giovedì 14 giugno 2012

Il Sacratissimo Cuore di Gesù

   
VENERDÌ DELLA
TERZA SETTIMANA DOPO PENTECOSTE

SACRATISSIMO CUORE DI GES
Ù 

Anno B -
Solennità

Dalle «Opere» di san Bonaventura, vescovo
(Opusc. 3, Il legno della vita, 29-30. 47; Opera omnia 8, 79)

Considera anche tu, o uomo redento, chi, quanto grande e di qual natura sia colui che pende per te dalla croce. La sua morte dà la vita ai morti, al suo trapasso piangono cielo e terra, le dure pietre si spaccano.
Inoltre, perché dal fianco di Cristo morto in croce fosse formata la Chiesa e si adempisse la Scrittura che dice: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37), per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza. Lo sgorgare da una simile sorgente, cioè dal segreto del cuore, da' ai sacramenti della Chiesa la capacità di conferire la vita eterna ed è, per coloro che già vivono in Cristo, bevanda di fonte viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14).
Sorgi, dunque, o anima amica di Cristo. Sii come colomba «che pone il suo nido nelle pareti di una gola profonda» (Ger 48, 28). Come «il passero che ha trovato la sua dimora» (Sal 83, 4), non cessare di vegliare in questo santuario. Ivi, come tortora, nascondi i tuoi piccoli, nati da un casto amore. Ivi accosta la bocca per attingere le acque dalle sorgenti del Salvatore (cfr. Is 12, 3). Da qui infatti scaturisce la sorgente che scende dal centro del paradiso, la quale, divisa in quattro fiumi (cfr. Gn 2, 10) e, infine, diffusa nei cuori che ardono di amore, feconda ed irriga tutta la terra.
Corri a questa fonte di vita e di luce con vivo desiderio, chiunque tu sia, o anima consacrata a Dio, e con l'intima forza del cuore grida a lui: «O ineffabile bellezza del Dio eccelso, o splendore purissimo di luce eterna! Tu sei vita che vivifica ogni vita, luce che illumina ogni luce e che conserva nell'eterno splendore i multiformi luminari che brillano davanti al trono della tua divinità fin dalla prima aurora.
O eterno e inaccessibile, splendido e dolce fluire di fonte nascosta agli occhi di tutti i mortali! La tua profondità é senza fine, la tua altezza senza termine, la tua ampiezza è infinita, la tua purezza imperturbabile!
Da te scaturisce il fiume «che rallegra la città di Dio» (Sal 45, 5), perché «in mezzo ai canti di una moltitudine in festa» (Sal 41, 5) possiamo cantare cantici di lode, dimostrando, con la testimonianza, dell'esperienza, che «in te é la sorgente della vita e alla tua luce vediamo la luce» (Sal 35, 10).
 
MESSALE

Antifona d'Ingresso 
Sal 32,11.19
Di generazione in generazione
durano i pensieri del suo Cuore,
per salvare dalla morte i suoi figli
e nutrirli in tempo di fame.
 
Colletta

O Padre, che nel Cuore del tuo dilettissimo Figlio ci dai la gioia di celebrare le grandi opere del tuo amore per noi, f
a' che da questa fonte inesauribile attingiamo l'abbondanza dei tuoi doni. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te...
 
Oppure:
O Dio, fonte di ogni bene, che nel Cuore del tuo Figlio ci hai aperto i tesori infiniti del tuo amore, f
a' che rendendogli l'omaggio della nostra fede adempiamo anche al dovere di una giusta riparazione. Per il nostro Signore...
 
Oppure:
Dio grande e fedele, che hai fatto conoscere ai piccoli il mistero insondabile del Cuore di Cristo, formaci alla scuola del tuo Spirito, perché nella fede del tuo Figlio che ha condiviso la nostra debolezza per farci eredi della tua gloria, sappiamo accoglierci gli uni gli altri con animo mite e generoso, e rimanere in te che sei l'amore. Per il nostro Signore...

 

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura
   Os 11, 1. 3-4. 8-9
Il mio cuore si commuove dentro di me.

Dal libro del profeta Osea
Quando Israele era fanciullo, io l'ho amato
e dall'Egitto ho chiamato mio figlio.
A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore,
ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia,
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all'ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Èfraim,
perché sono Dio e non uomo;
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò da te nella mia ira.


Salmo Responsoriale   Is 12,2-6
Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza.
 
Ecco, Dio è la mia salvezza;
io avrò fiducia, non avrò timore,
perché mia forza e mio canto è il Signore:
egli è stato la mia salvezza.
 
Attingerete acqua con gioia
alle sorgenti della salvezza.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere,
fate ricordare che il suo nome è sublime.
 
Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose eccelse,
le conosca tutta la terra.
Canta ed esulta, tu che abiti in Sion,
perché grande in mezzo a te è il Santo d'Israele.

Seconda Lettura   Ef 3, 8-12. 14-19
Conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza.

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, a me, che sono l'ultimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia: annunciare alle genti le impenetrabili ricchezze di Cristo e illuminare tutti sulla at­tuazione del mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell'universo, affinché, per mezzo della Chiesa, sia ora manifestata ai Principati e alle Potenze dei cieli la multiforme sapienza di Dio, secondo il progetto eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, nel quale abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui. Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell'uomo in­teriore mediante il suo Spirito.
Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e di conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.


Canto al Vangelo   Mt 11,29
Alleluia, alleluia.

Prendete il mio giogo sopra di voi, dice il Signore,
e imparate da me, che sono mite e umile di cuore.

Oppure: 1 Gv 4,10
Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio
come vittima di espiazione per i nostri peccati.

Alleluia.



Vangelo   Gv 19, 31-37
Uno dei soldati gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.

Dal vangelo secondo Giovanni

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all'uno e all'altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». Parola del Signore.

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COMMENTI
CONGREGAZIONE PER IL CLERO 
 
La Chiesa tutta si riunisce, oggi, nel celebrare il Sacratissimo Cuore di Cristo, come animata dal desiderio di obbedire alle parole del Profeta Isaia: «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della Salvezza» e «rendete grazie al Signore e invocate il Suo Nome, proclamate tra i popoli le Sue opere» (Is 12,3-4).
Siamo, quindi, riuniti in questa Celebrazione Eucaristica per dissetarci al Sacro Cuore e per proclamare l’Opera della nostra Salvezza, che in questo Cuore è tutta contenuta. Il cuore umano, infatti, la cui immagine è già di per sé simbolo di amore, è divenuto in Cristo il “compendio reale” dell’Amore di Dio per gli uomini; Amore che, di fronte all’indifferenza di Israele arriva a dire: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8); Amore che supera ogni nostra capacità di bene e di comprensione, tanto da affermare, dinanzi al rifiuto: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira […] perché sono Dio e non uomo» (Os 11,9).
Il Cuore di Cristo, però, non solo “simboleggia”, a mo’ di metafora, l’Amore di Dio, ma ne è la concreta e perfetta realizzazione, la Presenza stessa, viva e vivificante. La Chiesa, infatti, non celebra appena un generico ed indefinito amore, né soltanto loda le opere che Dio ha compiute per noi, come se fossero un ricordo lontano dal quale, ancora, traiamo beneficio, né tantomeno promuove un malinteso sentimentalismo, al quale certa cultura laicista vorrebbe ridurre il prezioso senso della “devozione” cristiana. La Chiesa, piuttosto, “adora” il Sacro Cuore. Adora il Cuore della Santissima Umanità di Gesù, che, ipostaticamente unito alla Persona del Verbo divino, è destinatario “legittimo” del culto di latria.
Dinanzi al Cuore di Cristo, quindi, la Chiesa piega le ginocchia e in esso contempla il Dio-con-noi, il Quale, non contentandosi di chiamare ed educare gli uomini attraverso la voce dei profeti, si è fatto “uomo” Egli stesso, nel grembo di Maria, ci ha amato di un amore tutto divino e tutto umano, e ha preso su di sé il nostro peccato, versando in cambio tutto il Suo Sangue.
La Chiesa, inoltre, adora e contempla il Cuore di Cristo come il suo proprio Cuore, poiché Ella, con Cristo, – direbbe San Tommaso – forma una Mystica Persona. Infatti, al Cuore di Cristo, in virtù del Battesimo e della Confermazione, è intimamente legato ogni cristiano, chiamato così a conformare il proprio cuore a questo Principio di Amore che arde in lui e che, con la preghiera e la fruttuosa ricezione dei Sacramenti, con l’ascolto della Parola di Verità e le opere buone, che Dio ci dà da compiere, arriverà a pervadere, purificare e illuminare sempre più tutta la sua persona.
In maniera specialissima, poi, sono legati al Sacratissimo Cuore di Gesù tutti i sacerdoti. Essi – come amava dire il Santo Curato d’Ars – sono “partecipi dell’Amore del Cuore di Gesù”, poiché è il Suo Amore Sacerdotale che rendono Presente, specialmente con la Celebrazione Eucaristica e con l’amministrazione di quella Misericordia infinita, di cui questo Cuore è traboccante. Approfondendo sempre più l’intimità con Cristo, poi, essi sono chiamati a volere ciò che Lui vuole, ad avere in sé i Suoi stessi sentimenti, la Sua stessa Carità pastorale, arrivando a soffrire sinceramente per la non corrispondenza degli uomini all’Amore, a intercedere incessantemente per loro e ad offrire la propria stessa vita in atto di continua riparazione.
Per questa ragione, la Chiesa Universale colloca in questa Solennità la Giornata Mondiale di Preghiera per la Santificazione del Clero, consapevole che, pregando per la santità dei suoi sacerdoti, Ella otterrà frutti di santità anche per tutti i fedeli, che dalle mani e dalle labbra dei ministri sacri ricevono gli indispensabili mezzi di salvezza, la verità evangelica, lo stesso Cristo Signore.
Preghiamo quindi con fede sincera, consapevoli di essere preceduti e accompagnati da Colei che è la Stella del Mattino, la Quale ha precorso quel Sole che, dal Suo grembo purissimo, sarebbe sorto, e che, ora, attende, come nostra vera Madre, il nostro nascere con Cristo alla Vita eterna. Il Suo Cuore Immacolato interceda incessantemente per noi, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen!


