Per la Solennità di oggi, 29 giugno, ho pensato di proporre un testo di Enzo Bianchi sulla Lectio Divina: che "ascoltare" la Parola nella Chiesa possa essere davvero il pane quotidiano di ciascun cristiano. Buona lettura!
ENZO BIANCHI
ASCOLTARE LA PAROLA
Bibbia e Spirito: la «lectio divina» nella chiesa
PREMESSA
Con queste elementari note sulla lectio
divina abbiamo voluto dare la possibilità di gustare nuovamente un metodo
di lettura antico quanto la chiesa, metodo che aveva a sua volta profonde
radici nel giudaismo. Non crediamo di aver detto cose nuove, semplicemente
abbiamo fatto ricorso alla tradizione patristica e monastica, che della lectio
divina ha fatto il proprio cibo con l’opus
Dei, la liturgia della Parola, la preghiera[1].
Quasi quarant’anni fa concludevo
il mio Pregare la Parola.
Introduzione alla «lectio divina», frutto della
riflessione attorno alla «fine dell’esilio della Parola» sancita dal movimento
biblico e dalla riforma liturgica voluta dal Vaticano II. Un libro che in seguito
avrebbe conosciuto un insperato e duraturo successo sia in Italia (è giunto
ormai alla ventitreesima edizione) che all’estero (è stato tradotto in una
ventina di lingue, compreso russo, greco, coreano, giapponese...). Un libro che
nasceva da un vissuto comunitario che mi aveva marcato in profondità: in quegli
stessi mesi, infatti, assieme a sei altri fratelli, mi impegnavo
definitivamente a seguire il Signore nel celibato e nella vita comune in una
comunità monastica che attorno alla Parola si era venuta costituendo e
strutturando. Quanto andavo scrivendo allora con audacia pari all’incoscienza
della giovane età non voleva essere perciò elaborazione di una raffinata «teoria»,
ma schietta condivisione di intuizioni che plasmavano la vita di semplici
cristiani.
Anche per questo, per aver
perseverato nel cammino monastico intrapreso, per aver continuato a praticare
quotidianamente la lectio divina,
non mi sono certo mancate in tutti questi anni le occasioni per
approfondire e rimeditare l’argomento. Soprattutto credo di aver potuto toccare
con mano — per pura grazia — anche nella mia povera, quotidiana ricerca della
volontà di Dio, la verità di un adagio patristico reso celebre da Gregario
Magna: «Divina eloquia cum legente crescunt». Sì, davvero la Scrittura cresce
con colui che la legge! Così a più riprese sono nuovamente intervenuto sul tema
della «lettura della Parola», continuando a cercare — nei padri della chiesa
come negli autori contemporanei, nei mistici medievali come nei riformatori
quell’unica, ardente passione: veder emergere dallo «sta scritto» la Parola, il
Verbo fatto carne.
Occasione privilegiata di
rivisitazione di questo argomento così centrale per la vita di fede come per l’evangelizzazione
è stata poi per me, una quindicina di anni fa, la risposta all’invito dell’allora
cardinale Ratzinger a redigere con lui e con padre Ignace de la Potterie un
volume che fornisse alcune piste di cammino per l’esegesi cristiana della
Bibbia: dallo stimolo e dal dialogo con loro nacque quindi un libro che poi
presentammo insieme all’Università gregoriana e al Pontificio istituto biblico[2].
Accanto a questa esperienza unica, il ministero della Parola che ho continuato
a esercitare dentro e fuori la mia comunità monastica, il confronto con le più
disparate realtà ecclesiali — dalle parrocchie di campagna ai missionari in
Africa e in Asia, dai raduni biblici nelle grandi capitali europee ai ritiri
predicati in silenziose comunità religiose — mi hanno confermato e arricchito
in ciò che è sempre stata una mia profonda convinzione: la lectio divina offre
la possibilità di incontrare davvero, attraverso la Scrittura, colui che parla,
la Parola vivente, Dio stesso. È quella lettura arante a permettere di
attingere nel testo biblico la parola viva che interpella, vivifica, plasma,
orienta l’esistenza cristiana, anche se il suo operare in noi resta misterioso.
La sua pratica mi pare ancor più
importante nell’attuale stagione in cui assistiamo al ritorno di forme di
religiosità e di fascino per il divino in cui si corre il rischio che «Dio», o
perfino «Gesù Cristo», diventino parole vuote, pronte a essere riempite dalle
nostre proiezioni e dai nostri desideri: a volte c’è da chiedersi se il Dio
affermato e confessato dai cristiani non sia tanto il Dio vivente, rivelato
attraverso Gesù, la cui umanità spiega, rivela, racconta Dio, quanto piuttosto
un Dio frutto di sogni e aspettative umane. Allora dobbiamo davvero saper
ascoltare, interpretare, pregare la Scrittura per poter accedere a una
conoscenza autentica di Dio e perché questo incontro sfoci in una celebrazione
di alleanza.
Consapevole anche delle derive
cui può andare incontro una lectio divina snaturata rispetto all’alveo
della grande tradizione ecclesiale — da un lato lo spiritualismo che ricerca
nella Scrittura semplici emozioni che prescindono da un radicamento nella
storia e nella cultura, d’altro lato il fondamentalismo che si attacca alla «lettera
che uccide» anziché allo «Spirito che dà vita» — sono ritornato a più riprese
con maggior incisività sul rapporto determinante tra lectio divina e
vita della chiesa: una tematica fondamentale, che non a caso è stata posta da
Benedetto XVI come tema del prossimo sinodo dei vescovi.
Di tutto questo cammino,
personale, comunitario ed ecclesiale, queste pagine vogliono essere un’eco
umile e fedele. Come già per il volume sopra ricordato, ci sarà chi vi troverà
un più maturo frutto del mio quotidiano accostarmi alla Parola, chi vi avvertirà
l’eco del mio spezzare la Parola per i fratelli e le sorelle della mia comunità,
chi ancora crederà di cogliervi l’esperienza maturata in lunghi anni di
predicazione della Parola ad ascoltatori di ogni tipo e latitudine. lo
preferisco scorgervi solo un piccolo ma sincero segno di gratitudine verso quei
testimoni del Verbo che il Signore mi ha fatto incontrare, quei «martiri» della
fede che hanno saputo incarnare nella loro vita l’evangelo stesso in
tutta la sua ricchezza. Sì, perché ascolta veramente la parola di Dio solo chi
la mette in pratica: autentica comprensione del testo biblico è infatti l’obbedienza
puntuale alla parola che il Signore non si stanca di rivolgerei. Sequentia
sancti evangelii, «brano
dell’evangelo» per l’oggi non è quindi quanto si evince con l’erudizione della
scienza, ma la vita e la testimonianza dei santi, discepoli fedeli del loro
Signore, Parola fatta carne.
Enzo Bianchi
priore di Bose
Bose, 3 settembre 2008
memoria di Gregorio Magno,
papa innamorato delle sacre Scritture
PARTE PRIMA
BIBBIA E SPIRITO
LE STANZE E LE
CHIAVI
Una bellissima tradizione ci è
stata tramandata dall’Ebreo e riguarda globalmente tutta la divina Scrittura.
Secondo quest’uomo, l’insieme della Scrittura divinamente ispirata, a causa
dell’oscurità che è in essa, è simile a numerose stanze chiuse a chiave in un’unica
casa; accanto a ogni stanza c’è una chiave, ma non quella a essa corrispondente,
e cosi le chiavi sono disperse accanto alle stanze, ma nessuna corrisponde alla
stanza presso cui è posta; secondo l’Ebreo è un’impresa enorme trovare le
chiavi e farle corrispondere alle stanze che possono aprire. Analogamente noi
comprendiamo anche le Scritture che sono oscure proprio quando prendiamo il
punto di partenza della comprensione delle une presso le altre, poiché esse
hanno il proprio principio interpretativo disperso in mezzo a loro. In ogni
caso io ritengo che anche l’Apostolo suggerisca un metodo di approccio simile
per comprendere le parole divine quando dice: Questo lo diciamo non con
parole che insegna la sapienza umana,
bensì con parole che insegna lo Spirito, accostando cose spirituali a
cose spirituali (1Cor 2,13)[3].
Così si esprime Origene in un
testo che enuncia il caposaldo, l’elemento portante di tutta la sua esegesi[4]
e anche di ogni lettura spirituale della Scrittura: Scriptura sui ipsius
interpres, la
Scrittura si interpreta con la Scrittura.
Le chiavi della comprensione
della Scrittura, dice Origene, si trovano all’interno della Scrittura stessa:
questo implica l’unità di tutta la Bibbia. E implica anche l’ispirazione della
Scrittura, il fatto cioè che le sue parole sono «pneumatiche», sono «spirito e
vita» (Gv 6,63), contengono la dynamis dello Spirito, sicché la
conoscenza che scaturisce dalla Scrittura è «insegnamento dello Spirito», è
conoscenza per rivelazione (cf. Mt 11,25-27): infatti solo «colui che detiene
la chiave di David» (Ap 3,7) può aprire le porte chiuse, solo «il germoglio di
David» (Ap 5,5) può aprire il libro sciogliendone i sigilli, solo colui che ha
ispirato i testi sacri può svelarne il senso[5].
Il procedimento della conoscenza
scritturistica non vede dunque il testo biblico unicamente come «oggetto» di
conoscenza, ma come «soggetto», sicché questa conoscenza avviene in un ambito
di reciprocità, di dialogo, di relazione. Il testo biblico appare quindi testo
ispirante, produttore di senso, utile per la salvezza (cf. 2Tm 3,15-16). Lo
statuto proprio della Scrittura comporta perciò un approccio particolare,
adeguato a essa, da parte dell’interprete: richiede la fede come spazio dell’incontro
con un testo che dalla fede è nato.
Fede che dunque si configura come
potenzialità ermeneutica, come chiave che apre l’accesso alla conoscenza del
Signore tramite la frequentazione e il dialogo con le Scritture.
Anche di fronte a un testo
biblico oscuro, il richiamo di Origene è al primato della fede:
Anzitutto credi, e allora troverai una grande e santa utilità sotto a ciò
che credevi essere un ostacolo[6].
Lo scandalo si muta così in
rivelazione grazie alla fede da cui poi scaturisce il rendimento di grazie. A
partire dal testo della Lettera ai Romani 9,20-21 Origene argomenta affermando
che la Scrittura non consegna risposte a qualsivoglia domanda le venga rivolta,
sicché avviene nei riguardi della Scrittura proprio come avvenne nei riguardi
di Gesù: «Quanti... senza fede chiedevano al Signore con quale potere compisse
ciò che faceva... non furono ritenuti degni neppure di risposta»[7].
Quando invece fu il profeta
Daniele, dunque un servo fedele e prudente, che interrogò il Signore perché
desiderò conoscere la volontà del Signore — per cui fu chiamato anche uomo
dei desideri (Dn 9,23, secondo la versione di Teodozione) — non gli fu
detto: «Chi sei tu?» (Rm 9,20), ma gli fu inviato un angelo a istruirlo su
tutti i progetti e i giudizi di Dio. Pertanto anche noi, se desideriamo
conoscere qualcosa dei segreti reconditi di Dio, se siamo uomini di desideri e
non di contestazioni, ricerchiamo con fedeltà e umiltà i giudizi di Dio
inseriti piuttosto velatamente nelle divine Scritture. Infatti per questo anche
il Signore diceva: Scrutate le Scritture (Gv 5,39), sapendo che esse non
si lasciano interpretare da coloro che, occupati in altre faccende, di quando
in quando o ascoltano o leggono, ma da coloro che, con cuore onesto e semplice,
con ininterrotta fatica e con continue veglie, scrutano più a fondo le divine
Scritture[8].
Qual è dunque il lettore che la Scrittura richiede?
Origene risponde affermando che si tratta di un uomo di desideri, non di contestazioni, di
un uomo cioè che desidera veramente conoscere il Signore per aderire a lui,
amarlo e compiere la sua volontà.
Ma questa bella espressione
origeniana non viene forse incontro a quello che è il desiderio della Scrittura
stessa, la sua finalità, la sua intenzionalità, almeno quale emerge dall’autocoscienza
scritturistica enunciata dal primo finale del quarto evangelo? Dice infatti
Giovanni 20,31:
Questi [segni] sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo,
il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
La Scrittura esige il coinvolgimento del lettore,
fa appello alla sua fede: in quest’ottica l’interpretazione si configura come
incontro di desideri, e categorie quali sym-patheia o, come ricorda
Louis Bouyer[9],
em-patheia, non
appaiono come corpi estranei alla dinamica della conoscenza delle Scritture,
bensì sono al suo cuore.
Nella ricca e articolata
metodologia esegetica origeniana rientrano diversi altri principi. Per esempio
quello della pluralità di significati del testo biblico: fondato su Proverbi
22,20 e modellato in analogia con la tripartizione antropologica di carne-anima-spirito,
questo principio interpretativo discerne tre sensi — letterale, morale,
spirituale — racchiusi nelle parole della Scrittura[10].
Oppure il principio che, fondato
sulla Prima lettera ai Corinti 10,6.11 («Queste cose avvennero come tipo per noi»,
«queste cose... sono state scritte a nostro ammonimento»), esige l’attualizzazione del testo
biblico nell’oggi dell’interprete[11].
E in particolare la convinzione che la Verità è mistero e che dunque la Verità
— il Verbo, il Figlio di Dio — non è esaurita dalla parola scritta ma la eccede.
Commentando il secondo finale del quarto evangelo («Vi sono ancora molte altre
cose che Gesù fece e che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo
stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere»: Gv 21,25),
Origene discerne una dimensione di non-detto, di non-scritto all’interno della
Scrittura, che è anch’essa rivelativa del mistero:
La grandezza delle realtà non solo non può essere consegnata negli
scritti, ma non può nemmeno essere proclamata dalla lingua carnale, né può
essere espressa nei dialetti e nelle parole umane[12].
Insomma: sia le parole che i silenzi della
Scrittura sono rivelativi di colui che è «la Parola uscita dal silenzio»[13].
Egli è colui alla cui conoscenza le Scritture vogliono portare il lettore. Per
questo Origene afferma: «Le Scritture nel loro complesso, per quanto comprese
esattamente e a fondo, non costituiscono, penso, se non i primissimi elementi e
un’introduzione del tutto sommaria rispetto alla totalità della conoscenza»[14].
Al tempo stesso è solo la Scrittura che, accostata nello Spirito santo, conduce
il lettore oltre se stessa introducendolo nell’«al di là dello sta-scritto» (tò hypèr hà ghégraptai: cf.
1Cor 4,6): ma questa conoscenza è azione dello Spirito che si realizza solo nel
lettore disposto a lasciarsi radicalmente coinvolgere da essa.
Non a tutti è dato indagare ciò
che è «oltre quello che sta scritto», se non a condizione di assimilarvisi[15].
La conoscenza di Cristo cui la
Scrittura intende condurre con le sue parole e i suoi silenzi è dunque azione
pneumatica, frutto di interpretazione spirituale. Non è forse la Scrittura
stessa che rimanda il lettore allo Spirito santo come proprio principio ermeneutico?
Non è forse il dono dello Spirito che conferisce ai discepoli l’intelligenza
delle parole della Scrittura e delle parole di Gesù stesso (cf. Gv 2,22; 7,39; 14,26)?
Non è forse lo Spirito santo l’ermeneuta del non-detto di Cristo che ispira ai
discepoli nella storia una fedeltà non letterale né legalistica, ma creativa
all’evangelo? Dice Gesù:
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per ora non potete portarle; quando
però verrà lui, lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità intera, perché
non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà ascoltato, e vi annuncerà
le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà (Gv
16,12-14).
Dunque «le Scritture desiderano
essere lette mediante lo stesso Spirito con cui sono state scritte; e tramite
esso devono essere comprese»[16].
LA LETTURA SPIRITUALE DELLE SCRITTURE È ATTUALE?
Il richiamo all’esempio di
Origene ha voluto essere esemplificativo — attraverso il suo rappresentante più
significativo — di una tradizione e di una struttura dell’interpretazione
biblica che «è la formula stessa dell’esegesi biblica cristiana, quale è stata
praticata ininterrottamente fino al XVI secolo, prima che l’età critica non la
convertisse in una semplice possibilità della lettura biblica»[17].
È dunque un richiamo alla lettura biblica come «atto esegetico totale, che
integra le une alle altre quelle realtà testuali, liturgiche ed esistenziali
che, spesso oggi, illanguidiscono nel loro isolamento»[18].
Alcuni decenni fa è sorto un
dibattito acceso circa l’interpretazione della Bibbia nella chiesa, soprattutto
circa l’esegesi scientifica nell’ambito ecclesiale[19].
In particolare, iniziò a farsi sentire con forza la necessità di rifare l’unità
dell’esegesi, di ritrovare una lettura spirituale della Scrittura[20],
un’esegesi, cioè, che fosse anche teologia, che sapesse riportare la Scrittura
al cuore della spiritualità e innestare su di essa l’omiletica e la catechesi,
l’iniziazione cristiana e la traditio fidei, che coinvolgesse la vita del lettore impegnandolo in
una risposta di preghiera e di prassi.
Ai nostri giorni, e ormai da un
certo tempo, si è resa urgente la necessità di distinguere una sana esegesi «spirituale»
da letture spiritualistiche, allegoriche, letteraliste, fondamentaliste[21].
Nostra convinzione è che la
necessità della lettura della Scrittura nello Spirito sia richiesta dalla
centralità della Scrittura nella vita della chiesa e sia un compito decisivo
per il presente e il futuro della chiesa.
La centralità della Scrittura
nella vita ecclesiale
La riscoperta operata dal
concilio Vaticano II di questo statuto della Bibbia nella chiesa, di questa sua
centralità che nella chiesa cattolica era da tempo offuscata e financo smarrita,
si esprime nella Dei Verbum attribuendo alla Scrittura il ruolo
unificante dei quattro ambiti che costituiscono la vita della chiesa: nella liturgia
infatti le Scritture «fanno risuonare... la voce dello Spirito santo» e per
mezzo di esse «Dio viene... incontro ai suoi figli ed entra in conversazione
con loro» (DV 21); la predicazione
«deve essere nutrita e regolata dalla sacra Scrittura» (DV 21); la teologia deve
basarsi «sulla parola di Dio come fondamento perenne» e lo studio della
Scrittura deve essere «come l’anima della teologia» (DV 24); la vita quotidiana dei fedeli deve essere
segnata dalla frequentazione assidua e orante della Scrittura (cf. DV 25).
Insomma, il primato della Parola
deve riplasmare il volto della chiesa facendo di ogni cristiano un servo della
Parola (cf. Lc 1,2) e di ogni ministero un servizio della Parola (cf. At 20,20)[22]
: «La predicazione pastorale, la catechesi e tutta l’istruzione cristiana, in
cui l’omelia liturgica ha un posto privilegiato» (DV 24), devono trovare nella Scrittura la loro linfa
vitale. La centralità della Scrittura nella chiesa è volta «ad apprendere la
sovreminente conoscenza di Gesù Cristo» mediante l’assiduità con essa: «L’ignoranza
delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo» (DV 25). All’interno del cristianesimo — che «non è la
religione della Bibbia, ma di Gesù Cristo»[23],
che non è dunque una religione del Libro ma piuttosto «religione dell’interpretazione»[24]
— questa centralità diviene effettiva e operante quando si accompagna a un atto
di lettura che attraverso la perscrutatio delle Scritture epifanizzi il
volto del Cristo, conduca alla sua conoscenza e immetta nella relazione coinvolgente,
nell’alleanza con lui. Ma è lo Spirito santo che, fecondando le Scritture nel
grembo della chiesa, svela il volto di Cristo, guida all’incontro con lui e
orienta le esistenze personali e comunitarie a una vita in obbedienza alla
Parola emersa dallo «sta scritto».
È dunque in base non soltanto ai
procedimenti di analisi filologica, storica, letteraria, ma anche all’analogia
fidei e all’azione dello Spirito santo che la lettura spirituale tenta di «assicurare
un giusto equilibrio tra il rispetto dell’alterità del testo e il fatto che è
dato per essere vissuto»[25],
e in questo movimento recupera la tradizione come momento ermeneutico
essenziale della Scrittura, come epiclesi sulla «lettera» biblica testimoniata
nel tempo anche dal sensum fidelium e dalla storia della santità. Questa
esegesi spirituale vuole dunque essere un approccio credente alla Scrittura, a
partire da quella precomprensione specifica della fede grazie alla quale nella
Bibbia può essere colta la dimensione di parola di Dio[26];
essa non è una «tecnica» e neppure un «metodo» in concorrenza con altri metodi,
verso i quali anzi si riconosce debitrice di molte preziose e irrinunciabili
acquisizioni! Essendo esegesi in ecclesia, essa cerca di attuare un raccordo tra il principio dell’unità
della Scrittura, i metodi esegetici ed ermeneutici e il vissuto dei credenti,
convinta che solo da questa sinfonia può nascere un’interpretazione autenticamente
ecclesiale.
Volendo salvaguardare il primato
e il mistero della Parola contenuta nelle Scritture, Parola che non è
esauribile da alcun metodo, essa dichiara al tempo stesso la necessità e l’insufficienza
dei metodi e relativizza il metodo quando questo, facendo della Scrittura la
propria giustificazione, si assolutizza ergendosi a idolo. Scrive giustamente
un’introduzione ai metodi storico-critici: «I metodi storico-critici sono
imperfetti come tutti i metodi; essi non forniscono risultati certi, assoluti;
non danno il senso del testo come se un testo non avesse che un solo e unico
senso. Tuttavia forniscono un senso possibile in mezzo ad altri»[27].
È al reperimento del senso profondo del testo, a un’intelligenza del
senso che divenga interpretazione totale dell’esistenza, che tende la lettura
spirituale, l’esegesi come «atto globale».
L’interpretazione ecclesiale
della Parola creatrice e redentrice suppone il gioco coerente di un’esegesi
pluridimensionale di cui l’esegesi detta positiva o critica deve rappresentare
una dimensione importante, ma soltanto una dimensione, nell’equilibrio vivente
della cattolicità della fede[28].
La lettura spirituale avvicina la
Bibbia nella convinzione che «tutta la divina Scrittura costituisce un unico
libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la divina Scrittura parla di
Cristo e tutta la divina Scrittura trova in Cristo il suo compimento»[29]:
essa è tutta ordinata al fine della conoscenza di Gesù Cristo, dell’autentica
«gnosi» cristiana che è dinamica, coinvolgente, penetrativa, comunionale. Mossa
dallo Spirito, che è ermeneuta della parola e del silenzio di Cristo e che guida
verso la pienezza della verità (cf. Gv 16,13), essa tende a porsi come esegesi
veramente cattolica, katà tò hòlon,
che implica il lettore credente nel «mistero» della fede, e quindi
nel testo biblico che lo testimonia, portandolo a rinnovare nella propria vita
quell’alleanza e quel dialogo con il Signore che intessono l’intera Scrittura.
L’esegesi scritturistica diviene così esegesi vivente, storia di santità,
compimento della Scrittura.
L’unità della Scrittura
Del resto gli autori del Nuovo
Testamento si muovono completamente all’interno dell’unità di tutta la
Scrittura: essi «pensano» in continuità con le Scritture, in unità con quel
complesso chiamato «la Legge di Mosè, i profeti e i salmi» (Lc 24,44) o «la
Legge e i profeti» (Mt 5,17; 7,12) che non costituiva ancora il blocco compatto
e chiuso che noi definiamo Antico Testamento. Se dunque la conoscenza storica
esige che si stabilisca un rapporto, che si arrivi a entrare nella mentalità
degli autori che si studiano, il presupposto dell’unità della Scrittura va
preso estremamente sul serio. Come comprendere l’evento pasquale che è «secondo
le Scritture» senza entrare nella prospettiva dell’unità della Scrittura? «Cristo
morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno secondo
le Scritture» (1Cor
15,3-4). Senza la testimonianza delle Scritture l’evento pasquale resta muto,
si riduce alla stupita constatazione di una tomba vuota, e il Cristo non è più
conosciuto ma rimane un estraneo come ai due discepoli di Emmaus: non è più
predicabile come il Vivente, ma di lui si può solo fare un resoconto
cronachistico o un onorevole necrologio (cf. Lc 24,19-24). Se invece il fatto
della tomba vuota dopo tre giorni (Lc 24,1-3) viene letto alla luce della
Scrittura e delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6b-7), allora può essere accolto
nella fede come evento di resurrezione («Non è qui: è risorto!»: Lc 24,6), e può
essere annunciato (cf. Lc 24,9), predicato (cf. At 2,22-36), tramandato (cf.
1Cor 15,3a), celebrato liturgicamente dalla comunità cristiana radunata (cf. Lc
24,34), confessato e messo per iscritto fino a diventare a sua volta Scrittura (cf.
1Cor 15,3b-4). Emerge già qui il rapporto intrinseco tra Bibbia e liturgia su
cui ritorneremo, rapporto che è essenziale nel processo stesso di formazione
del testo biblico.
Il caso dei salmi mostra bene che
la risposta orante del popolo alla parola di Dio è parte integrante di questa
stessa Parola (C. Westermann): i salmi sono il luogo biblico in cui con
maggiore forza si evidenzia il carattere divino-umano della Scrittura. E sono
il luogo esegetico in cui si epifanizza al meglio il fenomeno intrabiblico
delle riletture (A. Gelin) e delle riscritture, per cui la redazione finale
di un testo, la sua forma canonica, nasconde una stratificazione di
riformulazioni del testo originario dovute alla sua «vita»: al suo uso
liturgico, al suo adattamento a luoghi e tempi differenti da quello di partenza.
E questo implica una polisemia della lettera stessa, una pluralità di
significati. Un dato acquisito dal metodo storico-critico è la distanza fra
testo ed evento, sicché il testo è già interpretazione teologica dell’evento «e
il senso letterale è già, inizialmente almeno, il senso spirituale»[30].
Si pensi poi ai salmi messianici in cui dei testi composti in epoca monarchica
e utilizzati nel rito di intronizzazione di un re, un mashiach, hanno continuato a essere
utilizzati liturgicamente, cantati e pregati anche dopo l’esilio e la scomparsa
definitiva della monarchia da Gerusalemme. L’uso liturgico ha rivitalizzato
questi componimenti facendone non la memoria del messia di un tempo passato, ma
la celebrazione del messia futuro, veniente: li ha cioè caricati di una valenza
escatologica estranea alloro tenore originario e ha accresciuto la fede e la
speranza messianica del popolo.
La semplice storia di un solo
testo arriva a evidenziarlo come portatore di una molteplicità semantica: a
rigore dunque il senso storico di un testo è la storia dei significati che quel
testo ha assunto attraverso la sua trasmissione (paradosi), le sue riletture (deuterosi), il suo uso
liturgico fino alla fissazione canonica. Si perviene così, a grandi linee, all’intuizione
rabbinica e patristica della pluralità di sensi del testo biblico. Commentando
Geremia 23,29 che paragona la parola di Dio a un martello che frantuma la
roccia, rabbi Jishma’el afferma: «Come questo martello sprigiona molte
scintille, così pure un solo passo scritturistico dà luogo a molteplici sensi»,
per cui «ogni versetto si apre a numerose letture»[31].
E ancora: «In ogni parola brillano molte luci»[32];
«la Bibbia ha settanta volti»[33]...
Non sta forse scritto: «Dio ha pronunciato una parola, due ne ho ascoltate: a
Dio appartiene la forza» (Sal 62,12)? Tale è anche la convinzione patristica: «Le
parole della sacra Scrittura sono pietre squadrate»[34]
le cui diverse facce danno differenti sensi; «dalle stesse parole della
Scrittura... si ricavano più sensi (ex
eisdem Scripturae verbis... plura sentiuntur)... le stesse parole vengono intese
in più modi (eadem verba pluribus
intellegantur modis)»[35].
Si potrebbe arrivare a dire con Hans Urs von Balthasar:
I quattro sensi scritturistici celebrano una loro nascosta resurrezione
nella teologia odierna: infatti il senso letterale appare come quello da
far emergere in quanto storico-critico, quello spirituale in quanto kerigmatico, quello tropo logico in
quanto esistenziale e quello anagogico come l’escatologico[36].
Quell’elemento così tipico della lettura spirituale
della Scrittura che è il coinvolgimento del lettore — che implica la coscienza
che la Scrittura parla della e alla propria esistenza oggi ed esige una
risposta di preghiera e di vita; che implica inoltre il carattere ecclesiale-liturgico
della Scrittura e il riferimento essenziale alla tradizione, cioè al «tessuto vivente
sul quale si inscrive tutta la Scrittura»[37]
— viene oggi raggiunto, per aliam viam, dalle svariate discipline che si occupano dell’atto di
lettura[38].
