venerdì 15 giugno 2012

Il Sacratissimo Cuore di Gesù - 2

Di seguito il Vangelo di oggi, 15 giugno, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, con un commento e qualche pagina per la meditazione.


Ti supplico, 
che la mitezza della tua carità ridia coraggio al mio cuore. 
Per grazia, le viscere della tua misericordia 
si commuovano in mio favore, 
perché purtroppo, numerosi sono i miei demeriti, 
nulli i miei meriti.
E donami, o caro Gesù, di amare te solo, 
in ogni cosa e al di sopra di tutto, 
di attaccarmi a te con fervore, 
di sperare in te, 
e di non mettere alla mia speranza nessun limite.

Santa Geltrude di Elfta 



Mt 11, 25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.
Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

IL COMMENTO

Le parole oranti del Signore che si rivolgono al Padre in un'estatica benedizione ci schiudono oggi una finestra sui sentimenti più intimi di Dio. Possiamo avventurarci nel cuore del Padre e conoscere quello di cui si compiace. La relazione di profonda comunione tra Padre e Figlio, la conoscenza reciproca che è, secondo il linguaggio della Scrittura, un'unione profonda e indissolubile. Il Padre e il Figlio uniti nell'esultanza e nella gioia di fronte al Mistero rivelato ai piccoli. Mistero nel mistero.


I piccoli, gli infanti secondo la traduzione in latino della Vulgata, colui che non ha ancora l'uso della parola (in-fa-ns, dove –fa proviene dalla radice di un verbo for/faris che indica il saper parlare, quindi l’infante è colui che non sa parlare) che traduce il greco originale dove si ha Νήπιος (colui che non sa parlare, e per estensione, siccome colui che non sa parlare è il fanciullo, significa appunto, bambino/lattante). Dio rivela il Suo cuore a chi ancora non sa parlare.


Le Sue parole sono per chi non ha parole. E invece noi siamo imbottiti di parole. Parole spesso vuote a cercare di razionalizzare pensieri irrazionali. Non abbiamo posto per le parole di Dio. La sapienza e l'intelligenza mondane, figlie del principe di questo mondo, affogano il nostro cuore e strozzano la nostra mente. Siamo impermeabili alla Parola fatta carne. Ci crediamo adulti perchè presumiamo di condurre le nostre esistenze attraverso le parole. Chiacchiere, per giustificare, per legare, per sciogliere, per ingannare, per sedurre, per vincere, per vendicare, per uccidere.


La Scrittura infatti mette in guardia dal troppo e dal vano parlare: "Le parole della bocca dell'uomo sono acqua profonda... con la bocca l'uomo sazia il suo stomaco, egli si sazia con il prodotto delle sue labbra. Morte e vita sono in potere della lingua, e chi l'accarezza ne mangerà i frutti" (Pr. 18, 4. 20-21). C'è come un'ingordigia nelle nostre parole, non ce diamo conto, le accarezziamo credendo di trovarne beneficio, ne gustiamo gli amari frutti. Divisioni, liti, invidie, passioni. Un laccio è la nostra lingua e ci tiene imprigionati. E' questa una delle radici più profonde della nostra infelicità, siamo schiavi delle nostre parole. Ma il Signore viene anche oggi al nostro incontro, la Sua preghiera illumina la nostra tenebra, e ci chiama a conversione.


Ci prende per mano come ha fatto con Giobbe, intrappolato anch'egli nella rete delle sue troppe parole e nei lacci delle insensate parole dei suoi amici pseudo-sapienti. Il Signore ci prende per mano e ci conduce in un cammino di verità. Ci rivela i misteri del Regno, ci fa conoscere Suo Padre, ci mostra la Croce. La verità, l'amore inaudito di Dio. Eccoci, sotto la Croce. 

Contempliamo oggi il cuore di Dio, "l'uomo dei dolori", l'Agnello senza macchia. Contempliamo il Suo amore per riconoscere i nostri peccati. Come Giobbe mettiamo la mano sulla bocca, impariamo il silenzio stupito dell'infante. E' tutto troppo più grande di noi. Non sappiamo. Non conosciamo. Non capiamo. Accettiamolo. Conosciamo Dio per sentito dire, impariamo a conoscerlo attraverso gli occhi di un cuore puro, piccolo, infante. Rimaniamo nel Suo amore come Maria, ad imparare ascoltando le Sue Parole. Lasciamo che la vita e la storia che il Padre traccia per noi distrugga le sicurezze, gli schemi, i criteri. Lasciamo che la Croce che oggi ci accoglie sia il crogiuolo dove bruciare quello che di noi appartiene alla carne a al mondo. Lasciamoci purificare. Lasciamo che Dio ci faccia piccoli. Chiediamo con il Salmo che Dio metta una sentinella alla porta delle nostre labbra, che il Suo Spirito ci difenda da inutili parole.


