Origène, Philocalie 1-20, SC 302, pp. 145-148.
[6] Id., Filocalia 1,28 (SC 302, p. 202).
[7] Id., Commento alla Lettera ai Romani 7,17, a cura di F. Cocchini, Marietti, Genova 1986, vol. II, p. 17.
[8] Ibid., p. 18.
[9] Cf. L. Bouyer, Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1991, p. 166.
[10] Cf. Origene, I principi IV,2,4 (Traité des principes III, a cura di H. Crouzel e M. Simonetti, SC 268, Cerf, Paris 1980, pp. 310-316).
[11] Cf. Id., Omelie sullEsodo 2,1, a cura di M. Simonetti e M. I. Danieli, Città Nuova, Roma 2005, p. 69.
[12] Id., Filocalia 15,19 (SC 302, pp. 436-438).
[13] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 8,2, in Id., Ora comincio a essere discepolo. Le lettere, a cura di S. Chialà, Qiqajon, Bose 2004 (Testi dei padri della chiesa 68), P.24.
[14] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni XIII,5,30 (Commentaire sur S. Jean III, a cura di C. Blanc, SC 222, Cerf, Paris 1975, p. 48).
[15] Ibid. XIII,5,32.
[16] Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera doro. Epistola ad Fratres de Monte Dei 121, a cura di C. Falchini, Qiqajon, Bose 1988, p. 69; cf. anche DV 12.
[17] A.-M. Pelletier, «Exégèse et histoire. Tirer du nouveau de l’ancien», in Nouvelle Revue Théologique 110 (1988), p. 659.
[18] Ibid., p. 663.
[19] Tra i più celebri interventi vanno ricordati almeno: F. Refoulé, «L’exégèse en question», in Le Supplément III (1974), pp. 391-423; F.-P. Dreyfus, «Exégèse en Sorbonne, exégèse en Eglise», in Revue Biblique 82 (1975), pp. 321-359; Id., «L’actualisation à l’intérieur de la Bible», in Revue Biblique 83 (1976), pp. 161-202; Id., «L’actualisation de l’Ecriture, I. Du texte à la vie», in Revue Biblique 86 (1979), pp. 5-58; Id., «L’actualisation de l’Ecriture, II. L’action de l’Esprit», ibid., pp. 161-193; Id., «L’actualisation de l’Ecriture, III. La place de la Tradition», ibid., pp. 321-384. I cinque articoli di Dreyfus sono ora riuniti in volume unico: F.-P. Dreyfus, Exégèse en Sorbonne, exégèse en Eglise, Parole et Silence, Paris 2007. Gli interventi di Refoulé e di Dreyfus sono reperibili in tradu2ione italiana in Sussidi Biblici 38-39 e 40-41 (1992), dal titolo Quale esegesi oggi nella Chiesa?
[20] Cf. G. Zevini, «La lettura della Bibbia nello Spirito. Bibbia, spiritualità e vita», in Incontro con la Bibbia. Leggere, pregare, annunciare. Convegno di aggiornamento. Facoltà di teologia della Università pontificia salesiana, Roma, 2-5 gennaio I978, a cura di G. Zevini, LAS, Roma I978, pp. 131-156; I. de la Potterie, G. Zevini, «L’ascolto ‘nello Spirito’; per una rinnovata comprensione ‘spirituale’ della sacra Scrittura», in Parola, Spirito e Vita 1 (1980), pp. 9-24; S. A. Panimolle, «Per una lettura ‘spirituale’ della Bibbia: verso l’unità dell’esegesi», in Rivista Biblica 29 (1981), pp. 79-88; R. Laurentin, Comment réconcilier lexégèse et la foi, OEIL, Paris I984; I. de la Potterie, «La lettura della Sacra Scrittura ‘nello Spirito»’, in Communio 87 (1986), pp. 25-4I; U. Neri, La crisi biblica delletà moderna. Problemi e prospettive, EDB, Bologna I996, soprattutto pp. 39-71; P. Grech, «The ‘Regula fidei’ as Hermeneutical Principle Yesterday and Today», in Linterpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Roma, settembre 1999, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 208-224; G. Ravasi, Interpretare la Bibbia, EDB, Bologna 2006; B. Costacurta, Lecture priante et exégèse croyante de la Parole de Dieu», in Bulletin Dei Verbum 84-85 (2007), pp. 5-7; R. J. Erickson, Guida introduttiva allesegesi del Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pp. 278-303; A. Fossion, «Lire pour vivre. La lecture de la Bible au service de la compétence chrétienne», in Nouvelle Revue Théologique 129 (2007), pp. 254-271.