Il testo non è solo un prodotto di determinazioni storiche, ma è a sua volta
elemento produttore di storia e può dispiegare il suo senso quando è attivato
da una comunità che lo legge e lo recepisce come vitalmente rivolto a sé. La
storicità di un testo biblico non è esaurita dalla conoscenza archeologica dell’autore,
dei destinatari, della data e del luogo di composizione, perché il testo
canonico estende a dismisura, nello spazio e nel tempo, la cerchia dei destinatari
sottraendo i vari libri ai loro autori umani e dichiarandone autore Dio per la
mediazione dello Spirito. Il testo biblico canonico esige perciò anche una
lettura teleologica che colga la sua posteriorità, i suoi effetti nella storia,
la sua vita nella tradizione: il testo non solo «ha» un senso, ma «produce»
senso.
A questa Wirkungsgeschichte (H.-G.
Gadamer)[39]
l’esegesi biblica ha cominciato a prestare attenzione: al convegno della Studiorum Novi Testamenti Societas del
1990 l’esegeta svizzero Ulrich Luz, svolgendo una relazione su «Il testo del
primato (Mt 16,17-19) alla luce della storia del suo influsso (Wirkungsgeschichte)», ha
descritto la «storia degli effetti» come tensione verso la totalità della
comprensione che esamina il modo in cui i testi furono compresi e vissuti nella
storia, tiene in considerazione il potere performante dei testi che origina
novità nella comprensione, include la vita dell’uomo: «La storia degli effetti
rivela ciò che siamo divenuti attraverso i testi nel corso della storia e ciò
che potremmo essere divenuti»[40].
Interrogandosi poi sui criteri di
verità, cioè di adesione autentica al senso del testo, delle svariate interpretazioni
sorte nel corso della storia, Luz ha proposto un criterio di corrispondenza
alle linee di vita di Gesù e un criterio pratico, il criterio dell’amore: «La nuova
interpretazione è vera in quanto suscita e causa amore», amore da intendersi cristologicamente
come realtà del Signore risorto[41].
Viene così ripreso il criterio già formulato da Agostino per cui l’interpretazione
delle Scritture deve essere utile a edificare la carità: «Chiunque crede di
aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se
mediante tale comprensione non riesce a innalzare l’edificio di questa duplice
carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite»[42];
si deve dunque vegliare tanto a lungo sulle Scritture e con così grande e
amorosa attenzione «fino a quando l’interpretazione non raggiunga i confini del
regno della carità (donec ad regnum
caritatis interpretatio perducatur)»[43].
Si ritrova così un principio essenziale della lettura spirituale, principio che
attraversa tanto l’esegesi rabbinica[44]
quanto quella patristica[45]:
si comprende la Scrittura nella misura in cui la si vive[46].
Per il credente che, grazie
appunto alla fede, riconosce nella Scrittura la Parola vivente, penetrante, che
giudica le sue profondità (cf. Eb 4,12) e che vi discerne un’interpellazione
che investe la sua vita qui e ora, questo criterio lo porta a fare l’esegesi
della Scrittura che chiede di amare Dio e i fratelli (cf. Dt 6,5; Lv 19,18; Mc
12,29-31; Mt 22,37-40; Lc 10,26-28) amando appunto Dio e i fratelli nella vita
e lo conduce a sintetizzare cristologicamente questo comando del mandatum
novum: «Amatevi gli
uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34).
Da ultimo è significativo
ricordare che ricerche esegetiche ed ermeneutiche intravedono la verità
profonda del testo in sue dimensioni nascoste, interiori, e invitano ad andare «al
di là del versetto» (E. Lévinas), «oltre la parabola» (V. Fusco) per
intravedere la verità del versetto e della parabola. Il non-detto del testo è
significativo[47]
e questo vuol dire che l’operazione di intelligenza del testo comporta
un inter-legere, un
leggere tra le righe, e un intus-legere, un leggere in profondità entrando nell’interiorità
nascosta del testo, nell’intimità della vita divina racchiusa dalle parole
scritte, per giungere a quella conoscenza coinvolgente del Signore che è
un vero (ri)nascere-con lui
a vita nuova.
L’angustia spirituale
Essendo la lettura della
Scrittura un «atto ecclesiale», non può essere considerata e affrontata solo
come problema tecnico, ma deve essere situata nel più ampio contesto ecclesiale
e antropologico. Viviamo infatti in un contesto culturale che, dominato com’è
dal paradigma dell’homo
technologicus, appare parcellizzato in una molteplicità di specializzazioni,
rattrappito su di sé per assolvere le esigenze e per mantenere i ritmi necessari
alla propria stessa sussistenza e quindi incapace di grandi respiri, di
dischiudere orizzonti vasti e aperti. Un clima che, segnato dall’ansia del
breve periodo, resta costretto all’esteriorità, alla superficie della realtà, e
che dunque, per molti versi, potremmo definire di «angustia spirituale».
Si evidenziano così numerosi
ostacoli che rendono estremamente problematico l’accesso alle Scritture come a
luogo produttore di senso e di speranza, ispiratore di prassi, capace di agire
sulla persona e sulla vita. Queste difficoltà sorgono nel clima culturale
dominante: consumismo, imperativo dell’efficienza e della produttività, primato
dell’immagine e del suono, mito della spontaneità e del «tutto e subito»,
velocizzazione dei ritmi sociali e di lavoro, occupazione e organizzazione
massiccia del tempo libero individuale, eccetera; e anche all’interno della
chiesa: frattura irrisolta tra preghiera e vita e, più ampiamente, tra
spiritualità e vita, tra piano spirituale e piano umano, mancanza di padri
spirituali, primato accordato alle molteplici attività parrocchiali e pastorali,
burocratizzazione della vita parrocchiale e diocesana, dimissione sovente
constatabile da parte dei presbiteri dal compito essenziale di trasmissione
della «gnosi» cristiana, della conoscenza della parola di Dio (cf. Mal 2,7)...
Tali ostacoli possono da un lato ingenerare il senso dell’inattualità della
Scrittura e, dall’altro, ridurre la lectio biblica a un’attività fra le
tante. Inoltre in un mondo in cui si legge poco, si legge in fretta, si legge
spesso per distrarsi, si legge soprattutto per consumare, si legge per
informarsi cercando di immagazzinare il massimo possibile nel minimo tempo, la
lettura di un libro esigente come la Bibbia, lettura chiamata a divenire
scoperta di una presenza e quindi incontro e relazione con l’Altro, non è certo
immediatamente motivata.
Emerge pertanto oggi una
pressante domanda di senso che si declina come bisogno di significato
della vita e come ricerca di direzione, richiesta di orientamento e ordinamento di tutta la
sfera relazionale in cui si articola l’esistenza personale. In un contesto di
anonimato e concorrenzialità, spersonalizzazione e individualismo si fa strada
l’esigenza di una cultura della presenza; dall’atomizzazione e frammentazione
della vita odierna sorge un anelito di unificazione e di comunione, il bisogno
di un riferimento unificante che salvi dalla disgregazione l’io personale
sedotto da molteplici tentazioni centrifughe; all’imperativo attuale della produttività
e dell’efficienza, idolo cui è sacrificato l’umano, si affianca il gemito che
anela gratuità e recupero della dimensione dell’essere sulla dominante del fare;
da una situazione di opulenza, di abbondanza, di possesso di molte cose emerge
l’istanza di semplificazione, di riduzione all’essenziale, di passaggio dall’esteriorità
alla profondità, dal molteplice all’unitario: un’istanza di radicalità.
Nell’ambito ecclesiale questo
significa un ritorno alle fonti,
alla radice che può far rifiorire unità dove c’è divisione e
scissione, e riaprire spazi e prospettive dove c’è soffocamento; significa
riandare al primato e all’essenzialità della fede e della conoscenza di Gesù,
il Signore — primato cui è sottomesso e ordinato anche 1’atto ecclesiale di lettura
delle Scritture — nella coscienza che il cristiano è anzitutto colui che è
definito dalla relazione di fede e di amore che lo unisce al suo Signore (cf.
1Pt 1,8). In questo senso la diffusione del ricorso alla Scrittura mediante la
pratica della lectio divina,
prassi fiorita negli anni postconciliari anche fuori dei
tradizionali ambiti monastici, ci sembra esemplare di questo recupero della
radicalità cristiana e del tentativo di saldare in unità preghiera e vita,
spiritualità e autenticità umana.
PAROLA DI DIO E SCRITTURA SANTA
Se i primi due capitoli di questa
riflessione fornivano alcuni elementi di risposta al perché dell’esegesi
spirituale, quelli che seguono si interrogano sul come, sul chi e sul dove
della stessa, ovvero sul modo, sul soggetto e sul luogo della lettura
spirituale della Scrittura. Per far questo occorre preliminarmente dire
qualcosa riguardo allo statuto proprio della Scrittura e sul suo posto all’interno
della chiesa.
La Scrittura contiene la parola
di Dio
Che rapporto intercorre tra
parola di Dio e Bibbia, tra Parola e Scrittura? È la stessa testimonianza
biblica che mostra che non vi è coincidenza tra le due realtà e che la Parola
eccede la Scrittura e non ne è esaurita.
La parola di Dio è un’energia,
una realtà vivente, operante, efficace (cf. Is 55, 10-11; Eb 4,12-13), eterna (cf.
Sal 119,89; Is 40,8; 1Pt 1,25), onnipotente (cf. Sap 18,15). Dio parla e la
potenza della sua parola si manifesta negli ambiti della creazione e della storia.
Dio parla e la sua parola «chiama all’essere ciò che non è» (Rm 4,17), è parola
creatrice (cf. Gen 1,3 ss.; Sal 33,6.9; Sap 9,1; Eb 11,3) ed è parola instauratrice
di storia: non a
caso il termine davar («parola») è utilizzato dalla Bibbia anche nel
significato di «storia» (cf. 1Re 11,41; 14,19.29; 15,7.23.31 e passim). La parola di Dio è dunque
realtà ben più ampia della Scrittura. Il davar è essenzialmente realtà
teologica, è rivelazione di Dio, «è l’intervento di Dio nell’evoluzione morale
e fisica del mondo»[48],
è il dirsi di Dio che sempre si accompagna all’invio del suo spirito,
della sua ruach — nella Bibbia infatti «lo spirito e la parola sono due
forme di rivelazione costantemente contemporanee»[49]
— e diviene così un darsi, un instaurare una presenza dialogica che incontra l’uomo
nella berit, nell’alleanza.
Il Nuovo Testamento dirà che
negli ultimi giorni «Dio ha parlato nel Figlio» (Eb 1,2): questi, l’Unigenito
del Padre, è la Parola definitiva di Dio. Egli è il Logos che era in principio
presso Dio, era Dio, ha presieduto alla creazione (cf. Gv 1,1 ss.) e si è fatto
carne (cf. Gv 1,14) nascendo da donna (cf. Gal 4,4) per la potenza dello
Spirito santo (cf. Lc 1,35). Nell’economia neotestamentaria la parola di Dio
diventa il «tu» del Padre, il Figlio stesso che narra il Padre e che apre ai
credenti la via alla comunione con il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18).
Appare allora chiaro che la Scrittura non è immediatamente parola di Dio e che
pertanto non è esatto dire che la Bibbia è parola di Dio.
È estremamente significativo, a questo
proposito, l’iter percorso da un passaggio della Dei Verbum (nr. 24)
prima di giungere alla formulazione finale. Nel textus prior si diceva:
Le sacre Scritture non solo contengono la parola di Dio, ma sono
veramente parola di Dio.
Nel textus emendatus questo passo conobbe un
primo ritocco consistente nell’omissione del «non solo» (non tantum), così che suonava:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e sono veramente parola
di Dio.
Giustamente però i padri conciliari non si
limitarono a questa correzione e rielaborano ulteriormente il testo con l’inserzione
di un’espressione di capitale importanza che si trova sia nel textus denuo
emendatus che nel textus adprobatus:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate (quia inspiratae), sono
veramente parola di Dio (verbum Dei).
Questa affermazione va accostata a quella di Dei
Verbum 9 (assente nel textus prior):
La sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto è messa per iscritto sotto
l’ispirazione dello Spirito divino[50] .
La Scrittura è verbum Dei o locutio Dei in
quanto ispirata divinamente: dall’evoluzione dei testi sembra emergere la
preoccupazione dei padri conciliari di evitare l’affermazione che la Bibbia è
direttamente e immediatamente parola di Dio. Quest’ultima infatti trascende la
Scrittura, e poiché gli autori biblici sono e restano uomini, noi dobbiamo dire
che «la parola di Dio è contenuta nelle Scritture» e che queste sono parola di
Dio solo grazie allo Spirito santo. Riprendendo da Origene l’interpretazione
allegorica dell’episodio in cui Gesù, montato su un’asina e un puledro, entra
in Gerusalemme, possiamo dire che «le Scritture, Antico e Nuovo Testamento,
trasportano il Logos di Dio»[51],
la parola di Dio. Oppure, con Gaudenzio da Brescia:
«L’intero corpo della divina Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo
Testamento, contiene il Figlio di Dio»[52].
Nell’economia giudaica la Scrittura è un «portaparola»,
«l’interprete di una parola originaria essa stessa sottratta all’interpretazione»,
«il testimone del processo per cui il davar, questa parola infinita, si è contratta nelle lettere
quadrate pur senza sincronizzarsi con i segni che la captano», senza esserne
esaurita[53].
La Torà scritta è ormai codificata, un insieme definito: per aprirla (patach) occorre
scrutarla, sollecitarla (darash)
con l’infinito lavoro di interpretazione. La Torà stessa esige di
essere interpretata, come appare dalle parole che si trovano al suo cuore: il
Talmud riferisce una tradizione secondo cui il computo delle parole della Torà
mostra che il suo centro è costituito dal verbo raddoppiato darosh darash («fece
intense ricerche») di Levitico 10,16. Da questa radice verbale proviene anche
il termine midrash.
I primi sapienti erano chiamati soferim
perché contavano (verbo safar)
ogni lettera della Torà. Essi dicevano che… l’espressione darosh
darash (Lv 10,16) segna la metà delle parole della Torà[54].
Analogamente, nell’economia
cristiana, la Scrittura è il testimone della parola di Dio, ma non coincide con
essa. Il Figlio Gesù Cristo, parola eterna di Dio, non è contenuto solamente
nella parola umana ed esaurito da essa, e anche i quattro evangeli, con parole
umane differenti e da diverse prospettive, si avvicinano alla parola eterna, ma
non la esauriscono. E poiché non vi è immediatezza di coincidenza tra Parola e
Scrittura[55],
ma la Parola è infinitamente più grande di tutto ciò che è nella Scrittura,
essa può essere ascoltata, colta, solo grazie all’interpretazione dello Spirito,
il quale deve spiegare ciò che è depositato nelle Scritture sul Figlio e sul
Padre. Gesù non ha scritto nulla e il Nuovo Testamento è già interpretazione:
esso è testimonianza del Cristo che ha interpretato la Torà compiendola, è
rilettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento) alla luce della fede
nel Cristo risorto e testimonianza della vita e del ministero, della morte e
della resurrezione di Gesù alla luce delle Scritture (cioè dell’Antico
Testamento).
Se dunque la Parola precede ed
eccede la Scrittura, è anche vero che, per certi aspetti, la Scrittura precede la
Parola, sicché tra Parola e Scrittura si instaura una pericoresi, una
circolarità: «La Parola avvenuta diviene Scrittura proprio per tornare sempre
di nuovo a essere Parola con l’aiuto della Scrittura e cosi realizzarsi come
Parola interpretante la Scrittura»[56].
La comprensione cristiana
ribadita in tutta la tradizione è che «Christus in littera continetur»[57]:
«La Scrittura è dunque tutta intera un grande ‘sacramento’ che contiene in una
specie di involucro sensibile il mistero della salvezza che si incentra in
Cristo[58].
Sotto la guida dello Spirito devo inoltrar mi attraverso la ‘lettera’ fino alle
profondità del mistero ove mi incontro con lui»[59].
La comprensione tradizionale della Scrittura ha perciò sempre fatto ricorso all’analogia
dell’incarnazione.
L’analogia dell’incarnazione
La lettura credente della
Scrittura la confessa come corpo di Cristo: «Il suo corpo è la trasmissione
ininterrotta delle Scritture»[60];
il corpo scritturistico è tradizionalmente considerato, per analogia con il
corpo fisico del Cristo, come forma di incorporazione (ensomatosis) del Logos.
Il Credo stesso pone uno stretto
parallelismo tra l’incarnazione del Verbo nella vergine Maria (et incarnatus est de Spiritu Sancto ex
Maria Virgine) e il farsi carne della parola di Dio nella parola
dei profeti (credo in Spiritum
Sanctum... qui locutus est per prophetas): l’una e l’altra operazione
sono presiedute dallo Spirito santo.
Come c’è una kenosi, una discesa
della Parola nella carne (sarx),
cosi c’è una kenosi, un abbassamento della Parola in parole umane,
in parole scritte (graphé). Questa
analogia dell’incarnazione, che ritorna continuamente nei padri, è ripresa
dalla Dei Verbum:
Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di
Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza,
affinché comprendiamo l’ineffabile benignità di Dio e quanto egli, sollecito e
provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo
parlare. Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte
simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo
assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini (nr. 13).
La Dei Verbum riprende il tema biblico e poi
patristico della condiscendenza (synkatàbasis)
di Dio, l’atteggiamento cioè che designa il piegarsi, il discendere
di Dio necessario perché l’uomo venga da lui raggiunto nella situazione in cui
si trova. La condiscendenza è l’atto misericordioso con cui Dio pone la sua
dimora tra gli uomini: questo atto è rivelato sia dal farsi Scrittura che dal
farsi carne della parola di Dio. Ma la condiscendenza, che pure ha portato la
Parola a rendersi presente in testi scritti sottomessi ai rischi della
redazione e della trasmissione di un testo e che ha presieduto all’incarnazione
del Verbo fino alla morte e alla morte di croce, non ha pregiudicato la verità
e la santità di Dio.
Se il Figlio si è fatto carne ed è
divenuto simile in tutto agli uomini «eccetto il peccato» (Eb 4,15), la parola
di Dio è entrata nella parola umana, nella Scrittura, senza divenire per questo
«menzogna» o «peccato», ma «fatta salva la verità e la santità».
Ecco lo scandalo dell’incarnazione
e della Scrittura! Come si deve riconoscere il Cristo in Gesù di Nazaret (cf.
Mc 8,29), il Figlio di Dio nel crocifisso (cf. Mc 15,39), il Santo in colui che
è stato reso peccato (cf. 2Cor 5,21), il Giusto nell’annoverato tra i
malfattori (cf. Lc 22,37), la Presenza di Dio nel luogo a-teo della
crocifissione[61],
cosi si è chiamati a discernere la parola di Dio nella Scrittura umana, l’unica
Parola nella molteplicità dei libri, nella diversità delle forme espressive,
nelle tensioni e nelle contraddizioni dei contenuti e delle prospettive
teologiche, a riconoscere l’azione dello Spirito nella storicità costitutiva del
testo scritturistico: tradizione orale, stesura scritta, rilettura e
riscrittura, corruzioni, glosse e rimaneggiamenti nella trasmissione del testo...
Chi accetta il mistero dell’incarnazione può anche accettare il mistero della
parola di Dio nelle Scritture, e viceversa: ma questa è operazione pneumatica
che avviene nella fede.
La parola di Dio va accettata
nell’espressione incompleta e umana, così come la qualità divina del Figlio va
accettata nella carne fragile e umana di Gesù. Questa analogia tra Scrittura e
incarnazione è stata molto sondata dai padri della chiesa, soprattutto a
partire da Origene[62],
e in occidente è soprattutto Agostino che ha saputo mostrare come la pienezza
della rivelazione di Dio sia avvenuta tramite una kenosi che si è evidenziata
nell’umiltà della lettera e nell’umiltà della carne:
Ben ricorda la vostra carità come, pur essendo uno solo il discorso di
Dio che si sviluppa in tutta la sacra Scrittura, e uno solo il Verbo che
risuona sulla bocca di tanti santi, il quale essendo in principio Dio presso
Dio, non conosce sillabazione perché è fuori del tempo (né dobbiamo meravigliarci
se, a motivo della nostra debolezza, egli si abbassò ad articolare le nostre
parole, quando si abbassò per assumere la debolezza stessa del nostro corpo)[63]...
In oriente, sulla scia della tradizione origeniana,
Massimo il Confessore ribadisce questa comprensione:
Il Logos di Dio è detto carne non solo perché si è incarnato, ma perché
il Dio Logos inteso semplicemente nel principio presso Dio Padre (cf. Gv 1,1)...
quando viene agli uomini... dialogando a partire da cose a essi familiari, cioè
presentandosi per mezzo di una varietà di racconti, enigmi, parabole e discorsi
oscuri, diventa carne. Infatti, al primo contatto, il nostro intelletto non può
accostarsi al Logos nudo, ma incarnato, cioè alla varietà delle sue espressioni:
Logos nella sua natura, ma carne nel suo apparire. Cosicché i più credono di
vedere la carne e non il Logos, anche se è in verità il Logos. Infatti il senso
della Scrittura non è quello che sembra ai più. Perché il Logos diventa carne
mediante ciascuno dei termini scritti[64].
Come l’incarnazione è finalizzata all’incontro e
alla comunione, al dialogo e all’alleanza tra Dio e uomo, così anche la
Scrittura: «Sempre il Verbo si è fatto carne nelle Scritture per porre la sua
tenda tra di noi», scrive Origene[65],
applicando alla Scrittura ciò che il Prologo del quarto evangelo dice dell’incarnazione
(cf. Gv 1,14). Nelle Scritture è contenuto il Cristo come Verbum abbreviatum[66], come Parola unica di Dio che
condensa e sintetizza in sé le molte parole attraverso cui Dio si è
progressivamente rivelato, Parola già presente come Verbum incarnandum nell’Antico
Testamento.
La Scrittura è così costituita
mediatrice dell’unico Verbo di Dio: analogamente all’eucaristia, essa «contiene
il Signore come Verbo e come Spirito[67]
e, come l’eucaristia, comunica il Signore a chi l’accosta nella fede e sotto la
guida dello Spirito.
Parola ed eucaristia
Questo parallelismo tra Parola ed
eucaristia è stato insistentemente ribadito dal concilio Vaticano II in molti
testi: Sacrosanctum Concilium 48; 51; Dei Verbum 26; Ad Gentes
6; 15; Presbyterorum Ordinis 18; Perfectae caritatis 6; ma
soprattutto in Sacrosanctum Concilium 56 e Dei Verbum 21.
Dice la costituzione liturgica:
La liturgia della Parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra di
loro così strettamente da formare un solo atto di culto (SC 56).
Viene così affermato che la chiesa realizza la sua
essenza nella liturgia in cui Scrittura e pane diventano, attraverso il
metabolismo, parola e corpo del Signore. Vi è cioè un’unità intrinseca tra
Parola e sacramento, realtà inclusive l’una nell’altra che, nella loro
pericoresi, epifanizzano nell’oggi la pienezza dell’evento di salvezza
compiutosi nel Signore Gesù Cristo.
La Dei Verbum afferma:
La chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per (sicut et) il corpo
stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di
nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di
Cristo, e di porgerlo ai fedeli (nr. 21).
Il testo finale, purtroppo, ha molto affievolito il
parallelismo tra Scrittura e corpo del Signore sostituendo il «velut» del textus
denuo emendatus con «sicut et» per venire incontro a quei padri che
temevano la troppo stretta assimilazione (nimis
assimilare) della mensa della Parola e di quella dell’eucaristia.
Lo slittamento da «velut» a «sicut
et», rispetto alla precedente stesura, sottolinea così il diverso modo in cui
la chiesa venera Scrittura e corpo del Signore. Questo e anche altri testi
conciliari sopra ricordati risentono certo delle strozzature congiunturali che
durante i dibattiti in aula portarono a soluzioni di compromesso, e tuttavia
hanno aperto una strada che occorre proseguire per attuare lo spirito del
concilio stesso. Del resto l’intima connessione tra Parola ed eucaristia è
radicata nella stessa testimonianza scritturistica, è attestata dai padri della
chiesa fin da Ignazio di Antiochia, è ribadita dagli autori cistercensi e
vittorini nel medioevo, ed è confermata dall’uso, almeno a partire da Origene,
di uno stesso linguaggio simbolico e teologico per parlare dell’incarnazione,
delle Scritture e dell’eucaristia. Nel capitolo 6 dell’Evangelo di Giovanni il
Cristo si proclama «pane di vita» (vv. 35.41.48.51) in un duplice senso: in
quanto Logos, parola di Dio, rivelatore del Padre, e in quanto cibo e bevanda
eucaristici[68].
Se Ignazio di Antiochia afferma di rifugiarsi «nell’evangelo come nella carne
di Gesù»[69],
Girolamo scrive:
Poiché la carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda,
secondo il senso anagogico, questo è l’unico bene nel mondo presente: cibarsi
della sua carne e del suo sangue non solo nel mistero dell’altare, ma anche
nella lettura delle Scritture. Vero cibo e vera bevanda, infatti, è quello che
si riceve dalla parola di Dio, cioè la conoscenza delle Scritture[70].
Nella tradizione si arriva così a parlare di Gesù
che spezza il pane e spezza le Scritture, di manducazione del pane e
manducazione delle Scritture (del resto esistevano già gli esempi biblici di
Ezechiele che mangia il rotolo scritto che Dio stesso gli porge: cf. Ez 2,8-3,3,
e di Giovanni il veggente che divora il piccolo libro preso dalla mano dell’angelo:
cf. Ap 10,8-11), della Parola che si fa carne in Maria e della Parola che si
incarna nelle Scritture, del Verbo concepito per opera dello Spirito santo in
Maria e del Verbo concepito nella lectio divina per Spirito santo in
ogni credente.
I padri mostrano di avere chiara
coscienza del fatto che la lettura della Scrittura è incontro con Dio e
instaurazione della comunione con lui come avviene nel sacramento eucaristico.
Girolamo scrive: «Preghi? Parli con lo Sposo. Leggi? È lui che ti parla»[71],
e Ambrogio di Milano: «Parliamo con lui [Dio] quando preghiamo; lo ascoltiamo
quando leggiamo gli scritti ispirati da Dio»[72].
Quando dunque la Scrittura è
accostata nello Spirito santo, è letta nella sua unità in Cristo, è accolta con
fede nel cuore del credente all’interno della comunità ecclesiale, allora essa
dispiega la sua efficacia di nutrimento potente, di cibo dato da Dio, di «pane
di vita». A partire dalle affermazioni bibliche che parlano di fame e sete
della parola di Dio, e dunque di questa come cibo e nutrimento spirituale[73],
è scaturita una tradizione patristica che ha sviluppato questo tema mostrando
il legame fra cibo della Parola e cibo eucaristico e giungendo a parlare delle
due mense: la tavola della Parola e la tavola del pane e del vino eucaristici.
La parola di Dio è cibo vitale
per il credente: «Chi non si nutre della parola di Dio, non vive»[74].
Questa parola è efficace, non è neutrale, anzi porta con sé un giudizio: «La
parola di Dio è la nostra manna; e la parola divina, venendo a noi, porta agli
uni la salvezza, agli altri il castigo»[75].
La Scrittura ha dunque una
valenza sacramentale in quanto può operare il contatto con il Cristo che
tramite essa parla:
Chi comprende perfettamente il significato di uno scritto apostolico
senza deformarlo riceve, con l’apostolo, il Cristo che parla e che vive con l’apostolo,
e possiede pure l’insegnamento del Cristo[76].
Scriverà Ruperto di Deutz:
La totalità della Scrittura è l’unica parola di Dio... Quando dunque
leggiamo la santa Scrittura, tocchiamo la parola di Dio e abbiamo dinanzi agli
occhi il Figlio di Dio come in uno specchio e in enigma (1Cor 13,12)[77].
L’autore del De unitate Ecclesiae conservanda afferma
in modo lapidario: «Per corpo di Cristo si intende anche la Scrittura di Dio»[78].
Scrittura ed eucaristia sono
dunque entrambe corpo sacramentale del Cristo: le parole dell’istituzione
eucaristica si riferiscono adeguatamente anche alla parola della Scrittura.