Che Dio faccia oggi, e ogni giorno, il miracoli di ricrearci piccoli, infanti appena divezzati in braccio alla madre, abbandonati nelle viscere di misericordia del Padre. E lì, tra le Sue braccia, tranquilli e sereni senza aspirare a cose troppo alte, senza pretendere nulla, saziarci delle Sue Parole, miele dolcissimo, le uniche parole di vita.


E Lui ci chiama. Per imparare. La mitezza e l'umiltà, il cuore di Cristo. Ascoltare e andare. E' questa la volontà di Dio per noi. Oggi e sempre. Sino all'ultima chiamata, quella per le nozze eterne. Andare e fermarsi presso di Lui. Vedere dove Lui abita, stare con Lui, imparare. L'orecchio aperto come un discepolo. Ai suoi piedi, cercando e desiderando l'unica cosa buona, la Sua Parola, la Sua vita, il Suo amore. In questo atteggiamento del cuore, e solo in esso, troveremo ristoro, riposo per il nostro intimo, per le nostre anime. Entrare nel Suo riposo, nello shabbat preparato per noi, con un cuore docile. Se oggi ascoltiamo non induriamoci, lasciamoci sedurre dalla Sua misericordia.


Il Suo Giogo, la Croce d'ogni giorno, è il cammino al riposo. Andare al Signore è già imparare ad essere miti e umili di cuore. Il mite possiede infatti la terra. Il mite, l'umile, come Mosè, conosce la propria debolezza, non se ne scandalizza, si lascia condurre. E' mite chi ha imparato che la lotta d'ogni giorno non è contro le creature di carne, contro suocere o mariti o mogli o figli o colleghi di lavoro o coinquilini di condominio. La lotta è contro il demonio, il padre della menzogna e dell'orgoglio. In questa lotta occorre imbracciare le armi della fede, la spada dello Spirito che è la sua Parola, lo zelo per il Vangelo, il Suo amore infinito. La fede, la speranza e la carità, i doni del Cielo riservati a chi reclina il proprio capo sul petto di Gesù. La nostra mente nel cuore di Gesù. E' questa la fonte della mitezza e dell'umiltà, la porta al riposo e alla pace.
Santa Geltrude di Elfta (1256-1301), monaca benedettina
Esercizi, 7 ; SC 127, 285


« Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi »

Tu che hai fatto per me tante cose grandissime e bellissime da obbligarmi al tuo servizio per sempre, che cosa ti renderò per tanti tuoi benefici? Quali lodi e quali azioni di grazie potrei mai offrirti, se anche mi ci prodigassi mille volte senza risparmiarmi ? Chi sono io, povera creatura, in confronto a te, mia abbondante redenzione? Dunque ti offrirò tutta intera la mia anima , che tu hai riscattato; ti farò omaggio dell'amore del mio cuore. Sì, trasporta la mia vita in te, portami tutta in te e, rinchiudendomi in te, fa che io sia una sola cosa con te.
O Amore, il tuo divino ardore ha aperto per me il cuore dolcissimo del mio Gesù. O cuore fonte di mitezza, cuore traboccante di bontà, cuore sovrabbondante di carità, cuore da cui cola goccia a goccia la benevolenza, cuore pieno di misericordia..., cuore carissimo, ti prego di assorbire il mio cuore interamente in te. Perla carissima del mio cuore, invitami ai tuoi festini che danno la vita; versa per me i vini della tua consolazione... affinché la rovina del mio spirito sia riempita della tua carità divina, e che l'abbondanza del tuo amore supplisca alla povertà e alla miseria della mia anima.
O cuore amato al di sopra di tutto..., abbi pietà di me. Ti supplico, che la mitezza della tua carità ridia coraggio al mio cuore. Per grazia, le viscere della tua misericordia si commuovano in mio favore, perché purtroppo, numerosi sono i miei demeriti, nulli i miei meriti. Mio Gesù, il merito della tua preziosa morte, che solo ha avuto il potere di condonare il debito universale, mi rimetta tutto il male che ho fatto...; mi attiri a te così potentemente che, trasformata interamente dalla forza del tuo amore divino, io trovi grazia ai tuoi occhi... E donami, o caro Gesù, di amare te solo, in ogni cosa e al di sopra di tutto, di attaccarmi a te con fervore, di sperare in te, e di non mettere alla mia speranza nessun limite.