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Di seguito l'omelia tenuta questa sera 14 giugno dal cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), durante la Messa celebrata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione della solennità del Sacro Cuore (domani, 15 giugno).
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Autorità Accademiche
Docenti e Personale dell’Ateneo
Cari fratelli e Sorelle
E’ motivo di gioia poter celebrare la divina Eucaristia per l’Università Cattolica, cara alla Chiesa e all’Italia. Un saluto particolare al Magnifico Rettore, il Sig. Ministro Prof. Lorenzo Ornaghi e all’Assistente Generale Mons. Sergio lanza. L’Ateneo fu una felice intuizione del Beato Giuseppe Toniolo e fortemente voluta da Padre Gemelli quale fucina di intelligenze, di formazione, di cultura cattolica.
Com’è noto, si sentiva forte l’esigenza di un crogiolo di alto livello dove l’incontro tra ragione e fede, Vangelo e cultura, potesse avvenire non in modo occasionale ma sistematico, onesto e sereno, come metodo virtuoso e fecondo a beneficio dell’uomo e della società. E, con l’aiuto di Dio, così è stato nella storia del nostro Paese, alimentando in modo proprio – come in modi diversi nelle molteplici comunità cristiane – quella visione integrale della persona, aperta e trascendente, che sta al cuore dell’umanesimo cristiano e che ha ispirato la civiltà italiana ed europea.
Questa iniziale ispirazione non è affatto superata: i tempi sollecitano a continuare con coraggio ed entusiasmo la strada dei padri in un rinnovato sforzo di riflessione culturale alta a tutto campo. La necessaria cultura della specializzazione non deve diventare frammentazione, e nessuna ricerca specifica deve mai perdere il riferimento all’insieme antropologico che sembra essere oscurato o trascurato dal dibattito contemporaneo.
Come sarebbe possibile, infatti, affrontare in modo adeguato le questioni odierne – penso alla bioetica, alla biopolitica, alla famiglia, al bene della libertà di educazione e di religione, ma anche al diritto e alla medicina – senza una visione antropologica completa e aperta?
E come contribuire in modo efficace e argomentato alla volontà di ridefinire le cose - compreso l’uomo, l’autonomia, l’amore, la vita, la famiglia – come se tutto fosse a nostra assoluta disposizione? Oggetto di qualunque opinione individuale e culturale? La pretesa di tutto ridefinire in base a criteri di pura soggettività, si rivolta contro l’uomo stesso che inevitabilmente diventa anch’esso oggetto di manipolazione di poteri forti in grado di condizionare il modo di pensare e di vivere.
Se lo studio è palestra dell’intelligenza, e quindi disciplina globale della persona nel suo essere persona e nel suo stare con agli altri, allora possiamo dire che tra studio e libertà responsabile esiste un rapporto intrinseco, e il mondo accademico deve essere scuola di intelligenza per la ricerca della verità oggettiva, di libertà per saper scegliere il bene vero, di cuore per poter amare la società e le persone anche con il sacrificio di sé.
Cari Amici, il Vangelo appena ascoltato ci ricorda la bellezza dell’amore, non di qualche suo fantasma, ma della sua sostanza. E’ l’amore, infatti, l’anima della legge di Dio: senza l’amore i comandamenti diventano un volontarismo scoraggiante, e senza i comandamenti l’amore resta astratto, senza opere coerenti che lo rendano visibile. Resta un semplice slancio, una velleità anche sincera ma momentanea, che dura quanto il soffio del sentimento.
Ma, ci chiediamo: di quale amore si tratta? Chiaramente del nostro amore per Dio che in Gesù si è rivelato a noi. E’ il nostro amore per Lui che si traduce nella legge di Dio, nelle sue Opere. Ma come possiamo noi, creature, amare Dio fino ad operare per Lui, fino a obbedirGli, a servirLo? Ci sentiamo così insufficienti!
Sant’Agostino ci ricorda che lo stesso Cristo ci dona la sua volontà e ci dona di amare la sua volontà! E questo rende possibile tutto, anche il martirio. Dobbiamo quindi chiedere con fede il dono dell’amore a Dio la cui verità è l’Amore. Chiediamo noi questo?
Dobbiamo, però, fare un passo avanti. Nel Vangelo, infatti, il Signore esemplifica l’osservanza dei comandamenti, e ci conduce nel loro centro: “Non uccidere: chi avrà ucciso sarà sottoposto al giudizio. Ma io vi dico; chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio”. La legge dell’amore conduce al cuore dei comandamenti: ci porta nel profondo.
Anzi, ci porta in alto, fuori da una lettura grossolana e superficiale. Questa finezza della coscienza è frutto di una coscienza illuminata dall’amore e dalla verità. E la finezza dell’amore non è qualcosa di raffinato e di esile, ma ha la forza di spostare le montagne e di correre sulle funi della vita pur di non venire a compromessi, pur di non diventare dei mercanti.
In questo orizzonte, si comprende anche il monito di Gesù sul nostro andare all’altare: sapere che il fratello ha qualcosa contro di noi ci deve sollecitare ad andare da lui per riconciliarci. Il Signore non dice se noi abbiamo qualcosa contro, ma se l’altro ha rancore verso di noi. Capovolge, dunque la prospettiva del semplice buon senso; ma non è forse questa la logica di chi ama? La sensibilità di chi vuole vivere nel dono di sé? L’esperienza del profeta Elia ci conforta e ci salva da ogni scoraggiamento.
E’ il Signore che dona l’acqua che irriga e feconda. E’ Lui l’acqua viva della grazia, che vivifica l’anima, la disseta nelle arsure delle proprie fragilità, la feconda nelle sue aridità, la incoraggia per guardare avanti. E’ l’acqua del pellegrino nei deserti del suo andare terreno. Per questo non dobbiamo temere. Anche nelle vicende complesse delle vita, davanti alle prove e alle incertezze, non dobbiamo perdere la fiducia; dobbiamo mantenere la speranza non tanto nelle nostre forze o nei nostri programmi, ma nel Signore che non ci abbandona, nella possibilità di capirci, di guardare a Lui insieme e quindi al nostro futuro. Dio è con noi.
Cari Amici, grazie per la vostra presenza e il vostro lavoro. La Chiesa che è in Italia guarda all’Università Cattolica con simpatia e fiducia: il Sacro Cuore ci benedica tutti.


 APPROFONDIMENTI





Pubblico di seguito un testo profondissimo sul Sacro Cuore di un profeta dei giorni nostri: don Divo Barsotti. Tratto da un ritiro predicato a Bologna 21 giugno 1968.