[21] Cf. R. E. Brown, Croire en la Bible à lheure de lexégèse, Cerf, Paris 2002; si veda soprattutto l’importante documento della Pontificia commissione biblica, Linterpretazione della Bibbia nella chiesa (15 aprile 1993), in Enchiridion Vaticanum XIII, EDB, Bologna 1995, molto netto e duro nei confronti della lettura fondamentalista.
[22] Cf. E. Bianchi, «La centralità della parola di Dio», in Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. Alberigo e J.-P. Jossua, Paideia, Brescia I985, p. I68.
[23] H. de Lubac, Esegesi medievale I, Edizioni Paoline, Roma I972, p. 354.
[24] Ch. Theobald, «L’Écriture, âme de la théologie, ou le christianisme comme religion de l’interprétation», in R. Lafontaine et al., LEcriture âme de la théologie, Institut d’études théologiques, Bruxelles 1990, pp. 109-132.
[25] J. Dupont, «Réf1exions d’un exégète sur la ‘lectio divina’ dans la vie du moine», in Liturgie 60 (1987), p. 17.
[26] Cf. A. Rizzi, Letture attuali della Bibbia. Dallinterpretazione esistenziale alla lettura materialista, Borla, Roma 1978, p. 267. Su questo argomento si vedano i contributi di J. Ratzinger e soprattutto di R. Guardini presenti in I. de la Potterie et al., Lesegesi cristiana oggi, pp. 45-125.
[27] P. Guillemette, M. Brisebois, Introduction aux méthodes historico-critiques, Fides, Montréal 1987, p. 10.
[28] P. Toinet, Pour une théologie de lexégèse, FAC, Paris 1983, p. 30.
[29] Ugo di San Vittore, Sullarca di Noè. Commento spirituale 2,8, PL 176,642C-D.
[30] I. de la Potterie, G. Zevini, «L’ascolto ‘nello Spirito’», p. 18. Sulla composizione della Bibbia come dovuta a riletture all’interno di ciascun libro, a ritorni costanti a opere anteriori per trovare luce sul presente cui ci si rivolge, ad assimilazione di elementi culturali tratti dall’ambiente circostante riletti e purificati alla luce dello jahwismo, cf. P. Gibert, La Bible à la naissance de lhistaire. Au temps de Saul, David et Salaman, Fayard, Paris 1979, pp. 21 ss.
[31] bSanhedrin 34a; 35a.
[32] Zohar III,202a.
[33] Be-midbar Rabbà 13,15.
[34] Gregario Magno, Omelie su Ezechiele II,9,S, a cura di V. Recchia ed E. Gandolfo, Città Nuova, Roma 1993, vol. II, p. 212.
[35] Agostino di Ippona, La dottrina cristiana III,27,3S, a cura di V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1992, pp. 175-177.
[36] H. U. von Balthasar, Con occhi semplici. Verso una nuova coscienza cristiana, Herder-Morcelliana, Brescia 1970, p. 19.
[37] L. Bouyer, Gnosis, p. 10.
[38] Si pensi alla linguistica pratica (branca della semiotica che si occupa dei rapporti
tra i segni e i fruitori dei segni, che studia cioè la relazione delle frasi con chi le enuncia e con chi le interpreta; cf. in particolare C. W. Morris, F. Recanati, all’estetica della recezione (H. R. Jauss, W. Iser), alla poetica della lettura (H. Maschonnic), alla corrente letteraria americana del reader response criticism, eccetera. Al ruolo del lettore nel rapporto con la Scrittura è dedicato il numero della rivista Concilium I (1991), dal titolo La Bibbia e i suoi lettori.
[39] La Wirkungsgeschichte viene incontro all’esigenza di recuperare il valore ermeneutico della tradizione: «Il comprendere stesso deve essere considerato non tanto come un’ azione della soggettività quanto piuttosto come un’ inserzione nel processo della tradizione in cui si mediatizzano costantemente il passato e il presente» (H.-G. Gadamer, Vérité et Méthode, les grandes lignes dune herméneutique philosophique, Seuil, Paris 1976, p. 130).
