lunedì 25 giugno 2012

In ricordo di don Giacomo Tantardini

Riporto da "30Giorni" 5/2012 i testi dell'inserto pubblicato in ricordo di don Giacomo Tantardini (27.03.1946 - 19.04.2012)


copertina 

Il mio amico don Giacomo

«Durante la cerimonia delle cresime a San Lorenzo fuori le Mura pregammo per la sua salute... e lui ringraziò con un gesto che era di speranza di guarire e, allo stesso tempo, di affidamento». Il cardinale Bergoglio ricorda Giacomo Tantardini, sacerdote


del cardinale Jorge Mario Bergoglio


Il cardinale Bergoglio con don Giacomo Tantardini in una foto del marzo 2009 [© Paolo Galosi]
Il cardinale Bergoglio con don Giacomo Tantardini in una foto del marzo 2009 [© Paolo Galosi]

«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede» (Eb 13, 7). Così, l’autore della Lettera agli Ebrei ci esorta a tener presenti quelli che ci hanno annunciato il Vangelo e che già sono partiti. Ci chiede di ricordarli, ma non in quel modo formale e, a volte, commiserevole, che ci fa dire «quanto era buono!», una frase che si sente spesso nel peristilio dei cimiteri. Quel tipo di memoria è un semplice ricordo di formalità sociale. Ci chiede, invece, di ricordarli a partire dalla fecondità della loro semina in mezzo a noi. Ci chiede di ricordarli con la memoria del cuore, quella memoria deuteronomica che costruisce sulla roccia, che plasma vite e marchia cuori. Sì, il nostro cuore si edifica sulla memoria di quegli uomini e quelle donne che ci hanno fatto avvicinare a sorgenti di vita e di speranza a cui potranno attingere anche quelli che ci seguiranno. È la memoria dell’eredità ricevuta che dobbiamo, a nostra volta, trasmettere ai nostri figli.
Così, con questa memoria, ricordiamo don Giacomo e ci chiediamo: che cosa ci ha lasciato? Quali impronte di lui troviamo sul cammino della nostra vita? Oso semplicemente dire che ha lasciato le impronte di un uomo-bambino che non ha mai finito di stupirsi. Don Giacomo, l’uomo dello stupore; l’uomo che si è lasciato stupire da Dio e ha saputo dischiudere il cammino affinché questo stupore nascesse negli altri.
Don Giacomo, un uomo sorpreso che, mentre guardava il Signore che lo chiamava, continuamente si chiedeva, quasi non riuscisse a crederci, come il Matteo del Caravaggio: io, Signore? Un uomo stupito di fronte a questa indescrivibile «sovrabbondanza» della grazia che vince sull’abbondanza meschina del peccato, di quel peccato che ci sminuisce, sempre; un uomo stupito che si è sentito cercato, atteso e amato dal Signore molto prima che fosse lui a cercarlo, ad attenderlo e ad amarlo; un uomo stupito che, come quelli del lago di Tiberiade, non osava chiedergli chi fosse perché sapeva bene che era il Signore.
E quest’uomo stupito si è lasciato, più di una volta, interrogare: «Mi ami?», per rispondere con la semplicità ardente dell’amore: «Signore, tu lo sai che ti amo». Ed era così perché quest’uomo-bambino nutriva il suo amore con la semplice ma sapienziale prontezza della contemplazione di tutta quella Grazia che lo superava.
Don Giacomo era così. Non aveva perduto la capacità di sorprendersi; rifletteva a partire da quello stupore che riceveva e alimentava nella preghiera. A volte, dava l’impressione che questa sensibilità lo provasse, lo stancasse o lo rendesse irrequieto, e questo non è raro in un uomo dal temperamento umano forte, sul quale la Grazia non ha cessato di lavorare nella sua conversione alla mansuetudine.
L’ultima immagine che ho di lui mi commuove: durante la cerimonia delle cresime a San Lorenzo fuori le Mura, con le mani giunte, gli occhi aperti e stupiti, sorridente e serio allo stesso tempo. Lì, pregammo per la sua salute... e lui ringraziò con un gesto che era di speranza di guarire e, allo stesso tempo, di affidamento. Così, per grazia, si può perseverare nel cammino, fino alla fine: l’uomo-bambino si abbandona fra le braccia di Gesù mentre chiede che passi questo calice, e viene preso e portato in braccio, con le mani giunte e gli occhi aperti. Lasciandosi sorprendere ancora una volta, per il dono più grande.
Ringrazio Dio nostro Signore di averlo conosciuto. È rivolto anche a me quel «considerate l’esito della sua vita e imitatene la fede» della Lettera agli Ebrei.

Buenos Aires, 6 maggio 2012

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Un’amicizia fiorita sotto il segno di sant’Agostino


I convegni sull’attualità del santo d’Ippona all’Università di Padova diventano occasione di un’amicizia, profonda e duratura, tra un sacerdote, don Giacomo Tantardini, e un magistrato, Pietro Calogero, che di don Giacomo consegna a 30Giorni il suo commosso ricordo


di Pietro Calogero


Don Giacomo Tantardini con Pietro Calogero
Don Giacomo Tantardini con Pietro Calogero