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La testimonianza del Quarto Vangelo
Come mai la Chiesa ha scelto questo Vangelo di Giovanni nella festa del Sacro Cuore? La risposta a una simile domanda sembra assai facile e potrebbe essere anche semplicemente questa: perché è l'unico passo del Vangelo che ci parla, almeno indirettamente, del cuore di Gesù. La lancia che di fatto trafigge il costato di Gesù è anche la lancia che cerca, attraverso il costato, quel cuore divino per ferirlo e così garantire la morte di colui che era stato condannato.
Ma questa risposta non sembra giustificare fino in fondo la scelta. Ci deve essere una ragione più profonda. E la ragione più profonda ci viene suggerita dall'evangelista medesimo il quale, parlandoci di questa ferita al costato, ce ne parla con una solennità che è del tutto inusitata nel Quarto Vangelo. Si richiama infatti alla veracità della sua testimonianza, ed è strano perché mai, durante lo svolgersi degli eventi nel Vangelo, l'evangelista si richiama a questa veracità. Ci tiene veramente che gli uomini credano che è avvenuto quello che egli ha scritto e che cioè, essendo morto il Signore, un soldato con la lancia trafisse il suo costato. II linguaggio dell'evangelista veramente ci sorprende, ed è difficile capire che valore egli annetta a questo avvenimento. Sembra che dopo egli voglia spiegarlo. Questo è avvenuto – dice infatti l'evangelista – perché si adempissero le parole della Sacra Scrittura, la quale dice: «...vedranno Colui che hanno trafitto» (cfr. Gv 19, 37).
Ma tante altre volte l'evangelista aveva notato come negli avvenimenti del Cristo si adempissero le antiche scritture e l'aveva detto con tanta semplicità. Perché ora tanta importanza? Evidentemente bisogna andare oltre quello che l'evangelista esplicitamente ci insegna; dobbiamo andare all'intenzione segreta che lo guida nel narrare l'avvenimento.
L'Agnello pasquale e i sacramenti divini
E allora vediamo a quali profezie l'evangelista accenna. La prima è quella dell'agnello pasquale: «...non gli sarà spezzato nessun osso» (cfr. Es 12, 46). Ora, una cosa molto importante è questa: se voi leggete il Quarto Vangelo, dal capitolo 18 in poi, vedrete che l'evangelista ha cura di presentarci la Passione di Gesù come la manducazione dell'Agnello pasquale. E Giovanni narra tutto questo al contrario dei Vangeli sinottici, nei quali la cena dell'Agnello pasquale, l'Ultima Cena, avviene il giorno prima della Passione, mentre – lo avrete notato – nel Quarto Vangelo l'Ultima Cena non c'è. Si parla dei discorsi dopo la cena, ma all'Eucaristia non si accenna nemmeno. Che la cena sia la cena pasquale, che la cena sia l'istituzione dell'Eucaristia, che la cena sia il sacrificio della nuova alleanza, tutto questo l'evangelista non Io dice. Perché? È stata sostenuta la teoria secondo la quale san Giovanni non ripete mai quello che dicono gli altri evangelisti. Non è vero nulla: la Passione, san Giovanni ce la narra tutta per disteso, come ce la narrano per disteso gli altri evangelisti.
Di un fatto come quello dell'istituzione dell'Eucaristia, come mai san Giovanni non ce ne parla? Certamente egli sa, egli conosce, ma perché non ce ne parla? Ve lo siete mai domandato? Ma è semplicissimo: perché la cena pasquale, la manducazione dell'agnello, che cosa è? È la morte di croce. Leggete il Quarto Vangelo e vedrete che durante la narrazione della Passione san Giovanni ci dice che i Giudei non entrarono nel pretorio per non contaminarsi, per poter mangiare la pasqua, perché quel giorno, la sera, si doveva mangiare la pasqua (cfr. Gv 18, 28).
Ora, cosa avviene secondo il Quarto Vangelo la sera, quando Israele deve mangiare la pasqua? È semplicissimo: muore Gesù. E come muore? Come l'agnello, senza che gli sia spezzato nessun osso. Ma allora che valore ha la trafittura del costato? Che cosa facevano gli Israeliti quando avevano cotto l'agnello? Se lo mangiavano, ma l'agnello è la figura del vero Agnello. Il nuovo Israele che cosa farà, allora? Mangerà l'Agnello. Eccola la trafittura del costato! Che cosa implica? Il versamento del sangue e dell'acqua. Ora, nel sangue e nell'acqua che versa il costato trafitto l'evangelista che cosa vede? L'Eucaristia: il sangue. II Battesimo: l'acqua.
I sacramenti divini sono come la manducazione dell'Agnello. Allora voi vedete l'importanza della trafittura del costato nel Quarto Vangelo: è la nuova Pasqua del nuovo Israele, la morte di croce. Ma la Pasqua, la Passione, il sacrificio dell'Agnello non salva fintanto che tu non entri in comunione con la vittima, non mangi la vittima; allora il sacrificio della croce è inseparabile, per il Quarto Vangelo, dai sacramenti in cui l'Agnello immolato viene anche mangiato dai fedeli. L'Agnello immolato diventa anche l'alimento della vita soprannaturale del nuovo Israele.
La visione di Dio
Sì, ma non basta. Guardate che san Giovanni non dice soltanto che si adempì, nella trafittura del costato di Gesù, la profezia dell'Esodo – «...non gli sarà spezzato nessun osso» (Es 12, 46). Dice qualche cosa di più; dice anche che si adempirono in quegli avvenimenti le parole del profeta, il quale dice: «Vedranno Colui che hanno trafitto» (cfr. Zc 12, 10). E qui un altro problema: che cosa vedranno? Quello che vuol vedere Israele. E che cosa vuol vedere Israele? Avete presente cosa chiede Mosè a Dio dopo l'alleanza del Signore? «O Dio, fammi vedere la tua gloria» (cfr. Es 33, 18). E cosa dice Filippo a Gesù durante i discorsi che seguono la lavanda dei piedi? «Facci vedere il Padre e ci basterà» (cfr. Gv 14, 8). E che cosa risponde Gesù a Filippo? «Come? È tanto tempo che sono con voi e non mi avete conosciuto? Filippo, chi vede me vede il Padre» (cfr. Gv 14, 9). Ora, con la ferita del costato di Gesù si adempirono le parole del profeta: «Vedranno Colui che hanno trafitto». La dottrina che sta in queste parole è stupenda.
La rivelazione suprema di Dio si ha nell'atto in cui Gesù muore trafitto da noi. Cioè, la suprema rivelazione di Dio non è soltanto la morte di croce, ma la morte di croce come provocata dal peccato umano. E che cosa vogliono dire queste parole? Vogliono essere il commento alle altre parole di san Paolo nella Lettera ai Romani: «In questo Dio manifesta...» – notate l'espressione «manifesta» – «...la sua carità per noi: che, essendo noi peccatori, Cristo per noi morì» (cfr. Rm 5, 8).
La rivelazione di Dio raggiunge la massima sua luce, la massima sua pienezza, quando si manifesta il suo amore, in quanto è un amore che tanto più è grande quanto più si rivolge a dei peccatori, i quali, nell'istante medesimo in cui Dio si dona, l'offendono. L'atto della suprema offesa – non si risparmia nemmeno un morto – diviene l'atto della suprema rivelazione. Quello che è stato, da parte dell'uomo, il massimo dell'offesa diviene, per Iddio, la condizione per il massimo della rivelazione della sua grandezza, della sua gloria, della sua immensità, della sua infinità: ma come immensità, come gloria di amore, di amore che vince ogni cosa.
La Comunione eucaristica
Vedete le parole del Vangelo – se noi meditiamo appena un pochino, basterebbe levare un po' la polvere di sopra – che meraviglie ci insegnano! Che meravigliose verità si scoprono! La prima: la ferita del costato per Giovanni è il compimento del sacrificio del nuovo Agnello pasquale, perciò la nuova Pasqua, la Pasqua alla quale tutto il nuovo Israele comunica nella manducazione di questo Agnello; manducazione o comunione con questo Agnello che avviene, per il nuovo Israele, attraverso i sacramenti: l'acqua e il sangue. Di qui deriva un fatto molto importante. Rendiamoci conto che, ogni qual volta noi mangiamo questo pane o beviamo di questo calice, noi comunichiamo con la Vittima, con l'Agnello di Dio, noi viviamo la Pasqua, noi siamo salvi.
E rendiamoci conto che la Comunione eucaristica implica veramente la partecipazione alla Pasqua del Signore, implica veramente la comunione con la vittima immolata, implica veramente una comunione con Dio in noi, come alimento della nostra vita e come garanzia di una nostra salvezza. Notate che l'agnello che Israele deve mangiare prima di essere liberato dalla schiavitù dell'Egitto è l'agnello che inizia la liberazione.
II sacrificio dell'agnello inizia la liberazione dall'Egitto, poi dà la forza per tutto il cammino. Si mangia per poter viaggiare; infatti quegli uomini dovevano viaggiare, per questo avevano il bastone in mano. Ecco l'Eucaristia per noi: manducazione della Vittima immolata, celebrazione della nuova Pasqua cristiana perché poi tutto Israele, nella forza di questo cibo, possa intraprendere un cammino che lo porti fino a Dio. Questo è il primo senso che ha l'avvenimento nel Quarto Vangelo. La vita eterna