San Giovanni Eudes (1601-1680), sacerdote, predicatore, fondatore di istituti religiosi 
L'ammirabile cuore di Gesù, libro 12 ;  8, 350-352 

« In questo sta l'amore : non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo unigenito Figlio » (1Gv 4,10)
     
Il Cuore del nostro Salvatore è un fuoco di amore per noi : di amore purificante, di amore illuminante, di amore santificante, di amore trasformante, di amore deificante. Di amore purificante nel quale i cuori sono purificati più perfettamente dell'oro nel fuoco. Di amore illuminante, che scaccia le tenebre dell'inferno che ricoprono la terra, e che ci fa entrare nell'ammirabile luce del cielo : « Ci ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce » (1 Pt 2,9). Di amore santificante, che distrugge il peccato nelle nostre anime, per stabilirvi il regno della grazia. Di amore trasformante, che trasforma i serpenti in colombe, i lupi in agnelli, le bestie in angeli, i figli del diavolo in figli di Dio, i figli dell'ira e della maledizione in figli della grazia e della benedizione. Di amore deificante, che da uomini fa dèi rendendoli partecipi della santità di Dio, della sua misericordia, della sua pazienza, della sua bontà, del suo amore, della sua carità e delle altre divine perfezioni. : « partecipi della natura divina » (2 Pt 1,4).
Il Cuore di Gesù è un fuoco che diffonde le sue fiamme da ogni parte, in cielo, sulla terra, e in tutto l'universo ; fuoco e fiamme che infiammano i cuori dei serafini, e infiammerebbero tutti i cuori della terra se il ghiaccio del peccato non vi si opponesse.
Egli ha un amore straordinario per gli uomini, sia per i buoni e per i suoi amici, che per i cattivi e i suoi nemici, per i quali ha una carità così ardente che tutti i torrenti delle acque dei loro peccati non sono capaci di spegnerlo.

Ratzinger - Benedetto XVI. Angelus sul Sacro Cuore

Cari fratelli e sorelle!
L’odierna domenica, la dodicesima del Tempo Ordinario, si trova come "circondata" da solennità liturgiche significative. Venerdì scorso abbiamo celebrato il Sacro Cuore di Gesù, ricorrenza che unisce felicemente la devozione popolare alla profondità teologica. Era tradizionale – e in alcuni Paesi lo è ancora – la consacrazione al Sacro Cuore delle famiglie, che ne conservavano un’immagine nella loro casa. Le radici di questa devozione affondano nel mistero dell’Incarnazione; è proprio attraverso il Cuore di Gesù che in modo sublime si è manifestato l’Amore di Dio verso l’umanità. Per questo l’autentico culto del Sacro Cuore conserva tutta la sua validità e attrae specialmente le anime assetate della misericordia di Dio, che vi trovano la fonte inesauribile da cui attingere l’acqua della Vita, capace di irrigare i deserti dell’anima e di far rifiorire la speranza. La solennità del Sacro Cuore di Gesù è anche la Giornata Mondiale di Preghiera per la Santificazione dei Sacerdoti: colgo l’occasione per invitare tutti voi, cari fratelli e sorelle, a pregare sempre per i sacerdoti, affinché possano essere validi testimoni dell’amore di Cristo.
Ieri la liturgia ci ha fatto celebrare la Natività di San Giovanni Battista, l’unico Santo di cui si commemora la nascita, perché segnò l’inizio del compimento delle promesse divine: Giovanni è quel "profeta", identificato con Elia, che era destinato a precedere immediatamente il Messia per preparare il popolo d’Israele alla sua venuta (cfr Mt 11,14; 17,10-13). La sua festa ci ricorda che la nostra vita è tutta e sempre "relativa" a Cristo e si realizza accogliendo Lui, Parola, Luce e Sposo, di cui noi siamo voci, lucerne e amici (cfr Gv 1,1.23; 1,7-8; 3,29). "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3,30): questa espressione del Battista è programmatica per ogni cristiano.
Lasciare che l’"io" di Cristo prenda il posto del nostro "io" è stato in modo esemplare l’anelito degli Apostoli Pietro e Paolo, che la Chiesa venera con solennità il prossimo 29 giugno. San Paolo ha scritto di sé: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Prima di loro e prima di ogni altro Santo, a vivere questa realtà è stata Maria Santissima, che ha conservato le parole del suo Figlio Gesù nel suo cuore. Ieri abbiamo contemplato questo suo Cuore immacolato, Cuore di Madre, che continua a vegliare con tenera sollecitudine su tutti noi. La sua intercessione ci ottenga di essere sempre fedeli alla vocazione cristiana.