Mi accolse, don Giacomo, con una timida carezza degli occhi e un lieve infantile rossore quando il 1 aprile 2003 gli fui presentato nell’aula magna dell’Università di Padova, appena prima che iniziasse la terza lezione del ciclo di Convegni dedicati all’attualità di sant’Agostino.
L’aula era piena di giovani in attesa della sua parola. Giovane era anche il viso di don Giacomo, su cui formavano un magico intreccio i colori acquerellati della pelle, la porpora e l’ambra. Intonata ai colori era perfino la sua voce, mobilissimo e raffinato distillato di una inesauribile sorgente di idee.
La lettura e il commento di testi agostiniani sulla grazia e sulla bellezza della fede cristiana risuonarono nell’aula per circa un’ora. Nel mio immaginario la figura di don Giacomo crebbe a dismisura e quando, al termine della lezione, egli mi chiese di elaborare un contributo per la lezione successiva non me la sentii, pur cosciente dei miei limiti, di negarglielo.
Fu così che il 20 maggio 2003, introducendo nella stessa aula la quarta lezione che sarebbe stata tenuta da don Giacomo, trattai il tema della giustizia terrena in sant’Agostino e ne illustrai l’attualità specialmente nei rapporti con la politica.
Prima di affrontare gli argomenti preparati per la lezione, relativi a tutt’altro oggetto, don Giacomo volle intervenire sulla concezione agostiniana della giustizia.
Confesso di averlo ascoltato con ammirato stupore per la sua capacità di raggiungere in tempo brevissimo una sintesi alta e completa della tematica appena trattata.
Segno, pensai, di genuino talento speculativo e di profonda conoscenza del pensiero del Vescovo di Ippona che, maturata al culmine di un processo di identificazione con quest’ultimo, è necessario che io ricordi qui nei tratti essenziali.
«Di quello che il procuratore ci ha adesso illustrato», osservò don Giacomo, «mi hanno colpito soprattutto tre cose, che mi sembrano profondamente agostiniane e profondamente attuali. La prima è l’accenno al fatto che la giustizia in senso umano, il cui compito è dare a ciascuno il suo, è un bonum della città terrena, è una cosa buona di quella città che Agostino descrive con il realismo evidenziato dall’episodio dell’incontro dell’imperatore Alessandro Magno con il pirata» (a commento del quale egli si chiede: «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?», messa dunque da parte la giustizia, a che cosa si ridurrebbero i regni se non a grandi bande di ladri?).
«La seconda cosa che mi ha particolarmente colpito», continuò don Giacomo, «è che questa giustizia ha come radice la natura umana, la persona umana. Agostino sa benissimo che il peccato originale ferisce la natura umana in quanto tale. Eppure egli difende la natura umana affermando che nessun peccato è tale che può distruggere extrema vestigia naturae, quell’ultima soglia della natura umana creata buona e in cui habitat veritas, non nel senso che crea la verità ma nel senso che nella natura umana c’è la possibilità di riconoscere la verità, c’è la possibilità di riconoscere la bellezza, c’è la possibilità di riconoscere il bene. Una natura umana ferita bensì dal peccato originale ma in cui l’immagine del Creatore non è affatto distrutta. Una natura umana in cui rimane l’apertura alla bellezza, alla verità, alla bontà, alla giustizia. Una natura umana ferita, eppure capax Dei».

Il battesimo di sant’Agostino in un affresco trecentesco conservato nella chiesa degli Eremitani a Padova
Il battesimo di sant’Agostino in un affresco trecentesco conservato nella chiesa degli Eremitani a Padova
«L’ultima cosa di cui sono veramente grato al procuratore», concluse don Giacomo, «sono gli accenni finali alla storicità della giustizia umana e alla sua relatività. Credo che questa sia la cosa che Agostino mette più in evidenza, in maniera originale, rispetto anche ad altre sottolineature pure presenti nella filosofia cristiana: la storicità e la relatività della giustizia della città terrena rispetto a quella giustizia che è dono gratuito di Dio. Ma questa storicità e questa relatività sono possibilità di fecondità, sono possibilità di valorizzare tutti i modelli storici senza imporre nulla agli altri, sono facilità di dialogo. Proprio per tale storicità il De civitate Dei è di una immediatezza e di un’evidenza continue. Agostino descrive con realismo le cose così come sono. Questo realismo permette di non imporre nulla e di valorizzare ogni possibilità positiva. Questo accenno è ciò che mi ha più colpito delle cose ascoltate, insieme alle ampie citazioni di Cicerone nel suo dialogo sulla res publica. Molto interessante e attuale è che nella concezione dell’uomo, nella concezione dei bona naturae, dei beni della natura, Agostino non valorizza la tradizione neoplatonica, ma valorizza la tradizione romana di Varrone e di Cicerone. Anche a livello culturale mi sembra realmente una delle cose più interessanti e attuali. Agostino, che normalmente viene fatto passare come un cristiano platonico, nella concezione della natura umana e dei beni essenziali della natura umana valorizza la tradizione romana relativista (dico relativista nel senso in cui prima il procuratore Calogero ha parlato di storicità e di relatività) e non la tradizione del neoplatonismo».
Per concludere: un grande maestro, don Giacomo, che ha saputo risvegliare in me con la forza incantatrice della sua cultura e con la coinvolgente arte della comunicazione l’antica passione per le idee, le esperienze di vita, l’altissimo senso dell’umano e del giusto di Agostino, figura miliare del cristianesimo militante dei primi secoli.
E al tempo stesso un amico: un amico sensibilissimo, perennemente giovane, umile, schivo, trasparente come mai fu la più trasparente porcellana fabbricata dalle mani dell’uomo.
Maestro e amico che ho frequentato teneramente fino a poche settimane prima del grande vuoto scavato dalla sua morte inaspettata e che ora, con lo sguardo al cielo, rimpiango.

Venezia, 31 maggio 2012




Pietro Calogero, quando era giovane sostituto procuratore di Treviso, indagò sulla strage di piazza Fontana, scoprendo la cosiddetta “pista nera” e mettendo in luce i depistaggi e le coperture attuate da organi dei servizi segreti italiani, delineando quel progetto eversivo comunemente noto come “strategia della tensione”. A Padova, negli anni Settanta, condusse l’inchiesta che portò all’arresto dei capi di Autonomia operaia (Negri, Scalzone, Piperno), rivelando i legami tra questa organizzazione e le Brigate rosse. Attualmente è procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia.