Il secondo è ancora più bello. In che consiste la vita eterna? Nel conoscere Dio, ci dice il Quarto Vangelo (cfr Gv 17, 3). E d'altra parte ce lo dice tutta la teologia. Quando saremo in Paradiso, che cosa faremo? Vedremo Dio. La visione di Dio: non è questo il Paradiso? Ma il Paradiso è anticipato già quaggiù, perché noi possiamo vedere Dio, e lo vediamo realmente nell'infinità di un amore che sembra tanto più manifestarsi, essere grande, quanto più grande è l'odio che infierisce contro di Lui. La suprema offesa dell'uomo diviene veramente la condizione perché tutto l'oceano infinito dell'amore divino si manifesti e risplenda dinanzi al nostro sguardo. Non abbiamo mica bisogno allora di andare in Paradiso: basta vedere Gesù che muore.
E notate una cosa molto importante: alcuni Padri della Chiesa orientale dicono che anche in Paradiso non si vedrà Dio direttamente – noi non possiamo dirlo, ma comunque questi lo dicono –, ma vedremo Gesù, perché in Cristo Dio si manifesta totalmente, pienamente. Ed è quello che sembra dirci, in fondo, il Quarto Vangelo: vedere Gesù è vedere il Padre.
Ma vedere Gesù come? Non in ogni mistero ma nel mistero del suo cuore trafitto. È questo mistero del cuore trafitto che manifesta agli uomini l'impenetrabile grandezza di Dio e dà all'uomo una conoscenza dell'amore divino che supera ogni scienza, come noi abbiamo letto nell'Epistola della Messa di oggi. Ed è a queste parole che si richiama poi l'Apocalisse stessa. E, notatelo bene, l'Apocalisse dice che tutti lo vedranno. Però il vederlo tutti, il vedere Dio in Gesù crocifisso, in Gesù trafitto, può essere per gli uni Paradiso, per gli altri Inferno.
Perché? Perché l'Inferno nostro è misurare fino in fondo che cosa mai abbiamo fatto nei confronti di Dio: la ferita. Per noi Paradiso è invece il vedere come in questa ferita risplenda l'Amore. Se tu rimani fermo in te stesso e guardi te stesso, la visione del Cristo, o piuttosto la presenza del Cristo manifesterà a te con ripugnanza invincibile, con terrore spaventoso, soltanto l'orrore del tuo peccato. Hai offeso Dio, l'hai ferito nel suo intimo cuore! Per coloro invece che non guardano a se stessi, ma guardano il Cristo, la ferita stessa del suo costato diviene l'inenarrabile rivelazione di un amore immenso, di un amore infinito, e in questa rivelazione essi troveranno già il Paradiso.
È Lui il nostro Inferno ed è Lui il nostro Paradiso: Inferno se tu contempli in Lui soltanto il tuo peccato, Paradiso se tu contempli in Lui il suo Amore. Se tu rimani chiuso in te stesso, è la presenza del Cristo che ti fa consapevole eternamente dell'orrore del tuo peccato, dell'infinita malizia del tuo male, della gravità infinita dell'offesa che gli hai recato. Se invece, uscendo di te stesso vorrai contemplare Lui solo, la ferita che tu gli hai inferto diviene per te, invece, la condizione di una visione infinitamente più grande di ogni visione, perché nessuna conoscenza filosofica ci potrebbe dire chi è Dio come ce Io dice il cuore del Cristo, il cuore del Cristo trafitto.
La visione del Cristo trafitto è la rivelazione suprema dell'amore divino, di un amore che non solo – rendetevene ben conto – non trova un ostacolo nel peccato, ma trova invece nel peccato dell'uomo una provocazione a manifestarsi ancora più grande.
Che bellezza essere peccatori! Sì, è una bellezza nella misura che tu esci di te stesso per affidarti al suo amore, per credere al suo amore.
La santità è credere all'amore di Dio
La cosa bella è che noi vediamo proprio in noi stessi, nella nostra povertà, una condizione a una manifestazione ancora più grande della misericordia di Dio. Se fossimo santi, Dio ci metterebbe pochino ad amarci: amare una persona amabile, buona, è naturale. L'amore diviene grande quando si rivolge ad uno che è pezzente, sudicio, cattivo. Allora si manifesta grande l'amore! È proprio grande l'amore di un giovanotto che ama una bella ragazza? O non è più grande l'amore di un san Camillo de Lellis che vive ai piedi del letto degli appestati e vive tutta la sua vita in una donazione totale di sé per questi uomini abbandonati da tutti? Io sono proprio contento di essere così piccino, così misero, perché veramente è proprio questo che manifesta più grande l'inconcepibile amore di Dio verso di me. Ed è questo che noi non riusciamo a capire.
Noi non riusciamo a credere all'amore di Dio perché siamo troppo piccini. Ma è questo invece che manifesta grande l'amore dì Dio. Se noi fossimo veramente degni del suo amore, Dio ci amerebbe ben poco. Ma proprio in questo Dio manifesta l'amore: Egli è tutto per noi! Cristo morì per noi, pur essendo peccatori. Ed è questa, vedete, la santità dell'uomo: tutta la santità nostra è credere nell'amore di Dio nonostante quello che siamo. Anzi, proprio per motivo di quello che siamo, credere all'amore di Dio.
Siete miseri, siete deboli, siete imperfetti? Oh, che meraviglia! Come più grande risplende per voi quest'amore infinito che tutto a voi si dona! Perché non è affatto vero che Egli si doni a metà, non è affatto vero che il vostro peccato impedisca a Dio di amarvi, anzi: è il contrario che è vero! È il vostro peccato che provoca più grande la sua misericordia, naturalmente se voi credete in questo amore, naturalmente se voi vi aprite ad accogliere questo amore; se voi sapete uscire da voi stessi per affidarvi all'Amore infinito.
La dottrina del Sacro Cuore, veramente, non è tutta qui: c'è anche la riparazione. Ma questi due punti del Vangelo – «...non sarà spezzato nessun osso»; «...vedranno Colui che hanno trafitto>) – sono i capisaldi di tutta la teologia del Sacro Cuore. Nel primo, abbiamo questa Pasqua, questa Cena che ci comunica veramente il Corpo e il Sangue di un Dio, e facendoci comunicare alla vittima sacrificata dona all'anima nostra la forza di continuare il nostro cammino in una comunione permanente con Dio.
Notate bene una cosa che dobbiamo dire oggi, specialmente in questa Chiesa che è in crisi. La vita cristiana non è un cammino verso Dio, perché non c'è un cammino dell'uomo verso Dio: tutto nasce da Dio. Se Dio non si comunicasse a noi per primo, se Dio non vivesse in noi, sarebbe inutile pensare e parlare di processo ascetico, di esercizi, di vita interiore, di amore del prossimo: tutte storie che valgono meno di un soldo! Sono atti umani, e l'uomo non può altro che girare intorno a se stesso. Se l'uomo parte da Dio, allora può anche procedere verso l'uomo, ma se l'uomo vuole procedere attraverso l'uomo verso Dio, rimane nell'uomo, perché Dio rimane inaccessibile. Dall'uomo a Dio non vi è strada; è in Dio che tu trovi la forza di comunicare con gli altri e di fatto, comunicando all'Agnello, ecco si inizia il cammino: comunicando all'Agnello tu puoi ora intraprendere il tuo pellegrinaggio verso la terra promessa. Questo per il primo punto.
Il secondo è così bello! «Vedranno Colui che hanno trafitto»: davvero allora il Cuore diviene per noi il Paradiso! Se tu sai davvero credere a questo amore divino, gli stessi tuoi peccati divengono per te una condizione per godere di più di essere amato per nulla. Certo, il peccato non può divenire la condizione per essere amato di più fintanto che tu non ripudi il peccato, cioè non rinunzi a te stesso per gettarti nella misericordia, per gettarti in questo amore infinito. Ma se ti getti in questo amore infinito, gli stessi tuoi peccati divengono la condizione perché tu possa sperimentare e conoscere, tu possa vedere chiaramente l'infinità di questo amore, la gratuità di questo amore, la pienezza di questo amore immenso in cui chiaramente si manifesta Dio.
Dio si manifesta in questo e non nell'essere simile a noi. Ma noi, molto spesso, lo vogliamo fare simile a noi. Ricordate quello che dice Dostoevskij nel libro I fratelli Karamazov? Proprio questo dice: Dio ci ha fatto a sua immagine e somiglianza, ma molto spesso l'uomo vuol fare Dio a propria immagine e somiglianza. Si invertono le parti, ed è questo precisamente il pericolo di tanti cristiani, i quali credono di poter proporzionare Dio ai loro piccoli pensierucci, e perciò non sanno credere all'amore di Dio perché si sentono peccatori. Per me uno dei più grandi santi è davvero il buon ladrone, non vi sembra? Uno che si accaparra il Paradiso in un istante solo ed è il primo che vi entra! Che meraviglia, per uno che non era altro che un assassino, il dover fidarsi totalmente dell'amore infinito: l'abbandono pieno, assoluto, di sé nelle braccia della misericordia divina! Questo è il Paradiso, perché questa è la rivelazione suprema di Dio, e Dio non è che l'Amore: un amore infinito, un amore immenso, un amore gratuito, un amore preveniente, un amore che non ha altra ragione che sé medesimo. Egli ama perché ama, Egli ama per amare, e non ha dunque motivo in me di amarmi.