Scrive Origene:
Non quel pane visibile che teneva tra le mani, il Dio Verbo chiamava suo
corpo, bensì il Verbo nel cui mistero quel pane doveva essere spezzato. E non
quella bevanda visibile chiamava suo sangue, ma il Verbo nel cui mistero quella
bevanda doveva essere versata[79].
E Girolamo, sulla scia di Origene:
Io considero l’evangelo come il corpo di Gesù... E quando dice «chi
mangia la mia carne»... benché questo possa intendersi anche del sacramento,
tuttavia corpo e sangue di Cristo, in senso più vero, è la parola delle
Scritture[80]
.
Questo non significa negare la realtà di quel corpo
eucaristico che Origene chiama «tipico e simbolico»[81],
ma attestare che il corpo ricevuto nell’eucaristia è simbolico in rapporto al
Logos stesso di cui la Scrittura è, in senso più proprio e profondo, corpo e
sangue[82].
La Scrittura, carne e sangue
della parola di Dio, è cibo e bevanda destinata a saziare tutta l’umanità[83];
accostarsi alle Scritture significa pertanto mangiare e bere il Cristo presente
nelle Scritture:
Bevi tutt’e due i calici, dell’Antico e del Nuovo Testamento, perché in
entrambi bevi Cristo (quia in
utroque Christum bibis)... La Scrittura divina si beve, la Scrittura
divina si divora... non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola di Dio (Lc 4,4)[84].
La liturgia eucaristica è il memoriale dell’evento
in cui Gesù ha raccolto la Scrittura tutta nelle sue mani, proprio come il pane
eucaristico e l’ha offerta ai credenti affinché diventasse loro cibo e
sostentamento. Val la pena di ricordare l’audace testo di Ruperto di Deutz
contenuto nel suo commento a Giovanni:
[Gesù] prese il libro... e lo aprì, cioè ricevette dalla potenza di Dio
tutta la santa Scrittura per adempierla in se stesso... Il Signore Gesù dunque
prese il pane delle Scritture nelle sue mani quando, incarnato secondo le
Scritture, subì la passione e resuscitò; allora egli prese il pane nelle sue
mani e rese grazie quando, adempiendo le Scritture, offrì se stesso al Padre in
sacrificio di grazia e di verità[85].
La tradizione liturgica delle chiese d’oriente e d’occidente
ha sempre venerato la Scrittura come la persona vivente del Signore
riconoscendone la presenza in essa come nel pane e nel vino eucaristici[86].
Tra Scrittura ed eucaristia vi è dunque un rapporto intrinseco, una pericoresi.
Di entrambe l’unico fondamento è l’autodonazione di Dio che emette il Verbo: in
entrambe Dio si dona e questa donazione avviene in virtù dello Spirito santo. L’epiclesi
è dunque essenziale a ogni celebrazione della Parola — che in virtù della
sacramentalità della Scrittura ha non solo una propria legittimità, ma anche
una dignità ed efficacia autonome — come lo è per la celebrazione eucaristica.
Occorre allora riconoscere che vi è uno statuto ecclesiale della Scrittura che
possiamo enunciare così: la Scrittura è un sacramento.
La Scrittura è un sacramento
«Nei libri sacri il Padre che è
nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed entra in
conversazione con loro; nella parola di Dio poi è insita tanta potenza ed
efficacia... da essere sorgente perenne della vita spirituale» (DV 21); nella liturgia «il
Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa
si legge la sacra Scrittura» (SC 7):
tramite le Scritture dunque «Dio parla al suo popolo, Cristo annunzia ancora l’evangelo»
(SC 33). Il concilio ha
aperto la strada per giungere a riconoscere alla Parola la capacità efficace
dell’alleanza, la sua qualità di dono offerto a tutto il popolo santo e di
luogo della presenza divina.
Permane ancora, purtroppo, nella
ricezione postconciliare la separazione tra sacramento e Parola, la concezione
che il sacramento dona la grazia mentre la parola biblica dona la dottrina, che
il sacramento è efficace mentre la parola può solo preparare il sacramento e
insegnare. Ma se la parola di Dio non è vissuta nell’economia sacramentale fino
a essere accolta come sacramento, come trasmissione di potenza e di grazia — e
non solo come comunicazione di verità, di precetto e di dottrina —, resterà
sempre parola su Dio e sarà soltanto un preludio alla celebrazione del
sacramento[87].
Si deve sottolineare che unica è
la presenza del Cristo nella parola di Dio come nell’eucaristia. Il Cristo ha
donato la vita predicando la Parola e spiegando la Scrittura, e ha spiegato la
Scrittura e svelato la Parola consegnando il suo corpo e il suo sangue. L’eucaristia
è dunque al contempo gesto e annuncio (cf. 1Cor 11,26), e la parola efficace,
che si realizza, è a sua volta annuncio e gesto. «L’economia della rivelazione
avviene con eventi e parole interamente connessi tra loro, in modo che le
azioni compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la
dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le azioni
e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2). La rivelazione non è soltanto locutio Dei, perché dicere Dei est
facere e facere Dei est dicere!
Dunque, questa economia della
rivelazione in cui Dio «nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cf.
Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con loro (cf. Bar 3,38), per invitarli
e ammetterli alla comunione con sé» (DV
2), e che ha in Cristo il suo sacramento primordiale (Origene) perché
egli è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1Tm 2,5), trova un suo
sacramento nella chiesa, «che
svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio per l’uomo» (GS 45), nell’eucaristia, che è
epifania dell’amore fino alla fine con cui il Cristo ha amato l’umanità, e nella
Scrittura, che
comunica la parola di Dio e in cui «il Padre viene con sovrabbondanza d’amore
incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro» (DV 21). Secondo modalità
differenti Scrittura, eucaristia e chiesa sono «corpo» del Cristo che si illuminano
e interpretano reciprocamente e ci dicono che la lettura del testo
scritturistico deve sempre avvenire in un organico legame con la comunità
ecclesiale e deve sempre avere come proprio télos l’eucaristia.
La Scrittura dunque, con la sua
qualità teandrica, è un sacramento: signum dotato di un elemento
sensibile che contiene e manifesta il mistero di Cristo, luogo di un vero incontro
personale tra noi che ascoltiamo e il Dio che parla e parlando ci rivela il suo
mistero personale facendosi conoscere nel volto del Cristo e cosi offre a noi
una potenzialità nuova di amore e di comunione con lui. La lettura della
Scrittura realizza cosi quella dinamica di ascolto-conoscenza-amore che è
esigenza centrale di tutta la Scrittura, come appare dallo Shema’: «Ascolta, Israele: il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio...» (Dt 6,4-5;
Mc 12,29). Come Cristo nella sua incarnazione è stato il sacramentum Dei, cosi la Scrittura è nell’economia
rivelativa il sacramentum Dei che prolunga l’azione, l’evento di Cristo
nella chiesa insieme a tutti gli altri sacramenti. Gregorio Magno pone la
Scrittura e Cristo in rapporto intrinseco e afferma la presenza reale dell’opera
salvifica del Redentore nelle Scritture: in esse «è contenuta l’incarnazione,
la passione, la morte, la resurrezione e l’ascensione del Signore»[88].
«Gregorio descrive la natura del rapporto Scrittura-Cristo in termini
sacramentali: la Scrittura, infatti, oltre a essere una significazione
anticipata del mistero di Cristo, ne sarebbe anche un’iniziale attuazione»[89].
La Scrittura è un sacramento.
Possiamo anche dire che la Scrittura è un libro, come l’eucaristia è pane e
vino, ma dobbiamo subito aggiungere che essa è un sacramento e dunque un luogo
di effusione della grazia, un mezzo di comunione con Dio, una rivelazione della
sua presenza. Il «libro» che è la Scrittura in verità è un segno della comunicazione
che avviene tra Dio e noi e, come ogni sacramento, va accolto nella fede, altrimenti
non produce grazia né genera comunione. Solo quando è accostata nella fede la
Scrittura può liberare «l’evangelo che è potenza di Dio per la salvezza di
chiunque ha fede... La giustizia di Dio infatti si rivela in esso di fede in
fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,16-17).
La Scrittura ha dunque una
struttura sacramentale in quanto riveste un aspetto esteriore e uno interno,
cosi che il credente deve passare dal primo al secondo grazie all’azione
rivelante di Dio attuata dallo Spirito santo. Qui si innesta la necessità della
lettura spirituale della Scrittura come — secondo le espressioni patristiche — passaggio
dalla lettera allo spirito, rinvenimento del midollo dietro la corteccia, del
frutto dietro il fogliame... non però nel senso di rinvenire un «altro»
significato in base a inaccettabili allegorizzazioni, ma la profondità relativa
e comunionale del testo stesso. Questa profondità si identifica con il Cristo
che è l’unità e il compimento di tutte le Scritture e che vuole stabilire un’alleanza
con il credente-lettore. Occorre dunque chinare il capo sulle Scritture come il
discepolo amato sul petto di Gesù, sul suo cuore: infatti «per cuore di Cristo
si intende la sacra Scrittura che rivela il cuore di Cristo»[90].
Il lettore deve poi tener presente il fatto che la Scrittura è costitutivamente
storica, teologica e liturgica al tempo stesso: testimonianza di eventi storici
interpretati teologicamente alla luce della fede e rivissuti e rigenerati all’interno
della celebrazione liturgica.
La struttura sacramentale della
Scrittura è inscindibile dalla struttura sacramentale dell’eucaristia, come
ricordava il vescovo melkita, monsignor Neophytos Edelby, arcivescovo titolare
di Edessa e consigliere patriarcale, in un intervento in aula il 5 ottobre 1964
durante la terza sessione del concilio mentre si discuteva la seconda parte
dello schema sulla divina rivelazione. Dopo aver affermato che «il primo
principio teologico di ogni interpretazione della sacra Scrittura» è che «non
si può separare l’invio dello Spirito santo dall’invio del Verbo incarnato» e
dopo aver ricordato che «il fine dell’esegesi cristiana è l’intelligenza della
Scrittura alla luce di Cristo risorto», con estrema forza monsignor Edelby ha
proseguito: «La Scrittura è realtà liturgica e profetica, è annuncio (kérygma) prima di
essere libro, è la testimonianza dello Spirito santo sulla venuta di Cristo, di
cui il momento privilegiato è la liturgia eucaristica». Se «la controversia
post-tridentina ha soprattutto visto nella Scrittura una norma scritta», essa
invece va considerata come «la consacrazione della storia della salvezza sotto
le specie della parola umana che non può essere separata dalla consacrazione
eucaristica in cui tutta la storia è ricapitolata nel corpo di Cristo». A
questo punto si inserisce anche il rapporto con la tradizione: «Questa
consacrazione necessita di una epiclesi, e questa è appunto la sana tradizione.
La tradizione è l’epiclesi della storia di salvezza, la teofania dello Spirito
santo, senza la quale la storia è incomprensibile e la Scrittura resta lettera
morta».
La Scrittura deve perciò essere
interpretata «nella totalità della storia di salvezza»[91].
Certamente, è soprattutto nella liturgia, e sommamente nella celebrazione
eucaristica, che la proclamazione della Scrittura può dispiegare la sua
efficacia di emergenza della presenza del Signore e di comunione con lui, ma è
pur vero che anche nella lectio divina personale (e tanto più se
comunitaria) può autenticamente avvenire un’esperienza reale di comunione con
il Cristo. Quando attraverso la Scrittura noi ascoltiamo e accogliamo la parola
di Dio nella fede, non soltanto la sentiamo rivolta in modo personalissimo a
noi, ma di essa facciamo l’esperienza reale vedendo, ascoltando, toccando il
Verbo di vita (cf. 1Gv l,1). La Scrittura infatti si rivolge sempre
contemporaneamente a tutti e a ciascuno: quando la parola della Scrittura si
rivolge al «voi» dell’intera comunità radunata, lo fa coinvolgendo il «tu» di
ciascun membro; e quando si rivolge al singolo, lo fa avendo di mira la sua
collocazione ecclesiale, il suo essere destinatario della Parola in quanto
organicamente inserito nella struttura comunitaria.
L’UNITÀ DI TUTTA LA
BIBBIA
L’atteggiamento di «religioso
ascolto della parola di Dio» (DV 1),
che si esprime con «l’interpretazione della Scrittura nello stesso Spirito
mediante il quale è stata scritta» (DV
12), implica la considerazione dell’’’unità di tutta la Scrittura» (DV 12). Solo questa unità
della Scrittura, su cui si fonda il suo uso liturgico, consente di concepire e
salvaguardare il suo aspetto sacramentale, la sua qualità rivelativa, ispirante,
il suo essere incarnazione della Parola. Posto dunque il primato dell’ascolto
per un’interpretazione spirituale ed ecclesiale della Scrittura, occorre
specificare che la Bibbia da ascoltare è quella che si presenta a noi come il
testo attuale e canonico.
Il canone
Senza entrare nella problematica
storica del «farsi» del canone scritturistico ci basta rilevare che la chiusura
del canone fu sostanzialmente la ratifica di un dato di tradizione tanto per
gli ebrei quanto per i cristiani: furono riconosciuti canonici quei libri la
cui lettura costituiva il momento fondamentale nelle assemblee liturgiche
giudaiche e cristiane. La canonicità risponde dunque a un dato di
tradizione e presenta un aspetto costitutivamente ecclesiale-liturgico[92]:
sono canonici i libri che hanno saputo reggere il dialogo tra il popolo e il
suo Dio, mostrando così di contenere la parola di Dio e di far vivere il popolo
nell’alleanza, alla presenza di Dio. Il canone istituisce dunque un’appartenenza
reciproca tra comunità e Scrittura. Secondo Neemia 8 la Torà divenne «canonica»
quando quei testi giuridici e narrativi di autorità già riconosciuta furono
proclamati liturgicamente e fatti comprendere a tutto il popolo radunato che,
raggiunto dalla Parola, pianse (cf. Ne 8,9). Appare qui che la canonicità è «il
punto di articolazione della ‘Scrittura’ e della ‘lettura’ biblica: nel
crogiuolo del canone, la Scrittura si trova consacrata nella sua finalità di miqra’ (di ‘lettura’)»[93].
Il già citato studio di
Anne-Marie Pelletier sul Cantico dei cantici (un testo la cui canonicità fu molto discussa e
contrastata), a partire dalla tradizione di lettura e di uso del Cantico stesso
che non mirava tanto a «spiegarlo» quanto piuttosto a far entrare il lettore-ascoltatore
nel dialogo a due voci che lo costituisce, ipotizza che proprio questa forma di
dialogo, che fa del Cantico un testo di rivelazione, giustifichi la sua
inserzione nel canone. Al cuore della Bibbia il Cantico dei cantici rappresenta
allora sinteticamente in sé il dialogo d’amore che attraversa la Scrittura
tutta e che la Scrittura canonica vuole suscitare nei suoi lettori. Il Cantico
dei cantici diviene così come un «duplicato interiore» della Bibbia tutta, un
testo che riflette in sé, in piccolo, il macrotesto biblico. Le «necessità
spirituali»[94]
che hanno portato a canonizzare il Cantico sono cioè le stesse esigenze cui il
Cantico e la Scrittura canonica continuano a rispondere: invitare il
lettore a entrare nel dialogo io-tu, nella relazione d’amore, nella grazia
esigente dell’alleanza. Del resto «l’autorità del canone è nel dialogo
vivificante che la comunità intrattiene con esso»[95].
Così i molti libri (tà biblìa)
chiusi nel canone si aprono nell’unico Libro la cui unità testimonia
a un tempo l’unità diacronica e sincronica del popolo credente e l’unicità del
Dio che ne è «autore» (DV 11).
Il livello redazionale
Parallelamente all’unità canonica
della Scriptura tota, si
deve ricordare che l’ascolto della Parola leggendo la Scrittura avviene sul
testo nella sua redazione definitiva. Sia la redazione finale di un testo sia
il canone hanno valore ermeneutico,
ed è tramite essi che ci raggiunge il messaggio, la parola di Dio.
Lo studio delle redazioni successive di un testo, delle differenti tradizioni
che lo compongono, ci mostra il cammino della rivelazione, l’azione dello
Spirito nella storia, però è tramite il testo nella sua redazione finale che
Dio ci parla oggi, non in ipotetici testi originali ricostruiti. Circa la formazione
del Pentateuco, la cosiddetta «nuova critica» pone l’accento sulla redazione
finale dei testi piuttosto che sulle sue origini e sugli ipotetici «documenti»
che lo formavano. Il lavoro compositivo che ha presieduto al formarsi dell’Antico
Testamento presenta riletture differenti per epoca di origine e prospettiva
teologica dello stesso evento (per esempio l’esodo); accosta narrazioni
teologicamente distanti di uno stesso evento (si pensi ai due racconti della
creazione presenti nei primi due capitoli della Genesi); conserva e riporta
leggi che danno indicazioni divergenti sugli stessi argomenti[96];
integra in uno stesso libro (il Salterio) acquisizioni teologiche recenti — come
la vita eterna dell’uomo nella comunione con Dio (cf. Sal 49), e la credenza
radicata della morte come orizzonte ultimo, senza vita eterna, dell’esistenza
umana —; ci porta a prendere sul serio l’unità composita della Scrittura:
riscoprire l’unità del Pentateuco dai vari codici legislativi che vi sono
compresenti e dalle differenti teologie che lo attraversano[97],
l’unità redazionale del libro di Isaia in cui le parti attribuite al secondo e
al terzo Isaia sono riletture e attualizzazioni degli oracoli dell’Isaia dell’VIII
secolo... Insomma, se «è attraverso il profeta che Dio ha parlato agli
uomini di Gerusalemme, è attraverso il libro di Isaia che Dio ci parla
oggi»[98].
«Scriptura
sui ipsius interpres»
È solo l’unità della Scrittura
che consente di attivare il principio per cui la Scrittura è interprete di se
stessa. Questo non significa certo negare i debiti che molti testi o
istituzioni bibliche (si pensi alla monarchia veterotestamentaria) hanno
contratto nei confronti delle letterature e delle culture dell’ambiente
circostante e quindi la necessità di ricorrere al mondo extrabiblico per
spiegare adeguatamente la Bibbia. Ma significa che il contesto biblico (Antico
e Nuovo Testamento) dà un significato e un orientamento radicalmente nuovo a ciò
che è mutuato da altrove.
Sono noti i rapporti che uniscono
una sezione del libro dei Proverbi (22,17-23,32) e il testo egiziano dell’Insegnamento di Amenemope[99],
così com’è noto che nella Lettera ai Filippesi 4,8 Paolo propone ai
cristiani di Filippi alcuni ideali etici propri della morale stoica. Ma
l’insegnamento sapienziale egiziano viene nel testo biblico
espressamente finalizzato alla fede in JHWH (cf. Pr 22,19) e l’insegnamento
etico è posto sotto la luce rivelativa dell’azione di JHWH go’el (cf. Pr 22,22-23). Così
nella Lettera ai Filippesi Paolo consiglia ai cristiani di far oggetto del
proprio sentire e pensare (phronein)
alcune virtù etiche tipiche della filosofia stoica, ma subordina il
discorso al comando di «rimanere saldi nel Signore» (Fil 4,2), di avere in sé
lo stesso sentire e pensare (phronein)
che fu in Cristo Gesù (cf. Fil 2,5), e lo accompagna al comando di
praticare ciò che hanno ascoltato, imparato, ricevuto, visto in lui (cf. Fil 4,9).
Il discorso di Paolo nei primi capitoli della Prima lettera ai Corinti mostra
il necessario urto che le sapienze umane devono fare con l’evangelo, il quale
nel suo nucleo irriducibile è «parola della croce» (1Cor 1,18) e dunque ciò che
meno è assimilabile al mondo e che anzi lo contesta radicalmente.
«Scriptura sui ipsius interpres»
significa allora che vi è all’interno della Scrittura un principio fondamentale,
la fede in JHWH Dio unico che liberando Israele dalla schiavitù si è rivelato
nella storia come Dio personale per instaurare una relazione di alleanza con lui: «Io sono JHWH, il tuo Dio»; e che questo principio
conferisce unità profonda ai molti e diversi testi e riorienta ciò che è
desunto da altre culture. Così nel Nuovo Testamento è la fede in Gesù Cristo
morto e risorto, definitiva rivelazione del Dio di Abramo, Isacco e
Giacobbe, mediatore dell’alleanza nuova e migliore (cf. Eb 7,22; 8,6; 9,15 e passim), il principio ermeneutico
unificante. Questa fede che ha prodotto e che anima i testi biblici fa di essi
dei testi di rivelazione, non etici o edificanti, e della loro lettura un luogo
di esperienza e di incontro con l’unico Dio.
La tipologia
Le riletture intrascritturistiche
ci forniscono anche molti esempi di come la Scrittura «si» legge. L’evento
esodo, per esempio, attraversa tutta la Scrittura mediante numerose
reinterpretazioni e si possono elencare vari modelli di attualizzazione, di
rilettura: dal modello cultuale (cf. Es 12,1-13,16 e passim) a quello narrativo-teologico,
dal modello profetico-tipologico (Amos, Osea, Geremia, secondo Isaia...) a
quello midrashico (cf. Sap 10,15-12,27; 16,1-19,22), eccetera[100].
La tipologia in
particolare gioca un ruolo di rilievo anche nei rapporti tra Antico e Nuovo
Testamento essendo usata dagli scrittori neotestamentari: importante per la comprensione
spirituale delle Scritture, essa però, oggi molto contestata, richiede discernimento.
Anzitutto occorre ricordare con Origene che un rapporto di corrispondenza tipologica
tra una situazione dell’Antico e una del Nuovo Testamento non significa l’abolizione
del valore storico della prima, anzi si fonda proprio sulla sua storicità.
Commentando la Lettera ai Galati 4,21-24 Origene scrive: «Che, dunque? Isacco
non è nato secondo la carne? Non lo ha partorito Sara? Non è stato circonciso?...
Questo è mirabile nell’intendimento dell’Apostolo: che egli dica di significato
allegorico fatti dei quali non si può dubitare che siano stati compiuti secondo
la carne»[101].
E ancora: «Anche nel passo in cui l’Apostolo dice: ‘Abramo ebbe due figli...’,
chi dubita che queste cose debbano essere prese alla lettera?... Ma l’Apostolo
aggiunge: ‘Queste sono allegorie’»[102].
Inoltre la tipologia conferma il
permanente valore profetico dell’evento «tipo»: le stesse molteplici e sempre
rinnovate letture dell’esodo scaglionate su molti secoli da parte dell’Israele
veterotestamentario ci dicono questo. Anche nell’ambito del rapporto tra Antico
e Nuovo Testamento occorrerebbe sviluppare (sempre sulla scia di Origene, che
parla di ombra-immagine-verità), una tipologia non bipolare ma a tre tappe, in
cui situazione tipica e antitipica restano aperte alla pienezza escatologica
che deve ancora realizzarsi tanto per l’ebreo quanto per il cristiano. Il
compimento in Cristo confessato dai cristiani è un già aperto su un non-ancora
e non esautora, non rende vana l’attesa di Israele né abolisce la corposità
storica o la potenza profetica delle sue Scritture. Con questa apertura
escatologica la tipologia accentua la sua valenza di mostrare la continuità
dell’azione rivelante di Dio nel corso della storia tutta, fino alla pienezza
escatologica.
L’unità cristologica delle Scritture
Dalla Scrittura stessa noi
riceviamo un principio ermeneutico unificante e assolutamente centrale: il
mistero pasquale[103].
L’evento pasquale
veterotestamentario appare profezia compiuta nell’evento pasquale
neotestamentario e la Scrittura può essere letta alla luce di questo principio
unitario e apparire come la sintesi narrativa dell’unico mistero teologico che
si di spiega dalla visione» dell’Agnello immolato fin dalla fondazione del
mondo» (Ap 13,8) alla venuta escatologica dell’«Agnello immolato e ritto in
piedi» (Ap 5,6; 14,1).
Ma questo significa anche la
centralità cristologica di tutte le Scritture: l’unità delle Scritture è unità
in Cristo. La tradizione è unanime su questo punto. Il Cristo è a un tempo «il
Signore dei profeti»[104]
e colui che adempie le profezie, colui «intorno al quale e per il quale è ogni
profezia»[105],
è colui che «risorgendo e ascendendo al cielo ha aperto il libro»[106],
è la Parola e 1’esegesi della Parola, è colui che solo può spiegare le
Scritture perché»ha creato le parole dei santi Testamenti ed egli stesso ce ne
ha rivelato il senso»[107].
Egli è colui di cui ha scritto
Mosè (cf. Gv 5,46), di cui parlano la Legge di Mosè, i profeti e i salmi (cf.
Lc 24,44) ed è colui che apre la mente all’intelligenza delle Scritture (cf. Lc
24,45), spiega le Scritture e così svela se stesso. Il capitolo finale dell’evangelo
lucano presenta l’episodio dei due di Emmaus in inclusione con l’episodio
iniziale del ritrovamento di Gesù al Tempio da parte dei genitori, «dopo tre
giorni» (Lc 2,46), mentre discute con i dottori spiegando le Scritture. Anche i
due di Emmaus, tre giorni dopo la sua morte (cf. Lc 24,21), lo incontrano
vivente come colui che spiega le Scritture (cf. Lc 24,27). Il Cristo risorto lo
si incontra nella spiegazione delle Scritture. E le Scritture sono comprese
quando il Cristo ne appare il centro ermeneutico: allora avviene il passaggio
dalla non-fede (cf. Lc 24,41) alla fede e alla lode a Dio (cf. Lc 24,53). L’esegesi
credente sfocia nella preghiera: esegesi e teologia, intelligenza della
Scrittura e preghiera appaiono qui unificate nel mistero della fede. Ignazio di
Antiochia a quanti scindono Antico e Nuovo Testamento oppone il Cristo come contenuto
unitario e decisivo delle Scritture che tutto riporta a unità: «I miei archivi
sono Gesù Cristo! Gli archivi inviolabili sono la sua croce, la sua morte, la
sua resurrezione e la fede che [ci viene] per mezzo di lui»[108].
Il rapporto tra evento cristico e
Scritture antiche è posto dalla predicazione apostolica in modo tale che non si
può parlare di semplice successione, ma di illuminazione reciproca. L’evento
pasquale cristiano è evento interpretato alla luce delle Scritture ma anche
interpretante le Scritture e così costituisce la «chiave ermeneutica che
permette di comprendere le Scritture che l’avevano annunciato, ma senza l’illuminazione
delle Scritture l’esperienza pasquale resterebbe un enigma»[109].
La lettura cristiana delle Scritture cerca dunque la reciprocità e l’interdipendenza
fra i due Testamenti i quali hanno nel Cristo la loro chiave di volta: «Nei due
Testamenti si trova il Cristo, perché il Cristo stesso è il loro consensus»[110].
I padri hanno perciò parlato dell’intrinsecità dei due Testamenti: «Il Vecchio
Testamento è rivelato nel Nuovo (revelatum),
e... il Nuovo Testamento è velato nel Vecchio (velatum)»[111];
è infatti in Cristo che viene tolto il velo che ancora permane alla lettura
giudaica dell’Antico Testamento (cf. 2Cor 3,14).
È il Cristo che «compie» la
Scrittura (cf. Gv 19,28), e il «compimento» di tutte le cose scritte su di lui
nella Legge, nei profeti e nei salmi (cf. Lc 24,44) non significa una
realizzazione letteralistica ma il discernimento e il compimento della volontà
di Dio rivelata nelle Scritture. Questo ci dice quel dei, «è necessario», che rimanda
a una necessità divina ed è ripetuto tre volte nel capitolo 24 dell’Evangelo di
Luca (vv. 7.26-44) a proposito della passione-morte-resurrezione come
dossologico compimento della Tanakh, dello «sta scritto» (cf. Lc 18,31-33). Il compimento
delle Scritture in Cristo è evento di rivelazione che prosegue la rivelazione e
ordina ciò che era precedentemente rivelato: non è dunque un movimento
unidirezionale, ma uno scambio in cui la realizzazione cristologica getta
obiettivamente nuovo senso sulle Scritture a cui è inestricabilmente connessa.
L’Antico Testamento è essenziale, imprescindibile per conoscere e incontrare
il Cristo risorto, e l’Antico Testamento compiuto in Cristo è costitutivo della
testimonianza neotestamentaria e della vita della chiesa. Secondo l’Evangelo di
Luca 24,46-48 la missione stessa della chiesa di predicare conversione e
perdono dei peccati è compimento delle Scritture in continuità con l’evento
pasquale!