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Nel solco delle Beatitudini la testimonianza di don Giacomo Tantardini


Omelia del cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, nella santa messa esequiale per don Giacomo Tantardini

Roma, Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, 23 aprile 2012


del cardinale Angelo Sodano


Il cardinale Angelo Sodano durante l’omelia [© Massimo Quattrucci]
Il cardinale Angelo Sodano durante l’omelia [© Massimo Quattrucci]

Cari confratelli vescovi e sacerdoti, distinte autorità, parenti e amici del compianto don Giacomo, fratelli e sorelle nel Signore!
È giunta l’ora di dare l’estremo addio al nostro caro don Giacomo Tantardini. Egli ci ha lasciato silenziosamente nel vespro dello scorso giovedì, concludendo una vita tutta protesa verso quel Cristo che l’aveva “afferrato”, come diceva lui ricordando una parola usata da san Paolo nei propri riguardi nella Lettera ai Filippesi (Fil 3, 12).
Oggi siamo venuti numerosi fra le mura di questa bella Basilica che gli era tanto cara, per dirgli il nostro addio. Un addio affettuoso, riconoscente. Da parte mia mi sono unito volentieri a tutti voi che gli avete voluto molto bene, e lo testimonia la grande folla che oggi è giunta in questo tempio. Insieme, cari amici, ringrazieremo il Signore per avercelo dato e lo affideremo poi nelle mani del Padre che sta nei Cieli, un Padre “ricco in misericordia” o, per dirla con le parole latine che erano tanto care a don Giacomo, un Padre “dives in misericordia” (cfr. Ef 2, 4).

Il nostro Te Deum
Miei fratelli, in ogni messa noi ringraziamo il Signore per i doni che ci dà nel corso della nostra esistenza.
Oggi, in particolare, vogliamo elevare a Dio un inno di gratitudine per il dono che ha fatto alla sua santa Chiesa con la vita e le opere di questo grande sacerdote.
Un giorno lontano il Buon Pastore gli aveva fatto sentire la sua voce misteriosa che gli diceva: «Vieni e seguimi» (Mt 19, 21) e il giovane generoso di Barzio, nella terra di Lecco, rispose generosamente a quell’invito. All’età di ventiquattro anni divenne ministro del Signore e iniziò così quella missione generosa, che lo porterà poi qui a Roma, in questa Roma cristiana che gli era tanto cara, dove spese con santo ardore la maggior parte dei suoi quarantadue anni di sacerdozio. Tutti voi siete testimoni del suo affetto e del suo zelo.
Gli Atti degli Apostolici parlano di Pietro e di Giovanni che dopo la Pentecoste predicavano «con ardire» la parola di Cristo. Mi pare che il termine greco usato da san Luca (cfr. At 4, 29), il termine parresìa (παρρησία), ben si addica allo stile seguito da don Giacomo nel suo apostolato. Parresìa viene tradotto dagli studiosi con parole diverse: ardire, coraggio, fortezza, franchezza, ma sono tutti termini che indicano lo spirito interiore del nostro caro defunto.
Sembrava anzi che egli si ispirasse al messaggio lasciato da sant’Agostino ai cristiani d’Africa: «Senza superbia, siate però fieri della verità», o col bel latino ciceroniano che amava don Giacomo «Sine superbia de veritate praesumite» (Contra litteras Petiliani I, 31: PL 43, 259).
Per la vita di don Giacomo noi oggi vogliamo cantare il nostro Te Deum di ringraziamento al Signore.
Nel Cantico delle creature, san Francesco ringraziava il Signore per «sorella morte». Noi oggi, in primo luogo, vogliamo ringraziare il Signore per “sorella vita”, per la vita concessa a don Giacomo, la vita della natura e soprattutto per la vita più preziosa, qual è quella della grazia!

Il nostro suffragio
In secondo luogo, miei fratelli, oggi la nostra Eucaristia vuole anche essere una preghiera di suffragio. La fede cristiana ci insegna che nulla di meno che puro, di meno che santo entra al cospetto di Dio. Infatti, il Libro dei Proverbi nella Sacra Scrittura ci dice che «anche il giusto può cadere sette volte al giorno» (Pr 24, 16).
Per questo la Chiesa, nostra Madre e Maestra, ci ha sempre insegnato a offrire delle preghiere, e specialmente il Sacrificio eucaristico, affinché i nostri defunti, debitamente purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1032).


Un’immagine della messa esequiale per don Giacomo Tantardini [© Massimo Quattrucci]
Un’immagine della messa esequiale per don Giacomo Tantardini [© Massimo Quattrucci]
La luce della fede Miei fratelli, la nostra celebrazione eucaristica è poi tutta illuminata dallo splendore di queste pagine della Parola di Dio, che or ora abbiamo sentito.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato alcune parole di grande speranza: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3, 1), e abbiamo poi cantato nel Salmo responsoriale: «Misericordioso e pietoso è il Signore» (Sal 102): una visione di speranza.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo scriveva già duemila anni fa ai Romani, provati dalle persecuzioni e dal martirio di tanti loro fratelli: «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo sempre del Signore» (Rm 14, 8).
Il Vangelo, infine, ci ha nuovamente riproposto il messaggio delle Beatitudini. È quel messaggio grandioso ed esigente, al quale si è ispirato il nostro compianto don Giacomo. Per questo confidiamo che si avveri anche per lui ciò che Cristo ha promesso ai suoi discepoli: «Di voi sarà il Regno dei Cieli!».

L’Alleluia pasquale
Con questa visione di fede, possiamo oggi prendere congedo dal nostro caro fratello don Giacomo. Alla fine della messa, la liturgia metterà sulle nostre labbra un canto commovente della tradizione cristiana primitiva: In Paradisum deducant te Angeli, in Paradiso ti accompagnino gli Angeli!
E oggi, anche noi canteremo questa dolce melodia, conservando nel cuore lo spirito dell’Alleluia pasquale. “Lodate il Signore” è appunto il significato originario della parola “Alleluia” che da duemila anni risuona nelle nostre chiese. Sì, anche oggi noi vogliamo lodare il Signore! Oggi e sempre, canteremo Alleluia!