Il peccato stesso diviene la condizione perché io sia amato di più perché, naturalmente, se io offro all'amore divino un vuoto più grande, Egli può riempire di più. Che bellezza dunque poter dire con santa Teresa del Bambino Gesù, se non abbiamo peccato: «Signore, Tu mi hai perdonato tutti i peccati che non ho fatto, perché in me questa possibilità tutta vi era, e se non ho peccato il merito non è certamente mio». Ed è vero, sapete? Se fossi nato in un altro momento o da altre persone, se mi fossi trovato in altre condizioni, potevo essere un adultero, potevo essere un libertino, potevo essere un assassino. E voi no? E allora vedete che abbiamo tutti da essere contenti perché, in fondo, anche se non abbiamo peccato realmente, noi siamo già stati perdonati prima di avere peccato. Cioè, all'inizio di tutta la nostra vita non c'è che misericordia: un'infinita misericordia, un amore senza perché. E proprio perché è un amore senza perché, noi di questo amore possiamo fidarci indipendentemente da quello che siamo, da quello che abbiamo fatto.
Ora si inizia il rito di consacrazione di una nostra sorella. Vi prego di accompagnarla nell'atto che ella è per compiere, perché il Signore apra veramente il suo cuore ad accogliere queste onde vivificanti dell'amore infinito e perché, rinnovata dal sangue divino, ella non viva più che di fame e di sete di questo corpo del Signore. E anche perché, nella visione di questo amore immenso, ella possa procedere sempre più rapidamente, ma anche inoltrarsi sempre più nel centro di questo mistero che è il mistero dell'amore infinito di Dio. Che la sua debolezza, la sua povertà siano per lei un motivo ancora maggiore di gioia per sentirsi amata da Colui che è l'Amore.
Prima meditazione
Dio si rivela attraverso l'amore
Bisogna cercare di approfondire un poco quello che abbiamo detto nell'omelia della Santa Messa, e l'approfondimento dell'omelia si farà precisamente continuando un'esegesi della Sacra Scrittura che ci possa permettere non, naturalmente, di sondare la profondità di questi testi ispirati, ma almeno di intravedere questa profondità, perché realmente ogni parola di Dio ha qualcosa di immenso, e noi tante volte leggiamo senza apprendere nulla o ben poco.
Si è detto prima che uno dei temi fondamentali del Vangelo è quello della visione: nella ferita del Cristo l'evangelista contempla Dio. Dio si rivela nel modo più perfetto e più alto non solo nell'umanità di Gesù, ma in Gesù che muore, in Gesù che anche nella sua morte è oltraggiato dal soldato che ne squarcia il costato. È l'amore infinito di Dio che si rivela in questo avvenimento, così che esso diviene, per l'evangelista, la suprema rivelazione di Dio all'umanità. Se noi vogliamo conoscere Dio, lo possiamo conoscere soltanto attraverso il crocifisso: il mistero di questo Amore immolato, di questo Amore donato, di questo Amore che dagli oltraggi non trae motivo per rifiutarsi o per misurare il suo dono. Trova piuttosto, negli oltraggi che subisce, una nuova condizione a donarsi di più, una nuova condizione ad effondersi ancora più largamente.
Ma di che rivelazione si parla? La vita cristiana non è una conoscenza come può averla un teologo, conoscenza scientifica un po' arida. Sia pure che anche la teologia può alimentare la vita spirituale: ma bisogna proprio conoscere la teologia per conoscere Dio? Di che visione si parla: «Vedranno Colui che hanno trafitto»?
Oh, mie care figliole, mi sembra che sia così semplice da dover dire che è elementare. E la spiegazione di queste parole la si ha se noi esattamente le traduciamo. Vedere Dio, conoscere Dio, secondo l'apostolo Giovanni, che cosa vuol dire, attraverso il testo del Santo Vangelo? Vuol dire conoscere l'Amore. Ma si può conoscere l'Amore senza sentirsi amati? Quando in realtà voi avete conosciuto l'amore, se non quando avete amato e vi siete sentite amate da un altro? Così ancora: Dio si può conoscere come un essere perfettissimo ma separato da noi, estraneo alla nostra vita, totalmente trascendente il piano umano e separato dall'uomo? No certo! Conoscere Dio vuol dire sentirci amati da Lui, posseduti da Lui, vuol dire essere veramente colmati e sommersi dall'infinità di questo amore divino. Così, nella morte di croce del Cristo, così nel Cristo trafitto dalla lancia del soldato, noi sì, veniamo a conoscere Dio, ma in quanto attraverso questo mistero noi impariamo che cosa voglia dire essere amati, noi anche sentiamo di essere amati, noi anche ci lasciamo possedere da Colui che è l'Amore.
Conoscere Dio dunque, si noti bene, non è atto dell'intelligenza. Se fosse puramente atto dell'intelligenza, quanti di noi ci dovrebbero rinunziare! Certo, abbiamo una certa intelligenza, ma così povera, così piccina! Eppure anche noi siamo chiamati alla santità, eppure anche noi dobbiamo, nella visione di Dio, possedere la beatitudine eterna! E siccome la visione del Cristo con il suo cuore trafitto è già come un'anticipazione del cielo, proprio questa visione noi non possiamo pensarla come una conoscenza puramente astrattiva, scientifica, teologica. È la conoscenza di chi ha l'amore. Vedete, il termine usato nella Sacra Scrittura per indicare la conoscenza di Dio, è il termine usato nel rapporto dell'uomo con la donna: conoscere Dio vuol dire possedere Dio ed essere posseduti da Lui.
Allora: «...vedranno Colui che hanno trafitto» è un'espressione della Sacra Scrittura che, nel linguaggio di Giovanni, che la ricorda a proposito della ferita del costato, vuol significare quella conoscenza sempre più intima che ognuno di noi deve acquistare di Dio, via via che lo ama, via via che si lascia possedere dall'amore di Lui. Conoscere Dio non si può senza amare; conoscere Dio vuol dire soprattutto essere amati, sentirci amati, lasciarci possedere da Lui che è l'Amore.
«Vedranno Colui che hanno trafitto»: che cosa vogliono dire le parole dell'apostolo Giovanni? Vogliono significare in fondo che tutta la vita cristiana è come un processo verso una conoscenza intima, trasformante; verso una conoscenza affinatrice, una conoscenza di vita, che si identifica al medesimo Amore. Noi impariamo a conoscere l'amore di Dio in quanto ci sentiamo perdonati da Lui, ma anche in quanto sentiamo che, non soltanto Egli ci dona il perdono ma ci dona se stesso. Egli non limita il dono che fa all'uomo, perché di fatto Egli si dà fino all'esaurimento di tutto: ecco perché proprio dal costato squarciato non escono più che l'ultimo sangue e le ultime gocce d'acqua. Dio, che è infinito, sembra aver esaurito l'infinità del suo amore. E tu questo devi sperimentare, se devi conoscerlo, perché non si conosce l'amore fin tanto che non ci sentiamo amati.
La vita cristiana è sentire l'amore di Dio
Allora vivere la vita cristiana vuol dire sentirci amati da Dio, credere di essere amati, sapere di essere amati. Ma anche conoscere, sperimentare quest'amore divino che sempre più in Sé ci trasforma e sempre più fa intima quella comunione di vita che ci unisce a Lui, che è l'amante, noi che siamo gli amati. Quante volte noi pensiamo che conoscere Dio voglia significare soltanto delle idee corrette sul suo conto! Non si tratta affatto di questo.
Nella vita spirituale la conoscenza e l'amore sono un unico, indivisibile atto: si conosce soltanto nella misura che si ama, si ama soltanto nella misura che si conosce. L'amore implica conoscenza; io non amo realmente un'altra persona se realmente non la conosco. Ma conoscerla vuol dire penetrarla fino in fondo, e tanto più l'ami tanto più la conosci. Il mistero della persona umana non si rivela che all'amore, non si apre che all'amore. Ma se il mistero della persona umana non si rivela che all'amore, quanto più è l'amore che, soltanto, svela il mistero di Dio: l'amore di Dio per noi, ma anche l'amore nostro per Lui. È nel suo amore che Egli si lascia vedere, è nel suo amore che Egli si apre – il costato è aperto – perché noi possiamo entrare negli intimi penetrali di questo segreto divino. Ma è anche mediante il nostro amore che noi stessi Io conosciamo, così che non vi è conoscenza senza l'amore e non vi è l'amore senza una conoscenza.
È talmente vero questo, che nessuno di noi può dire di conoscere un altro se non nella misura in cui lo ama. Chi conosce – dopo Dio, intendiamoci – i vostri figli più di voi? La vera conoscenza della persona è solo frutto dell'amore. E questo è vero anche per Dio. Ecco perché, per conoscere e per vedere Dio, bisogna da una parte che Dio apra liberamente il suo cuore e ci ami, ma bisogna che anche noi entriamo in questo cuore divino attraverso un processo di amore. Ecco perché l'avvenimento della trafittura del cuore di Cristo richiama non solo alla visione di Dio, rivelazione dell'amore divino, ma richiama anche a una rivelazione che è frutto di amore, di amore reciproco: amore di Dio, che liberamente si dona e si lascia possedere; amore dell'uomo, che entra in Dio e lo vuol possedere tutto per sé. Questo dunque dobbiamo implorare dal Signore: che le parole del Vangelo si realizzino veramente per noi. E se l'evangelista ci ha detto che «vedranno Colui che hanno trafitto», si impone per noi che chiediamo al Signore che, fra coloro che vedranno Colui che hanno trafitto, ci siamo anche noi.