Il criterio sintetico-dossologico
Il criterio sintetico-dossologico
che unifica l’intera testimonianza scritturistica intorno all’evento pasquale
della nuova alleanza, alla vita del Figlio che nella sua interezza è narrazione
di Dio, conferisce un’importanza particolare e un’eccellenza a quei testi che
più da vicino danno la conoscenza del Cristo. Dire questo non significa aprire
vie alla tentazione di creare un canone nel canone privilegiando l’uno o l’altro
testo, ma ribadire con Origene che» gli evangeli sono primizia di tutta la
Scrittura»[112]
e ripetere con la Dei Verbum che «fra tutte le Scritture, anche nel
Nuovo Testamento, gli evangeli meritatamente eccellono, in quanto sono la
principale testimonianza relativa alla vita e all’insegnamento del Verbo
incarnato, nostro salvatore» (nr. 18).
Non si tratta di scegliere un
testo, fosse anche uno degli evangeli, o una testimonianza scritturistica (per
esempio l’«evangelo» paolino) come portatore della purezza evangelica e far ne
il criterio discriminante all’interno del canone, ma si tratta di ricordare il
primato della conoscenza di Gesù, il Signore, cui la lettura della Scrittura è
sottomessa, e che tale conoscenza è data dagli evangeli e dalla loro
quadriforme testimonianza. È questa conoscenza che il lettore credente cerca
nelle Scritture tutte.
Da tutto questo emerge che la
lettura della Scrittura deve essere ascolto integrale della stessa (cf. Ap 22,18-19;
Dt 4,2) e ricerca del consensus tra Antica e Nuova Alleanza che si
risolve in ricerca del volto di Cristo. È solo alla luce dell’unità
cristocentrica di tutta la Bibbia che i cosiddetti «salmi imprecatori», possono
cessare di essere considerati come isolate pietre di inciampo, per ridivenire
pietre da costruzione pienamente integrate all’interno dell’edificio
scritturistico che nella sua unità è corpo di Cristo e profezia cristologica.
Del resto anche questi salmi soggiacciono al principio ermeneutico posto da Gesù
in Luca 24,44 («È necessario che si compiano tutte le cose scritte su di me
nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi») e vanno letti nel contesto di
tutta la Bibbia e alla luce dell’evento pasquale che li svela come profezia e
prefigurazione della passione-morte di Gesù Cristo. Si tratta di comprendere
che le maledizioni invocate dal salmista su nemici ed empi si sono abbattute
sul Servo sofferente, Gesù il Cristo, nella passione e morte di croce e che, in
lui, è Dio stesso che le ha assunte su di sé. Leggere quei salmi alla luce di
Isaia 53 e dei racconti evangelici della passione li svela come profezia della
passione e come elemento essenziale per la comprensione di un aspetto
fondamentale della morte di Gesù che è quello della vergogna: è la morte del maledetto,
dell’annoverato tra i malfattori. Inoltre, colui che nello Spirito li prega
sentendo rivolte a sé, al male che è in lui, al peccato che lo abita, al Nemico
che in lui opera, le richieste di annientamento della potenza del male, si
conosce come innestato per grazia nella nuova alleanza mediante il sangue di
Cristo morto per i nostri peccati. Anche questi testi «scandalosi» sono cosi
assorbiti nello scandalo della croce e diventano luogo di conoscenza dell’amore
di Dio per noi mentre eravamo e siamo peccatori (cf. Rm 5,6-11), luogo di
esperienza della sua misericordia a caro prezzo.
L’esempio di Esodo 2, 11-22, che
narra l’omicidio dell’egiziano compiuto da Mosè, la sua condanna a morte da
parte del faraone e la sua fuga in Madian, ci presenta l’inizio di ciò che
potremmo chiamare «la passione di Mosè». La rilettura che ne fanno gli Atti
degli apostoli 7,23-29.35 sottolinea l’aspetto del rifiuto del ministero di
riconciliazione (verbo synallassein: At 7,26) di Mosè da parte dei suoi fratelli ebrei (cf.
Es 2,13-14). Il testo esodico diviene cosi, nel discorso di Stefano, un esempio
della disobbedienza e del rigetto dell’inviato di Dio da parte del suo popolo,
rigetto che culmina nel rifiuto e nell’uccisione del Giusto (cf. At 7,52): la
passione di Mosè prefigura la passione del Cristo.
Il passo della Lettera agli Ebrei
11,24-28 interpreta liberamente Esodo 2,11-22 vedendolo dominato dalla scelta
di Mosè che non accettando» di essere chiamato figlio della figlia del faraone...
rifiutò di godere per breve tempo del peccato» (Eb 11,24-25). L’interpretazione
poi si fa direttamente cristologica: «Stimava infatti la vergogna di Cristo
ricchezza maggiore dei tesori di Egitto» (Eb 11,26). Mosè si immerse in una situazione
di passione che è diretta partecipazione alla vergogna di Cristo, cosi come vi
partecipano direttamente i santi dopo Cristo (cf. Eb 10,33; 13,13). E Mosè
lasciò l’Egitto rimanendo saldo «come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27): il
Cristo appare già misteriosamente presente nell’Antico Testamento (cf. 1Cor 10,4).
Entrambi i testi del Nuovo
Testamento, pur in maniere cosi differenti, si ritrovano nel far emergere dal
testo esodico il volto del Cristo e nel riconoscere in quello stesso testo la
profezia della croce. Dirà Evagrio Pontico: «L’Antico Testamento predica il
Cristo crocifisso»[113].
L’unità sincronica e diacronica del popolo
di Dio
Infine, l’attualizzazione all’interno
dell’Antico Testamento è fondata sul fatto che Israele si concepisce come unità
nel tempo e nello spazio: la parola di Dio eterna lo concerne dunque tutto e
sempre. E lo concerne nel suo essere unità collettiva e nei singoli che lo
compongono. Il concetto di personalità corporativa (H. W. Robinson), connesso
all’appartenenza reciproca tra Dio e il popolo nell’alleanza, fa si che la
parola di Dio sia entità che parla all’intero popolo come a «un solo uomo» (Ne
8,1) e a ciascun uomo in quanto membro del popolo. Di qui la valenza ecclesiale
anche della lectio divina personale. L’eterna Parola del Dio unico che
si è manifestata nei profeti e nel Figlio fa si che i cristiani riconoscano nel
popolo di Dio, Israele, i loro padri (cf. 1Cor 10,6) e che i due popoli, seppur
divisi, siano chiamati a formare l’unico popolo escatologico. Ma poi anche l’immensa
moltitudine del popolo che viene dopo Gesù costituisce un’unità diacronica e
sincronica.
Di tutto questo occorre tenere
conto nella lettura spirituale delle Scritture: il ricorso intelligente alla
tradizione giudaica di lettura del testo biblico, soprattutto al Targum, può
allora non solo essere richiesto dalla necessità di una migliore comprensione
del Nuovo Testamento, ma può anche divenire luogo di maggior conoscenza,
tramite l’accostamento della sua comprensione biblica, dell’alterità del popolo
santo su cui siamo innestati. Al tempo stesso il ricorso alle antiche versioni
bibliche, soprattutto a quella dei LXX, che è stata la Bibbia dei primi quattro
secoli della chiesa, e poi alla Vulgata di Girolamo, diviene un’attuazione
pratica dell’efficacia ermeneutica della tradizione. Agostino afferma l’utilità
spirituale che può venire ai lettori avvertiti (scienter legentibus) dalle differenti traduzioni
di uno stesso passo e cita il caso di Isaia 7,9 che nella Vulgata ricalca il
testo ebraico («Se non crederete, non avrete stabilità») e nei LXX porta: «Se
non crederete, non comprenderete»[114].
Inoltre il ricorso ad altre versioni bibliche può aprire ecumenicamente alla
conoscenza di altre chiese e svelare tesori di intelligenza spirituale delle Scritture.
Penso, per esempio, all’antica versione siriaca (Peshitta) che nel Salterio fa
precedere ogni salmo da un «titolo» che ne costituisce una ricca chiave di
lettura spirituale. Cosi il titolo del salmo 1 («Beato l’uomo...») lo accosta
alle beatitudini di Matteo e il titolo del salmo 2 ne sottolinea l’aspetto di
profezia della passione di Cristo e della chiamata delle genti. Inoltre,
comprendere spiritualmente la Scrittura implica anche conoscere l’uso liturgico
delle varie chiese in cui i testi biblici continuano a vivere e ad arricchirsi
di senso nel dialogo con le comunità cristiane[115].
Del resto è la liturgia, e in
particolare la liturgia eucaristica, il luogo in cui la Scrittura dispiega
pienamente le sue efficaci energie di incontro con il Signore. Un bel testo di
Gregorio Magno svela la valenza ermeneutica del contesto comunitario,
soprattutto liturgico:
Molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non
sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratribus meis positus intellexi)...
Mi sono reso conto per merito di chi io ricevessi tale capacità di comprensione[116].
Scrittura e comunità
Il testo di Gregorio appena
citato ricorda, a mio avviso, che un altro criterio ermeneutico per comprendere
la Scrittura è la concreta vita comunitaria. Esegesi in ecclesia significa
anzitutto questo: vivere concretamente la vita comunitaria, ecclesiale. È da
questa reale vita in koinonia che
possono nascere quell’esperienza umana e spirituale, quella sensibilità e quel
discernimento che consentono una penetrazione nella vita di cui i testi sono,
appunto, i testimoni. La
vita comune può cosi diventare esperienza della Parola:
Le Scritture si rivelano a noi più chiaramente e ci aprono il loro cuore
e quasi il loro midollo, quando la nostra esperienza non solo ci permette di
conoscerle, ma fa sì che ne preveniamo la stessa conoscenza, e il senso delle
parole non ci è rivelato da qualche spiegazione, ma dall’esperienza viva che ne
abbiamo fatto[117].
Paul Ricoeur ha ricordato il «carattere comunitario
dell’interpretazione» affermando con forza che «è sempre sull’orizzonte di una
comunità d’interpretazione che si distacca un lavoro individuale di esegesi»[118].
Così la Scrittura è sottratta
alla «privata spiegazione» (2Pt 1,20) trovando nella vita liturgica e nella
quotidiana, concreta vita cristiana due loci exegetici fra loro complementari.
Inoltre l’ecclesialità costitutiva della Scrittura fa sì che tutti i membri
della chiesa (christifideles omnes:
DV 25) siano chiamati a essere soggetto della sua interpretazione
spirituale[119]:
essa non può essere appannaggio di addetti ai lavori che pretendono di
detenerne in esclusiva le chiavi! La frequentazione assidua alle Scritture, l’immersione
quotidiana in esse diviene così per ogni battezzato occasione di rinnovamento
dell’immersione battesimale e di consolidamento della propria vocazione cristiana.
Scrittura e martirio
La Scrittura ispirata esige un
lettore che lasci dispiegare in sé, grazie all’obbedienza della fede, la
potenza della Parola e la dynamis dello Spirito. Così la lettura
spirituale della Scrittura tende a divenire testimonianza della Presenza, martyria, e trova il suo naturale
compimento nel martirio, nel dono della vita per amore.
Rabbi ‘Agiva ha vissuto il suo
martirio come il compimento naturale della richiesta dello Shema’: «Amerai [Dio] con tutta la
tua vita» (Dt 6,5). Mentre il suo corpo veniva scarnificato dai torturatori,
rabbi ‘Agiva recitava lo Shema’
e ai discepoli che lo volevano interrompere rispose:
Per tutta la vita mi sono preoccupato di questo
versetto: «Amerai Dio con tutta la tua vita», cioè lo amerai anche nel caso che
ti tolga la vita, e dicevo: Quando mi sarà possibile compiere ciò? E ora che mi
è possibile non dovrei adempierlo[120]?
La Parola che ha illuminato la vita arriva a
vivificare la morte. Gesù fa della croce il luogo in cui amando il Padre con
tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la vita fino all’estremo[121]
e il suo prossimo più di se stesso, compie le Scritture: «Tutto è compiuto» (Gv
19,30; cf. 19,28-29). Così Gesù ha lasciato dispiegare pienamente in sé la
potenza pneumatica della Scrittura che è potenza di resurrezione!
L’ASCOLTO
L’approccio alla Scrittura,
per essere fecondo, deve avvenire nello spazio dell’ascolto, perciò esige «un
cuore che ascolta» (lev shomea’:
1Re 3,9) da parte dell’uditore-lettore. Infatti il fondamento di
tutta la Bibbia è che Dio parla e il popolo ascolta: l’uomo biblico cammina
alla luce della fede, non della visione, pertanto è solo nell’ascolto che può
avvenire l’incontro con il Dio vivente. Si, l’ascolto è costitutivo tanto di
Israele come popolo di Dio (si vedano soprattutto Deuteronomio e Geremia)
quanto della chiesa che è appunto l’ekklesía, l’assemblea convocata dalla parola di
Dio e riunita intorno al Cristo risorto e vivente, parola definitiva di Dio all’umanità.
L’esigenza dell’ascolto è cosi centrale, nell’Antico come nel Nuovo
Testamento, perché richiesta dalla struttura stessa dell’alleanza.
Nell’Esodo Mosè è chiamato al
monte Sinai ed è invitato a proclamare da parte di Dio ai figli di Israele: «Voi
stessi avete visto ciò che ho fatto agli egiziani e come vi ho portati su ali
di aquila conducendovi fino a me. Ora, se voi ascolterete la mia voce e
custodirete la mia alleanza, sarete per me un possesso particolare fra tutti i
popoli: certo, mia è tutta la terra, ma voi sarete per me un regno di sacerdoti,
una nazione santa» (Es 19,3-6)[122].
La liberazione esodale è
finalizzata alla comunione con Dio, all’appartenenza reciproca tra il popolo e
JHWH, e questo avviene nell’ascolto della Torà donata al Sinai: «Ascoltate la
mia voce, eseguite tutto ciò che vi ho comandato, allora voi sarete il mio
popolo e io sarò il vostro Dio» (Ger 11,6). Ma questa esigenza permane anche
nel Nuovo Testamento come ascolto del Figlio: il comando è ormai di ascoltare
lui, «il Figlio» (cf. Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35), colui che è il mediatore della
nuova alleanza, «non della lettera, ma dello Spirito» (2Cor 3,6). Così, se Gesù
può proclamare: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc
11,28) e, rivolto ai discepoli, può dichiarare: «Beati i vostri orecchi perché
ascoltano ciò che molti profeti e giusti desiderarono ascoltare» (cf. Mt 13,16-17;
Lc 10,23-24), l’autore dell’Apocalisse può applicare questa beatitudine allettare
della Scrittura: «Beato colui che legge e quelli che ascoltano le parole di
questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3).
È la stessa struttura dialogica
costitutiva della Scrittura che esige ascolto: ed è per questo che la Scrittura,
tanto nella tradizione giudaica quanto in quella patristica cristiana, è
destinata a essere letta ad alta voce. Nell’antichità e nel medioevo si leggeva
non con gli occhi, «ma con le labbra e con le orecchie, pronunciando cioè la
parola, esprimendola e ascoltando quello che si pronuncia, intendendo così le voces
paginarum. In questo
modo la lettura è una vera audizione: legere significa nello stesso
tempo audire»[123].
In questo senso è il termine ebraico miqra’ che designa nel modo più appropriato il testo
scritturistico, più di Scrittura (graphé)
e di Bibbia (tà biblía,
«i libri»). Esso infatti significa tanto lettura quanto convocazione
e «integra la Scrittura nella lettura»[124];
designa il testo biblico in quanto letto ad alta voce, proclamato liturgicamente
nel contesto dell’assemblea radunata affinché ogni figlio di Israele ascolti,
sia istruito e metta in pratica le parole della Torà (cf. Dt 31,10-12). Il
termine miqra’, formato
dalla radice qara’, «chiamare»,
«leggere», e dal prefisso m- che indica provenienza, designa il luogo
dell’appello e della convocazione: è il libro che ci interpella e ci chiama a
uscire da... per andare verso... Leggere la Scrittura significa sempre compiere
un esodo in vista di un incontro, significa entrare in una relazione dialogica
in cui il testo con la sua dynamis richiede e rende possibile allettare
dei cambiamenti, una «conversione» in vista della comunione con il Signore.
Essendo dunque movimento
dialogico-relazionale, l’ascolto della Parola implica anzitutto l’accettazione
e la conoscenza dell’alterità del testo, la presa di coscienza della sua
differenza e distanza culturale, ed esige la messa in opera di tutta la
strumentazione filologica e linguistica, storica e archeologica, letteraria e
comparativistica... per cogliere il più oggettivamente possibile la parola di
Dio nel testo biblico. E tuttavia tutto questo resta su un piano
sostanzialmente strumentale che deve sempre essere accompagnato dalla fede che
in quel testo biblico, così come si presenta nella sua stesura attuale, Dio
parla a me oggi. E questo fa sì che anche chi è demunito di strumenti di
analisi del testo possa pervenire, nel suo sforzo personale, a una corretta
interpretazione grazie allo Spirito santo che riposa su di lui e guida
indefettibilmente il suo sensus fidei. Del resto anche l’approccio storico del testo
scritturistico esige che si apra «la propria storia alla parola che da quella
storia ci viene incontro. E questa apertura necessaria alla storia che ci parla
nel Nuovo Testamento è la fede»[125].
Ascolto nella fede
L’ascolto della Scrittura deve
essere dunque ascolto nella fede. Per la Scrittura ascoltare (shama’) significa
obbedire: la fede nasce dall’ascolto (fides
ex auditu: Rm 10,17) e la vita cristiana si configura come
chiamata all’obbedienza della fede (oboeditio
fidei: Rm 16,26). Cosi le Scritture stesse esigono obbedienza
(hypakouein: 2Ts
3,14), ascolto fattivo, anzi esigono il si preliminare a colui che parla
tramite esse. Quando la mediazione mosaica dell’alleanza sinaitica trova la sua
compiutezza nella redazione scritta del «libro dell’alleanza» (Es 24,4), la
risposta del popolo alla lettura del libro è: «Tutto ciò che il Signore ha
detto noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7), cioè lo metteremo in pratica e
cosi lo ascolteremo veramente, lo comprenderemo.
Ma proprio questo testo dell’Esodo
ci rivela che ascolto nella fede significa anche radicale coinvolgimento del
lettore che è destinatario della parola scritturistica. Grazie al libro scritto
i «figli di Israele» (Es 19,1.3.6 e passim) implicati nel testo sono anche tutti i futuri lettori
del libro che, tramite l’ascolto obbediente delle parole del racconto,
lasceranno avvenire nella loro vita l’evento sempre attuale della parola di Dio
entrando nell’alleanza con il loro Signore [126].
La lettura della Scrittura è dunque mediazione profetica per entrare e vivere
nell’alleanza. Il problema serio è entrare nella Scrittura, più ancora
che spiegarla, e «il mondo della Scrittura è un mondo in cui si entra
affidandosi a esso: ‘Noi faremo e ascolteremo’» [127].
La natura stessa della parola biblica come parola della fede, come linguaggio
della fede, «che vincola colui che la pronuncia, in un atto di radicale
abbandono confidente, alla Parola che si rivela»[128],
richiede una lettura della Scrittura che sia atto di fede confessata.
La confessione del Cristo morto e
risorto come appare nella Prima lettera ai Corinti 15,3-5, il kérygma pasquale
che è il nucleo neotestamentario della fede cristiana, è evento di linguaggio
che non trasmette solo un fatto, ma il modo stesso di cogliere questo evento e
renderlo nuovamente operante mediante — secondo l’espressione di Jean-Pierre
Sonnet — la sua ri-enunciazione confessante. Quando Paolo «narra» la
morte-resurrezione di Cristo nella Prima lettera ai Corinti 15,3 ss. lo fa
tramite una enunciazione confessante che lo integra alla storia confessata («...
da ultimo apparve anche a me»: 1Cor 15,8), tramite dunque un coinvolgimento
radicale della sua persona nell’evento da lui stesso annunciato. E lo fa
tramite il proprio inserimento in una tradizione («Vi ho trasmesso ciò che io
stesso ho ricevuto...»: 1Cor 15,3; cf. 15,5-7). L’annuncio pasquale, poi, si
produce esso stesso come evento:
L’enunciazione kerigmatica crea una situazione nuova; anche se non
accolta, essa non lascia i suoi ascoltatori nello stato in cui si trovavano
precedentemente. La potenza di Dio che si è manifestata nella resurrezione si
manifesta ugualmente nell’annuncio di questa resurrezione. Il Cristo è
resuscitato fin nel kérygma si deve dire con Heinrich Schlier: «L’evento
pasquale... si è come raddoppiato nel suo annuncio, consegnandosi
irreversibilmente nel kérygma,
rifrangendo si in un ‘evento di parola’»[129].
Se dunque la confessione dell’evento appartiene
pienamente alla realtà stessa dell’evento, occorre allora «non separare ciò che
è unito: evento confessato e confessione dell’evento»[130].
Il lettore-ascoltatore è pertanto colui che, mosso dallo Spirito e incorporato
nel corpo ecclesiale-comunitario, lascia operare in sé, per mezzo della fede,
la performatività originaria della parola di Dio presente nella Scrittura
ispirata, scoprendosi cosi in grado, a sua volta, di riannunciarla con potenza,
di testimoniarla efficacemente, di metterla in pratica[131].
Ascolto nello Spirito
L’aspetto di performatività proprio
del linguaggio della fede dice la potenza, l’energia, la dynamis della
parola scritturistica, che è la dynamis stessa dello Spirito santo. L’ascolto
della Scrittura ispirata deve essere perciò ascolto nello Spirito santo (cf. DV
12). Ogni Scrittura «è ispirata da Dio» (theopneustos: 2Tm 3,16), cioè «le sacre Scritture
hanno il potere (dynamena) di
comunicare la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù»
(2Tm 3,15). La Scrittura svela una dynamis che le è propria e che è direttamente
orientata alla salvezza. Il valore della Scrittura non è anzitutto pedagogico o
morale o didattico, ma soteriologico. «Essa dà salvezza mediante la fede»[132]
e rende capaci di carità, di operare il bene (cf. 2Tm 3,17). Questo potere è
fondato sull’azione dello Spirito che con le sue energie accompagna la
Scrittura e dona salvezza a chi la accosta nella fede. Dice Tommaso d’Aquino: «I
sacramenti traggono la loro efficacia dalla fede»[133]
e questo vale anche per quel sacramento che è la Scrittura. Giovanni Crisostomo
può esclamare: «Grande è la potenza della divina Scrittura»[134];
infatti la Scrittura «proviene dallo Spirito santo»[135]
cosi che, animata dal dinamismo dello Spirito «ogni parola di Dio contenuta
nelle Scritture divine ci chiama alla speranza dei beni celesti»[136].
Già il Nuovo Testamento introduce
spesso delle citazioni dell’Antico Testamento con annotazioni che affermano che
lo Spirito santo ha detto..., ha profetizzato[137]...
Del resto il fenomeno della rilettura spirituale è costitutivo del processo di
formazione del testo scritturistico, tanto nell’Antico quanto nel Nuovo
Testamento[138],
sicché le Scritture sono profetiche e la loro ermeneutica è operazione
profetica. La Scrittura è parola umana, storica, «la Torà parla il linguaggio
degli uomini»[139],
ma la Scrittura santa (cf. 1Mac 12,9) o sacra (cf. 2Mac 8,23) partecipa dell’alterità
e santità di Dio mediante lo Spirito stesso di Dio. Lo Spirito, secondo la
rivelazione biblica, è criterio di comunione nell’alterità e nella differenza, è
potenza dall’alto comunicata all’uomo, è presenza elusiva del Cristo nei tempi
tra la Pasqua e la parusia, è dynamis che personalizza il credente,
facendolo passare dall’anonimato dello schiavo (chiamato aprosopos, «senza volto», nell’antichità)
all’identità del figlio (cf. Rm 8,15-17; Gal 4,6-7), dall’isolamento alla relazione
con Dio e con gli uomini. Se la parola scritta testimonia un’assenza e una distanza,
una differenza e uno scarto (in quanto testimonia eventi storici passati e
indica un referente che la eccede), lo Spirito rende questa parola capace di
instaurare una presenza nell’assenza, una vicinanza nella lontananza, una
comunione nella differenza tra il lettore-ascoltatore e il Dio che rivelandosi
nella Parola e nello Spirito ha lasciato nella Scrittura ispirata un signum della
sua rivelazione.
Lo Spirito santo è dunque colui
che articola lettera e spirito del testo biblico e guida il lettore a una
comprensione spirituale, cioè comunionale, del testo fino a fare della lettura
una stipulazione di alleanza. «Dobbiamo dunque — dice Origene — intendere secondo
lo Spirito ciò che dice lo Spirito»[140],
e Girolamo: «Abbiamo sempre bisogno della venuta dello Spirito per commentare
le sacre Scritture»[141].
Opera dello Spirito, come l’umanità
del Cristo, l’eucaristia e la chiesa, questi altri segni sensibili tramite i
quali il Verbo si comunica agli uomini, anche la Scrittura esige, per essere
compresa, che si raggiunga il suo dinamismo, quello dello Spirito. Solo una
lettura spirituale della Scrittura permette di percepire nelle parole la Parola
a cui queste rinviano, cosi come solo una comprensione spirituale dell’umanità
di Gesù, dell’eucaristia e della chiesa permette di percepire nel rabbi giudeo,
nel pane e nel vino, nel gruppo sociologico, la realtà di cui sono il segno. Ciò
che fa difficoltà non sono questi segni, che sono veramente segni di ciò che
significano perché lo Spirito è in essi, ma la nostra cecità naturale che è
tolta solo dall’adesione allo Spirito che li anima[142].
Vi è un problema di intelligenza
delle Scritture, per cui non basta scrutarle per avere la salvezza (cf. Gv 5,39.47),
ma occorre la fede e l’ammaestramento dello Spirito santo che rende quanti lo
accolgono dei teodidatti, «istruiti
da Dio» (cf. Gv 6,45; Is 54,13). L’opera di Luca associa sempre il compimento
della Scrittura alla discesa dello Spirito e attesta che l’intelligenza
profonda delle Scritture, la loro «apertura» (verbo dianoigo: Lc 24,32) esige e provoca l’apertura
(verbo dianoigo) della
mente (Lc 24,45), del cuore (At 16,14), degli occhi (Lc 24,31). Cioè il
coinvolgimento radicale del credente il cui ascolto diviene esperienza della
presenza del Signore.
La Scrittura ispirata è anche
ispirante e manifesta la sua potenza nel frutto di santità che fa germogliare
nel lettore, nella testimonianza di colui che lascia dispiegare in sé la
potenza della Parola accolta fino a testimoniarne la potenza vivificante dando
la propria vita con il martirio. La Scrittura trova nel martire, il
pneumatoforo per eccellenza, la figura confessante che in modo insuperabile ne
testimonia l’ispirazione e la forza ispirante.
Ascolto nell’oggi
Per questo occorre una lettura
contemporanea, un
ascolto in cui il testo è sentito rivolto direttamente al lettore nel suo oggi.
Già i quattro evangeli sono riletture spirituali differenti dell’unico
evento-Cristo, attuate in epoche differenti da comunità cristiane diverse e
situate in aree culturali differenziate: ma tutte queste comunità hanno sentito
l’evangelo di Cristo come parola attuale, vivente e rivolta a loro.
Il processo di attualizzazione, applicato soprattutto ai
grandi eventi della storia di salvezza come l’esodo, attraversa tanto l’Antico
quanto il Nuovo Testamento ed è stato determinante nella formazione e nella
strutturazione del corpo scritturistico[143].
La Scrittura è tramite della parola di Dio che rimane in eterno (cf. 1Pt 1,25),
consegna l’evangelo eterno (cf. Ap 14,6), annuncia il Cristo che è lo stesso
ieri, oggi e sempre (cf. Eb 13,8): occorre dunque percepire che «ciò che è
stato scritto prima di noi è stato scritto per nostra istruzione» (Rm 15,4),
per noi che viviamo gli ultimi tempi (cf. 1Cor 10,11). Bisogna certamente saper
risalire dal gramma al pneùma, dalla lettera allo spirito, attraverso i necessari
passaggi ermeneutici, ma essenziale è questo atteggiamento di fede per cui
ognuno personalmente in ogni momento storico deve sentirsi interpellato dalla
Scrittura, giudicato, sottomesso al suo primato in modo tale da
lasciarsi purificare e ricevere da essa il discernimento dei «segni dei tempi»
senza imporli alla Scrittura a partire dalle proprie precomprensioni
particolari.
Il testo presenta sovente degli
elementi che svolgono la funzione di innestare il presente del lettore nel
passato del testo stesso[144].