Conclusione
A Maria Santissima, verso la quale il nostro caro don Giacomo nutriva una devozione filiale, affidiamo infine l’anima benedetta di chi ci ha lasciato.
Le litanie lauretane, così dette perché sorte a Loreto, invocano Maria come Ianua Coeli, Porta del Cielo. Essa accolga fra le sue braccia amorose questo suo figlio diletto e lo introduca amorevolmente all’incontro definitivo con Suo Figlio Gesù, nella patria eterna del Paradiso. E così sia!

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Il cristianesimo: una storia semplice


Incontro con don Giacomo Tantardini al Centro culturale Fabio Locatelli di Bergamo 15 dicembre 2000


di don Giacomo Tantardini

Vorrei iniziare con una frase di una poesia di Charles Péguy che riassume un po’ quello che adesso abbiamo ascoltato. Dice Péguy in una delle sue poesie alla Madonna di Chartres: «Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / abbiamo perso il gusto dei discorsi / non abbiamo più altari, se non i Vostri / non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice».
Io credo che quando Péguy all’inizio del secolo andava in pellegrinaggio a Chartres per chiedere la grazia della guarigione per i suoi bambini… i bambini non erano battezzati: Péguy conviveva, diciamo così, con una donna ebrea che non aveva accettato di battezzare i figli. Quindi Péguy non ha mai potuto sposarsi cristianamente e non poteva ricevere i sacramenti della Chiesa, eppure credo che Péguy sia stato la testimonianza poetica più grande di questi ultimi secoli, più grande dopo Dante. La grazia del Signore è data secondo la misura del dono di Cristo, come vuole Lui.
«Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / abbiamo perso il gusto dei discorsi / non abbiamo più altari, se non i Vostri / non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice». Eppure questa sera devo parlare. Allora vorrei dire semplicemente tre cose che mi sembra siano le cose che la Tradizione della Chiesa, che la semplicità della Tradizione (preghiera semplice richiama la semplicità della Tradizione), che la semplicità della Tradizione cristiana, proprio per il Natale, ridice, ripete.


Dio chiama Adamo ed Eva dopo il peccato originale, Cappella Palatina, Palermo
Dio chiama Adamo ed Eva dopo il peccato originale, Cappella Palatina, Palermo
1. C’è un’espressione dogmatica che il mondo moderno, soprattutto negli ultimi decenni, il mondo, quel mondo che è nella Chiesa, soprattutto quel mondo che è nella Chiesa, ha tentato come di censurare. Invece non si capisce nulla della vita degli uomini e non si capisce il cristianesimo se non si parte da qui: il peccato originale. Ilpeccato originale. È che tutti gli uomini, tranne Maria, nascono con il peccato originale. Non si comprende niente della vita, non si comprende niente – dice in un’espressione bellissima l’ultimo Concilio ecumenico della Chiesa – della società umana, se non si parte da qui: che gli uomini nascono cattivi. Come dice Gesù: «Voi che siete cattivi». «Perché mi chiami buono? Solo Dio è buono». «Si homo non periisset, Filius hominis non venisset», così sant’Agostino riassume la coscienza della Chiesa: se l’uomo non avesse peccato, il Figlio dell’uomo non sarebbe venuto. Vorrei prendere l’inizio dell’inno Il Natale di Alessandro Manzoni…
Alessandro Manzoni per tanti aspetti non è, come dire, un autore attuale, perché descrive nel suo stupendo romanzo, I promessi sposi, una condizione cristiana come già data e quindi non parla di noi, perché oggi quella condizione non esiste più. Forse la pagina più attuale dei Promessi sposi è quella in cui è descritta la conversione dell’Innominato, quando l’Innominato, dopo quella notte, vede il popolo contento che va ad accogliere il cardinale Federico e si domanda: «Ma che cos’ha­ tutta questa gente per essere contenta?». Ecco, questa è la pagina più attuale. «Che cos’ha tutta questa gente per essere contenta?». E gli nasce nel cuore la curiosità di vedere perché questa gente è contenta. È la pagina che descrive come oggi uno può diventare cristiano… Gli antenati di Alessandro Manzoni sono del mio paese che è Barzio, un piccolo paese sopra Lecco, e il nonno di Alessandro Manzoni si chiama Alessandro perché il patrono di Barzio, come il patrono di Bergamo, è sant’Alessandro. E quindi credo che anche l’autore dei Promessi sposi si chiami Alessandro per questo… Altri motivi me lo rendono vicino. Anche se, ripeto, Manzoni per tanti aspetti non è attuale, non è certamente come Péguy.