Ci sentiamo peccatori?
Si noti però un fatto molto importante. Noi possiamo chiedere a Dio di vederlo, di conoscere questo amore, ma l'evangelista stesso mette una condizione: che siamo noi ad averlo trafitto. Se non l'abbiamo trafitto noi, non lo conosceremo, non c'è nulla da fare. Bisogna dunque essere dei peccatori per conoscere l'amore divino. Vi sembra strano questo? Non è detto che tutti i peccatori conoscano Dio; bisogna però che l'anima sia cosciente del proprio peccato per imparare fino in fondo che cosa voglia dire essere amati da Dio, amati di un amore totalmente gratuito, di un amore di benevolenza, di quell'amore divino che distingue Colui che precisamente non solo ci ha amato per nulla, ma ci ha amati essendo noi peccatori. Ecco perché queste parole escludono da una conoscenza di Dio coloro che sono orgogliosi, che si credono santi, coloro che si credono dei galantuomini, coloro che non sentono il loro peccato, e perciò non sentono il bisogno di un perdono divino, e perciò non si sentono amati per nulla dal Signore.
Voi da questo imparerete che cosa voglia dire essere cristiani: il cristiano è sempre cosciente della sua debolezza e anche della sua colpevolezza, della propria reale miseria. E questa conoscenza del cristiano non è affatto per lui un motivo di scoraggiamento o di disperazione: è anzi la condizione, non dico la causa, ma la condizione, per poter conoscere Dio, perché allora noi veramente potremo conoscere Dio e il suo amore infinito, quando avremo coscienza di essere stati noi ad averlo offeso, ad averlo oltraggiato.
È qui che si manifesta infatti l'amore divino: nel fatto che, pur essendo noi così colpevoli verso di Lui, tuttavia Egli ci ha ricolmati d'amore, Egli ci ha sommerso d'amore, ci ha colmato d'infinita misericordia. I peccatori sono i prediletti del suo cuore! Vedete bene che anche nel Vangelo Nostro Signore è un po' ingiusto. L'amore non conosce ingiustizia, va oltre la giustizia. È forse una cosa ben fatta lasciare novantanove pecorelle che l'hanno sempre seguito per andare a cercare quella che era fuggita? Ma è così che il Signore fa! E a me piace più essere quella pecorella smarrita che una di quelle novantanove che sono sole, che il Signore ha abbandonato a se stesse. A me piace più essere quell'unica che ha abbandonato Lui, perché così sperimento quest'amore infinito che mi cerca, che mi vuole, che scende fino alla mia debolezza, scende fino alla mia miseria per sollevarmi a Sé.
Abbiamo coscienza della nostra debolezza, del nostro peccato! Non crediamo che il nostro peccato ci allontani da Dio! Ci allontana da Dio fintanto che lo amiamo, non quando il nostro peccato diviene per noi la condizione per implorare la divina misericordia e abbandonarci in modo ancor più pieno a quest'amore divino. Tutti noi siamo deboli e imperfetti, tutti noi siamo deboli e stanchi e tutti noi dobbiamo perciò aprirci ad accogliere l'Amore. Proprio per questo noi dobbiamo accogliere quest'amore divino che si dona e ci salva. Chiediamo al Signore, nello stesso tempo, dunque, la conoscenza di quello che siamo per non illuderci sulla nostra presunta santità. Dobbiamo conoscere veramente quello che siamo per poi conoscere Dio, per poi conoscere quest'amore immenso, quest'amore infinito di un Dio che allora davvero noi conosceremo quando impareremo come gratuitamente ci ha amato, come infinitamente ci ha amato, come senza alcun merito nostro ci ama e come, contrariamente ad ogni merito nostro, ci colma infinitamente di amore.
Seconda meditazione
II nuovo Tempio
Può darsi che il testo del Vangelo di stamani si apra ad altre considerazioni, che implicitamente contenga qualche altro richiamo, qualche altro tema. Certo che il Vangelo di stamani, la solennità almeno con cui san Giovanni narra l'avvenimento, fa pensare che l'evangelista veda chissà quali misteri, chissà quali grandezze in quel mistero e in quell'avvenimento. Ci richiama ad altri temi? Direi di sì, e l'altro tema a cui richiama il Vangelo di stamani è un tema che è soltanto implicito; direttamente non appare, però forse è il tema su cui richiama di più la liturgia della Chiesa e forse anche la pietà cristiana. Qual è questo tema? Dice il Vangelo di san Matteo che nella morte di Cristo il velo del tempio si squarciò (cfr. Mt 27, 51). Che cosa intende con queste parole san Matteo? Intende che la gloria di Jahweh lascia il tempio di Gerusalemme; ormai a un tempio è subentrato un altro Tempio. Un'altra volta la gloria di Dio aveva lasciato il tempio: nel capitolo decimo del libro del profeta Ezechiele, in cui si descrive l'esilio della gloria divina (cfr. Ez 10, 18).
La gloria di Dio si solleva dal Sancta Sanctorum del tempio e, sospesa in alto sopra il tempio e sopra la santa città, rimane come a guardare per l'ultima volta il luogo che Dio aveva scelto, poi se ne va. Dio ha abbandonato Gerusalemme. Come alla prima distruzione di Gerusalemme, così ora, nella morte di croce, Dio abbandona il tempio. Perché c'è un altro tempio? Sì, c'è un altro Tempio, secondo il Quarto Vangelo, c'è un altro Tempio che sostituisce il tempio di Gerusalemme: il cuore di Cristo, la sua umanità.
Nel secondo capitolo del Vangelo di san Giovanni Gesù dice: «Distruggete questo tempio ed io lo riedificherò in tre giorni: Egli parlava del tempio del suo corpo») (cfr. Gv 2, 19.21). Ed ora l'umanità del Signore è il Tempio nuovo di Dio, in cui tutti noi possiamo entrare nella misura che diveniamo sue membra. E divenendo sue membra noi stessi diverremo tempio di Dio. «Non sapete che voi siete tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi?» (cfr. 1 Cor 3, 16). L'anima, principio spirituale e semplice, non si divide nelle membra ma è tutta in ogni membro del corpo. Così Dio è in ognuno di noi perché Egli è in Cristo e noi siamo nel Cristo. II tempio di Dio veramente è il Cristo, la sua umanità; ma, come nel tempio vi erano parti sacre e meno sacre, così anche nel tempio nuovo creato dall'amore infinito di Dio.
Qual è il Sancta Sanctorum di Dio? È il cuore di Cristo. Il cuore di Cristo è il cuore del mondo. E la ferita del costato che cos'è? È la porta che si apre agli uomini per poter entrare nel Tempio. È attraverso infatti la ferita del cuore che nascono i sacramenti – il sangue e l'acqua – ma mediante i sacramenti gli uomini si inseriscono nel Cristo e dunque entrano a far parte della sua umanità, entrano a far parte del Tempio. Vedete? Le due immagini si sovrappongono. Da una parte, mediante la ferita del costato, gli uomini coi sacramenti entrano a far parte dell'umanità del Cristo; dall'altra parte, pure attraverso la ferita del costato, noi possiamo pensare che gli uomini sono sollecitati ad entrare nei più intimi penetrali del tempio di Dio: nel cuore di Cristo. È questa un'immagine che è propria di san Bonaventura e che non è del tutto estranea al Vangelo.
Ed è questa la differenza allora, fra l'Antico Testamento e il Nuovo. Infatti, mentre nell'Antico Testamento il Sancta Sanctorum era sempre chiuso – e quando si apre è sconsacrato così che lo squarcio del velo è il segno che il tempio è sconsacrato –, nel Nuovo Testamento invece, quando il cuore si squarcia, è allora che il Tempio di Dio, il vero Tempio di Dio, si apre all'umanità intera perché l'umanità intera vi entri, e in questo Tempio dimori e in questo Tempio trovi la sua permanente dimora.
L'alleanza dell'amore
Ecco l'altro tema che si fa presente al testo del Vangelo di stamani. Ed è precisamente quello che dice, per esempio, l'inno delle Lodi della festa di oggi: «Cuore che continui l'arca della nuova alleanza – non l'arca dell'Antico, ma del Nuovo Testamento – che è un testamento di grazia e di perdono, di misericordia e di amore». Come l'arca di Dio nel Sancta Sanctorum era il segno di una presenza divina che accoglieva gli uomini per stabilire un'alleanza con loro, così, ora, il cuore di Cristo è l'arca che accoglie tutti, non soltanto per stringere un'alleanza di servitù, non un'alleanza fra servo e padrone, ma l'alleanza di un amore immenso che unisce per sempre gli uomini a Dio in un amore perfetto, in un amore che ci identifica a Lui, in un amore che ci stringe a Lui nell'unione più intima e definitiva.