[40] G. Segalla, «Il 45° congresso della ‘Studiorum Novi Testamenti Societas’ (SNTS) all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, 23-27 luglio 1990)», in Rivista Biblica 39 (1991), p. 97.
[41] Cf. ibid.
[42] Agostino di Ippona, La dottrina cristiana I,36,40, p. 53.
[43] Ibid., III,15,23, p. 161.
[44] Cf. per esempio Sifra, Be-chuqqota; 1,5: «Si deve studiare la Legge per viverla, per metterla in pratica, e non studiarla senza viverla».
[45] Cf. per esempio Girolamo, Commento a Michea 1,2,6/8: «Le Scritture giovano a chi le legge solo quando si mette in pratica ciò che si legge» (CCSL 76, Brepols, Turnhout 1969, p. 445, II. 227-228).
[46] Una ricerca ha individuato quattro ambiti specificativi di quest’unico principio ermeneutico presenti sia nell’esegesi giudaica che in quella cristiana: umiltà, conversione/ascesi, preghiera, amore. Si tratta del lavoro di M. M. Morfino, Leggere la Bibbia con la vita, Qiqajon, Bose 1990; cf. anche F. Manns, «Vivre l’Ecriture pour mieux la comprendre. Un aspect de l’herméneutique juive et judéo-chrétienne», in Liber Annuus 32 (1982), pp. 105-146.
[47] Questo non-detto lo si può visualizzare negli spazi bianchi che separano le parole. I cabalisti parlano della Torà come di un’unica, lunga frase che da «In principio» (Gen 1,1) si estende fino a «Tutto Israele» (Dt 34,12). Se si pensa al testo biblico ebraico come seguito quasi ininterrotto di segni senza puntazione vocalica, senza accentazione e divisione di frasi, si comprende il carattere interpretante, creatore di senso, della separazione dei gruppi consonantici per formare parole e frasi. «La luminosità che il bianco diffonde sul nero delle lettere è anch’essa fonte di significato» (rabbi Levi Isaac di Berditchev, citato in D. Banon, La lecture infinie. Les voies de linterprétation midrachique, Seuil, Paris 1987, p. 118).
[48] A. Neher, Lessenza del profetismo, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 95.
[49] Ibid., p. 91; cf. anche pp. 73-141.
[50] Cf. Dei Verbum. Genesi della Costituzione sulla divina rivelazione. Schemi annotati in sinossi, a cura di L. Pacomio, Marietti, Casale Monferrato 1971, pp. 132-133.
[51] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni X,30,188 (Commentaire sur S. Jean II, SC 157, Cerf, Paris 1970, p. 496).
[52] «Omne corpus divinae Scripturae, tam veteris quam novi Testamenti, Filium Dei continet» (Gaudenzio da Brescia, Secondo discorso sull’Esodo, PL 20,856A).
[53] Cf. D. Banon, La lecture infinie, p. 33.
[54] bQiddushin 30a.
[55] L’insistenza su questa non coincidenza è volta a salvaguardare la Scrittura dalle tentazioni di approccio fondamentalista, approccio che comporta un risvolto ecclesiologico di tipo settario. Un’opera di dogmatizzazione della lettera qual è quella di far coincidere di per sé Bibbia e parola di Dio, mentre sembra accrescere l’autorità della Scrittura, in realtà ne nega la storicità, attua una riduzione della Parola e chiude la Scrittura stessa a quell’interpretazione spirituale che solo la rende parlante nell’oggi della storia e portatrice di significato per le situazioni attuali.
[56] A. Milano, La parola nelleucaristia. Un approccio storico-teologico, Dehoniane, Roma 1990, p. 49.
[57] Erveo di Bourg-Dieu, Commento alle lettere di san Paolo. Alla Prima ai Corinti 1, PL 18I,824C.
[58] «Et paene ubique Christus aliquo involucro sacramenti praedicatus est a prophetis» (Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi XXX/2,2,9, a cura di R. Minuti, Città Nuova, Roma 1967, vol. I, p. 478).
[59] M. Magrassi, «Bibbia pregata», in Id. et al., L»’oggi» della Parola di Dio nella liturgia, Elledici, Torino-Leumann 1970, p. 212.
[60] Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca 6,33, a cura di G. Coppa, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1978, vol. II, p. 35.
[61] Cf. E. Kasemann, «The Pauline Theology of the Cross», in Interpretation 24 (1970), pp. 155-156.