L’inno Il Natale inizia con l’immagine di quel masso che è caduto dall’alto della montagna e sta sul fondo della valle: «Là dove cadde, immobile / Giace in sua lenta mole; / Né, per mutar di secoli, / Fia che riveda il sole / Della sua cima antica, / Se una virtude amica / In alto nol trarrà». Il sasso che cade dall’alto della montagna nella valle non è possibile che riveda il sole della cima, se una forza amica non lo prende e non lo porta su. «Tal si giaceva il misero / Figliol del fallo primo». Così giaceva l’uomo, figlio del primo peccato. Così. «Donde il superbo collo / più non potea levar». E questa è la definizione credo più realistica del peccato originale.
Che cos’è il peccato originale? Don Giussani, nell’ultimo volume della collana che raccoglie i dialoghi in una casa dei Memores Domini, dice: «Che cos’è il peccato originale? Che cos’è l’orgoglio del peccato originale? È l’affermazione di sé prima che della realtà». L’uomo non vede altro che sé. Caduto da quell’altezza non vede altro che sé stesso. L’affermazione di sé stesso prima della realtà. C’è poi una strofa dell’inno che leggo tutta perché è così realistica: «Qual mai tra i nati all’odio». Nati all’odio. Così. È così la condizione umana. Qualche settimana fa mi ha colpito che uno scrittore non cristiano, non cattolico, Bobbio, ricevendo un premio all’Università di Stoc­carda, ha citato Hegel (Hegel maestro di tutti, purtroppo, in questi decenni), ha citato Hegel in una delle sue poche espressioni realistiche, quando dice che la storia umana non è che un grande mattatoio. È così. La storia umana non è che un grande mattatoio. La storia umana, dice sant’Agostino, prendendo l’esempio da Roma, dalla storia di Roma che nasce da un fratricidio, va da omicidio a omicidio. «Qual mai tra i nati all’odio». Nati all’odio. Non per il gesto creatore. La creazione è buona. Ma di fatto, per il peccato originale, si nasce all’odio. E anche le cose buone, anche le cose belle, immediatamente decadono in estraneità. E di questa condizione del peccato originale si può fare esperienza, l’uomo fa esperienza. La grande poesia non fa che parlare di questo. Per riconoscere gli effetti del peccato originale non serve la fede, basta l’intelligenza umana. Non riconoscere gli effetti del peccato originale è questione di non intelligenza, è questione di illusione, è questione di idealismo.
«Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile…». Come è cristiano in questo momento Manzoni. «Inaccessibile»: al Santo cui non si può giungere, al Santo ignoto, al Santo di cui non si conosce il volto. E se uno dice Dio c’è ma non Lo vede (dice san Bernardo in una lettura del Breviario nel tempo di Natale), dopo un po’ come può riconoscere che c’è, se a Lui non può arrivare, se è precipitato nel fondo del burrone, e alla luce dell’inizio, alla luce dell’aurora del primo inizio della creazione, non può arrivare? Come può dire che c’è? «Qual era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona?». Perdono! «Chi ringraziare, chi bestemmiare?», chiedeva Cesare Pavese in una delle ultime frasi del suo diario. Chi ringraziare, chi bestemmiare se il Mistero c’è ma è inaccessibile, c’è ma non ha volto, c’è ma è incomprensibile, c’è ma non si può conoscere? «Far novo patto eterno? / Al vincitore inferno / La preda sua strappar?». Chi poteva strappare al diavolo la sua preda?
Questo è il primo suggerimento: si nasce col peccato originale. E il dogma della Chiesa dice che il peccato originale ferisce l’uomo in naturalibus, nelle sue dimensioni naturali. Non solo rende impossibile la coerenza. Ad esempio, uno sa che l’aborto è peccato, ma poi è incoerente. Non è solo così. Il peccato originale impedisce alla lunga anche di accorgersi che l’aborto è peccato, perché il peccato originale ferisce gli uomini nell’intelligenza naturale: per il peccato originale è offuscata l’intelligenza in quanto tale, non solo è indebolita la volontà. Per cui anche ciò che è naturale, anche ciò che è creaturale, anche ciò che è contro il cuore, contro il gesto creaturale, l’uomo è annebbiato nel riconoscerlo. Non è che non lo può riconoscere, ma è annebbiato dentro. Non si capisce la realtà, non si capisce il mondo, se non si parte da qui. Non si capisce il mondo in cui viviamo, non si capiscono le circostanze in cui siamo.