Allora, ecco, il tema di stasera è questo: il cuore di Cristo come arca del Nuovo Testamento, come Sancta Sanctorum del nuovo tempio di Dio, che ci richiama a un'alleanza, l'alleanza dell'amore. Vivere la festa del Sacro Cuore, celebrare il cuore di Cristo vuol dire per noi celebrare veramente l'alleanza, personale e intima, intimissima ora, perché è dell'amore più grande: l'alleanza di una vera unione con Lui. Di qui deriva che per noi, che abbiamo fatto la consacrazione, oggi è giorno di festa: la festa di un'alleanza, di un matrimonio non soltanto con uno sposo terreno, ma con Dio medesimo, perché è questa l'alleanza «ultima», di cui ogni matrimonio è soltanto puro segno. Il vero matrimonio, la vera alleanza è quella che ci unisce a Dio, e noi viviamo veramente questo rito di un'alleanza intima, eterna, definitiva, che implica un'unione perfetta, precisamente nell'entrare in questo Cuore, nel vivere nella sua intimità. È la festa della nostra consacrazione, e non è soltanto una rinnovazione dell'alleanza antica del Sinai, ma dell'alleanza nuova, che è eterna, che non è di servitù, ma di grazia: non tanto dell'obbedienza alla legge quanto dell'amore, quanto della donazione di un medesimo spirito, quanto dell'unità di una vita.
La festa della nostra eternità di gioia
Ecco: vivendo oggi la festa del Sacro Cuore, che cosa viviamo? Viviamo già la festa della nostra eterna gioia, del nostro eterno amore, della nostra beatitudine definitiva. Sì, è chiaro che questo matrimonio è indissolubile; nostro Signore è fedele e lo è eternamente. Allora la festa del Sacro Cuore, più di altre feste nel Cristianesimo, è la celebrazione della nostra eternità di gioia. Siamo già in Paradiso, siamo entrati nel Sancta Sanctorum e mentre entrare si può, uscire non si può più. E questa unione che abbiamo stretta con Lui col tempo, se il tempo può fare qualche cosa, non può che divenire sperimentalmente più viva, non realmente più profonda.
Perché? Perché quando ci ha chiamato nei più intimi penetrali del suo cuore, Egli ci ha chiamato all'intimità più pura, la più perfetta, la più assoluta con Sé. È certo che noi non realizziamo ancora pienamente tutta questa intimità con Lui, ma è certo che, di per sé, tutta la vita altro compito non ha, altro contenuto non ha che quello di far sì che noi possiamo, sul piano psicologico, sul piano morale, sul piano del comportamento, sul piano di una nostra esperienza interiore, realizzare quello che essa è.
Vi dicevo che dal Paradiso non si può uscire, ma non è vero; fintanto che viviamo potremmo anche uscirne, ma la colpa rimane sempre nostra. Per uno che cada nel peccato, veramente per lui vuol dire uscire da questo Cuore divino; e nessuno può rientrare da se stesso se Dio non lo attira. Questo dunque è grave: che, mentre un peccatore non può di per sé uscire dall'Inferno, rimane vero per noi che possiamo invece uscire dal Paradiso. Ecco la condizione nostra quaggiù. Vivere allora la festa di oggi non vuol dire soltanto realizzare l'unione che Egli ha stretto con noi, vuol dire anche – e questo è anche il senso che ha probabilmente la festa del Sacro Cuore nell'intenzione stessa di Gesù, che l'ha voluta – rinnovare la nostra consacrazione. Vi ricordate? Fino a Pio XI nel giorno del Sacro Cuore la Chiesa intera rinnovava la sua consacrazione a Dio. Ma anche questo è troppo poco.
La riparazione
Nell'intenzione di Nostro Signore, nella rivelazione del Sacro Cuore, il contenuto di questa festa sembra però un altro: quello della riparazione. Ed è questo, vedete, il contenuto ultimo della festa del Sacro Cuore. Siccome la festa del Sacro Cuore è la festa dell'alleanza, la festa di un amore eterno, per questo ne viene che tu, che vivi nel Cuore di Cristo, ma che non puoi essere separato dai tuoi fratelli con i quali formi un medesimo corpo, tu devi riparare per loro, pregare per loro perché, se essi sono separati da Lui – si può uscire da questo Paradiso, si diceva – per la tua preghiera, la tua riparazione, la tua immolazione, tutti tornino a celebrare con te la festa dell'amore nel suo Cuore Divino.
La festa del Sacro Cuore dunque è la festa dell'amore, ma di un amore che non può essere pieno per te cristiano fintanto che non sarà la festa dell'amore perfetto, la festa di un amore che abbraccia tutti e tutti fonde nell'unica sposa. «Unica è la mia colomba» (cfr. Ct 6, 9), la mia sposa, ed è tutta la Chiesa, ed è tutta l'umanità. Tu non puoi celebrare convenientemente dunque questa festa dell'amore fintanto che con te non la celebrano tutti insieme i cristiani, tutti insieme gli uomini. La tua festa dunque ha un carattere di per sé riparatore per coloro che dal Cristo si sono allontanati o che non l'hanno ancora conosciuto, perché finalmente, con te, tutti insieme possano vivere in questo Sancta Sanctorum che è il Cuore del Cristo, e celebrare in questo Cuore la festa dell'amore infinito di Dio, che a sé ci ha attratto e si è comunicato a noi per fare immensa la nostra gioia: non più la gioia dell'unico con l'unico, ma la gioia di tutta l'umanità redenta con l'Unico Sposo.
Terza meditazione
Cosa significa riparare?
Io non vorrei escludere dalla dottrina della riparazione la volontà, da parte dell'uomo, di offrire un certo compenso alla giustizia e all'amore di Dio per i peccatori del mondo. Sembra che Nostro Signore, nelle parole che ha rivolto a santa Margherita Maria, sottolinei questo aspetto. Eppure a me sembra che sia molto secondario nella dottrina stessa della riparazione.
A me sembra che nella dottrina della riparazione non tanto si debba considerare il Cristo quanto considerare l'uomo che viene a perdere questo amore e che, offendendolo, viene a escludersi dall'essere amato. Cioè, per dirla in altre parole, l'offesa degli uomini non toglie nulla a Dio, ma toglie tutto a coloro che lo offendono. E allora riparare che cosa vuol dire? In parte vuol dire quello che ha fatto Gesù nei confronti di tutti gli uomini: ha risarcito la giustizia divina, si dice comunemente, ma è un pochino ridicola questa espressione, quasi che fra il Padre e il Figlio si dovessero fare dei conti. Non si tratta di questo. La riparazione che ha fatto il Signore nei riguardi dei nostri peccati è stata questa: ha preso sopra di Sé tutto il peso della nostra responsabilità per toglierlo a noi e per rendere possibile a noi questa comunicazione di grazia, questo rapporto di amore; per rendere possibile agli uomini, che erano peccatori, una loro alleanza con Dio. L'Agnello di Dio, che porta sopra di Sé i peccati del mondo, distrugge la nostra responsabilità personale, distrugge quella inimicizia, quella rottura che ormai opponeva l'uomo a Dio e fa sì che gli uomini risorgano nella sua amicizia. È quello precisamente che dobbiamo fare noi con la riparazione. Non siate così presuntuosi da credere di dover consolare il Cuore di Nostro Signore! Nostro Signore è infinitamente beato, cosa può farsene di quello che noi possiamo offrirgli? È nei confronti degli uomini che noi ripariamo. È perché vi è questa massa umana che, senza rendersene conto, da se stessa si priva della beatitudine, della pace, della gioia, dell'amicizia con Dio. È per questo che noi vogliamo accettare, almeno in parte, il peso della loro responsabilità morale perché, attraverso il nostro atto, i nostri fratelli, tutti i nostri fratelli, celebrino con noi la festa stessa dell'amore. È proprio questo punto che noi molto spesso non approfondiamo e non sappiamo vedere.
Si diceva dianzi che la festa del Sacro Cuore è, sì, la festa dell'alleanza, e certo l'alleanza ha un carattere personale, proprio perché l'amore non può non avere un carattere personale ma, nel Cristianesimo, il carattere personale non è mai esclusivo; può essere personale e intimo quanto si vuole, ma non può essere mai esclusivo come invece nel matrimonio. Noi non possiamo amare donandoci a un'altra creatura se non escludendo le altre creature. Ma possiamo amare Dio pretendendo di essere così soli da non volere che un altro lo ami? Ma possiamo noi accettare di essere amati da Dio ed escludere che altri siano amati da Lui? Il fatto che Egli ami tutti toglie forse qualche cosa al suo amore per me? Dio non è come l'uomo che, siccome la misura del suo amore è limitata, se ama, ama uno e non ama l'altro, se ama tanto l'uno ama poco l'altro; Dio non è così! Egli può amare ciascuno di un amore infinito come se fosse solo al suo amore, e ama ugualmente tutti senza sottrarre nulla ad alcuno. Ecco perché, se io vivo la mia alleanza d'amore col Cuore di Cristo, se io vivo questa festa d'amore, che è la mia comunione eterna col suo Cuore divino, io non posso però pensare a questa mia festa senza che essa sia nello stesso tempo la festa di tutta una umanità redenta, di una creazione invasa dalla gloria di Dio.
Noi possiamo celebrare la festa della nostra consacrazione, ma saremmo veramente cristiani se la festa della nostra consacrazione non fosse anche la festa di tutta un'umanità che finalmente conosce Dio e lo ama? Che finalmente accetta di essere amata da Dio ed è sommersa da quest'oceano di carità? Riparare vuol dire questo. Noi vogliamo, attraverso precisamente quella che si chiama la riparazione, togliere gli ostacoli che impediscono a quest'oceano di carità di effondersi su tutto l'universo, di riempire tutti i vuoti e tutti gli abissi della creazione divina.