Per esempio il racconto dell’alleanza sinaitica inizia con le parole:
Al terzo mese dell’uscita dei figli di Israele dal paese d’Egitto, in
questo giorno (ba-jom ha-zè)
essi arrivarono al deserto del Sinai (Es 19,1).
E Rashi cosi commenta:
Il testo avrebbe dovuto portare: in quel giorno. Che cosa significa: in
questo giorno? È per dirti che le parole della Torà devono essere per te sempre
nuove, come se Dio te le avesse date oggi stesso[145].
Sì, ogni giorno Dio vuole instaurare l’alleanza
tramite la sua parola; ogni giorno si deve pertanto rinnovare l’ascolto, come sta
scritto nel salmo 95,7-9:
Ascoltate oggi la
sua voce:
«Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove i vostri padri mi tentarono,
mi misero alla prova pur avendo visto la mia azione».
«Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove i vostri padri mi tentarono,
mi misero alla prova pur avendo visto la mia azione».
Questo oggi è esteso dalla rilettura della
Lettera agli Ebrei 3,12-13 a «ogni
giorno, finché dura quest’oggi», ed è il tempo in cui occorre che i
cristiani vigilino e si esortino a vicenda per non indurire il cuore nel
peccato. È quanto chiede anche l’attualizzazione liturgica della liturgia delle
ore cattolica che fa pregare questo salmo ogni mattina.
Ascolto nella preghiera
L’ascolto poi deve essere orante. «La lettura della Scrittura
deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio
tra Dio e l’uomo» (DV 25). Già l’ascolto è l’inizio di questo dialogo, ma poi,
tramite l’esposizione di sé al testo e l’applicazione del testo a sé, la
Scrittura non solo viene capita, ma rivitalizzata producendo un’autentica
teologia, un parlare non tanto di Dio, quanto a Dio, in risposta alla sua
parola. Agostino avverte coloro che studiano la Scrittura che è necessario «conoscere
i generi letterari in uso nelle sacre Scritture e penetrare con solerzia il
modo come ogni cosa ivi è di solito espressa, ritenendola poi a memoria». Ma
egli prosegue:
[È necessario] pregare per ottenere l’intelligenza (orent ut intellegant), essendo
la preghiera il mezzo principale e più necessario. In quelle lettere infatti di
cui sono appassionati leggono che il Signore dà la sapienza e dal suo volto
derivano scienza e intelligenza (Pr 2,6). Da lui hanno infatti ricevuto il
loro stesso trasporto quando esso è unito alla pietà[146].
Essendo la lettura spirituale finalizzata alla
conoscenza del Signore e all’adesione a lui obbedendo alla sua parola, appare
evidente la rilevanza ermeneutica della preghiera del testo biblico: si tratta
di comprendere pregando, con la preghiera, e soprattutto di pregare per entrare
pienamente, con tutto il proprio essere, nel dialogo con il Signore!
Sensi della Scrittura e «lectio divina»
Infine questo ascolto, che cerca
di operare il passaggio dalla lettera allo spirito, che finalizza gli strumenti
interpretativi del testo alla conoscenza della volontà e dell’intenzione del
Dio che parla per pervenire all’obbedienza della fede, opera un approfondimento
dei livelli semantici del testo biblico analogo allo schema dei quattro sensi
della Scrittura presente tanto nel giudaismo quanto nel cristianesimo.
Sviluppando la distinzione lettera-spirito nell’ambito di un’unità fondamentale
proveniente in ultima istanza dall’unicità di Dio, l’esegesi giudaica è giunta
a formulare un modello di lettura dinamico del testo biblico fatto di
approfondimenti successivi[147].
Pur con tutte le ovvie modificazioni, questo schema si ritrova sostanzialmente
nell’esegesi cristiana medievale che parla di senso letterale, allegorico (o spirituale), tropo logico (o morale), anagogico[148].
Una lettura spirituale nell’oggi
intravede in un testo biblico il significato storico, e nel contempo la sua
portata rivelativa, soprattutto la sua valenza cristologica, che coinvolge e
impegna eticamente l’esistenza del cristiano, e infine il suo livello
contemplativo ed escatologico. Di fatto, questi sono i livelli che la lectio
divina porta naturalmente a discernere nel testo biblico in un movimento
unitario che dall’esame del livello storico-letterale del testo (lectio) passa al suo
approfondimento rivelativo, facendone emergere il volto del Cristo (meditatio), con cui si
entra nel dialogo che coinvolge la persona e ne impegna e trasforma l’esistenza
(oratio), fino a
renderla partecipe della makrothymia di Dio verso le realtà umane, nella
speranza del compimento escatologico, del Regno, dell’incontro faccia a faccia
con il Signore tanto cercato nelle Scritture (contemplatio).
La lettura spirituale appare così
attività teologale che suscita e alimenta fede, speranza, carità e ordina
queste realtà in riferimento alla centralità del mistero di Cristo. Lo stesso
senso tropologico, dipendente com’è dal senso critico e tutto teso a innestare
l’uomo nella storia della salvezza, «non ha niente a che vedere con la morale
nel senso stretto e astratto che riveste questa parola nel nostro vocabolario»[149],
ma tende a inserire l’uomo e il suo agire etico nel divenire totale dell’alleanza
che si ricapitola nella vita in Cristo. L’ermeneutica spirituale unifica
rivelazione ed etica nell’apertura all’alterità di Dio che si manifesta in
Cristo e all’alterità dell’altro uomo in cui è riconoscibile il Cristo. La
lettura spirituale della Scrittura trova così nell’operazione di «trasformare
lo sguardo» una delle sue funzioni principali sul piano morale ed è operazione
che avviene particolarmente nella preghiera, liturgica certo, ma soprattutto
personale, «nel segreto», nell’intimità con il Padre. Infatti è la preghiera il
primo uso della Scrittura nella chiesa[150].
Ci serviamo del salmo 2 per
mostrare un esempio di questa lettura spirituale che scopre i quattro sensi.
1. Il livello storico vi
riconosce un antico salmo regale di incoronazione di un re davidico con l’evocazione
dei torbidi sorti nel momento di interregno (cf. vv. 1-3) cui pone fine l’ascesa
al trono del nuovo re (cf. vv. 4-6) che, durante il rito di intronizzazione,
proclama pubblicamente il decreto che legittima divinamente il suo potere («Tu
sei mio figlio, io oggi ti ho generato»: v. 7), compie con lo scettro ricevuto
un gesto esecratorio spezzando i vasi che recano scritti i nomi delle nazioni
nemiche (cf. vv. 8-9) e infine riceve un atto di omaggio da parte dei sudditi e
dei rappresentanti dei paesi stranieri (cf. vv. 10-12).
2. Il livello spirituale vede nel
figlio generato oggi da Dio (cf. v. 7) Gesù, il Messia che ha subito la
passione a opera delle genti e dei popoli di Israele (cf. At 4,25-26) e che Dio
ha resuscitato (cf. At 13,30.32-33) dandogli quel nome di Figlio che è
superiore a ogni nome (cf. Fil 2,9) e che lo rivela superiore anche agli angeli
(cf. Eb 1,5).
3. Il lettore è raggiunto nel suo
oggi dal testo che lo invita a riconoscere la signoria del Cristo
risorto e vivente e lo trascina a vivere più autenticamente la propria
filiazione divina, la propria vocazione battesimale. Egli allora, in virtù
dello Spirito del Cristo, che è il Figlio che non si è vergognato di chiamarci
fratelli (cf. Eb 2,11), può entrare nel dialogo io-tu (‘ani-’attà: v. 7) del salmo e rispondere «Abba»
(Gal 4,6; Rm 8,15) a Dio che gli dice: «Tu sei mio figlio» (v. 7).
4. Questa parola che si è
pienamente compiuta in Cristo resta una promessa escatologica per il credente
che deve ancora combattere per lasciar regnare più radicalmente nella sua vita
il Cristo. È nella Gerusalemme celeste che «il vincitore erediterà questo: io
sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 2 1,7). Ed è solo nel Regno che il
Cristo eserciterà la sua regalità universale, perché solo allora sarà
annientato l’ultimo nemico, la morte (cf. 1Cor 15,26), ed egli «pascerà (Sal 2,9 LXX) le
genti con scettro di ferro» (Ap 2,27; 12,5; 19,15).
PARTE SECONDA
LA «LECTIO DIVINA» NELLA CHIESA
LEGGERE LA BIBBIA, ASCOLTARE LA PAROLA DI DIO
La Bibbia e la sua lettura
Per cercare di porre in luce un’ermeneutica
della Scrittura che conduca all’incontro con il Cristo, parola definitiva di
Dio all’umanità, dobbiamo qui ricapitolare — sia pure in modo rapido e
sintetico — i diversi modi in cui la Bibbia è stata letta nella storia.
Le letture della Bibbia nella
storia
Gli inizi della storia della
lettura della Bibbia sono attestati all’interno della Bibbia stessa. La parola
di Dio trasmessa da un profeta viene sentita nella sua forza di perennità che
trascende la situazione in cui è stata emessa e viene riletta e reinterpretata
da profeti posteriori (il secondo Isaia rilegge il primo Isaia; il terzo Isaia
riprende il secondo Isaia). L’evento salvifico compiuto da Dio mediante l’esodo
del suo popolo dall’Egitto viene sentito come il paradigma dell’intervento
salvifico di Dio nella storia e riattualizzato — riletto e riscritto — in
differenti epoche (Sapienza 10-19 è un midrash sull’Esodo). L’Antico Testamento
presenta così numerosi esempi in cui la Bibbia interpreta se stessa stabilendo
delle intertestualità attraverso citazioni e allusioni, così come presenta
esempi di lettura midrashica, cioè di riattualizzazione in un nuovo contesto
del senso di un passo o di un evento. Derivato dalla radice d r sh che
significa «investigare», «cercare», il termine midrash è arrivato a
indicare tecnicamente il metodo giudaico di studio della Scrittura (e i
prodotti di tale studio, cioè i commenti). La lettura dell’Antico Testamento
nel Nuovo può essere definita una specie di midrash, con la differenza
fondamentale che il punto di riferimento ultimo non è, come nel giudaismo, la
Torà, ma Gesù Cristo, che diventa la chiave di interpretazione di tutti i passi
della Scrittura. Gli autori neotestamentari utilizzano i procedimenti in uso
nell’esegesi giudaica del tempo: sviluppi dottrinali-narrativi dedotti da un
testo biblico (Mt 22,23-32: midrash haggadà); principi normativi desunti da un passo dell’Antico
Testamento (Mt 19,5-6; midrash halakhà); in Paolo troviamo casi di applicazione del
ragionamento a fortiori e della deduzione per analogia, due delle sette
regole (middot) esegetiche
attribuite a rabbi Hillel (morto verso il 20 d.C.). Sempre Paolo presenta una
modalità di riferimento all’Antico Testamento che fa di quest’ultimo un
contenitore di tipi, figure, simboli e profezie che troveranno il loro antitipo,
la loro realtà e il loro compimento in Gesù di Nazaret, il Messia (cf. 1Cor 10,1-4;
Gal 4,21-31). Si pongono così le basi per la lettura tipologica e allegorica
che sarà ampiamente utilizzata presso i padri della chiesa.
Sviluppando la dicotomia paolina
lettera-spirito (cf. 2Cor 3,6), Origene instrada la lettura cristiana della
Bibbia nella ricerca di un senso spirituale che si cela dietro il senso letterale
del testo biblico. Presupposto di questa lettura è ovviamente il dato
teologico dell’ispirazione scritturistica. Abbiamo detto che Origene perverrà a
distinguere tre sensi della Scrittura: un senso letterale (storico); un
senso mistico (relativo al mistero della storia di salvezza compiuto si in
Cristo e dunque concernente le realtà di fede), un senso morale (riguardante l’applicazione
pratica, il piano etico). Siamo alle radici di quella dottrina dei quattro
sensi della Scrittura che caratterizzerà la lettura medievale delle
Scritture. Rivediamo sinteticamente questo schema di approfondimento progressivo
del senso del testo biblico ben espresso dal distico di Agostino di Dacia (XIII
secolo):
Littera gesta docet, quid credas allegoria,
moralis quid agas, quo tendas anagogia.
Il senso letterale ci informa sui fatti, sugli
eventi successi, sulla storia (littera
gesta docet); il senso allegorico o spirituale esprime l’oggetto
della fede, conduce al mistero celato dietro il senso ovvio (quid credas allegoria); il
senso morale o tropologico concerne il piano pratico e spirituale della vita
del credente (moralis quid agas);
il senso anagogico, o escatologico, dischiude la speranza del
credente verso le realtà ultime (quo
tendas anagogia). È importante sottolineare che in verità non
si tratta tanto di quattro sensi, quanto piuttosto di un unico senso compreso a
diversi livelli di profondità.
Nel medioevo accanto alla lectio
divina, lettura
sapienziale che nel testo biblico cerca la conoscenza amorosa di Cristo e il
nutrimento per la fede — lettura coltivata soprattutto negli ambienti monastici
—, si sviluppa, raggiungendo la sua massima fioritura tra la fine del XII e l’inizio
del XIII secolo, la lectio scholastica, in cui il testo biblico viene letto e usato per
suffragare determinate posizioni teologiche: è una lettura tecnica, attenta al
senso letterale che appare come l’unico che può essere fondativo in teologia (Tommaso
d’Aquino). Ma è a partire dal XIV secolo che l’interpretazione cristiana della
Scrittura, essenzialmente allegorica e spirituale, porta alle estreme
conseguenze i rischi insiti in tale tipo di lettura: ovvero l’allontanamento
dalla storia. Essa cade in procedimenti di astrazione sempre più complessi e in
allegorizzazioni artificiose che segnano la sua decadenza e aprono la strada
all’epoca moderna dell’interpretazione biblica.
Epoca segnata da una nuova
considerazione del senso letterale, cosa questa che permane fino ai nostri
giorni. Numerosi fattori contribuirono a questa rivalutazione: l’invenzione
della stampa (XV secolo), che progressivamente porterà una moltitudine di
lettori a un faccia a faccia con la Bibbia prima impossibile; il bisogno di un
ritorno alla Scrittura come elemento di purificazione in un’epoca di decadenza dei
costumi della chiesa (siamo nell’epoca della Riforma); il ritorno alle fonti e
alla conoscenza delle lingue antiche propugnato dagli umanisti (Lorenzo Valla,
nel XV secolo, propone il ritorno alla verità greca delle Scritture, dopo l’epoca
medievale in cui aveva dominato la Bibbia latina). Sradicamento del «testo
sacro» dal suo contesto religioso ecclesiale e necessità di un suo «trattamento»
alla stregua di ogni testo antico, sviluppo del pensiero scientifico, acuirsi
della coscienza storica, sono solo alcuni degli elementi che porteranno l’approccio
alla Bibbia a incanalarsi, soprattutto a partire dai secoli XVII e XVIII, sui
binari di una critica storica e letteraria. Siamo alle origini di quel metodo
storico-critico (ma si potrebbe parlare al plurale di metodi
storico-critici) che è dominante ancora oggi e che il documento della
Pontificia commissione biblica, L’interpretazione
della Bibbia nella chiesa, ritiene indispensabile per la «giusta
comprensione» delle Scritture. Esso cerca di chiarire i processi storici di
produzione del testo biblico, la sua evoluzione diacronica, eccetera. È critico
perché si avvale dell’ausilio di criteri scientifici il più possibile obiettivi
per ricostruire il testo, quindi per analizzarlo linguisticamente e letterariamente
(individuazione delle unità testuali, esistenza di doppioni, valutazione del
genere letterario, dell’apporto di elementi precedenti al testo finale stesso,
esame dell’apporto del redattore finale, eccetera). Fine di questo metodo è
pervenire, per quanto possibile, al senso del testo.
Poiché però nessun metodo può
assurgere a idolo assolutizzandosi, e poiché nessun metodo può esaurire l’immensa
ricchezza del complesso testo biblico, sono sorti molti altri approcci biblici
e, in particolare in questi ultimi anni, soprattutto i metodi sincronici (che
esaminano il testo così come si presenta nella sua stesura finale) hanno goduto
di notevole favore. Si tratta, dal punto di vista letterario, dell’analisi
retorica, dell’analisi narrativa, dell’analisi semiotica. Particolarmente
interessanti sono l’approccio canonico, quello che si rifà alle tradizioni
interpretative giudaiche (di quel mondo culturale e religioso in cui ha preso
la sua forma finale l’Antico Testamento, in cui è vissuto Gesù e in cui è sorto
il Nuovo Testamento) e quello che studia la storia degli effetti del testo biblico
(la sua ricezione e la sua lettura nella storia). Altri approcci biblici sono
mediati dalle scienze umane (sociologia, antropologia culturale, psicologia e
psicanalisi, eccetera).
Il Dio che parla
Il credente: colui che ascolta
Fondamento teologico della Bibbia è che Dio
parla. Di fronte a
questo atto originario di Dio, il partner di Dio è colui che ascolta. Abbiamo
già visto come la Scrittura attesti a più riprese che l’ascolto è ciò che rende
Israele popolo di Dio. L’ascolto crea un’appartenenza, un legame, fa entrare
nell’alleanza. Nel Nuovo Testamento l’ascolto è diretto alla persona di Gesù,
il Figlio di Dio: «Questi è il mio Figlio amato, in cui mi sono compiaciuto.
Ascoltatelo» (Mt 17,5 e par.). La Scrittura contiene dunque un appello e chiede
al suo lettore di farsi ascoltatore e rispondente. Leggere la Scrittura
significa compiere un esodo in vista di un incontro, significa aprirsi a una
relazione, entrare nel dialogo in cui essenziale è il movimento dell’ascolto.
Il credente è»1’ascoltante». Chi ascolta confessa la presenza di colui che
parla e vuole coinvolgersi con lui; chi ascolta scava in sé uno spazio all’inabitazione
dell’altro; chi ascolta si dispone con fiducia all’altro che parla. Perciò gli
evangeli chiedono discernimento su ciò che si ascolta (cf. Mc 4,24) e su
come si ascolta (cf. Lc 8,18): infatti noi siamo ciò che ascoltiamo! La
figura antropologica che la Bibbia vuole costruire è dunque quella di un uomo capace
di ascoltare, abitato da un «cuore che ascolta» (1Re 3,9). È il cuore, infatti,
che ascolta, cioè la totalità dell’uomo: il nucleo più profondo dell’uomo è
forgiato dall’ascolto. Così, ascoltando la Parola, l’uomo si struttura come
accoglienza dell’Altro. Essendo questo ascolto non una mera audizione di frasi
bibliche, ma discernimento pneumatico della parola di Dio, esso richiede la fede
e deve avvenire nello Spirito santo. Condizioni che ci rinviano alla lettura biblica nello
spazio liturgico e nella lectio divina.
Liturgia
La Bibbia è il libro di un popolo
e per un popolo. Essa è un’eredità, un «testamento» consegnato a
lettori-destinatari che subentrano agli autori attualizzando nella loro storia
e nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto. Vi è
pertanto un rapporto di reciproca appartenenza fra popolo e libro: la Bibbia
non è nulla senza il popolo, ma anche il popolo non può sussistere senza il
libro, perché in esso trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione, la sua
identità. Questa mutua appartenenza fra popolo e Bibbia, che significa più in
profondità l’appartenenza del popolo a Dio mediante l’alleanza, è celebrata
nella liturgia, che è anche il luogo in cui avviene l’opera di ricezione della
Bibbia. O meglio, questa ricezione avviene nella comunità riunita nell’assemblea
liturgica. Il testo di Luca 4,16-21 (la proclamazione liturgica del brano
scritturistico e l’omelia fatta da Gesù nella sinagoga di Nazaret) è
significativo a questo proposito, tanto a livello teologico, quanto a livello
antropologico. Quello che avviene lì avviene anche ogni volta che vi è una
proclamazione della parola di Dio in una liturgia. Il testo della Scrittura
viene letto e proclamato come parola viva per l’oggi, per una precisa comunità
radunata in assemblea («Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete
udita con i vostri orecchi»: Lc 4,21): è la comunità radunata dalla parola di
Dio, la comunità dell’ascolto, l’ekklesia.
Nell’assemblea liturgica un lettore vivente dà il suo corpo al libro
che così può risuonare come parola significativa oggi, come parola rivolta a
una comunità determinata. Il lettore con la sua mano apre il libro, con gli
occhi guarda il testo, con la bocca legge e presta la sua voce alla Scrittura:
lo «sta scritto» risuscita così a parola vivente oggi. Questa operazione è
pneumatica, è azione dello Spirito che, come ha presieduto al farsi libro della
Parola, ora, nella liturgia, presiede al farsi Parola dello scritto («Lo
Spirito del Signore è su di me»: Lc 4,18). È infatti grazie all’azione vivificante
dello Spirito che la parola di Dio può risuonare nell’assemblea riunita e
divenire fondamento dell’azione liturgica.
La necessaria presenza dello
Spirito nella proclamazione della Parola nella liturgia è ben espressa dall’Eucologio
di Serapione (IV secolo) che — conformemente alla tradizione alessandrina che
comporta una doppia epiclesi all’anafora — contiene un’invocazione allo Spirito
prima della proclamazione delle letture, e una dopo l’omelia. Epiclesi volte da
un lato a far sì che lo Spirito guidi il presidente dell’assemblea nel compito
profetico di comprendere, proclamare e spezzare adeguatamente la parola di Dio
all’assemblea, e da un altro lato a invocare una giusta e degna ricezione della
Parola da parte della comunità radunata. Nella liturgia, e massimamente nella
liturgia eucaristica, avviene la resurrezione della Scrittura in Parola, sicché
possiamo dire che leggere la Scrittura nel contesto liturgico significa
inserirsi nella dinamica pasquale. Ovviamente questo evento avviene nella
liturgia che è caratterizzata da quattro elementi costitutivi: c’è una lettura
dei testi della Bibbia canonicamente ricevuta; questi testi sono proclamati
come parola vivente di Dio per l’oggi, sono rivolti a un’assemblea che vi riconosce
la propria identità, sotto la presidenza di un garante che attesta l’autenticità
fondante di quanto viene letto.
L’assemblea liturgica, grazie
allo Spirito santo, ascolta Cristo che parla» giacché è lui che parla quando
nella chiesa si legge la Scrittura» (SC
7), si pone alla presenza di «Cristo che annuncia ancora il suo
evangelo» (SC 33),
consente a Dio di entrare in alleanza con il suo popolo, realizza il passaggio
di Dio in mezzo al suo popolo. Scrittura e liturgia convergono dunque nell’unico
fine di portare il popolo a quel dialogo con il Signore che è il fine profondo
della parola di Dio. La parola uscita dalla bocca di Dio e testimoniata nelle
Scritture torna a Dio in forma di risposta orante del popolo (cf. Is 55, I 0- I
I): per questo al cuore della Scrittura si trovano i salmi che nel culto e
nella liturgia esprimono la risposta del popolo all’azione di Dio nella storia.
Il dinamismo profondo della liturgia è dialogico: Dio convoca il suo
popolo; la lettura della Scrittura evoca gli interventi salvifici di Dio
nella storia; 1’assemblea risponde ringraziando e invocando la bontà del
Padre. Come dunque la Parola tende alla liturgia, cosi nella liturgia avviene
la rigenerazione della Parola che si manifesta come vivente, attuale, efficace,
conducendo il popolo all’alleanza. La struttura dia logica della liturgia si
incontra con la finalità dialogica della Scrittura, ben mostrata dal Cantico dei
cantici.
«Lectio
divina»
Se già Origene parla di theia
anagnosis, «divina
lettura», la formulazione più pregnante di questa arte di ascolto della Parola
la troviamo in Guigo il Certosino:
Un giorno, mentre ero occupato nel lavoro manuale, presi a riflettere
sull’attività spirituale dell’uomo. Allora improvvisamente quattro gradini
spirituali si offersero alla mia riflessione, e cioè la lettura, la meditazione,
l’orazione e la contemplazione... La lettura è un accurato esame delle
Scritture che muove da un impegno dello spirito. La meditazione è un’opera
della mente che si applica a scavare nella verità più nascosta sotto la guida
della propria ragione. L’orazione è un impegno amante del cuore in Dio allo
scopo di estirpare il male e conseguire il bene. La contemplazione è come un
innalzamento al di sopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio che gusta le
gioie della dolcezza eterna[151].
Proprio della lectio divina (sia personale
che comunitaria) è il contesto di fede e di preghiera in cui essa
avviene: si apre con il silenzio, con la confessione di fede che attraverso la
pagina biblica il Signore parla a me oggi, con l’invocazione allo Spirito e 1’apertura
umile alla sua azione: la comprensione del testo è evento pneumatico, non
operazione intellettuale. Lo studio rientra certamente all’interno del
movimento della lectio divina:
la meditatio non è infatti un’introspezione o un’autoanalisi
psicologizzante, ma 1’approfondimento del senso del testo (anche mediante il
ricorso a strumenti che vanno dalle note della Bibbia che si sta usando a un
commentario, a un dizionario biblico, eccetera) perché emerga la punta teologica,
il kérygma, il
messaggio centrale. Dalla pagina letta e ascoltata si passerà poi alla presenza
pregata, contemplata: un po’ come avviene in Luca 4,16-21 in cui si assiste
plasticamente al passaggio dalla lettura del testo biblico (Gesù legge dal rotolo
del profeta Isaia: cf. Lc 4,16-19) alla visione della persona di Cristo («gli
occhi di tutti erano fissi su di lui»: Lc 4,20). Cosi la lectio divina, iniziata nella preghiera,
sfocia nella preghiera: preghiera di ringraziamento o di adorazione, di lode o
di supplica, silenzio che contempla la presenza del Signore o invocazione che
la cerca, sempre sarà una preghiera ispirata dalla parola ascoltata e meditata.
Nella lectio divina si
passa dalla lettura del testo per cogliere la Parola alla lettura di sé e del
proprio vissuto davanti a questa stessa Parola. E si sperimenta l’unificazione
a cui essa conduce: unificazione tra fede e vita, tra preghiera personale e
liturgia, tra interiorità e impegno storico. Ma anche, per quanto riguarda il
testo biblico stesso, unità tra Antico e Nuovo Testamento. La lectio divina infatti
cerca di unificare la Scrittura all’interno del principio ermeneutico cristiano
fondamentale delle Scritture stesse: Cristo morto e risorto, Parola definitiva
di Dio all’umanità. E in questo modo sa cogliere il compimento alla luce della
promessa e sa vedere che il compimento non solo non è senza la promessa, ma non
esautora la promessa, anzi la rilancia verso un compimento escatologico. Il
compimento in Cristo diviene la promessa in Cristo. Il Cristo, morto e risorto «secondo
le Scritture» (1Cor 15,3-4), cioè secondo «la Legge, i profeti e i salmi» (Lc
24,44), non esaurisce la profezia dell’Antico Testamento, ma la risignifica
rilanciandola verso il Regno, vero compimento del disegno di salvezza di Dio
per l’umanità.
L’interpretazione del testo biblico
La Bibbia è un libro plurale: è
una biblioteca di libri diversi, composti in epoche e luoghi diversi, scritti
in tre lingue diverse (ebraico, greco, e in minima parte aramaico) e caratterizzati
da generi letterari differenziati (lettere, testi poetici, annali, novelle...).
Grande è dunque la distanza culturale dal lettore odierno. Questi sperimenta
anzitutto l’alterità del testo. Come in una relazione umana con una persona
occorre conoscere l’altro, ascoltarlo, sapere il suo passato, discernere il suo
volere e il suo desiderio per poter entrare con lui in un dialogo costruttivo e
per poterlo incontrare in verità, evitando di fagocitarlo o di lasciarsi
assorbire da lui, così anche di fronte al testo biblico occorre mettere in atto
una serie di passi che rendano possibile l’incontro fecondo, cercando di
evitare la manipolazione della parola. Poiché la Bibbia è un libro in cui la
parola di Dio è contenuta e trasmessa da parole umane, essa è sempre
caratterizzata da un elemento teologico (per esempio la fede nel Dio che agisce
nella storia e che, nel Nuovo Testamento, si manifesta pienamente in Gesù di
Nazaret, il Cristo) e da un elemento culturale variabile secondo le epoche, i
luoghi, gli autori (per esempio i generi letterari, i procedimenti stilistici,
gli influssi di altre culture e letterature...), un’ermeneutica globale richiede
da un lato un approccio esegetico che prenda sul serio l’alterità del testo, e
dall’altro un’ermeneutica spirituale che faccia entrare nella relazione con il
Dio che parla attraverso la parola umana. La fatica del lavoro esegetico è
richiesta dal carattere storico della parola biblica e dalla centralità dell’incarnazione
nella fede cristiana.