<I>L’Annunciazione</I>, con la scena della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre dopo il peccato originale, Beato Angelico, Museo del Prado, Madrid
L’Annunciazione, con la scena della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre dopo il peccato originale, Beato Angelico, Museo del Prado, Madrid
2. Che cosa rimane in questa condizione? Il Mistero inaccessibile, che non ha volto, e l’uomo, cui la luce (la luce vuol dire la sorpresa della creazione, che è buona), questa luce, non è più familiare. Non è più cara beltà, non è più cara bellezza, la creazione, ma è estraneità, inimicizia, tant’è vero che Caino uccide Abele. Che cosa rimane? Rimane il cuore. Il cuore è ferito, ma il cuore rimane cuore. Questa è l’altra grande cosa che il cattolicesimo dice. Ferito, annebbiato nel riconoscimento del vero e debilitato nella possibilità di essere coerente col vero, eppure il cuore rimane. Rimane il cuore dell’uomo. Il cuore che nostra madre, nostro padre ci hanno dato, che Dio attraverso loro ci ha dato, rimane cuore. Cioè il cuore rimane attesa, attesa di incontrare qualcosa. Il cuore rimane domanda di essere contento, il cuore rimane domanda di felicità. Il cuore ferito rimane cuore. Vi leggo due brani della poesia più bella di Leopardi, Alla sua donna, quando Leopardi dice che quello che cercava nella bellezza della donna era una bellezza più grande, una bellezza che finalmente potesse soddisfare l’attesa del cuore. Ma aggiunge che questo era un sogno di quando era adolescente. Diventando adulto si accorge che questo sogno è ormai impossibile. «Viva mirarti omai / Nulla spene m’avanza». Non ho più alcuna speranza di vederti viva, o bellezza. Non ho più alcuna speranza di incontrare, qui in questa vita, quella cosa imprevista, quella cosa imprevedibile, che il mio cuore attende. «Già sul novello / Aprir di mia giornata incerta e bruna». La genialità umana è profezia di Cristo. Non nel senso che anticipa Cristo, non nel senso che fa discorsi cristiani. Ma nel senso che Lo attende, domandando o bestemmiando, ma Lo attende. «Già sul novello / Aprir di mia giornata incerta e bruna». «Incerta». Se il Santo, se il Mistero è inaccessibile, che può fare l’uomo se non essere incerto? Che può fare l’uomo? Non si può condannare l’uomo, non si può condannare l’uomo per il suo nichilismo, non si può condannare l’uomo per la sua “non fede”. Che può fare, se il Mistero non ha volto? Che può fare? Anche perché il nichilismo (sant’Agostino in questo anticipa e risponde a Nietzsche) nasce dal fatto che uno si accorge che quel Dio che dice di affermare è una proiezione di sé, cioè si accorge che non esiste. Se Dio è una proiezione, un’immagine di sé, uno si accorge che quel Dio non esiste, non è niente. Nihil est, non è nulla. «… incerta e bruna, / Te viatrice in questo arido suolo / Io mi pensai». Io pensai di incontrarti in questo arido suolo, di incontrare quello che il cuore attende. «Ma non è cosa in terra / Che ti somigli». Ma in terra non ho incontrato niente, niente che meritasse fino in fondo il mio cuore. Tante cose (anche Leopardi ha avuto tante donne), ma niente, nessuna veramente che meritasse fino in fondo il mio cuore. «Ma non è cosa in terra / Che ti somigli; e s’anco pari alcuna / Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, / Saria, così conforme, assai men bella». Qui c’è l’intuizione, che può essere solo grazia: ma anche se ci fosse una cosa che ti assomigliasse nel volto, nelle parole e nei gesti, «saria, così conforme, assai men bella» di quello che il mio cuore attende.
Questa poesia finisce con una preghiera, la più stupenda preghiera di un ateo, perché Giacomo Leopardi era ateo e materialista. Nessun devoto ha scritto una preghiera così al Mistero che si è rivelato: «Se delle eterne idee / L’una sei tu cui di sensibil forma / Sdegni l’eterno senno esser vestita». Se tu, o bellezza, se tu, o cosa che il cuore attende, se tu, o cosa che il cuore domanda, se tu, felicità, sei una delle idee eterne che sdegni di rivestirti di forma sensibile. «E fra caduche spoglie / Provar gli affanni di funerea vita», e sdegni di sperimentare qui sulla terra gli affanni di questa vita che corre verso la morte, «Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi».
«Di qua dove son gli anni infausti e brevi». Questo è realismo cristiano. Di un ateo, ma è realismo cristiano. È realismo umano e quindi profezia di Chi il cuore l’ha creato così. Di qua dove le cose passano subito. Passano subito anche le cose belle, anche il sorriso del bambino, del figlio, anche l’affetto per la donna che si ama. «Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi». Rimane il cuore, il cuore che attende una cosa così. Ma l’uomo (e usiamo ancora un’espressione di Agostino, che di questo cuore è stato nella Chiesa la testimonianza forse umanamente più affascinante), l’uomo è lontano da questo cuore, fugitivus cordis sui. L’uomo è lontano da questa domanda e l’uomo si accontenta. Si accontenta. E di che cosa si accontenta? Dell’usura, della lussuria e del potere. E non c’è religione che tenga. Si accontenta di queste tre cose, i soldi, la lussuria e il potere, chi crede in Dio e chi non ci crede. E questa è una delle cose più impressionanti delDe civitate Dei di Agostino. La credenza in Dio di per sé non cambia la vita, di per sé non cambia la vita. Tutti i libri del De civitate Dei di Agostino sono attuali. Nei libri ottavo, nono e decimo Agostino parla dei filosofi che hanno conosciuto Dio, che hanno riconosciuto l’esistenza di Dio. Eppure alla fine «hanno pensato di dover offrire onori divini di riti e sacrifici al diavolo». Il satanismo può essere la conseguenza anche del proclamarsi credente in Dio, perché la credenza in Dio non cambia realmente la vita. È un’altra cosa che cambia la vita. Se la credenza in Dio cambiasse la vita mestier non era parturir Maria.