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Ratzinger - Benedetto XVI. Nel 50 anniversario dell'Enciclica HAURIETIS AQUAS

LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AL PREPOSITO GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO
DELL’ENCICLICA HAURIETIS AQUAS
Al Reverendissimo Padre
PETER-HANS KOLVENBACH, S.I.
Preposito Generale della Compagnia di Gesù
Le parole del profeta Isaia - “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is 12,3) - che aprono l’Enciclica con cui Pio XII ricordava il primo centenario dell’estensione all’intera Chiesa della Festa del Sacro Cuore di Gesù - oggi, 50 anni dopo, non hanno perso nulla del loro significato. Nel promuovere il culto al Cuore di Gesù, l’EnciclicaHaurietis aquas esortava i credenti ad aprirsi al mistero di Dio e del suo amore, lasciandosi da esso trasformare. A cinquant’anni di distanza resta compito sempre attuale dei cristiani continuare ad approfondire la loro relazione con il Cuore di Gesù in modo da ravvivare in se stessi la fede nell’amore salvifico di Dio, accogliendolo sempre meglio nella propria vita.
Il costato trafitto del Redentore è la sorgente alla quale ci rimanda l'Enciclica Haurietis aquas: a questa sorgente dobbiamo attingere per raggiungere la vera conoscenza di Gesù Cristo e sperimentare più a fondo il suo amore. Potremo così meglio comprendere che cosa significhi conoscere in Gesù Cristo l'amore di Dio, sperimentarlotenendo fisso lo sguardo su di Lui, fino a vivere completamente dell'esperienza del suo amore, per poi poterlo testimoniare agli altri. Infatti, per riprendere un'espressione del mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, “vicino al Cuore di Cristo, il cuore umano apprende a conoscere il senso vero e unico della vita e del proprio destino, a comprendere il valore d'una vita autenticamente cristiana, a guardarsi da certe perversioni del cuore, a unire l'amore filiale verso Dio all'amore verso il prossimo. Così - ed è la vera riparazione richiesta dal Cuore del Salvatore - sulle rovine accumulate dall'odio e dalla violenza, potrà essere edificata la civiltà del Cuore di Cristo” (Insegnamenti, vol. IX/2, 1986, p. 843).
Conoscere l'amore di Dio in Gesù Cristo
Nell’Enciclica Deus caritas est ho citato l’affermazione della prima Lettera di san Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”, per sottolineare che all'origine dell'essere cristiani c'è l'incontro con una Persona (cfr n. 1). Poiché Dio si è manifestato nella maniera più profonda attraverso l'incarnazione del suo Figlio, rendendosi “visibile” in Lui, è nella relazione con Cristo che possiamo riconoscere chi è veramente Dio (cfr Enc. Haurietis aquas, 29-41; Enc. Deus caritas est, 12-15). Ed ancora: poiché l'amore di Dio ha trovato la sua espressione più profonda nel dono che Cristo ha fatto della sua vita per noi sulla Croce, è soprattutto guardando alla sua sofferenza e alla sua morte che possiamo riconoscere in maniera sempre più chiara l'amore senza limiti che Dio ha per noi: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Questo mistero dell'amore di Dio per noi, peraltro, non costituisce soltanto il contenuto del culto e della devozione al Cuore di Gesù: esso è, allo stesso modo, il contenuto di ogni vera spiritualità e devozione cristiana. E’ quindi importante sottolineare che il fondamento di questa devozione è antico come il cristianesimo stesso. Infatti, essere cristiano è possibile soltanto con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore, “a Colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; cfr Zc 12,10). A ragione l'Enciclica Haurietis aquas ricorda che la ferita del costato e quelle lasciate dai chiodi sono state per innumerevoli anime i segni di un amore che ha informato sempre più incisivamente la loro vita (cfr n. 52). Riconoscere l'amore di Dio nel Crocifisso è diventata per esse un'esperienza interiore che ha fatto loro confessare, insieme a Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28), permettendo loro di raggiungere una fede più profonda nell’accoglienza senza riserva dell'amore di Dio (cfr Enc. Haurietis aquas, 49).
Sperimentare l’amore di Dio volgendo lo sguardo al Cuore di Gesù Cristo