[62] Cf. infra, p. 105, n. 8. Come nell’incarnazione «il Verbo di Dio è ricoperto dal velo della carne», così nella Scrittura «è ricoperto dal velo della lettera, di modo che si vede la lettera come la carne, ma si percepisce nascosto al di dentro il senso spirituale come la divinità»: Origene, Omelie sul Levitico 1,1 (Homélies sur le Lévitique, a cura di M. Borret, SC 286, Cerf, Paris 1981, p. 66).
[63] Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi CIII,4,1 a cura di T. Mariucci e V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1976, vol. III, p. 749.
[64] Massimo il Confessore, Duecento capitoli sulla teologia e sulleconomia dellincarnazione del Figlio di Dio. A Talassio 2,60, in La filocalia II, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1983, p. 151.
[65] Origene, Filocalia 15,19 (SC 302, p. 438).
[66] Cf. H. de Lubac, Esegesi medievale I, pp. 325-354.
[67] H. U. von Balthasar, «Verbo, Scrittura, Tradizione», in Id., Saggi teologici, I. Verbum caro, Morcelliana, Brescia 1970, p. 22.
[68] Cf. Y. Congar, «Les deux formes du pain de vie dans l’Évangile et dans la Tradition», in Parole de Dieu et sacerdoce. Etudes présentées à S. Exc. Mgr Weber, Archeveque- Éveque de Strasbourg, pour le cinquantenaire de son ordination sacerdotale, a cura di E. Fischer e L. Bouyer, Desclée & C., Paris-Tournai-Rome-New York 1962, pp. 21-58.
[69] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Filadelfesi 4,1, in Id., Ora comincio a essere discepolo, p. 39.
[70] Girolamo, Commento allEcclesiaste 3,12.13, CCSL 72, Brepols, Turnhout 1959, p. 278,n. 193-198.
[71] Id., Le lettere 22,25, a cura di S. Cola, Città Nuova, Roma 1962, vol. I, p. 202.
[72] Ambrogio di Milano, I doveri 1,20,88, a cura di G. Banterle, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1977, p. 77.
[73] Cf. Dt 8,2-3; Am 8,11; Ger 15,16; Sal Il9,103; Sap 16,26; Sir 24,18-22; Pr 9,1-5; Ez 3,3; Mt 4,4; Ap 10,9; eccetera.
[74] Girolamo, Commento a Matteo 1,4,4, CCSL 77, Brepols, Turnhout 1969, p. 20, II. 332-333.
[75] Origene, Omelie sui Numeri III,1,1 (Homélies sur les Nombres I, a cura di L. Doutreleau, SC 415, Cerf, Paris 1996, p. 74).
[76] Id., Commento al Vangelo di Matteo. Frammenti 218.
[77] Ruperto di Deutz, La Trinità 3. Lo Spirito santo 1,6 (Les Oeuvres du Saint-Esprit I, a cura di E. de Solms, SC 131, Cerf, Paris 1967, pp. 72-74).
[78] «Corpus Christi inteIIigitur etiam Scriptura Dei» (cit. in H. de Lubac, Esegesi medievale II, Jaca Book, Milano 1988, p. 166).
[79] Origene, Commento a Matteo. Series 85, a cura di G. Bendinelli, R. Scognamiglio e M. I. Danieli, Città Nuova, Roma 2006, vol. II, p. 93.
[80] Girolamo, Commento al salmo I47, CCSL 78, Brepols, Turnhout 1958, pp. 337-338, II. 57-61.
[81] Origene, Commento alVangelo di Matteo II,14 (Commentaire sur l’évangile selon Matthieu I, a cura di R. Girod, SC 162, Cerf, Paris 1970, p. 346).
[82] Cf. H. de Lubac, Storia e spirito, Jaca Book, Milano 1985, pp. 385-403.
[83] Cf. Origene, Omelie sul Levitico 7,5 (SC 286, pp. 336-338).
[84] Ambrogio di Milano, Commento ai salmi 1,83, in Id., Commento a dodici salmi I, a cura di F. Pizzolato, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1980, pp. 80-81.
[85] Ruperto di Deutz, Commento al Vangelo di Giovanni 6,11b, CCCM 9, Brepols, Turnhout 1969, pp. 308-309, II.336-339.342-347.