Il lavoro esegetico si snoda
essenzialmente attraverso le tre tappe della critica testuale, della critica letteraria e
della critica storica. In
questo modo si cerca di stabilire il testo filologicamente più sicuro a partire
dalle molte testimonianze manoscritte; di studiare i criteri linguistici e
compositivi del testo, la sua struttura, il suo genere letterario, di
individuare le fonti eventualmente utilizzate e la redazione dell’autore;
infine di valutare storicamente il testo. Grazie a questo lavoro dovrebbe
emergere con una certa oggettività il senso del testo (anche al di là dell’intenzione
dell’autore, che spesso è utopico pensare di poter ricostruire). A questo punto
entra in gioco il fattore più propriamente ermeneutico, quello che cerca di
stabilire un ponte fra il testo e noi oggi. Possiamo esemplificare questo
processo richiamando il prologo del terzo evangelo (cf. Lc 1,1-4). Il testo
parla di quattro tappe: gli eventi storici (cf. Lc 1,1); la trasmissione della
memoria di questi fatti operata da testimoni oculari e avvenuta all’interno di
comunità cristiane che leggevano nella fede gli eventi «compiutisi» (cf. Lc 1,2;
1,1); la redazione scritta degli evangeli (cf. Lc 1,3, ma anche 1,1); i
destinatari dello scritto («per te, illustre Teofilo»: Lc 1,4). Ricostruire le
prime tre tappe della storia della composizione di un evangelo è il compito
dell’esegesi, della critica storica (i fatti avvenuti), della critica testuale
e della critica letteraria (redazione degli evangeli e loro preistoria).
Scoperto ciò che il testo dice, si tratta ora di far emergere ciò che dice a me,
a noi, oggi: questo è il compito dell’ermeneutica.
Nell’interpretazione, l’orizzonte
del lettore si fonde con l’orizzonte del testo dando origine a una nuova realtà,
a un significato vitale per l’oggi. Questa operazione di «traduzione» nel
contesto culturale contemporaneo dell’antico testo biblico non è semplicemente
tecnica, ma pneumatica. Essa richiede la
fede, la quale, pur essendo sempre culturalmente segnata, è
criterio ermeneutico decisivo per cogliere quanto è stato scritto all’interno e
a partire della fede stessa. Quindi richiede l’assistenza dello Spirito
santo, perché la Scrittura deve essere interpretata «nello stesso Spirito
mediante il quale è stata scritta» (DV
12). Si tratta quindi di un’ermeneutica che avviene in un contesto
di preghiera (cf. DV 25), in particolare nella preghiera
liturgica. Solo così la Scrittura è colta come sacramento che dona la parola di
Dio e non solamente come libro che contiene idee e concezioni su Dio. È poi un’ermeneutica
non individualistica (cf. 2Pt 1,20), ma comunitaria, ecclesiale. Questa
operazione recupera l’unità della Bibbia, nella coscienza che la Bibbia nel suo
insieme, Antico e Nuovo Testamento, è il libro della chiesa, e che il canone è
criterio ermeneutico decisivo. E recupera l’unità sincronica e diacronica del
popolo di Dio all’interno del quale la Scrittura ha vissuto e vive, ovvero la
Bibbia non può essere scissa dal flusso di tradizione che la trasmette e
veicola. La Scrittura poi, che secondo la tradizione è una lettera di Dio agli
uomini, è data per essere vissuta, per essere obbedita. Vivere la Parola diviene
così un criterio ermeneutico fondamentale per comprendere la Scrittura, la
quale si svela a noi in maniera differente quando è vissuta rispetto a quando è
semplicemente letta o studiata: avviene il passaggio pasquale dalla pagina alla
vita.
LA «LECTIO DIVINA»:
FONDAMENTI E PRASSI
I fondamenti
Dopo aver rapidamente accennato a
questioni basilari, che fondano la possibilità stessa della lectio, possiamo mostrare il
carattere tradizionale, e al tempo stesso attualissimo, della lectio divina come
metodo ecclesiale e orante di lettura delle Scritture.
La lectio divina, abbiamo detto, è un atto di
lettura della Bibbia chiamato a divenire ascolto della parola di Dio, incontro
e relazione con il Signore che parla attraverso la pagina biblica. La lectio
vuole attuare un’ermeneutica spirituale della Scrittura, ma questo
significa che solo attraverso un’introduzione e un’iniziazione a una prassi di
lettura della Bibbia nello Spirito si può dare sostanza alla ritrovata
centralità della parola di Dio all’interno della chiesa, che altrimenti resta
uno slogan vuoto.
Abbiamo visto come la lectio
divina riproponga i principi basilari di lettura della Scrittura elaborati
già all’interno del giudaismo e poi passati nella tradizione cristiana[152].
La lectio è una lettura della Scrittura che, avvenendo nella fede, nella
preghiera, nell’apertura allo Spirito, diviene un ascolto della parola di Dio
che tramite la pagina biblica si rivolge «a noi oggi».
Gli schemi elaborati dalla
tradizione cristiana di varie tappe o gradini che strutturano la lectio
divina, tra cui
certamente emerge per incisività quello di Guigo II il Certosino che distingue lectio-meditatio-oratio-contemplatio[153], possono essere oggi
reinterpretati come la necessaria iniziazione all’arte dell’incontro con l’Altro,
come l’ascesi del corpo e dello spirito richiesta per entrare nel dialogo e
nella relazione con il Signore che parla attraverso il testo, e per vivere alla
sua presenza.
Ripercorriamo ora il cammino
della lectio divina. L’invocazione
iniziale allo Spirito, l’atmosfera orante in cui ci si dispone a uscire da sé
per incontrare il volto del Cristo che per fede si confessa presente nella
Scrittura, e quindi la lectio stessa (tesa all’oggettiva e corretta
comprensione della lettera del testo ed esercitata su un testo seguito in
lettura continua per evitare «piluccamenti» soggettivi e spontaneismo)
convogliano lo sforzo di ripudio del soggettivismo per accedere allo «sta
scritto» nella sua alterità e conoscere con oggettività quel testo che ci parla
del Signore e pervenire poi a discernere il Signore che ci parla attraverso di
esso.
Nella meditatio si
approfondisce questa conoscenza mediante la riflessione e lo studio, finché il
messaggio della Scrittura emerge a tal punto da raggiungere il
lettore-ascoltatore ferendolo o consolandolo, ma sempre rivelando il Cristo
crocifisso e risorto. La Scrittura è allora Parola che mi parla, rivelazione di
un evento che mi riguarda, svelamento dell’amore del Cristo che «mi ha
amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La meditatio comporta
pertanto il doppio movimento di sistole e diastole, di applicazione del testo a
se stessi e di se stessi al testo[154]
fino a «respirare le Scritture»[155].
La meditatio diviene così il luogo in cui leggo e giudico la mia vita
personale e comunitaria davanti a Dio e alla sua parola, in cui mi penso in
relazione alle esigenze della Parola per arrivare poi ad agire in obbedienza
alla parola di Dio nella vita quotidiana.
Il pensare si trova così
integrato al pregare, e la vita personale è portata oggettivamente davanti a
Dio, proprio come nella struttura dei salmi di supplica individuale dell’Antico
Testamento dove compare l’elemento dell’’’esposizione del caso», della lettura
della propria situazione davanti a Dio. Di fronte alla Scrittura che ha
liberato una parola rivolta a me, inizia il dialogo, l’oratio, l’ingresso nel gioco di
reciprocità io-tu cui la Scrittura conduce, e avviene l’accoglienza dell’alleanza
che è grazia a caro prezzo.
Grazie alla Scrittura accostata
con fede e nell’apertura all’azione dello Spirito, la preghiera non è più
monologo, né introspezione, né moralistica disamina dei propri atti, ma ha un
partner, avviene davanti a una presenza e conduce alla contemplatio, alla rivelazione di questa
Presenza in se stessi, alla scoperta che il proprio corpo, la propria vita sono
chiamati a farsi trasparenza del Cristo agli uomini. La contemplatio fa
sì che il volto di Cristo che è stato svelato dalle Scritture lo si
sappia ora discernere nel volto del fratello, nella storia e nel creato, grazie
appunto all’intimità con lo spirito dell’evangelo, con il respiro di Cristo,
con lo sguardo di Dio.
La lectio divina è così la
lettura spirituale delle Scritture che consente alla Parola inviata da Dio di
compiere il suo tragitto fino a fruttificare nel cuore dell’uomo
e a mostrare la sua efficacia (cf. Is 55, 10-11) plasmando la santità di una
vita eucaristica (eucharistoi
ghinesthe, «diventate eucaristici»: cf. Col 3,15) e di
conversione. La lectio impegna tutto il lettore della Scrittura esigendo
da lui anche riflessione, capacità di pensare per conoscere se stesso, per
porsi in verità davanti alla parola di Dio e ricevere la propria identità in
questa relazione, in questo dialogo, in questa alleanza che esige cambiamenti
in sé e nella propria vita. Sicché essa è anche luogo della scelta, dell’apprendimento
del discernimento e del dominio di sé; è luogo che può vitalmente rinnovare l’agire
e l’operare del cristiano perché ne rinnova il volere e il sentire, l’interiorità!
La dinamica che l’incontro con il
Signore tramite la lectio delle Scritture comporta non è
fondamentalmente dissimile dalla dinamica antropologica richiesta dall’incontro
con l’altro. Esodo da sé, morte al proprio narcisismo, ascolto dell’altro, perscrutatio
del suo volto per coglierne l’animo, la dimensione profonda, conoscenza
dell’altro, rispetto della sua differenza e alterità, accettazione di sé come
relativo all’altro... sono i movimenti essenziali per accedere all’autentica
relazione umana, segnata da libertà e amore, e vivere un’avventura di comunione[156].
Da tutto questo scaturisce un
compito per la chiesa, la quale non può sottrarsi alla richiesta dei figli che
domandano pane, il pane della Parola, e che deve pertanto spezzare questo pane,
trasmettere la Scrittura come cibo e nutrimento vitali insegnando a «pregare la
Parola», ad ascoltare la Parola leggendo le Scritture, introducendo cioè all’arte
della lettura della Scrittura nello Spirito.
Infatti trasmettere la fede
significa trasmettere le Scritture! «Scripturae faciunt christianos» è stato
scritto parafrasando un’espressione di Agostino[157].
Ed è lo stesso Agostino che afferma che «il nostro pane quotidiano... il nostro
cibo quotidiano su questa terra è la parola di Dio, che sempre viene
distribuita nelle chiese»[158].
Si tratta di prendere sul serio
il carattere divino-umano della Scrittura, il suo essere testimone dell’incarnazione
perché essa stessa, in quanto graphé, in quanto «scrittura», è forma di incarnazione del
Logos analoga al corpo fisico del Cristo[159].
Più che mai oggi la lettura della
Scrittura deve coglierne e trasmetterne la portata sapienziale, la doppia
valenza di parola di Dio e parola dell’uomo, deve mostrarla come il luogo di un’alleanza
e di un incontro non relegati al passato ma che raggiungono l’umanità dell’uomo
di oggi.
Occorre dunque una lettura delle
Scritture che ne colga la perenne contemporaneità nell’annuncio, presente fin
dalle prime pagine della Genesi, di ciò che è umanamente primordiale,
universale e costante; lettura che, illuminata dalla centralità del Cristo che è
apparso nel mondo come portatore di salvezza per tutti gli uomini e che ci
insegna a vivere (cf. Tt 2,11-12), si ordini e si organizzi intorno alla
testimonianza del divenire uomo di Gesù, del suo crescere «in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52) e pervenga così a orientare la
crescita umana e spirituale del lettore alla statura di Cristo (cf. Ef 4,13).
La necessità di tale lettura
nello Spirito è resa ancora più urgente dalla presenza nella chiesa di letture
depauperate della Scrittura che non sanno mantenere il suo delicato equilibrio
di parola divino-umana. Si incontrano così tendenze fondamentaliste, letteraliste;
riduzioni della Bibbia a libro umano, di pietà, edificante, oppure a prodotto
culturale, a momento ideologico; tentazioni marcionite di lacerazione della
Scrittura, soprattutto svalutazioni dell’Antico Testamento rispetto al Nuovo[160].
Queste patologie sembrano
significativamente riproporre nei confronti della Scrittura le antiche eresie
cristologiche: dal monofisismo al nestorianesimo al docetismo... Di fronte
dunque ai rischi dell’archeologismo della lettera e del narcisismo spirituale,
di una lettura fusionale che non coglie l’alterità del testo e spinge l’«io» del
lettore a fagocitarlo, oppure di una lettura storicistica che misconosce l’intenzionalità
di trascendenza del testo stesso, occorre ricordare l’organico rapporto tra
forma letteraria e contenuto spirituale della Scrittura: l’analogia della
Scrittura con l’incarnazione di Cristo implica che, come non si perviene a Dio
né alla divinità del Cristo se si astrae dalla sua umanità, ma solo attraverso
di essa, così avviene anche per la Scrittura. E come è lo Spirito che presiede
all’incarnazione, così è lo Spirito che deve presiedere alla lettura della
Scrittura; come è lo Spirito che guida alla pienezza della verità, così è lo
Spirito che guida il credente all’intelligenza della Scrittura. È lo Spirito il
criterio della comunione nell’alterità, è lo Spirito il soffio che porta la
parola di Dio e la rivolge all’uomo, è lo Spirito che suscita nell’uomo la
risposta al Dio che parla: è lo Spirito che regge il dialogo tra Dio e l’uomo
attraverso la Scrittura. Infatti lo stesso Spirito che è presente nella
Scrittura e che anima il lettore, produce una sinergia in cui la Scrittura
cresce con chi la legge e il lettore cresce a opera della Scrittura.
Alla luce di quanto detto,
dovrebbe risultare chiaro che la lectio divina tende a fare l’unità tra
vita e fede, tra esistenza e preghiera, tra umano e spirituale, tra interiorità
ed esteriorità. Nell’accostamento alla Scrittura essa cerca di integrare lo
studio, l’analisi critica del testo all’interno di un approccio sapienziale e
orante, dunque un approccio di fede.
La prassi
Un tempo e uno spazio
Alla lectio divina occorre
anzitutto un luogo di solitudine e di silenzio. Si tratta di cercare e
ascoltare Dio «che è nel segreto» (Mt 6,6). Per disporsi ad ascoltare la Parola
occorre far tacere le molte parole e i rumori che assordano il cuore, occorre
entrare nell’essenzialità del silenzio e della solitudine, operando una presa
di distanza dalle molte presenze che giornalmente ci assediano. Una parola
autorevole può nascere solo dal silenzio, da un lungo ascolto, dalla capacità
di meditare e pensare, di riflettere e ponderare. Per aiutarsi alla lectio
divina si può ricorrere a un’icona, a un cero acceso; certamente è
essenziale coinvolgere il corpo nell’incontro con il Signore a cui ci si sta
disponendo: la lectio divina non è meramente intellettuale, ma vuole
riguardare tutta la persona, tutto il corpo. Alla lectio divina è bene
dedicare un tempo fissato nella giornata, un tempo cui restare fedeli, non i
ritagli lasciati dai molti impegni. Un tempo adeguato alla serietà che deve
contraddistinguere la lectio è un’ora, ma certamente è la perseveranza,
la quotidianità che porta frutto, al di là della misura di tempo che dipende anche
dallo status e dagli impegni di colui che vi si consacra.
La lectio divina edifica
il sensus fidei, è
alla base della capacità di discernimento, ed è anche sforzo ascetico: essa
necessita di interiorizzazione perché il seme della Parola possa
attecchire e mettere radici; di perseveranza perché un ascolto
entusiasta ma incapace di durare nel tempo resta sterile; di lotta
spirituale per trattenere la Parola e non lasciarla soffocare dai rovi dei
desideri mondani (cf. Mc 4,13-20). Così, molto concretamente, la lectio
divina consente alla parola di Dio di esercitare una reale signoria sulla
vita del credente. Anche queste ultime considerazioni mostrano che essa non è un’attività
che coincida con lo studio di un testo e in tale studio si esaurisca, ma certamente
le persone «intellettuali» corrono sempre il rischio di ridurre la lectio
divina a un’esperienza di fruizione intellettuale o estetica: il testo fa
sorgere idee brillanti nelle quali ci si compiace, oppure viene colto nella sua
«bellezza» e di questa intuizione ci si gratifica, precludendo si però il
frutto spirituale vero e profondo.
La preghiera
Alla lectio divina ci si
prepara, dunque, con il silenzio, con l’esodo da se stessi, ma poi con la
preghiera. E anzitutto con l’epiclesi, con l’invocazione allo Spirito santo il
quale può aprire gli orecchi del nostro cuore per darci l’intelligenza della
Parola. Dopo la preghiera allo Spirito, per entrare nel clima di ascolto e
dialogo amoroso con il Signore che parla tramite la pagina biblica, può essere
di aiuto la lettura di una strofa del salmo dell’ascolto (Sal 119), vero e
proprio duetto di amore assimilabile al Cantico dei cantici. Si entra così
sempre più nella lectio divina come luogo sacramentale di esperienza
dell’amore di Dio.
«Lectio»
L’atto iniziale della lectio
divina vera e propria è un atto di lettura. Credo che oggi occorra imparare
e insegnare a leggere, a rapportarsi dialetticamente soprattutto a quel libro
così esigente che è la Bibbia. È sulla Bibbia, infatti, e solo su di essa, che
si esercita la lectio divina.
Certamente la tradizione cristiana ci fornisce esempi di un’accezione
più larga della lectio nel senso che essa è stata consigliata ed
esercitata anche in rapporto a testi autorevoli di padri della chiesa, eccetera.
Tuttavia solo la Bibbia gode di quello statuto particolarissimo nella chiesa
che la rende sacramento della parola di Dio. Inoltre, se questa lettura è «divina»,
è appunto perché si esercita sulle Scritture ispirate. Gli altri libri (testi
dei padri, testi eucologici...) possono intervenire in sede di allargamento e
commento del testo biblico, oppure possono essere oggetto di una lettura
spirituale, ma la lectio divina è lettura della Scrittura.
Come scegliere i testi da
leggere? O si sceglie un libro e se ne fa una lettura continua (leggendolo
pericope per pericope, giorno dopo giorno), oppure si fa la lectio divina sui
testi (o su un solo testo) della liturgia del giorno. Nel primo caso l’arricchimento
è costituito dal poter entrare in profondità in un libro biblico cogliendolo
nel suo complesso, mentre nel secondo è dato dalla compenetrazione fra
preghiera personale e preghiera liturgica. Sicuramente il lezionario festivo
della chiesa cattolica è molto ricco e offre la possibilità di lectio che
colgano l’unità che traversa tutte e tre le letture, o almeno il brano dell’Antico
Testamento e l’evangelo; il lezionario feriale, invece, non consente questo. In
ogni caso è spiritualmente utile fare la lectio divina su un testo
biblico che si adatti al tempo liturgico che si sta vivendo.
Inoltre, se qualcuno ha poca o
nessuna conoscenza biblica, è bene per lui avere una certa gradualità di
introduzione alla Scrittura, iniziandola da un testo semplice e fondamentale al
tempo stesso (per esempio l’Evangelo di Marco, cui può seguire Esodo 1-24, poi
Atti degli apostoli, quindi un profeta...), e lasciando a più tardi, quando si
avrà maggiore competenza e scioltezza nel maneggiare la Scrittura, libri come
Daniele, Lettera ai Romani, Lettera ai Galati, Lettera agli Ebrei, Apocalisse...
Di fronte al testo occorre
finalmente iniziare a leggere. Si legga il testo più volte: anche quattro,
cinque volte. Se si tratta di testi già noti, il rischio è quello di leggere
superficialmente, di non soffermarsi sul testo, così da perderne la ricchezza.
Può allora essere utile scrivere il testo ricopiandolo. Questo obbliga a uno
sforzo di concentrazione notevole e spesso capace di far cogliere dimensioni e
aspetti del testo di cui non ci si era mai accorti. Se poi si conoscono le
lingue ebraica e greca, allora si può leggere la Bibbia nell’originale,
attingendo a quella grande ricchezza che inevitabilmente viene offuscata o a
volte nascosta del tutto in una traduzione. In ogni caso una buona traduzione,
o una traduzione confrontata con altre, può soddisfare alla necessità di avere
una seria base di partenza. Può essere utile spiritualmente utilizzare certi
strumenti, tra cui basilari sono le concordanze, e se si legge un evangelo la
sinossi.
Anche se si sta facendo la lectio
divina nel chiuso della propria stanza, in perfetta solitudine, si legga ad
alta voce, in modo da ascoltare fisicamente ciò che viene letto. I padri
medievali insistevano sull’importanza dell’ascoltare le voces paginarum: l’ascolto è già preghiera, è
già accoglienza in sé della parola e dunque della presenza di colui che parla.
«Meditatio»
La meditazione non deve essere
intesa nel senso di una meditazione introspettiva di stampo loyoliano o di una
autoanalisi psicologizzante. Essa è invece un approfondimento del senso del
testo letto, e in questa operazione di approfondimento possono intervenire
degli strumenti di studio, di consultazione, dunque dizionari biblici,
commentari, eccetera. La lectio divina non va confusa con lo studio di
un testo biblico, però lo studio può e deve essere integrato in essa. Si tratta
infatti di superare l’alterità del testo, la distanza che ci separa da testi
scritti molto tempo fa e in lingue e contesti culturali molto diversi dai
nostri. Occorre prendere sul serio questa alterità del testo per non rischiare
di cadere nel soggettivismo e per non far dire al testo ciò che il testo non ha
proprio mai detto. È questione di obbedienza alla Parola, di non manipolazione
della Parola. Pertanto è bene deporre anche quegli slogan a volte ripetuti che
tacciano di intellettualismo, di operazione «meramente culturale» un approccio
alla Bibbia che semplicemente voglia essere rispettoso dell’alterità del testo
scritturistico. Rifiutare lo studio, lo sforzo di approfondimento è un
atteggiamento che prepara la via all’abbrutimento e alla decadenza di una
persona o di una comunità. Comunque, quali che siano gli strumenti messi in
atto per meglio comprendere il testo biblico in questione, saranno sempre gli
sforzi personali che si riveleranno i più fecondi.
Nella meditatio si deve
tendere a far emergere l’apice teologico del testo, il suo messaggio centrale,
o comunque un suo aspetto rilevante. Inizia cioè il dialogo fra la persona e il
testo, l’interazione tra la vita del lettore e il messaggio del testo. È a
questo punto che, naturalmente, sorge la preghiera.
«Oratio»
Il movimento dialogico che si
instaura fra il lettore e il testo diviene il dialogo orante in cui il credente
si rivolge a Dio con il «tu». Qui ovviamente non ci sono indicazioni precise da
dare, se non l’esortazione alla docilità allo Spirito e alla Parola ascoltata.
Questa Parola infatti plasma la preghiera orientandola nel senso dell’intercessione
o del ringraziamento o della supplica o dell’invocazione. Può avvenire che la
preghiera si manifesti semplicemente con un silenzio di adorazione, o addirittura
con il gioioso dono delle lacrime di compunzione. Occorre anche ricordare che a
volte la lectio divina resta nell’aridità del deserto: il testo resiste
ai nostri sforzi di comprensione, la Parola resta muta, e anche la nostra
preghiera non sgorga... All’interno di una relazione autentica avviene anche
questo, ci sono anche questi momenti, e la relazione con il Signore non ne è
esente. Il Signore chiama a uscire nel deserto per incontrarlo, ma a volte il
deserto non diviene luogo di incontro bensì solamente di aridità e di fatica.
Eppure anche allora occorre perseverare, rimanere, offrire il corpo atono in
preghiera muta. Il Signore sa discernere anche il desiderio di preghiera. E
comunque l’efficacia dell’assiduità con la parola di Dio nella lectio divina
si misura sul lungo periodo. L’esercizio all’ascolto crea nel credente uno
spazio di accoglienza per il Signore, e la Parola accolta rigenera il credente
a figlio di Dio (cf. Gv 1,12), lo rende capace di contemplazione.
«Contemplatio»
La contemplazione è appunto l’ultimo
«gradino» di questa scala ideale. Il credente si sente visitato dalla presenza
di Dio e conosce la «gioia indicibile» (1Pt 1,8) di tale inabitazione. Bernardo
di Clairvaux ha parlato di tale esperienza:
Confesso che il Verbo mi ha visitato, e parecchie volte. Sebbene molto
spesso sia entrato in me, io non me ne sono neppure accorto. Sentivo che era
presente, ricordo che era venuto; a volte ho potuto presentire la sua visita,
ma non sentirla; e neppure sentivo il suo andarsene, poiché di dove sia entrato
in me, o dove se ne sia andato lasciandomi di nuovo, e per dove sia
entrato o uscito, anche ora confesso di ignorarlo, secondo quanto è
detto: Non sai di dove venga e dove vada (Gv 3,8)[161].
La contemplazione non designa uno stato estatico e
neppure allude a «visioni», ma indica la progressiva conformazione dello
sguardo dell’uomo a quello divino; indica così l’acquisizione di uno spirito di
ringraziamento e di compassione, di discernimento e di makrothymia, di pazienza e di pace. Come
la Parola tende all’eucaristia, così la lectio divina plasma
progressivamente un uomo eucaristico, capace di gratitudine e di gratuità, di
discernimento della presenza del Signore nell’altro e nelle diverse situazioni
dell’esistenza. Quest’uomo sarà anche un uomo di carità, capace di agape. La lectio
divina sfocia nella vita, manifesta la sua fecondità nella vita di un uomo.
La lectio divina disegna
così una parabola dalla preghiera alla preghiera: iniziata con l’invocazione
dello Spirito, essa sfocia nella contemplazione, nel ringraziamento, nella lode.
LE SFIDE DELLA «LECTIO DIVINA»
Non c’è dubbio che questo primato
della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato
ascolto della parola di Dio... In particolare è necessario che l’ascolto della
Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della
lectio divina, che
fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza[162].
Con queste parole, all’inizio del
terzo millennio cristiano per la primissima volta una lettera apostolica
indirizzata all’insieme dei fedeli indicava nella lectio divina una
prassi feconda per la vita spirituale di tutti i cristiani. Questo invito
insistente di Giovanni Paolo II si rivela particolarmente opportuno. In effetti,
oggi siamo in grado di constatare il ruolo centrale che la Scrittura ha
ritrovato nella vita della chiesa cattolica e di valutarne l’importanza.
Dopo secoli di disaffezione, da
qualche decennio assistiamo a una riscoperta della Bibbia da parte dei credenti
cattolici, che avevano perso il contatto diretto con la Scrittura e che di
conseguenza non potevano più fame l’alimento quotidiano della loro vita di fede
e della loro testimonianza nel mondo. La chiesa cattolica continuava, certamente,
a vivere di parola di Dio, specie nella liturgia, ma non era più una parola di
Dio ascoltata, celebrata, meditata, conservata nel cuore in modo da nutrire la
fede delle persone e dei gruppi.
Ricollocata oggi al cuore della
vita ecclesiale, la Bibbia rimette in moto un processo che per secoli era
rimasto bloccato, completamente atrofizzato: grazie all’assidua frequentazione
delle Scritture, il cristiano alimenta la sua fede, può discernere quale sia il
suo posto tra gli altri uomini, e soprattutto si immerge in quel processo di epignosis, di sovraconoscenza di Cristo,
e dunque del mistero di Dio, che lo conduce a una fede di credente adulto (téleios, «perfetto»).
Oggi la predicazione, specie nel contesto della liturgia, si nutre delle sacre
Scritture e fa risuonare la parola di Dio nella comunità cristiana. Si, la
parola di Dio prosegue la sua corsa, come auspica l’apostolo Paolo: «Pregate,
affinché la parola del Signore porti a compimento la sua corsa» (2Ts 3,1).
Senza rischio di equivoci, attualmente si può rilevare una fame, un desiderio
profondo della parola di Dio, soprattutto nei paesi latini.
Sono convinto che di tutti i
frutti portati dal concilio Vaticano II il più evidente è proprio questa
restituzione della parola di Dio al popolo di Dio[163].
Tuttavia, a oltre quarant’anni dalla fine del concilio ci sono ancora
importanti obiettivi da raggiungere. E innanzi tutto è necessario prendere
pienamente coscienza delle implicazioni di una frequentazione assidua della
Scrittura, specie nella lectio divina. Evidenzio soltanto alcuni punti, peraltro già da me
affrontati in diverse pubblicazioni[164].