<I>Riposo nella fuga in Egitto</I>, Bartolomé Esteban Murillo, Museo Puskin, Mosca [© Foto Scala Firenze]
Riposo nella fuga in Egitto, Bartolomé Esteban Murillo, Museo Puskin, Mosca [© Foto Scala Firenze]
3. Per questo festeggiamo il Natale. Capite? Perché se la credenza in Dio cambiasse la vita, non c’era bisogno di quello che è successo duemila anni fa. Non solo: non si potrebbe esser grati come si è grati. Quando duemila anni fa in quel paese, al limite della Palestina, nella Galilea dei gentili, fu mandato l’angelo Gabriele a una ragazza ebrea di nome Maria… Tutto è iniziato lì. Il Santo inaccessibile, Colui che ha creato il cuore buono… (ma il peccato originale ha portato a questa condizione per cui l’uomo di fatto si accontenta, non può che accontentarsi della lussuria, del denaro e del potere), il Santo inaccessibile è diventato carne nel ventre di una donna. Un fatto. Quella storia semplice è iniziata lì. Ed è iniziata proprio come storia, come storia semplice. È iniziata con «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». E questa piccola ragazza ebrea, che non comprese immediatamente, rimase turbata e si domandò che cosa volesse dire questo saluto. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria, hai trovato grazia presso Dio». E allora questa piccola ragazza esprime quel «Sì», quell’«Eccomi», per cui l’uomo ha speranza di essere salvato. Senza quell’«Eccomi», tutta la credenza in Dio non dà speranza all’uomo. Quell’«Eccomi» inizia una storia, una storia semplice. Una storia vuol dire che Colui che ha iniziato così con Maria («Hai trovato grazia presso Dio») è Lui, è Lui che porta avanti questo inizio. Infatti pensate alla Madonna. Pensate: è rimasta in questo «Eccomi» anche quando l’angelo se ne andò da lei. Pensate al conforto… (questa è una delle cose che più mi impressionano, che più mi commuovono nei confronti della Madonna), pensate il primo conforto che ha avuto, la prima conferma che quello che aveva ascoltato era reale, quando come ogni donna si accorge di essere incinta. Deve essere stata una cosa dell’altro mondo. Perché voleva dire che quella promessa era reale, quella promessa cui subito aveva detto «Sì», cui subito aveva detto «Eccomi», quella promessa era reale, che quello che un Altro aveva iniziato lo stava per portare a compimento. E così l’altro conforto che mi stupisce e mi commuove è quando a san Giuseppe, in sogno, l’angelo dice: «Giuseppe, figlio di Davide, non esitare a prendere con te Maria tua sposa perché quello che è nato in lei viene dallo Spirito Santo». E pensate, perché possiamo immaginare… (è un’altra cosa rispetto a tutte le religioni di questo mondo, è un’altra cosa. È una storia di uomini, di ragazzi, erano due ragazzi), pensate che cosa è stato per Maria quando Giuseppe l’ha presa con sé. È stata un’altra conferma, un’altra conferma che quell’incontro, quel «Ti saluto, o piena di grazia» era reale. E poi sono andati insieme da Elisabetta, perché l’angelo le aveva detto che anche Elisabetta aspettava un figlio e anche questo fatto ha confermato quel «Ti saluto, o piena di grazia, non temere, Maria». Perché è una storia semplice il cristianesimo? È una storia semplice (usiamo una parola che la Chiesa da duemila anni usa) perché è grazia, perché è un avvenimento e quindi una storia di grazia. Se non fosse grazia, sarebbe una cosa complicata. Perché la religiosità umana non è semplice? Perché nasce dall’uomo. Perché è il tentativo buono dell’uomo, partendo dalle cose create, di riconoscere il Creatore. Ma questa non è una cosa semplice, è una cosa faticosa. Dice il dogma di fede: èuna cosa faticosa, una cosa di pochi, una cosa che, anche quando la religiosità arriva al suo termine (il Mistero esiste), è mescolata a errori. Sono le parole del dogma della Chiesa. Non solo è di pochi, non solo è faticosa, ma anche quando uno arriva a dire «Dio c’è», questa affermazione è mescolata a errori. Invece duemila anni fa è iniziata una cosa che è semplicissima. A quella ragazza è stato promesso che avrebbe concepito e partorito. E in quei nove mesi, tanti fatti umanissimi… Innanzitutto si accorge di essere incinta (e che la pancia diventava grande come la pancia di ogni donna incinta). E la testimonianza di Giuseppe, che obbedendo al Mistero più grande di lui la prende con sé. E la testimonianza della cugina Elisabetta: anche lei ha un figlio. E quel Natale, quel primo Natale, quando per la prima volta gli occhi di due ragazzi, di Maria e Giuseppe, hanno visto Dio. Hanno visto Dio. Inizia così il cristianesimo. Non hanno creduto che c’è Dio, no, questo lo credono anche i musulmani che magari in questa religiosità sono più religiosi di noi, ma non hanno visto. Non hanno visto – eppure è venuto – e nella religiosità e nella moralità possono essere più morali e più religiosi di noi. Anche per questo è stato grande Paolo VI quando a Roma non ha fatto nulla perché non si costruisse la moschea, anzi, a chi gli diceva che doveva ottenere la reciprocità, ha risposto che la Chiesa non si abbassava a questo livello. Ma è un’altra cosa. Il cristianesimo è un’altra cosa rispetto a tutte le religioni del mondo, a tutte le morali del mondo. È che duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi, non in una visione mistica. Maria l’ha partorito. E Giuseppe e lei stupiti lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio. E poi quella notte stessa, gli angeli hanno annunciato ai pastori che nella città di Davide (perché Dio è fedele alle sue promesse), «nella città di Davide è nato per voi il Salvatore». E sono andati i pastori, sono andati e hanno visto un bambino. Quel bambino era Dio. Così quando nel Credo diciamo «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero [quel bambino], generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo di lui tutte le cose sono state create, per noi uomini e per la nostra salvezza [per noi uomini, per l’uomo che si accontenta della lussuria, dell’usura e del potere, per questo uomo, non per gli uomini di buona volontà (è Sua la buona volontà) ma per questo uomo concreto], per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato…».