[86] Cf. H. Haag, «Il carattere divino-umano della sacra Scrittura», in Mysterium salutis I/1, a cura diJ. Feiner e M. LOhrer, Queriniana, Brescia 19692, p. 407.
[87] Cf. E. Bianchi, Dallascolto della Parola alla preghiera liturgica, Qiqajon, Bose 1990 (Testi di meditazione 33); R. De Zan, «Punti salienti dei ‘Praenotanda’ dell»Ordo lectionum Missae’ 1981», in Rivista Liturgica n.s. 70 (1983), pp. 701-702; P. Visentin, «La celebrazione della Parola nella liturgia», in S. A. Panimolle et al., Ascolto della Parola e preghiera, p. 239.
[88] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele II,4,19, p. 119.
[89] E. Ruffini, «Sacramentalità ed economia sacramentale negli scritti dei padri della chiesa», in E. Ruffini, E. Lodi, «Mysterion» e «sacramentum». La sacramentalità negli scritti dei padri e nei testi liturgici primitivi, EDB, Bologna 1987, p. 189.
[90] «Per cor Christi intellegitur Sacra Scriptura quae manifestat cor Christi» (Tommaso d’Aquino, Commento ai Salmi 21,11).
[91] Discorsi di Massimo IV al Concilio. Discorsi e note del patriarca Massimo IV e dei vescovi della sua chiesa al Concilio ecumenico Vaticano II, EDB, Bologna 1968, p. 63; cf. pp. 61-64.
[92] Cf. L. Bouyer, Gnòsis, pp. 19-21; É. Junod, «Choix des écritures chrétiennes et clòture du canon», in Lumière et Vie 171 (1985), pp. 5-17. «La formazione del canone è l’evento liturgico della proclamazione della parola... La Bibbia è, fin dall’inizio, un libro di culto» (H. Gese, Sulla teologia biblica, p. 33).
[93] J.-P. Sonnet, «Figures (anciennes et nouvelles) du lecteur. Du Cantique des Cantiques au Livre entier», in Nouvelle Revue Théologique 113 (1991), p. 85.
[94] A.-M. Pelletier, Lectures du Cantique des Cantiques, p. 420.
[95] J. A. Sanders, Identité de la Bible. Torah et canon, Cerf, Paris 1975, p. 151.
[96] Tra le norme che caratterizzano la letteratura biblica vi sono la legge dell’ antichità, per cui ciò che è antico ha più valore di ciò che è recente, e la legge della conservazione, per cui ciò che ha valore deve essere conservato. Cf. J. L. Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per linterpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, Dehoniane, Roma 1998, pp. 187-193.
[97] Cf. ibid., pp. 213-217.
[98] F.-P. Dreyfus, «Exégèse en Sorbonne, exégèse en Eglise», p. 353.
[99] Cf. I Proverbi, a cura di L. Alonso Schokel e J. Vilchez Lindez, Boria, Roma 1988, pp. 499 ss.
[100] Cf. S. Virgulin, «L’attualizzazione dell’esodo nell’Antico Testamento», in Aa.Vv., Attualizzazione della Parola di Dio nelle nostre comunità, EDB, Bologna 1983, pp. 47-81.
[101] Origene, Omelie sulla Genesi 7,2 (Homélies sur la Genèse, a cura di L. Doutreleau, SC 7 bis, Cerf, Paris 1985, p. 198).
[102] Id., Omelie sui Numeri XI,1,10 (Homélies sur les Nombres II, a cura di L. Doutreleau, SC 442, Cerf, Paris 1999, pp. 20-22).
[103] Cf. F.-P. Dreyfus, «L’actualisation à l’intérieur de la Bible», pp. 177-186.
[104] Agostino di Ippona, Commento al Vangelo di Giovanni 24,7, in Id., Commento al vangelo di san Giovanni. Commento allepistola ai parti di san Giovanni, a cura di E. Gandolfo e V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1968, p. 567; cf. ibid. 43,16, p. 873.
[105] Ilario di Poitiers, Commento ai Salmi 54,2, a cura di A. Orazzo, Città Nuova, Roma 2005, vol. II, p. 251.
[106] Bernardo di Clairvaux, Sermone 57. Sulla Pasqua 2, a cura di D. Pezzini, Scriptorium claravallense. Fondazione di studi cistercensi, Milano 2000, p. 393.
[107] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 1,7,17, a cura di V. Recchia ed E. Gandolfo, Città Nuova, Roma 1992, vol. I, p. 225.