La lettura assidua della
Scrittura
Se la Scrittura ha ritrovato, a
grandi linee, un ruolo centrale in alcuni ambiti della vita ecclesiale (liturgia,
pastorale, catechesi), bisogna però riconoscere che si è ben lontani dal poter
dire lo stesso della vita personale dei fedeli cattolici, che sicuramente non
praticano una lettura quotidiana attenta delle Scritture. Certamente ci sono
preti, religiosi, laici più sensibilizzati alla Bibbia (perché maggiormente
preparati dal punto di vista culturale), movimenti ecclesiali che hanno una
spiritualità interamente fondata sulla lettura biblica, ma la maggior parte dei
fedeli non ha alcun contatto personale con la sacra Scrittura. Anche se una
Bibbia si trova in ogni famiglia, molto spesso non è che un elemento decorativo
ed è piuttosto raro che venga utilizzata per pregare o per 1’ascolto della
parola di Dio. Si osserva anzi una certa diffidenza nei confronti di una lettura
assidua della Bibbia, considerata come una prassi estranea alla tradizione
cattolica. Inoltre un ostacolo è costituito dalla mancanza di preparazione dei
presbiteri che di conseguenza mostrano scarsa sollecitudine nell’invitare i
fedeli a questa lettura, e soprattutto non sono in grado di offrire loro un’iniziazione
veramente soddisfacente.
Eppure una lettura personale
della Bibbia sarebbe particolarmente auspicabile nel contesto della società
attuale — pluralista, diversificata, multireligiosa e multiculturale — nella
quale i cristiani non costituiscono più un insieme omogeneo e la loro
situazione di diaspora emerge in modo sempre più evidente. Perché la fede abbia
un radicamento solido e profondo ci vuole la frequentazione permanente di
questa sorgente viva di vita spirituale. Un po’ ovunque si registra una
diminuzione della frequenza alla messa quotidiana, se non addirittura la sua
scomparsa: di conseguenza, il cristiano deve poter trovare un alimento per la
sua fede nell’ascolto diretto della Scrittura. La vita comunitaria non è più
sufficientemente intensa per plasmare la fede del cristiano e aiutarlo a
viverla nel mondo: dunque è la parola di Dio nella sacra Scrittura ciò che gli
può permettere di nutrirsi spiritualmente, trovare regole di condotta, discernere
i segni dei tempi e pregare.
Ma quali sono, concretamente, i
mezzi proposti per l’ascolto e la meditazione della Scrittura a una generazione
che concepisce la preghiera più come una meditazione davanti a Dio che come un
dialogo con lui? La dimensione orante e meditativa nell’approccio alle
Scritture a livello personale è un punto cruciale per la trasmissione della
fede alle generazioni future. Il giudaismo ci ha mostrato in qual modo la fede
può sopravvivere nella diaspora grazie alla frequentazione assidua della
Scrittura e alla santificazione del sabato a essa legata. In un
memorabile intervento al Consiglio delle Conferenze episcopali europee, nel
2001, l’allora cardinale Ratzinger sottolineava con forza che, anche ai nostri
giorni, il sensus fidei cresce grazie alla frequentazione assidua e fedele
della Scrittura: «Sono convinto che la lectio divina è l’elemento
fondamentale nella formazione del sensus fidei e di conseguenza l’impegno
più importante per un vescovo maestro della fede»[165].
«Divina
eloquia cum legente crescunt»
La parola del Signore edifica la
comunità edificando nel contempo ogni fedele. Potremmo anzi dire con Luca che «la
parola di Dio cresce mentre il numero dei credenti aumenta considerevolmente» (At
6,7), o che la parola di Dio cresce nella misura in cui si diffonde: «La parola
di Dio cresceva e si moltiplicava» (At 12,24). La crescita della comunità
manifesta la crescita della Parola, perché la comunità è il frutto della Parola
efficace di Dio, ma anche il luogo in cui questa Parola è vissuta. Se è vero
che «Scripturae faciunt christianos», è altrettanto vero che «gli oracoli
divini crescono con chi li legge»[166];
questo significa che la parola di Dio cresce grazie alla lettura che ne viene
fatta come chiesa, e trova una sua ermeneutica vivente nella vita stessa della
chiesa.
Per questo motivo la
frequentazione assidua delle Scritture, in particolare nella forma della lectio
divina, deve
costituire un’occupazione nel contempo personale e collettiva, nelle parrocchie
e nei gruppi cristiani, e non soltanto, come accade abitualmente, nelle comunità
religiose. Si pensi al significato profondo che potrebbe avere una lectio
divina come preparazione alla celebrazione eucaristica della domenica, dove
l’omelia sarebbe la conclusione di questo atto di lettura! Dunque è importante
e auspicabile che si diffonda la prassi della lectio divina comunitaria,
oggi troppo rara. È necessario uno sforzo maggiore in quest’ambito: sarebbe
opportuno avere il coraggio di introdurre nuove modalità che possano dare
frutto.
Del resto la comunità è
inseparabile dalla Scrittura perché il libro, senza una comunità che lo legge,
non è nulla. Ma anche la comunità senza il libro non può sussistere: è in esso
che trova la propria identità e vocazione[167].
Anche Bernardo di Clairvaux definisce la comunità come specchio del libro e il
libro come specchio della comunità.
Parola e storia
Veniamo infine al rapporto tra
parola di Dio e storia, e per affrontare questo problema occorre concepire
correttamente la lettura, individuando prima di tutto tre tentazioni:
1. la tentazione fondamentalista,
che pretende di comprendere la parola di Dio senza la fatica e la pazienza
dello studio biblico, senza il ricorso all’analisi storico-critica e ad altri
metodi esegetici, senza un’ermeneutica sotto la guida dello Spirito. Non è
inutile ricordare qui il giudizio espresso sul fondamentalismo dal già citato
documento della Pontificia commissione biblica: «Il fondamentalismo invita,
senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero»[168];
2. la tentazione spiritualistica,
che crede di poter raggiungere il messaggio senza confrontarsi con la lettera
del testo, con la dura scorza della parola umana. Con questa tentazione il
rischio che si corre è elevato: manipolazione della parola di Dio,
soggettivismo, riduzione del testo biblico a una dimensione psicologica o
affettiva;
3. la tentazione di attenersi
alla storia, all’analisi dello «sta scritto», senza interessarsi al messaggio.
Il rischio, in questo caso, è di scindere la lettura biblica dal problema del
senso.
Queste tentazioni si manifestano
là dove non si tiene conto di due vie da percorrere ogni volta che ci si
accosta alla Bibbia: quella che va dalla Scrittura alla vita (cf. Lc 4,16-30) e
quella che va dalla vita alla Scrittura (cf. Lc 24,13-35). La prima è certamente
quella che le comunità cristiane utilizzano di più, e giustamente; conferirle
un primato significa infatti riconoscere la signoria della parola di Dio sulla
comunità. La Parola ispira, suscita l’adesione, provoca la fede. Però è
necessario seguire anche la traiettoria inversa, che richiede un’attenzione
agli eventi, un’analisi delle situazioni, per discernervi un appello, un segno
sia nello spazio che nel tempo. Certamente il rischio che questo secondo
approccio comporta è di strumentalizzare la parola di Dio, di far ne il
supporto per una precomprensione ideologica: in questo caso la Parola non
sarebbe più il criterio di discernimento dei segni dei tempi, ma diventerebbe
oggetto di interpretazione tendenziosa. Tuttavia è indispensabile percorrere
questo itinerario dalla vita alla Scrittura per giungere a una testimonianza
viva della fede nel mondo di oggi.
Le difficoltà della «lectio divina»
Ho elencato qui, molto
sommariamente, alcune sfide che si presentano sulla strada della lettura
assidua delle Scritture e della lectio divina. Ora vorrei tentare una valutazione di alcune delle
difficoltà e dei problemi che maggiormente travagliano la pratica della lectio
divina.
Sono passati diversi decenni
dalla chiusura del concilio Vaticano II e dalla fine dell’esilio della
Scrittura dalla vita quotidiana dei credenti cattolici. Da allora la prassi
della lectio divina è stata appresa e messa in pratica da singoli e da
gruppi che vi hanno riconosciuto una forma ecclesiale di leggere la Bibbia
capace di nutrire e far crescere la fede. Il passare del tempo ha stemperato
gli entusiasmi iniziali e ha fatto emergere la fatica e le difficoltà di questo
cammino quotidiano di ascolto della parola di Dio attraverso la lettura delle
Scritture.
L’efficientismo ecclesiale
Una prima difficoltà che ostacola
il diffondersi e il radicarsi nelle realtà ecclesiali della pratica della lectio
divina è il primato che, di fatto, viene accordato nelle parrocchie e nelle
chiese locali alle molteplici attività pastorali e di animazione, sociali e caritative,
di assistenza e di organizzazione, rispetto al compito essenziale di
trasmettere l’arte di vivere e nutrire la fede: in concreto, l’iniziazione alla
vita interiore, l’arte della preghiera personale e della lotta spirituale, la
conoscenza delle Scritture e, soprattutto, degli evangeli, che donano la
conoscenza di Gesù Cristo, centro della fede cristiana. Questo scollamento oggi
percepibile fra «vita ecclesiale» e «vita spirituale» è un ostacolo anche alla lectio
divina, che rischia
di non essere compresa oppure di essere considerata come «una cosa da fare» tra
le altre. Così essa finisce per essere delegata al gruppo biblico, agli «amatori»
della Bibbia, e non innerva né rivitalizza e neppure innova la vita ecclesiale
dei credenti. Ma una chiesa che non sappia accordare il giusto spazio alla
Bibbia non rischia forse di offuscare la propria vocazione di essere ekklesía, cioè l’assemblea convocata
dalla parola di Dio che risuona nelle Scritture che vengono proclamate nella
liturgia eucaristica? Vi è infatti uno strettissimo rapporto fra Scrittura e
chiesa, sicché il tipo di approccio alle Scritture ha una ricaduta
ecclesiologica e denota il volto della chiesa.
L’ignoranza di fede
Accanto al lamentato divario fra «vita
ecclesiale» (nell’accezione appena proposta) e «vita secondo lo Spirito santo»,
e connessa a esso, sta l’ignoranza crescente dei fedeli circa le cose di fede. È
probabilmente uno dei prezzi da pagare all’avvenuta fuoriuscita dal mondo della
cristianità, quando la cultura stessa era intrisa delle parole e dei gesti
della fede cristiana. Ed è forse anche l’effetto della sterilità impressionante
della catechesi contemporanea. Di certo, oggi si può toccare con mano il
deficit spaventoso sul piano della formazione cristiana: anche presso i
frequentatori abituali dell’eucaristia domenicale si possono considerare come
non acquisiti i punti fondamentali della formazione cristiana elementare. Siamo
di fronte a una sorta di analfabetismo di fede.
Tutto questo, ovviamente, non
agevola la lectio divina e rende particolarmente difficile il pervenire
alla maturità di un approccio di fede alla Scrittura in cui la lettura della
pagina diventi relazione personale con una Presenza. Al tempo stesso, come
spesso avviene, la difficoltà o la situazione critica può rappresentare una chance. Forse si può assumere come
strumento privilegiato di catechesi, di annuncio, di trasmissione della fede la
Scrittura stessa, anzi, essenzialmente gli evangeli. Si formerà così, nelle
nuove generazioni, una fede più biblica, più cristocentrica, presumibilmente più
libera, più capace di un confronto semplice e diretto con le radici evangeliche
e con la vita di Gesù. E la lectio divina verrebbe sentita quasi
naturalmente come una necessaria forma di preghiera. Si tratterebbe dunque di
iniziare alla conoscenza di Cristo e alle esigenze della sua sequela con l’Evangelo
secondo Marco; di iniziare alla vita ecclesiale attraverso l’Evangelo secondo
Matteo; alla vita secondo lo Spirito e all’esistenza quotidiana illuminata
dalla luce dell’evangelo con l’Evangelo secondo Luca; alla maturità della vita
spirituale e di fede con l’«evangelo spirituale» per eccellenza, l’Evangelo
secondo Giovanni.
La difficoltà di leggere
La nostra epoca segna la crisi
della «lettura libresca classica»[169].
Il diritto all’informazione si è tramutato nel mito (perverso) dell’informazione
che conduce molti a leggere quotidiani, riviste, a inglobare quante più
informazioni possibili sui più svariati argomenti, senza poter presumibilmente
seguire in modo veramente adeguato l’evolversi delle differenti e particolari
situazioni su cui pure «si è informati»... È un leggere che va in estensione
piuttosto che in profondità, che si misura sulla quantità piuttosto che sulla
qualità. Si è sacrificata l’acquisizione della sapienza sull’altare della messe
di informazioni, da aversi, se possibile, in tempo reale. E spesso senza
saperle e poterle elaborare criticamente. Il libro viene così sempre più
estromesso dai ritmi della vita quotidiana delle persone. Del resto, la lettura
esige tempo e lentezza, ma l’uomo contemporaneo non ha tempo e ha fretta. Il
primato dell’immagine e della comunicazione visuale così come la diffusione
capillare della televisione non favoriscono certo il radicarsi della lettura
del libro (evento oggettivamente più impegnativo), mentre assecondano la
pigrizia intellettuale e aiutano il processo di colonizzazione dell’interiorità,
di annullamento dello spazio interiore dalla vita dell’uomo conducendolo a un
atteggiamento sempre più passivo, di fruitore piuttosto che di creatore. Quando
invece si comprende che il libro, e il libro della grande letteratura, è «quintessenza
e simbolo della vita umana», «figura originaria in cui si riassume l’esistenza»[170],
allora si comprende anche il carattere spirituale della lettura: ha a che fare
con il senso della vita, è evento che coinvolge tutta la persona del lettore,
che stimola e attiva la sua vita interiore. Si legge infatti per ponderare e
per riflettere, per incontrare personalità più originali e geniali della nostra;
si legge per comprendersi di fronte al testo, essendo chiara la comune natura
che il lettore condivide con l’autore[171].
Scrive molto bene Paul Ricoeur:
Contrariamente alla tradizione del cogito e alla pretesa del
soggetto di conoscere se stesso per intuizione immediata, ci si comprende
passando attraverso le grandi testimonianze che l’umanità ha deposto nelle
opere di cultura. Se la letteratura non avesse dato articolazione ed
espressione linguistica all’amore e all’odio, ai sentimenti etici e a tutto
quello che in generale forma noi stessi, ben poco ne sapremmo... Comprendere
significa comprendersi davanti al testo, vale a dire non imporre al testo la propria limitata
capacità di capire, bensì esporsi al testo per ricavarne una più ampia
dimensione di sé[172].
La difficoltà della lettura si accompagna pertanto
alla difficoltà di attivare una vita interiore e, particolarmente, di pensare. È
evidente che tutto questo influisce in modo decisamente negativo anche sulla
possibilità di attuare una lectio divina. Almeno, influisce negativamente sulle disposizioni
interiori, sull’atteggiamento profondo del soggetto orante. Se, infatti, il
metodo tradizionale della lectio divina prevede quei quattro momenti che
rispondono al nome di lectio,
meditatio, oratio, contemplatio, essi possono
essere sintetizzati nei due fondamentali movimenti oggettivo (lectio-meditatio) e soggettivo
(oratio-contemplatio). Nel
primo momento si lascia parlare il testo, si fa emergere il suo messaggio, si
ascolta la pagina biblica con uno sforzo di lettura attenta e di studio volto a
un’approfondita comprensione; nel secondo, invece, entra in gioco la soggettività
dell’orante, la sua esistenza che viene pensata e portata davanti al testo
biblico; entra in scena la capacità di dialogo interiore dell’orante fra
messaggio ascoltato nel testo e vita personale. L’atto di lettura si svelerà
particolarmente efficace nel momento in cui il lettore si sentirà letto dal
testo. La scoperta che compie chi è assiduo alla lectio divina è appunto
quella di essere letto dalla pagina biblica molto meglio e più profondamente e
completamente di quanto egli non legga la pagina biblica. È dunque evidente che
l’arte della lectio divina avrà bisogno di persone con una vita
interiore, capaci di pensare, di attivare un dialogo interiore. Tutto questo
non è mai immediato e facile, ma oggi appare particolarmente difficile.
Le difficoltà della Bibbia
Se è difficile leggere, la Bibbia
presenta difficoltà particolari al lettore. Si tratta delle difficoltà che
possiamo raccogliere sotto la cifra dell’alterità del testo. La distanza culturale che separa noi occidentali dal
mondo e dalla mentalità semita che ha prodotto il testo biblico; i continui
riferimenti culturali a situazioni, eventi, paesi, popoli, usi e costumi
decisamente estranei a noi e alle nostre conoscenze; il linguaggio, la stessa
poetica, così distanti dai modi e dalle forme del linguaggio e della poetica
occidentali, sono elementi reali che dicono la distanza culturale fra il testo
e noi e che impegnano nel faticoso sforzo di entrare in un mondo differente dal
nostro. Si tratta peraltro di una difficoltà che è presente quando si legge
qualunque testo dell’antichità o proveniente da un contesto religioso o
culturale altro dal nostro. Tuttavia, in questa innegabile distanza culturale,
il lettore della Bibbia spesso vede ostacoli e difficoltà quasi insormontabili
o che conducono a porre l’interrogativo circa la necessità della lettura della
Scrittura, soprattutto dell’Antico Testamento, e la sua significatività per l’uomo
moderno. Dietro a questa obiezione si nasconde però la miopi a di chi accorda
maggiore importanza all’aggettivo («moderno») che al sostantivo («uomo»). In
effetti, le differenze culturali non annullano, anzi consentono di far emergere
ancora meglio
la radicale unità e somiglianza di tutti gli uomini, orientali o
occidentali, antichi o moderni. Se ognuno di noi scende alla profondità del
sostantivo, troverà semplicemente l’«uomo»; il quale poi, nella sua
realizzazione storica e individuale, si diversifica con tanti aggettivi, a
diversi piani di essenzialità o accidentalità... Buona parte del linguaggio
dell’Antico Testamento è vicino a questa semplicità e radicalità umana... e
parla un linguaggio umano, semplicemente umano, radicalmente umano[173].
Credo dunque che, in questo caso, ci si trovi di
fronte a un cattivo uso delle difficoltà. L’alterità del testo è cifra dell’alterità
della persona e della difficoltà che ogni rapporto conosce se si vuole
realmente entrare in relazione con l’altro. In questo senso, il movimento della
lectio divina è profondamente umano e chiede all’uomo lo sforzo dell’umanizzazione:
si tratta di leggere con umanità per cogliere la dimensione umano-esistenziale
presente nel linguaggio umano delle Scritture. In quest’ottica si comprende
come uno dei criteri ermeneutici della Scrittura che la lectio divina chiede
di mettere in atto sia quello dell’esperienza esistenziale, della vita vissuta.
Ma questo ci introduce nella
difficoltà forse più diffusa e rilevante che incontra chi fa la lectio
divina: la difficoltà
di operare il passaggio dalla pagina alla vita, di recuperare la pagina biblica
al senso della vita.
Il passaggio dalla pagina alla
vita
Le difficoltà circa la lectio
divina che finora abbiamo esaminato riguardano o il polo soggettivo (condizioni
e disposizioni dell’orante) o quello oggettivo (difficoltà inerenti alla Bibbia).
Ma la difficoltà più vera della lectio divina è la relazione fra queste
due istanze: come far emergere dalle frasi scritturistiche un messaggio che
parli al mio oggi storico, alla mia vita? Come declinare concretamente la
convinzione che la parola di Dio contenuta nelle Scritture sia parola attuale,
contemporanea e rivolta a me, a noi? Le difficoltà di questa impresa conducono
a reazioni molteplici e differenziate.
C’è chi si arrende e afferma che
la lectio divina è per persone intellettuali, la cui formazione
biblico-teologica consente loro di rendere eloquenti pagine irrimediabilmente
chiuse alla comprensione dei più semplici.
Al contrario, altri riducono la lectio
divina all’interno di una griglia moralistica e perfino colpevolizzante: il
testo mi dice cosa io devo fare, mi indica ciò che devo essere, ma io non sono
all’altezza di questo compito e mi sento colpevolizzato. La lectio divina, in questo modo, vede resa
sterile la sua possibile fecondità, che consiste proprio nell’aprire il mio
cuore alla contemplazione del volto di Cristo, alla sua azione salvifica,
liberandomi dagli sguardi vittimisticamente centrati su di me, sulle mie
miserie, sui miei peccati, sulla mia inadeguatezza.
Altri ancora, e questo rischio mi
pare molto diffuso, recuperano la pagina biblica alla vita mediante una lettura
psicologizzante. Allora i riferimenti a metodi psicologici, particolarmente
alla psicologia del profondo, diventano la griglia di lettura dei testi. Il rischio
grande, enorme, è quello di chiudersi alla novità a cui un ascolto attento e
aperto del testo può condurre, spendendo le proprie energie nell’opera di
cercare nel testo ciò che già si conosce. Se è vero che «l’umanità» di diverse
pagine bibliche svela profondità e finezza psicologiche e rende utile e
consigliabile il ricorso a elementi di psicologia per una sua più adeguata
comprensione, è però vero che la griglia psicologica rischia di annacquare il
messaggio della rivelazione riducendolo a uno dei tanti miti di redenzione.
Paradossalmente, la parola biblica può manifestare la sua potenza terapeutica
sul lettore proprio quando non viene incatenata da forme di lettura che,
intendendo renderla più accessibile, in realtà la privano della sua alterità
appiattendola sui desiderata del lettore e chiudendola nel suo sapere e
nel suo mondo concettuale.
Un’altra reazione è quella del
rifiuto della fatica dell’interpretazione. Si propugna allora una forma di
lettura letterale, anzi fondamentalistica. Si tratta di una scorciatoia che non
porta in realtà in alcun luogo: essa esprime solamente il rigetto della fatica
ermeneutica in nome di una letteralità che finisce presto con il dare ragione
all’asserzione paolina: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2Cor 3,6). Nel
suo discorso di presentazione del documento della Pontificia commissione
biblica, L’interpretazione
della Bibbia nella chiesa, Giovanni Paolo II ha messo in
guardia da questo rischio stigmatizzando quei cristiani che, mossi da
una falsa idea di Dio e dell’incarnazione... hanno tendenza a credere
che, essendo Dio l’Essere assoluto, ognuna delle sue parole abbia un valore
assoluto, indipendente da tutti i condizionamenti del linguaggio umano. Non vi è
quindi spazio, secondo costoro, per studiare questi condizionamenti al fine di
operare delle distinzioni che relativizzerebbero la portata delle parole. Ma
questo significa illudersi e rifiutare, in realtà, i misteri dell’ispirazione
scritturale e dell’incarnazione, rifacendosi a una falsa nozione dell’Assoluto.
Il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto quello che
tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. È, al contrario,
il Dio creatore, che ha creato la stupefacente varietà degli esseri «ognuno
secondo la propria specie», come afferma e riporta il racconto della Genesi (cf.
Gen 1); lungi dall’annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (cf.
1Cor 12,18.24.28); quando si esprime in un linguaggio umano, egli non dà a ogni
espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumature con
estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni[174].
È evidente che questa forma di non-interpretazione
del testo corrisponde a una forma ecclesiale che devia verso la setta, il
gruppo chiuso arroccato nella difesa della verità di cui si sa detentore e che
non sopporta la dialogicità, il confronto, la messa in discussione.
L’impressione è che si fatichi
molto a trovare un equilibrio fra la lettura del testo e la sua correlazione
con l’ambito esistenziale. E penso che uno dei motivi essenziali di questa
fatica sia l’assenza del contesto comunitario che è l’alveo proprio in cui ogni
lectio divina può e deve avvenire. Solo all’interno di una reale
esperienza ecclesiale, comunitaria, la Scrittura può essere letta e vivificata
e risorgere a parola vivente di Dio per l’oggi storico dei credenti. Il contesto
comunitario ha una valenza ermeneutica fondamentale della Scrittura. E
occorrerebbe correlare maggiormente prassi di lectio divina in gruppi
biblici parrocchiali e liturgia eucaristica domenicale. Ma soprattutto, finché
non si perviene a una reale assiduità quotidiana, personale con le Scritture
nella lectio divina, ben
difficilmente si potranno conoscere i frutti che la parola di Dio non fa
mancare a chi la ascolta con amore e fedeltà.
Conclusione
La lectio divina resterà
sempre un’operazione spirituale che presenta difficoltà, chiede sacrificio,
esige disciplina, perseveranza, interiorizzazione. La sua difficoltà la rende
una vera e propria ascesi: a essa occorre esercitarsi e a essa continuamente
tornare.
In verità dunque, quali che siano
le difficoltà che ciascuno maggiormente prova, esse sono rivelatrici di ciò che
ciascuno deve mutare o su cui deve maggiormente lavorare per crescere
spiritualmente alla statura di Cristo. Insomma, le difficoltà sono necessarie,
ineliminabili: sono il prezzo dell’incontro. E il desiderio dell’incontro
cresce a misura dell’assiduità con la Scrittura per conoscere meglio il Signore,
per stare alla sua presenza, per ascoltare la sua parola e fare la sua volontà.
Le difficoltà della lectio
divina non devono dunque sgomentare: sono le difficoltà della sequela del
Signore!
Certo è comunque che il futuro
della chiesa dovrà essere caratterizzato da una prassi sempre più diffusa di
lettura della Bibbia, malgrado le difficoltà e i problemi che questo comporta.
Se il secondo millennio ha conosciuto una sorta di quarantena della Scrittura,
c’è da auspicare che i prossimi decenni di questo nuovo millennio continuino a
essere animati dall’impulso dinamico della Dei
Verbum. È quanto
richiedono la nuova situazione di diaspora dei cristiani, il fatto che siano
messi a confronto con altre religioni, così come la necessità di dare una forma
sempre più meditativa e ricettiva alla preghiera.
Accordando un ruolo più
importante alla parola di Dio nella vita di ogni cristiano come nella vita
delle comunità, si va all’essenziale: si permette alla sequela sancti Evangelii
di plasmare sempre di più l’esistenza dei credenti. In tal modo, nel mondo
e nella storia, tra gli uomini, la vita dei cristiani diverrà esegesi vivente
della Scrittura, della Parola fatta carne.
È appunto quanto invitava a fare
Giovanni Paolo II, animato da sguardo profetico, quando scriveva: «Nutrirsi
della Parola, per essere ‘servi della Parola’ nell’impegno dell’evangelizzazione:
questa è sicuramente una priorità per la chiesa all’inizio del nuovo millennio»[175].
È questa la posta in gioco per la lectio divina nel mondo di oggi.
[3] Origene, Filocalia 2,3 (Philocalie I-20. Sur les Écritures,
a cura di M. Harl e N. De Lange, SC 302, Cerf, Paris 1983, p. 244).
[4] Sulle regole dell’interpretazione scritturistica di
Origene si veda F. Cocchini, Il Paolo di Origene. Contributo alla storia della recezione delle epistole paoline nel
II secolo, Edizioni
Studium, Roma 1992.
[7] Id., Commento alla Lettera ai Romani 7,17, a
cura di F. Cocchini, Marietti, Genova 1986, vol. II, p. 17.
[9] Cf. L. Bouyer, Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, Libreria
editrice vaticana, Città del Vaticano 1991, p. 166.
[10] Cf. Origene, I principi IV,2,4 (Traité des principes III, a
cura di H. Crouzel e M. Simonetti, SC 268, Cerf, Paris 1980, pp. 310-316).
[11] Cf. Id., Omelie sull’Esodo 2,1, a cura di M. Simonetti e M. I. Danieli, Città
Nuova, Roma 2005, p. 69.
[13] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 8,2,
in Id., Ora comincio a essere discepolo. Le lettere, a cura di S. Chialà, Qiqajon, Bose
2004 (Testi dei padri della chiesa 68), P.24.
[14] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni XIII,5,30
(Commentaire sur S. Jean III,
a cura di C. Blanc, SC 222, Cerf, Paris 1975, p. 48).
[16] Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d’oro. Epistola ad Fratres de Monte
Dei 121, a cura di C. Falchini, Qiqajon, Bose 1988, p. 69; cf. anche
DV 12.
[17] A.-M. Pelletier, «Exégèse et histoire. Tirer du
nouveau de l’ancien», in Nouvelle Revue Théologique 110 (1988), p. 659.