La riparazione ha questo senso, ed è per la riparazione, vedete, che noi diveniamo i collaboratori dell'amore stesso di Dio, perché riparare per noi che cosa vuol dire? Vuol dire partecipare all'amore stesso del Cristo, il quale per primo ha riparato. E per il fatto che ha riparato per tutti, per questa medesima ragione ha tolto anche ogni muro di separazione – come dice san Paolo – che opponeva Dio all'uomo, che impediva a Dio di effondersi nell'umanità e all'umanità di conoscere Dio e di poterlo amare (cfr. Ef 2, 14). È stato l'atto di riparazione della morte di croce che ha fatto la pace fra gli uomini e Dio, ma sono i peccati personali di ciascuno che impediscono, in atto secondo, che tutti gli uomini di fatto partecipino di questa immensità di amore. E Dio chiama noi a collaborare all'atto stesso della sua redenzione quando, celebrando la festa del Sacro Cuore, Egli chiede che noi stessi ripariamo per i nostri fratelli. Io non posso essere beato fintanto che con me non è beato l'universo. Io non accetto di entrare in Paradiso se in Paradiso non entrano tutti con me. E se Dio veramente mi ama, Lui non può sottrarmi dagli altri ai quali io voglio rimanere legato, come il Cristo.
Ecco, di qui nasce il dovere della riparazione. Nasce, cioè, non soltanto dal nostro amore per Iddio, ma dal fatto di una nostra solidarietà con gli uomini, che noi non vogliamo minimamente spezzare. Noi vogliamo essere veramente una sola cosa con l'universo. L'universo è nel peccato: noi vogliamo essere veramente fratelli di un'umanità che ancora non lo conosce, che ancora non Io ama. Che cosa possiamo fare dunque? Da una parte, infatti, l'amore di Dio ci reclama per sé e dall'altra, la solidarietà per gli uomini ci vorrebbe invece separare da Cristo. Che cosa possiamo fare? Dobbiamo riparare. Prendere sopra di noi il peccato degli altri perché nel nostro atto di riparazione, che è atto di amore, venga cancellato e non più noi soli ma tutti, possiamo penetrare nel suo Cuore e celebrare eternamente la festa dell'amore.
Il Sacro Cuore: festa dell'amore universale
Che bello! La festa del Sacro Cuore dunque è la festa della pace universale, è la festa dell'amore universale. Ma dell'amore che è universale a spese tue, come lo fu a spese di Cristo. Non possiamo pensare che si possa veramente ottenere per gli altri questa salvezza senza che noi paghiamo, come un giorno ha pagato Gesù per il nostro peccato.
Allora vedete la grandezza della festa del Sacro Cuore? Se noi celebrassimo nella festa del Sacro Cuore soltanto l'amore di Dio, non dovremmo celebrarla dopo il Corpus Domini. Potremmo celebrarla il Venerdì Santo, quando celebriamo il mistero della redenzione del Cristo perché è in questo mistero che ci si manifesta l'amore infinito di Dio e che l'amore infinito di Dio si riversa nel mondo. Noi la celebriamo invece dopo la Pentecoste. Perché? È semplicissimo: perché nelle feste dopo la Pentecoste, più che celebrare il mistero del Cristo celebriamo la partecipazione e la collaborazione degli uomini al mistero del Cristo.
Nella festa del Sacro Cuore noi, chiamati alla riparazione, viviamo l'esigenza di un amore divino che vuole effondersi su tutto, e non può farlo se noi, come Lui un giorno ha pagato per tutti, non vogliamo noi stessi pagare per i nostri fratelli. Che bello! Pensate un poco: ci sono tanti uomini che non conoscono più Dio, che non lo amano più; ci sono tante anime religiose che perdono la fede, tanti preti che sembrano non credere più in nulla. Oggi veramente la crisi che la Chiesa attraversa è terribile. Ebbene, ripara tu per loro! Paga nelle tentazioni che tu stesso avrai contro la fede, nelle desolazioni di spirito che il Signore ti manderà e che ti faranno partecipe dell'abbandono del Cristo sulla croce; paga con le sofferenze del corpo, paga con le sofferenze dell'anima.
Nessuno dei tuoi fratelli deve andare perduto: è la consegna che il Signore ti dona. Le parole che Gesù dice a santa Margherita Maria non sono certamente parole che vogliono escludere coloro che sono ingrati, coloro che Io bestemmiano, coloro che Io offendono, da quest'amore divino! Egli altrimenti non amerebbe davvero se accettasse che questi uomini, che pur l'offendono, che pur l'oltraggiano, che pur ripagano l'amore divino con tanta ingratitudine e mancanza di riconoscenza, dovessero per sempre rimanere separati da Lui. Ma se si manifesta questo male del mondo è perché tu, come una volta l'Agnello di Dio ha portato sopra di sé il peso del peccato del mondo, oggi possa portare questo peso. Egli non può portarlo più nella sua umanità; l'umanità gloriosa del Cristo non può più soffrire, dice san Paolo: «Egli è morto una volta sola e risorgendo da morte Egli non è più soggetto alla morte, la morte non avrà più dominio su di Lui» (cfr. Rm 6, 9).
Ma la morte può avere dominio su di noi! Ed ecco, Signore, noi siamo sopra al tuo altare come vittime: immolaci Tu, fai di noi quello che vuoi. Abbiamo un corpo: te l'offriamo, per poter soffrire. Abbiamo un'anima: pestala quanto vuoi; noi te la diamo per poter soffrire, perché nessuno di quelli che ci hai dato si perda. Saranno i nostri parenti, saranno i nostri amici, sono i nostri fratelli comunque, lontani e vicini. Hanno offeso te, possono aver offeso anche noi: che si manifesti davvero in questo la presenza di Dio nel nostro cuore, in un amore che esige la morte. «Noi dobbiamo dare la vita per i nostri fratelli» (cfr. 1 Gv 3, 16), ci diceva l'Epistola di domenica scorsa.
Eccoci: abbiamo questo corpo, abbiamo quest'anima, te l'offriamo perché Tu ci immoli, vittime tue di riparazione sopra l'altare. In noi deve continuare il mistero della tua agonia riparatrice perché continui, attraverso di noi, il mistero della tua redenzione universale. Che nessuno vada perduto! Ci sono tanti che crediamo precipitino nell'Inferno: non accetto che ci precipiti nessuno. Ma si fa presto a dire: «non accetto». Affinché questo non avvenga devo pagare. È certo che l'atto del cristiano ha valore immenso, ha un valore infinitamente più efficace del peccato degli uomini, così come l'atto del Redentore ha un'efficacia infinitamente maggiore del peccato dell'uomo. E noi siamo nel Cristo, e in noi il Cristo continua la sua riparazione divina: ecco perché noi non ci scoraggiamo, noi non abbiamo nessun timore riguardo all'umanità.
L'umanità sarà salva a un prezzo, e il prezzo, ecco, sono qui che lo pago. Signore, prendimi, sono tuo, prendimi come prendesti il tuo Figlio. Prendimi, possiedimi Tu, come possedesti il tuo Figlio nella sua morte. Anch'io ho un corpo, anch'io ho un'anima, e queste le offro a Te perché Tu ne faccia quello che vuoi, perché l'amore trionfi.
Questa è la festa del Sacro Cuore! Se stamani si parlava di festa dell'amore e di gaudio e di beatitudine, come vedete questa beatitudine bisogna un po' pagarla. Ecco perché la festa del Sacro Cuore è legata al mistero della riparazione. Perché, di fatto, non vi può essere nel Cristianesimo un amore personale che sia anche esclusivo; nel Cristianesimo l'amore personale più intimo implica anche la massima universalità. Se tu escludi l'universalità dall'intimità, l'intimità stessa non c'è; se tu escludi dall'universalità l'intimità, non c'è più l'amore. Ma le due cose debbono essere insieme: volere Dio tutto per te, donarti tutto a Dio, far sì che Dio tutto sia per te e tu tutto per Lui ma anche fare in modo che questa intimità nulla sottragga all'ultimo dei tuoi fratelli. Quello che è vero per te deve essere vero per tutti. L'ultimo dei miei fratelli deve godere la mia stessa gioia, deve possedere il mio medesimo amore, perché altrimenti io non amerei.
E allora, se stamani vi dicevo che la festa del Sacro Cuore non si può celebrare che rinnovando la nostra consacrazione a Lui, l'alleanza di ciascuno di noi con Lui, come il matrimonio divino nel quale l'uno si dona all'altro per sempre, vi dico di più: la festa del Sacro Cuore implica sì il dono a Dio di noi stessi, ma un dono che continua il dono stesso che Gesù Cristo ha fatto a Dio per pagare il peccato del mondo. È una festa d'amore, sì, ma una festa d'amore che viene celebrata in un mistero di morte, in un mistero d'immolazione, in un mistero di donazione totale. Ma la donazione, nel Cristianesimo, equivale a morire.
«E noi dobbiamo dare la nostra vita per i nostri fratelli» (1 Gv 3, 16), dice san Giovanni: vuol dire che dobbiamo morire per loro. Ecco dunque che l'amore e la morte sono un medesimo atto, non solo per Cristo, che ci rivela l'amore infinito di Dio proprio nella sua morte di croce, ma anche per noi. E noi amiamo i fratelli e amiamo Dio soltanto nella misura che sappiamo morire.