[108] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Filadelfesi 8,2, p. 41.
[109] J. Dupont, «Réflexions d’un exégète», p. 19.
[110] Origene, Commento al Vangelo di Matteo 14,4.
[111] Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi CV,36, pp. 856-859.
[112] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni 1,4,23 (Commentaire sur 5. Jean l, SC 120, Cerf, Paris 1966, p. 70).
[113] Id., Commento ai Salmi 68, PG 12,1516C (attribuito a Evagrio Pontico).
[114] Cf. Agostino di Ippona, La dottrina cristiana II,12,17, p. 81.
[115] I lavori di A. Rose sui salmi sono un eccellente esempio dell’inscindibile rapporto che la Scrittura intrattiene con la chiesa-tradizione-liturgia: cf. soprattutto A. Rose, Les Psaumes, Lethielleux, Paris 1981.
[116] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele II,2,1, pp. 48-49.
[117] Giovanni Cassiano, Conferenze 10,Il (Conférences II, a cura di E. Pichery, SC 54, Cerf, Paris 1958, p. 92).
[118] P. Ricoeur, «Esquisse de conclusion», in R. Barthes et al., Exégèse et herméneutique, p. 295.
[119] «La sacra Scrittura è ecclesiale proprio per la sua natura... La sacra Scrittura, donata alla chiesa, meritava di essere data interamente a ogni membro della chiesa» (Ch. Kannengiesser, «Come veniva letta la Bibbia nella chiesa antica: l’esegesi patristica e i suoi presupposti», in Concilium 1 [1991], pp. 52-53).
[120] bBerakhot 61b.
[121] Cf. B. Gerhardsson, «Du Judéo-christianisme à Jésus par le Shema’», in Recherches de Science Religieuse 60 (1972), pp. 23-36.
[122] Da questo testo emerge che «la qualità sacerdotale del popolo di Israele nei confronti delle genti della terra, il suo compito salvifico, dipendono esclusivamente dall’ascoltare la Parola in cui c’è tutta la realtà di Dio percepibile dall’uomo: se non ascoltasse, Israele sarebbe come tutti gli altri popoli» (E. Bianchi, «Leggere la Bibbia ascoltando la Parola», in Servitium II s. 11 (1977], p. 10).
[123] J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del medio evo, Sansoni, Firenze 1965, pp. 16-17; cf. B. Calati, L. Leloir, A. Louf et al., Pregare la Bibbia nella vita religiosa, Qiqajon, Bose 1983.
[124] H. Meschonnic, Le Signe et le Poème. Essai, Gallimard, Paris 1975, p. 536.
[125] H. Schlier, Riflessioni sul Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 19762, p. 17.
[126] Si veda lo studio di J.-P. Sonnet, «Le Sinaï dans l’événement de sa lecture. La dimension pragmatique d’Ex 19-24», in Nouvelle Revue Théologique 111 (1989), pp. 321-344.
[127] Ibid., p. 344.
[128] J. Ladrière, Larticulation du sens. Discours scientifique et parole de la foi, Aubier Montaigne-Cerf-Delachaux & Niesdé-Desclée de Brouwer, Paris 197°, p. 237.
[129] J.-P. Sonnet, La parole consacrée. Théorie des actes de langage, linguistique de lénonciation et parole de la foi, Cabay, Louvain 1984, p. 98. Si veda anche H. Schlier, La Parola di Dio. Teologia della predicazione secondo il Nuovo Testamento, Edizioni Paoline, Roma 1963.
[130] A. Gesché, «La résurrection de Jésus dans la théologie dogmatique», in Revue Théologique de Louvain 2 (1971), p. 295.
[131] Cf. J.-P. Sonnet, La parole consacrée, pp. 148-149. Di questo ottimo studio è stato rilevato che «propone un modello linguistico appropriato all’esegesi che intende articolare il senso letterale e il senso spirituale della sacra Scrittura» (P. Piret, LEcriture et lEsprit, Editions de l’Institut d’études théologiques, Bruxelles 1987, p. 251).
[132] P. Beauchamp, Parler dEcritures saintes, Seuil, Paris 1987, p. 14.
[133] Tommaso d’Aquino, Somma teologica III, q. 62, a. 5, a cura di I. Volpi e T. S. Centi, Edizioni studio domenicano, Bologna 1986, vol. 27, p. 86.