Il significato più profondo di questo culto all'amore di Dio si manifesta soltanto quando si considera più attentamente il suo apporto non solo alla conoscenza, ma anche, e soprattutto, all’esperienza personale di tale amore nella dedizione fiduciosa al suo servizio (cfr Enc. Haurietis aquas, 62). Ovviamente, esperienza e conoscenza non possono essere separate tra loro: l'una fa riferimento all'altra. Occorre peraltro sottolineare che una vera conoscenza dell'amore di Dio è possibile soltanto nel contesto di un atteggiamento di umile preghiera e di generosa disponibilità. Partendo da tale atteggiamento interiore, lo sguardo posato sul costato trafitto dalla lancia si trasforma in silenziosa adorazione. Lo sguardo al costato trafitto del Signore, dal quale scorrono “sangue e acqua” (cfr Gv 19,37), ci aiuta a riconoscere la moltitudine dei doni di grazia che da lì provengono (cfr Enc. Haurietis aquas, 34-41) e ci apre a tutte le altre forme di devozione cristiana che sono comprese nel culto al Cuore di Gesù.
La fede intesa come frutto dell'amore di Dio sperimentato è una grazia, un dono di Dio. Ma l'uomo potrà sperimentare la fede come una grazia soltanto nella misura in cui egli l'accetta dentro di sé come un dono, di cui cerca di vivere. Il culto dell'amore di Dio, al quale l'Enciclica Haurietis aquas invitava i fedeli (cfr ibid., 72), deve aiutarci a ricordare incessantemente che Egli ha preso su di sé questa sofferenza volontariamente “per noi”, “per me”. Quando pratichiamo questo culto, non solo riconosciamo con gratitudine l'amore di Dio, ma continuiamo ad aprirci a tale amore in modo che la nostra vita ne sia sempre più modellata. Dio, che ha riversato il suo amore “nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (cfr Rm 5,5), ci invita instancabilmente ad accogliere il suo amore. L'invito a donarsi interamente all'amore salvifico di Cristo e a votarsi ad esso (cfr ibid., n. 4) ha quindi come primo scopo il rapporto con Dio. Ecco perché questo culto, totalmente rivolto all'amore di Dio che si sacrifica per noi, è di così insostituibile importanza per la nostra fede e per la nostra vita nell’amore.
Vivere e testimoniare l'amore sperimentato
Chi accetta l'amore di Dio interiormente, è da esso plasmato. L'amore di Dio sperimentato viene vissuto dall'uomo come una “chiamata” alla quale egli deve rispondere. Lo sguardo rivolto al Signore, che “ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8, 17), ci aiuta a divenire più attenti alla sofferenza ed al bisogno degli altri. La contemplazione adorante del costato trafitto dalla lancia ci rende sensibili alla volontà salvifica di Dio. Ci rende capaci di affidarci al suo amore salvifico e misericordioso e al tempo stesso ci rafforza nel desiderio di partecipare alla sua opera di salvezza diventando suoi strumenti. I doni ricevuti dal costato aperto, dal quale sono sgorgati “sangue e acqua” (cfr Gv 19,34), fanno sì che la nostra vita diventi anche per gli altri sorgente da cui promanano “fiumi di acqua viva” (Gv7,38) (cfr Enc. Deus caritas est, 7). L'esperienza dell'amore attinta dal culto del costato trafitto del Redentore ci tutela dal rischio del ripiegamento su noi stessi e ci rende più disponibili ad una vita per gli altri. “Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16) (cfr Enc. Haurietis aquas, 38).
La risposta al comandamento dell'amore è resa possibile soltanto dall'esperienza che questo amore ci è già stato donato prima da Dio (cfr Enc. Deus caritas est, 14). Il culto dell'amore che si rende visibile nel mistero della Croce, ripresentato in ogni Celebrazione eucaristica, costituisce quindi il fondamento perché noi possiamo divenire persone capaci di amare e di donarsi (cfr Enc. Haurietis aquas, 69), divenendo strumento nelle mani di Cristo: solo così si può essere annunciatori credibili del suo amore. Questo aprirsi alla volontà di Dio, però, deve rinnovarsi in ogni momento: “L'amore non è mai ‘finito’ e completo” (cfr Enc. Deus caritas est, 17). Lo sguardo al “costato trafitto dalla lancia”, nel quale rifulge la sconfinata volontà di salvezza da parte di Dio, non può quindi essere considerato come una forma passeggera di culto o di devozione: l'adorazione dell'amore di Dio, che ha trovato nel simbolo del “cuore trafitto” la sua espressione storico-devozionale, rimane imprescindibile per un rapporto vivo con Dio (cfr Enc. Haurietis aquas, 62).
Con l’augurio che la ricorrenza cinquantenaria valga a stimolare in tanti cuori una risposta sempre più fervida all’amore del Cuore di Cristo, imparto a Lei, Reverendissimo Padre, e a tutti i Religiosi della Compagnia di Gesù, sempre molti attivi nella promozione di questa fondamentale devozione, una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 15 maggio 2006
BENEDICTUS PP. XVI