[19] Tra i più celebri interventi vanno ricordati almeno:
F. Refoulé, «L’exégèse en question», in Le Supplément III (1974), pp.
391-423; F.-P. Dreyfus, «Exégèse en Sorbonne, exégèse en Eglise», in Revue
Biblique 82 (1975), pp. 321-359; Id., «L’actualisation à l’intérieur de la
Bible», in Revue Biblique 83 (1976), pp. 161-202; Id., «L’actualisation
de l’Ecriture, I. Du texte à la vie», in Revue Biblique 86 (1979),
pp. 5-58; Id., «L’actualisation de l’Ecriture, II. L’action de l’Esprit», ibid., pp. 161-193; Id., «L’actualisation
de l’Ecriture, III. La place de la Tradition», ibid., pp. 321-384. I cinque
articoli di Dreyfus sono ora riuniti in volume unico: F.-P. Dreyfus, Exégèse
en Sorbonne, exégèse en Eglise,
Parole et Silence, Paris 2007. Gli interventi di Refoulé e di
Dreyfus sono reperibili in tradu2ione italiana in Sussidi Biblici 38-39
e 40-41 (1992), dal titolo Quale esegesi oggi nella Chiesa?
[20] Cf. G. Zevini, «La lettura della Bibbia nello
Spirito. Bibbia, spiritualità e vita», in Incontro con la Bibbia. Leggere, pregare,
annunciare. Convegno di aggiornamento. Facoltà di teologia della
Università pontificia salesiana, Roma, 2-5 gennaio
I978, a cura di G.
Zevini, LAS, Roma I978, pp. 131-156; I. de la Potterie, G. Zevini, «L’ascolto ‘nello
Spirito’; per una rinnovata comprensione ‘spirituale’ della sacra Scrittura»,
in Parola, Spirito e Vita 1
(1980), pp. 9-24; S. A. Panimolle, «Per una lettura ‘spirituale’ della Bibbia:
verso l’unità dell’esegesi», in Rivista Biblica 29 (1981), pp. 79-88; R.
Laurentin, Comment réconcilier l’exégèse
et la foi, OEIL, Paris I984; I. de la Potterie, «La lettura
della Sacra Scrittura ‘nello Spirito»’, in Communio 87 (1986), pp. 25-4I;
U. Neri, La crisi biblica dell’età
moderna. Problemi e prospettive, EDB, Bologna I996,
soprattutto pp. 39-71; P. Grech, «The ‘Regula fidei’ as Hermeneutical Principle
Yesterday and Today», in L’interpretazione
della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla
Congregazione per la Dottrina della Fede, Roma, settembre 1999,
Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 208-224; G.
Ravasi, Interpretare la Bibbia,
EDB, Bologna 2006; B. Costacurta, Lecture priante et exégèse
croyante de la Parole de Dieu», in Bulletin Dei Verbum 84-85 (2007), pp.
5-7; R. J. Erickson, Guida introduttiva all’esegesi del Nuovo Testamento, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2007, pp. 278-303; A. Fossion, «Lire pour vivre. La lecture
de la Bible au service de la compétence chrétienne», in Nouvelle Revue Théologique
129 (2007), pp. 254-271.
[21] Cf. R. E. Brown, Croire en la Bible à l’heure de l’exégèse, Cerf,
Paris 2002; si veda soprattutto l’importante documento della Pontificia
commissione biblica, L’interpretazione
della Bibbia nella chiesa (15 aprile 1993), in Enchiridion
Vaticanum XIII, EDB, Bologna 1995, molto netto e duro nei confronti della
lettura fondamentalista.
[22] Cf. E. Bianchi, «La centralità della parola di Dio»,
in Il Vaticano II e la Chiesa,
a cura di G. Alberigo e J.-P. Jossua, Paideia, Brescia I985, p. I68.
[24] Ch. Theobald, «L’Écriture, âme de la théologie, ou le christianisme
comme religion de l’interprétation», in R. Lafontaine et al., L’Ecriture âme de la théologie, Institut
d’études théologiques, Bruxelles 1990, pp. 109-132.
[25] J. Dupont, «Réf1exions d’un exégète sur la ‘lectio
divina’ dans la vie du moine», in Liturgie 60 (1987), p. 17.
[26] Cf. A. Rizzi, Letture attuali della Bibbia. Dall’interpretazione
esistenziale alla lettura materialista, Borla, Roma 1978, p.
267. Su questo argomento si vedano i contributi di J. Ratzinger e soprattutto
di R. Guardini presenti in I. de la Potterie et al., L’esegesi cristiana oggi, pp.
45-125.
[27] P. Guillemette, M. Brisebois, Introduction aux méthodes
historico-critiques, Fides,
Montréal 1987, p. 10.
[30] I. de la Potterie, G. Zevini, «L’ascolto ‘nello
Spirito’», p. 18. Sulla composizione della Bibbia come dovuta a riletture all’interno
di ciascun libro, a ritorni costanti a opere anteriori per trovare luce sul presente
cui ci si rivolge, ad assimilazione di elementi culturali tratti dall’ambiente
circostante riletti e purificati alla luce dello jahwismo, cf. P. Gibert, La
Bible à la naissance de l’histaire.
Au temps de Saul, David et Salaman, Fayard, Paris 1979,
pp. 21 ss.
[34] Gregario Magno, Omelie su Ezechiele II,9,S,
a cura di V. Recchia ed E. Gandolfo, Città Nuova, Roma 1993, vol. II, p. 212.
[35] Agostino di Ippona, La dottrina cristiana III,27,3S,
a cura di V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1992, pp. 175-177.
[36] H. U. von Balthasar, Con occhi semplici. Verso una nuova coscienza cristiana,
Herder-Morcelliana, Brescia 1970, p. 19.
tra i segni e i fruitori dei segni, che studia cioè
la relazione delle frasi con chi le enuncia e con chi le interpreta; cf. in
particolare C. W. Morris, F. Recanati, all’estetica della recezione (H. R.
Jauss, W. Iser), alla poetica della lettura (H. Maschonnic), alla corrente
letteraria americana del reader response criticism, eccetera. Al ruolo del
lettore nel rapporto con la Scrittura è dedicato il numero della rivista Concilium
I (1991), dal titolo La Bibbia e i suoi lettori.
[39] La Wirkungsgeschichte viene incontro all’esigenza
di recuperare il valore ermeneutico della tradizione: «Il comprendere stesso
deve essere considerato non tanto come un’ azione della soggettività quanto piuttosto
come un’ inserzione nel processo della tradizione in cui si mediatizzano
costantemente il passato e il presente» (H.-G. Gadamer, Vérité et Méthode, les grandes lignes d’une herméneutique
philosophique, Seuil, Paris 1976, p. 130).
[40] G. Segalla, «Il 45° congresso della ‘Studiorum Novi
Testamenti Societas’ (SNTS) all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano,
23-27 luglio 1990)», in Rivista Biblica 39 (1991), p. 97.
[44] Cf. per esempio Sifra, Be-chuqqota; 1,5: «Si deve studiare la
Legge per viverla, per metterla in pratica, e non studiarla senza viverla».
[45] Cf. per esempio Girolamo, Commento a Michea 1,2,6/8:
«Le Scritture giovano a chi le legge solo quando si mette in pratica ciò che si
legge» (CCSL 76, Brepols, Turnhout 1969, p. 445, II. 227-228).
[46] Una ricerca ha individuato quattro ambiti
specificativi di quest’unico principio ermeneutico presenti sia nell’esegesi
giudaica che in quella cristiana: umiltà, conversione/ascesi, preghiera, amore. Si
tratta del lavoro di M. M. Morfino, Leggere la Bibbia con la vita, Qiqajon, Bose 1990; cf.
anche F. Manns, «Vivre l’Ecriture pour mieux la comprendre. Un aspect de l’herméneutique
juive et judéo-chrétienne», in Liber Annuus 32 (1982), pp. 105-146.
[47] Questo non-detto lo si può visualizzare negli spazi
bianchi che separano le parole. I cabalisti parlano della Torà come di un’unica,
lunga frase che da «In principio» (Gen 1,1) si estende fino a «Tutto Israele» (Dt
34,12). Se si pensa al testo biblico ebraico come seguito quasi ininterrotto di
segni senza puntazione vocalica, senza accentazione e divisione di frasi, si
comprende il carattere interpretante, creatore di senso, della separazione dei
gruppi consonantici per formare parole e frasi. «La luminosità che il bianco
diffonde sul nero delle lettere è anch’essa fonte di significato» (rabbi Levi
Isaac di Berditchev, citato in D. Banon, La lecture infinie. Les voies de l’interprétation
midrachique, Seuil, Paris 1987, p. 118).
[50] Cf. Dei Verbum. Genesi della Costituzione sulla divina rivelazione. Schemi
annotati in sinossi, a cura di L. Pacomio, Marietti, Casale
Monferrato 1971, pp. 132-133.
[51] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni X,30,188
(Commentaire sur S. Jean
II, SC 157, Cerf, Paris 1970, p. 496).
[52] «Omne corpus divinae Scripturae, tam veteris quam novi Testamenti,
Filium Dei continet» (Gaudenzio da Brescia, Secondo discorso sull’Esodo, PL 20,856A).
[55] L’insistenza su questa non coincidenza è volta a salvaguardare la
Scrittura dalle tentazioni di approccio fondamentalista, approccio che comporta
un risvolto ecclesiologico di tipo settario. Un’opera di dogmatizzazione della
lettera qual è quella di far coincidere di per sé Bibbia e parola di Dio,
mentre sembra accrescere l’autorità della Scrittura, in realtà ne nega la
storicità, attua una riduzione della Parola e chiude la Scrittura stessa a
quell’interpretazione spirituale che solo la rende parlante nell’oggi della
storia e portatrice di significato per le situazioni attuali.
[56] A. Milano, La parola nell’eucaristia. Un approccio
storico-teologico, Dehoniane, Roma 1990, p. 49.
[58] «Et paene ubique Christus aliquo involucro
sacramenti praedicatus est a prophetis» (Agostino di Ippona, Esposizioni sui
Salmi XXX/2,2,9, a cura di R. Minuti, Città Nuova, Roma 1967, vol. I, p.
478).
[59] M. Magrassi, «Bibbia pregata», in Id. et al., L»’oggi» della Parola di Dio nella
liturgia, Elledici, Torino-Leumann 1970, p. 212.
[60] Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca 6,33, a
cura di G. Coppa, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1978, vol. II, p. 35.
[61] Cf. E. Kasemann, «The Pauline Theology of the Cross», in Interpretation
24 (1970), pp. 155-156.
[62] Cf. infra, p. 105, n. 8. Come nell’incarnazione «il Verbo di Dio è
ricoperto dal velo della carne», così nella Scrittura «è ricoperto dal velo
della lettera, di modo che si vede la lettera come la carne, ma si percepisce
nascosto al di dentro il senso spirituale come la divinità»: Origene, Omelie
sul Levitico 1,1 (Homélies sur
le Lévitique, a cura di M. Borret, SC 286, Cerf, Paris 1981,
p. 66).
[63] Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi CIII,4,1
a cura di T. Mariucci e V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1976, vol. III, p. 749.
[64] Massimo il Confessore, Duecento capitoli sulla
teologia e sull’economia dell’incarnazione
del Figlio di Dio. A Talassio 2,60, in La filocalia II,
a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Gribaudi, Torino 1983, p. 151.
[67] H. U. von Balthasar, «Verbo, Scrittura, Tradizione», in Id., Saggi
teologici, I. Verbum
caro, Morcelliana,
Brescia 1970, p. 22.
[68] Cf. Y.
Congar, «Les deux formes du pain de vie dans l’Évangile et dans la Tradition»,
in Parole de Dieu et sacerdoce.
Etudes présentées à S. Exc. Mgr Weber, Archeveque- Éveque de Strasbourg, pour le
cinquantenaire de son ordination sacerdotale, a cura di E.
Fischer e L. Bouyer, Desclée & C., Paris-Tournai-Rome-New York 1962, pp.
21-58.
[69] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Filadelfesi 4,1,
in Id., Ora comincio a essere discepolo, p. 39.
[70] Girolamo, Commento all’Ecclesiaste 3,12.13, CCSL 72,
Brepols, Turnhout 1959, p. 278,n. 193-198.
[72] Ambrogio di Milano, I doveri 1,20,88, a cura di G. Banterle,
Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1977, p. 77.
[73] Cf. Dt 8,2-3; Am 8,11; Ger 15,16; Sal Il9,103; Sap
16,26; Sir 24,18-22; Pr 9,1-5; Ez 3,3; Mt 4,4; Ap 10,9; eccetera.
[75] Origene, Omelie sui Numeri III,1,1 (Homélies sur les Nombres I, a
cura di L. Doutreleau, SC 415, Cerf, Paris 1996, p. 74).
[77] Ruperto di Deutz, La Trinità 3. Lo Spirito santo 1,6 (Les Oeuvres du Saint-Esprit I,
a cura di E. de Solms, SC 131, Cerf, Paris 1967, pp. 72-74).
[78] «Corpus Christi inteIIigitur etiam Scriptura Dei» (cit.
in H. de Lubac, Esegesi medievale II, Jaca Book, Milano 1988, p. 166).
[79] Origene, Commento a Matteo.
Series 85, a cura di G. Bendinelli, R. Scognamiglio e M. I. Danieli,
Città Nuova, Roma 2006, vol. II, p. 93.
[81] Origene, Commento alVangelo di Matteo II,14 (Commentaire
sur l’évangile selon Matthieu I, a cura di R. Girod, SC 162, Cerf, Paris 1970,
p. 346).
[84] Ambrogio di Milano, Commento ai salmi 1,83, in Id.,
Commento a dodici salmi I, a cura di F. Pizzolato, Biblioteca Ambrosiana-Città
Nuova, Milano-Roma 1980, pp. 80-81.
[85] Ruperto di Deutz, Commento al Vangelo di
Giovanni 6,11b, CCCM 9, Brepols, Turnhout 1969, pp. 308-309, II.336-339.342-347.
[86] Cf. H. Haag, «Il carattere divino-umano della sacra
Scrittura», in Mysterium salutis I/1, a cura diJ. Feiner e M. LOhrer,
Queriniana, Brescia 19692, p. 407.
[87] Cf. E. Bianchi, Dall’ascolto della Parola alla preghiera liturgica, Qiqajon,
Bose 1990 (Testi di meditazione 33); R. De Zan, «Punti salienti dei ‘Praenotanda’
dell»Ordo lectionum Missae’ 1981», in Rivista Liturgica n.s. 70 (1983),
pp. 701-702; P. Visentin, «La celebrazione della Parola nella liturgia», in S.
A. Panimolle et al., Ascolto della Parola e preghiera, p. 239.
[89] E. Ruffini, «Sacramentalità ed economia sacramentale negli scritti dei
padri della chiesa», in E. Ruffini, E. Lodi, «Mysterion» e «sacramentum». La sacramentalità
negli scritti dei padri e nei testi liturgici primitivi, EDB,
Bologna 1987, p. 189.
[90] «Per cor Christi intellegitur Sacra Scriptura quae
manifestat cor Christi» (Tommaso d’Aquino, Commento ai Salmi 21,11).
[91] Discorsi di Massimo IV al Concilio. Discorsi e note del patriarca Massimo IV e dei vescovi della sua
chiesa al Concilio ecumenico Vaticano II, EDB, Bologna
1968, p. 63; cf. pp. 61-64.
[92] Cf. L. Bouyer, Gnòsis, pp. 19-21; É. Junod, «Choix des écritures chrétiennes
et clòture du canon», in Lumière et Vie 171 (1985), pp. 5-17. «La
formazione del canone è l’evento liturgico della proclamazione della parola...
La Bibbia è, fin dall’inizio, un libro di culto» (H. Gese, Sulla teologia
biblica, p. 33).
[93] J.-P. Sonnet,
«Figures (anciennes et nouvelles) du lecteur. Du Cantique des Cantiques au
Livre entier», in Nouvelle Revue Théologique 113 (1991), p. 85.
[96] Tra le norme che caratterizzano la letteratura
biblica vi sono la legge dell’ antichità, per cui ciò che è antico ha più valore di ciò che è
recente, e la legge della conservazione, per cui ciò che ha valore deve essere conservato. Cf. J.
L. Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della
Bibbia, Dehoniane, Roma 1998, pp. 187-193.
[100] Cf. S. Virgulin, «L’attualizzazione dell’esodo nell’Antico
Testamento», in Aa.Vv., Attualizzazione della Parola di Dio nelle nostre
comunità, EDB,
Bologna 1983, pp. 47-81.
[101] Origene, Omelie sulla Genesi 7,2 (Homélies sur la Genèse, a
cura di L. Doutreleau, SC 7 bis, Cerf, Paris 1985, p. 198).
[102] Id., Omelie sui Numeri XI,1,10 (Homélies sur les Nombres II,
a cura di L. Doutreleau, SC 442, Cerf, Paris 1999, pp. 20-22).
[104] Agostino di Ippona, Commento al Vangelo di
Giovanni 24,7, in Id., Commento al vangelo di san Giovanni. Commento all’epistola ai parti
di san Giovanni, a cura di E. Gandolfo e V. Tarulli, Città
Nuova, Roma 1968, p. 567; cf. ibid.
43,16, p. 873.
[105] Ilario di Poitiers, Commento ai Salmi 54,2,
a cura di A. Orazzo, Città Nuova, Roma 2005, vol. II, p. 251.
[106] Bernardo di Clairvaux, Sermone 57. Sulla
Pasqua 2, a cura di D. Pezzini, Scriptorium claravallense. Fondazione di
studi cistercensi, Milano 2000, p. 393.
[107] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 1,7,17,
a cura di V. Recchia ed E. Gandolfo, Città Nuova, Roma 1992, vol. I, p. 225.
[112] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni 1,4,23
(Commentaire sur 5. Jean
l, SC 120, Cerf, Paris 1966, p. 70).
[115] I lavori di A. Rose sui salmi sono un eccellente
esempio dell’inscindibile rapporto che la Scrittura intrattiene con la
chiesa-tradizione-liturgia: cf. soprattutto A. Rose, Les Psaumes, Lethielleux, Paris 1981.
[117] Giovanni Cassiano, Conferenze 10,Il (Conférences II, a cura di E.
Pichery, SC 54, Cerf, Paris 1958, p. 92).
[119] «La sacra Scrittura è ecclesiale proprio per
la sua natura... La sacra Scrittura, donata alla chiesa, meritava di essere
data interamente a ogni membro della chiesa» (Ch. Kannengiesser, «Come veniva
letta la Bibbia nella chiesa antica: l’esegesi patristica e i suoi presupposti»,
in Concilium 1 [1991], pp. 52-53).
[121] Cf. B. Gerhardsson, «Du Judéo-christianisme à Jésus
par le Shema’», in Recherches de Science Religieuse 60 (1972), pp. 23-36.
[122] Da questo testo emerge che «la qualità sacerdotale
del popolo di Israele nei confronti delle genti della terra, il suo compito
salvifico, dipendono esclusivamente dall’ascoltare la Parola in cui c’è tutta
la realtà di Dio percepibile dall’uomo: se non ascoltasse, Israele sarebbe come
tutti gli altri popoli» (E. Bianchi, «Leggere la Bibbia ascoltando la Parola»,
in Servitium II s. 11 (1977], p. 10).
[123] J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di
Dio. Studio sulla letteratura
monastica del medio evo, Sansoni, Firenze 1965, pp. 16-17; cf.
B. Calati, L. Leloir, A. Louf et al., Pregare la Bibbia nella vita religiosa, Qiqajon, Bose 1983.
[126] Si veda lo studio di J.-P. Sonnet, «Le Sinaï dans l’événement
de sa lecture. La dimension pragmatique d’Ex 19-24», in Nouvelle Revue Théologique
111 (1989), pp. 321-344.
[128] J. Ladrière, L’articulation du sens. Discours scientifique et parole de la
foi, Aubier Montaigne-Cerf-Delachaux & Niesdé-Desclée de
Brouwer, Paris 197°, p. 237.
[129] J.-P. Sonnet, La parole consacrée. Théorie des actes de langage,
linguistique de l’énonciation et parole de la foi, Cabay,
Louvain 1984, p. 98. Si veda anche H. Schlier, La Parola di Dio. Teologia della predicazione secondo il
Nuovo Testamento, Edizioni Paoline, Roma 1963.
[130] A. Gesché, «La résurrection de Jésus dans la théologie
dogmatique», in Revue Théologique de Louvain 2 (1971), p. 295.
[131] Cf. J.-P. Sonnet, La parole consacrée, pp. 148-149. Di questo
ottimo studio è stato rilevato che «propone un modello linguistico appropriato
all’esegesi che intende articolare il senso letterale e il senso spirituale
della sacra Scrittura» (P. Piret, L’Ecriture et l’Esprit, Editions de l’Institut
d’études théologiques, Bruxelles 1987, p. 251).
[133] Tommaso d’Aquino, Somma teologica III, q. 62,
a. 5, a cura di I. Volpi e T. S. Centi, Edizioni studio domenicano, Bologna
1986, vol. 27, p. 86.
[135] Clemente di Roma, Lettera ai Corinti 45,2 (Lettre aux Corinthiens, a
cura di A. Jaubert, SC 167, Cerf, Paris 1971, p. 174).
[136] Ilario di Poitiers, Commento al salmo 118, a
cura di I. Passerini, Edizioni Paoline, Milano 2007, p. 206.
[137] Cf. At 28,25 riferito a Is 6,9-10; Eb 3,7 riferito
a Sal 95,7-11; Eb 10,15-17 riferito a Ger 31,33-34; cf. inoltre At 1,16; 4,25;
eccetera.
[138] Cf. H. Riedlinger, «Lettera e spirito. La via della
interpretazione spirituale della Scrittura nella chiesa», in Communio 29
(1976), pp. 25-40, soprattutto pp. 28-33. Tutto il numero è intitolato Esegesi
spirituale nella chiesa.
[142] M.-J. Rondeau, «Actualité de l’exégèse patristique?»,
in Les quatre fleuves 7 (1977), p. 98. Il numero è intitolato Lectures
actuelles de la Bible. Anche
l’esegesi ebraica si esprime in modo analogo. Commentando Dt 32,47 («Non è
certo una parola vuota per voi...») Rashi afferma: «Non è una parola vuota per
voi; e se lo è, lo è a causa di voi che non sapete interpretarla,
sollecitarla» (cit. in D. Banon, La lecture infinie, p. 28).
[144] Pronomi personali e dimostrativi, avverbi di tempo
e luogo, eccetera. Cf. J.-P. Sonnet, La parole consacrée, pp. 34 ss.
[147] Si tratta della dottrina del PaRDeS, acrostico delle parole che indicano i quattro strati di
senso: peshat («semplice») è il senso letterale, il significato ovvio
del testo nel contesto della storia; remez («suggestione») è il senso
allegorico, l’apertura del testo tramite altri passi scritturistici per
giungere a penetrarne il significato spirituale; derashà(«ricerca»)
indica il livello in cui il lettore si sente spinto a un’ assunzione di
responsabilitàe di concreto impegno esistenziale; sod («segreto») è il
senso mistico, che contempla il rapporto delle realtà con Dio e partecipa allo
sguardo di Dio sulle realtà. Cf. Zohar I,26b.
[148] Per l’accostamento cf. G. Scholem, La Kabbalah e
il suo simbolismo, Einaudi,
Torino 1980, pp. 78-80; J. Radermakers, «Parole consacrée et exégèse juive.
Note exégétique», in J.-P. Sonnet, La parole consacrée, pp. 179-183. Cf. inoltre H.
de Lubac, «Sur un vieux distique. La doctrine du ‘quadruple sens’», in Mélanges
offerts au R. P. Ferdinand Cavallera à l’occasion de la quarantième année de son professorat à l’Institut
Catholique, Bibliothèque de l’Institut Catholique, Toulouse
1948, pp. 347-366.
[150] Cf. J.-M. Hennaux, « Sens tropologique de l’Ecriture
et problèmes d’aujourd’hui », in R. Lafontaine et al., L’Ecriture lime de la théologie, pp.
145-161.
[151] Guigo II il Certosino, La scala di Giacobbe 2,
in Id., Tornerò al mio cuore.
La scala di Giacobbe, Commento al Magnificat, Meditazioni,
a cura di E. Arborio Mella, Qiqajon, Bose 1987, pp. 29-30.
[153] Cf. Guigo II il Certosino, Tornerò al mio cuore, pp. 29-41; sulla lectio
divina: E. Bianchi, Pregare la Parola; D. Barsotti, La Parola e
lo Spirito. Saggi sull’esegesi spirituale, OR, Milano 1971; M. Magrassi,
Bibbia e preghiera, Ancora,
Milano 19742; S. A. Panimolle et al., Ascolto della Parola e
preghiera. La «lectio
divina», Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1987.
Ulteriore bibliografia in M. Masini, Iniziazione alla «lectio divina». Teologia,
metodo, spiritualità, prassi, Messaggero,
Padova 1988, pp. 119-120.
[154] «Te totum applica
ad textum; rem totam applica ad te» (J. A. Bengel [1687-1752] nella Prefazione
all’edizione da lui curata del Nuovo Testamento Greco edita nel 1734).
[156] Cf. E. Bianchi, L’essere povero come condizione essenziale per leggere la Bibbia,
Qiqajon, Bose 1991 (Testi di meditazione 35).
[157] J. Caillot, L’évangile de la communication. Pour une nouvelle approche du
salut chrétien, Cerf, Paris 1989, p. 162.
[158] Agostino di Ippona, Discorsi LVI,6,10, in Id.,
Discorsi, a cura
di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1982, vol. II/1, p. 151.
[159] Il tema è particolarmente caro a Origene: «La
parola umana è per natura impalpabile e insensibile, ma essa prende corpo, in
un certo senso, quando è scritta in un libro; parimenti la parola di Dio che
non ha né carne, né corpo: per la sua natura divina non può essere vista, ma
dal momento in cui si incarna, si può vederla e scriverla. E perché la Parola si
è fatta carne che esiste un ‘libro della genealogia di Gesù Cristo’» (Origene, Commento
al Vangelo di Matteo. Frammenti).
E ancora: «Ecco come devi comprendere la Scrittura... come il corpo
unico e perfetto del Verbo» (Id., Omelie su Geremia. Frammenti citati nella Filocalia II,2,
in Id., Homélies sur Jérémie II, a cura di P. Nautin, SC 238, Cerf,
Paris 1977, p. 374).
[160] Più generalmente, sulle obiezioni che la Scrittura
suscita, si veda M. Bellet, «Résistances à l’Ecriture», in Christus 14 (1967),
pp. 8-22; tutto il primo fascicolo dell’annata è dedicato al tema Méditer l’Ecriture.
[161] Bernardo di Clairvaux, Sermoni sul Cantico dei
cantici 74,5 (Sermons sur le
Cantique V, a cura di P. Verdeyen e R. Fassetta, SC 511, Cerf, Paris
2007, pp. 164-166).
[164] Cf. Id., Dall’ascolto della Parola alla preghiera liturgica; Id.,
L’essere povero come
condizione essenziale per leggere la Bibbia; Id., «Lectio
divina et vie monastique», in La Vie Spirituelle 714 (1995), pp. 145-159.
[165] J. Ratzinger, in Consilium Conferentiarum
Episcoporum Europae, Roma
2001 (testo in possesso dell’autore).
[166] «Divina eloquia cum legente crescunt» (Gregorio
Magno, Omelie su Ezechiele 1,17,8, pp. 214-2 15); cf. P. C. Bori, L’interprétation infinie. L’herméneutique
chrétienne ancienne et ses transformations, Cerf, Paris 1991.
[167] Cf. E. Bianchi, La Parola costruisce la comunità, Qiqajon, Bose 1993 (Testi di
meditazione 49). Sul rapporto tra ascolto e comunità, si trovano osservazioni
interessanti in G. Lafont, Dieu,
le temps et l’être, Cerf, Paris 1986, p. 126 e passim.
[168] Pontificia commissione biblica, L’interpretazione della Bibbia nella
chiesa, p. 1635, nr. 2980.
[169] I. Illich, Du
lisible au visible: la
naissance du texte. Un commentaire du «Didascalicon»
de Hugues de Saint-Victor, Cerf,
Paris 1991, p. 9.
[173] L. Alonso-Schokel, «È attuale il linguaggio del
Vecchio Testamento? (cap. IV della Dei Verbum)», in S. Lyonnet et al., La Bibbia nella Chiesa
dopo la «Dei Verbum».
Studi sulla costituzione conciliare, Edizioni Paoline, Roma 1969, p. 117.
[174] Giovanni Paolo II, L’interpretazione della Bibbia nella chiesa, in Il
Regno — documenti II (1993), p. 325.