[134] Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 37,1, PG 53,341.
[135] Clemente di Roma, Lettera ai Corinti 45,2 (Lettre aux Corinthiens, a cura di A. Jaubert, SC 167, Cerf, Paris 1971, p. 174).
[136] Ilario di Poitiers, Commento al salmo 118, a cura di I. Passerini, Edizioni Paoline, Milano 2007, p. 206.
[137] Cf. At 28,25 riferito a Is 6,9-10; Eb 3,7 riferito a Sal 95,7-11; Eb 10,15-17 riferito a Ger 31,33-34; cf. inoltre At 1,16; 4,25; eccetera.
[138] Cf. H. Riedlinger, «Lettera e spirito. La via della interpretazione spirituale della Scrittura nella chiesa», in Communio 29 (1976), pp. 25-40, soprattutto pp. 28-33. Tutto il numero è intitolato Esegesi spirituale nella chiesa.
[139] Rabbi Jishma’el, in Sifrè Nm 15,31.
[140] Origene, Omelie sul Levitico 4,1 (SC 286, p. 162).
[141] Girolamo, Commento a Michea 1,1,10-15, CCSL 76, p. 430, 11.296-297.
[142] M.-J. Rondeau, «Actualité de l’exégèse patristique?», in Les quatre fleuves 7 (1977), p. 98. Il numero è intitolato Lectures actuelles de la Bible. Anche l’esegesi ebraica si esprime in modo analogo. Commentando Dt 32,47 («Non è certo una parola vuota per voi...») Rashi afferma: «Non è una parola vuota per voi; e se lo è, lo è a causa di voi che non sapete interpretarla, sollecitarla» (cit. in D. Banon, La lecture infinie, p. 28).
[143] Cf. AA.Vv., Attualizzazione della Parola di Dio nelle nostre comunità.
[144] Pronomi personali e dimostrativi, avverbi di tempo e luogo, eccetera. Cf. J.-P. Sonnet, La parole consacrée, pp. 34 ss.
[145] Rashi di Troyes, Commento allEsodo 19,1.
[146] Agostino di Ippona, La dottrina cristiana III,37,56, p. 201.
[147] Si tratta della dottrina del PaRDeS, acrostico delle parole che indicano i quattro strati di senso: peshat («semplice») è il senso letterale, il significato ovvio del testo nel contesto della storia; remez («suggestione») è il senso allegorico, l’apertura del testo tramite altri passi scritturistici per giungere a penetrarne il significato spirituale; derashà(«ricerca») indica il livello in cui il lettore si sente spinto a un’ assunzione di responsabilitàe di concreto impegno esistenziale; sod («segreto») è il senso mistico, che contempla il rapporto delle realtà con Dio e partecipa allo sguardo di Dio sulle realtà. Cf. Zohar I,26b.
[148] Per l’accostamento cf. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 78-80; J. Radermakers, «Parole consacrée et exégèse juive. Note exégétique», in J.-P. Sonnet, La parole consacrée, pp. 179-183. Cf. inoltre H. de Lubac, «Sur un vieux distique. La doctrine du ‘quadruple sens’», in Mélanges offerts au R. P. Ferdinand Cavallera à loccasion de la quarantième année de son professorat à lInstitut Catholique, Bibliothèque de l’Institut Catholique, Toulouse 1948, pp. 347-366.
[149] M.-J. Rondeau, «Actualité de l’exégèse patristique?», p. 95.
[150] Cf. J.-M. Hennaux, « Sens tropologique de l’Ecriture et problèmes d’aujourd’hui », in R. Lafontaine et al., LEcriture lime de la théologie, pp. 145-161.
[151] Guigo II il Certosino, La scala di Giacobbe 2, in Id., Tornerò al mio cuore. La scala di Giacobbe, Commento al Magnificat, Meditazioni, a cura di E. Arborio Mella, Qiqajon, Bose 1987, pp. 29-30.
[152] Cf. supra, p. 81, n. 26.
[153] Cf. Guigo II il Certosino, Tornerò al mio cuore, pp. 29-41; sulla lectio divina: E. Bianchi, Pregare la Parola; D. Barsotti, La Parola e lo Spirito. Saggi sullesegesi spirituale, OR, Milano 1971; M. Magrassi, Bibbia e preghiera, Ancora, Milano 19742; S. A. Panimolle et al., Ascolto della Parola e preghiera. La «lectio divina», Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1987. Ulteriore bibliografia in M. Masini, Iniziazione alla «lectio divina». Teologia, metodo, spiritualità, prassi, Messaggero, Padova 1988, pp. 119-120.
[154] «Te totum applica ad textum; rem totam applica ad te» (J. A. Bengel [1687-1752] nella Prefazione all’edizione da lui curata del Nuovo Testamento Greco edita nel 1734).
[155] Atanasio di Alessandria, Lettera ai vescovi africani 4, PG 26,1036A.
[156] Cf. E. Bianchi, Lessere povero come condizione essenziale per leggere la Bibbia, Qiqajon, Bose 1991 (Testi di meditazione 35).
[157] J. Caillot, Lévangile de la communication. Pour une nouvelle approche du salut chrétien, Cerf, Paris 1989, p. 162.
[158] Agostino di Ippona, Discorsi LVI,6,10, in Id., Discorsi, a cura di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1982, vol. II/1, p. 151.
[159] Il tema è particolarmente caro a Origene: «La parola umana è per natura impalpabile e insensibile, ma essa prende corpo, in un certo senso, quando è scritta in un libro; parimenti la parola di Dio che non ha né carne, né corpo: per la sua natura divina non può essere vista, ma dal momento in cui si incarna, si può vederla e scriverla. E perché la Parola si è fatta carne che esiste un ‘libro della genealogia di Gesù Cristo’» (Origene, Commento al Vangelo di Matteo. Frammenti). E ancora: «Ecco come devi comprendere la Scrittura... come il corpo unico e perfetto del Verbo» (Id., Omelie su Geremia. Frammenti citati nella Filocalia II,2, in Id., Homélies sur Jérémie II, a cura di P. Nautin, SC 238, Cerf, Paris 1977, p. 374).
[160] Più generalmente, sulle obiezioni che la Scrittura suscita, si veda M. Bellet, «Résistances à l’Ecriture», in Christus 14 (1967), pp. 8-22; tutto il primo fascicolo dell’annata è dedicato al tema Méditer lEcriture.
[161] Bernardo di Clairvaux, Sermoni sul Cantico dei cantici 74,5 (Sermons sur le Cantique V, a cura di P. Verdeyen e R. Fassetta, SC 511, Cerf, Paris 2007, pp. 164-166).
[162] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte 39.
[163] Cf. E. Bianchi, «La centralità della parola di Dio», pp. 159-187.
[164] Cf. Id., Dallascolto della Parola alla preghiera liturgica; Id., Lessere povero come condizione essenziale per leggere la Bibbia; Id., «Lectio divina et vie monastique», in La Vie Spirituelle 714 (1995), pp. 145-159.
[165] J. Ratzinger, in Consilium Conferentiarum Episcoporum Europae, Roma 2001 (testo in possesso dell’autore).
[166] «Divina eloquia cum legente crescunt» (Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 1,17,8, pp. 214-2 15); cf. P. C. Bori, Linterprétation infinie. Lherméneutique chrétienne ancienne et ses transformations, Cerf, Paris 1991.
[167] Cf. E. Bianchi, La Parola costruisce la comunità, Qiqajon, Bose 1993 (Testi di meditazione 49). Sul rapporto tra ascolto e comunità, si trovano osservazioni interessanti in G. Lafont, Dieu, le temps et lêtre, Cerf, Paris 1986, p. 126 e passim.
[168] Pontificia commissione biblica, Linterpretazione della Bibbia nella chiesa, p. 1635, nr. 2980.
[169] I. Illich, Du lisible au visible: la naissance du texte. Un commentaire du «Didascalicon» de Hugues de Saint-Victor, Cerf, Paris 1991, p. 9.
[170] R. Guardini, Elogio del libro, Morcelliana, Brescia 19932, pp. 40, 46.
[171] Cf. H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), Rizzoli, Milano 2000, pp. 13-25.
[172] P. Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977, pp. 76-77.
[173] L. Alonso-Schokel, «È attuale il linguaggio del Vecchio Testamento? (cap. IV della Dei Verbum)», in S. Lyonnet et al., La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Edizioni Paoline, Roma 1969, p. 117.
[174] Giovanni Paolo II, Linterpretazione della Bibbia nella chiesa, in Il Regno — documenti II (1993), p. 325.
[175] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte 40.