Aggiungo questo. Dopo Maria e Giuseppe, dopo quei trent’anni in cui l’Eterno, che è iniziato a esistere e a crescere nel tempo (l’Eterno, rimanendo eterno, ha iniziato a esistere e a crescere nel tempo e a contare i giorni, le ore, i mesi e gli anni, come ogni bambino), dopo quei trent’anni in cui ha vissuto a Nazareth, ubbidendo a suo padre e a sua madre, inizia la missione, quando i primi due, quel pomeriggio, sulle rive del Giordano, lo hanno incontrato, quando Giovanni e Andrea, dopo che Giovanni il Battista aveva indicato «Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo», gli sono andati dietro. Gli sono andati dietro attratti da Lui. E allora Gesù si volta e a questi due ragazzi – Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino –, a questi due ragazzi domanda: «Che cosa cercate?». Mi colpisce sempre questa cosa. Non gli hanno risposto cerchiamo la verità, cerchiamo la felicità, non gli han detto neppure cerchiamo il Messia. Quello che il cuore cercava Lo avevano davanti. Lo avevano davanti. Il cuore è infallibile, in questo il cuore è infallibile. C’è una tesi bellissima della teologia cattolica che parla dell’infallibilità della fede. L’infallibilità del magistero è secondaria rispetto all’infallibilità della fede. La fede è infallibile. Quello che cercavano, quello che il cuore cercava, Lo avevano davanti. Allora a quella domanda, «Che cosa cercate?», rispondono domandando l’unica cosa che si può domandare. Quando uno incontra quello che il cuore desidera può solo domandare che questa cosa rimanga. «Maestro dove abiti?», cioè «dove rimani?». Dove rimani, per stare con te? Pubblicamente, qui. Là, con Maria e Giuseppe, diciamo, privatamente. I trent’anni di vita privata, privata ma con tanti episodi pubblici: i pastori, poi i Magi, poi quando a dodici anni nel Tempio… Ma comunque una storia privata. Qui l’inizio è della storia pubblica, della storia per cui questa sera siamo qui. Per cui esiste nel mondo questa storia semplice di persone che si sono stupite perché Lo hanno incontrato. Storia semplice: si sono stupiti perché Lo hanno incontrato e poi una volta incontrato dipende da Lui, non dipende innanzitutto da te, dipende da Lui che rimanga con te. È semplice per questo. Diversamente – posto che l’inizio del cristianesimo è grazia (se uno è cristiano, questo non può non dirlo) – si introduce un’altra dinamica. No! Una volta incontrato, che cosa accade? Cos’hai fatto per incontrarLo? Niente. Allora, guarda, non darti da fare, perché dipende da Lui. Dipende da Lui che ti ha incontrato e che rimane fedele. Dipende da Lui che ti rimane fedele, non dipende innanzitutto dalla tua fedeltà. Dipende da Lui. È semplice per questo. È semplice perché non solo ti incontra Lui, non solo è Lui che è andato incontro ai primi, ma dipende da Lui che è rimasto con i primi, dipende da Lui che il giorno dopo si è fatto di nuovo incontrare dai primi, dipende da Lui che il giorno dopo ancora…
Andrea è andato a casa quella sera e a suo fratello Pietro ha detto: «Abbiamo incontrato il Messia». Un’altra cosa che mi stupisce è pensare che Pietro la prima volta che ha intravisto umanamente il Mistero fatto carne è stato guardando il volto di suo fratello. Non aveva mai visto il volto di Andrea così, il volto di suo fratello così non l’aveva mai visto, perché la grazia ha un riverbero nell’umano. È visibile, la grazia. Ha una sorgente invisibile, ma ha un riverbero visibile, il riflesso della grazia si vede, si vede ed è inconfondibile. È infallibile il riflesso della grazia, è inconfondibile con qualunque altra bellezza. È la bellezza per cui il cuore è stato creato. Allora non solo è Lui che si fa incontro, ma è Lui che rimane, tanto è vero che il giorno dopo, quando ha visto Pietro, gli ha detto: «Tu sei Simone, figlio di Giovanni, tu ti chiamerai Pietro». E così da due sono diventati tre e così sono andati avanti per tre anni… Così. Ma pensate in quei tre anni, pensate di chi era l’iniziativa. Non era di quelli che Lo seguivano, l’iniziativa era sempre Sua. Come quando il giovane ricco, invitato a seguirLo, anzi, voluto bene da Lui… Gesù lo guardò e si intenerì, gli volle bene. Eppure non Lo segue, e allora Gesù dice che è impossibile per un ricco entrare nel Regno dei Cieli, e Pietro gli domanda: «Ma allora chi si può salvare?». E qui c’è una delle più belle frasi del Vangelo: «E Gesù guardandoli [guardandoli, non facendo teologia, guardandoli] disse: “A Dio nulla è impossibile”». Guardandoli: perché ciò che gli era evidente come Mistero, come uomo lo imparava dalle cose che succedevano, come noi impariamo da quello che succede. Se Pietro era lì, se Giovanni era lì, se Matteo era lì (pensavo oggi, vedendo i quadri del Caravaggio, pensavo alla Vocazione di Matteo del Caravaggio in San Luigi dei Francesi a Roma), se Zaccheo era sceso pieno di gioia vuol dire che a Dio nulla è impossibile. Perché Matteo era ricco, anzi raccoglieva i soldi per gli invasori romani, e Zaccheo, il più ricco di Gerico… se erano lì loro, vuol dire che a Dio nulla è impossibile. Anche Gesù, come uomo, ha imparato la natura del Mistero da quello che succedeva. Ciò che come Dio conosceva, lo ha imparato come uomo dall’esperienza. Dice san Bernardo in una delle frasi più stupende sul mistero di Gesù: ciò che per natura conosceva dall’eternità (che a Dio nulla è impossibile) l’ha imparato dall’esperienza umana. Si è stupito anche Lui quando ha visto Zaccheo correre giù. Pensate all’episodio di Zaccheo. Questo piccolo uomo che è dovuto salire sull’albero per vederlo passare. Questo piccolo uomo che era il capo delle bande illegali della città di Gerico, e Gesù che passa, lo guarda e gli dice: «Zaccheo, vengo a casa tua». Non ha detto nulla, non gli ha risposto nulla. Pieno di gioia è sceso. E poi ha distribuito quattro volte quello che aveva rubato. Ma poi, poi! Subito, pieno di gioia è sceso ed è corso a casa sua. Allora è semplice, è semplice non solo perché l’inizio è grazia, ma perché ogni passo è grazia. Dice san Tommaso in una delle sue frasi più belle (la Chiesa cattolica, anche usando questa frase, l’anno scorso, ha firmato un documento con i luterani in cui diceva che su aspetti essenziali della dottrina della giustificazione i cattolici e i protestanti riconoscono la stessa cosa): «Gratia facit fidem», la grazia crea la fede. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, la fede è il riconoscimento di questo incontro, la fede è lo stupore riconosciuto di questo incontro. «Gratia facit fidem non solum quando fides incipit esse in homine», la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ad esistere in un uomo, «sed quamdiu fides durat», ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, in ogni momento l’iniziativa è Sua.
Questo pomeriggio ho visitato la mostra, qui a Bergamo, del Caravaggio. Bellissima. Ci guidava un sacerdote che molto umanamente, in maniera molto bella, descriveva le cose. Ad un certo punto però ha detto che Caravaggio esprime la fatica della fede. Io non direi così. La fede, quando accade, non è mai faticosa. È facile la “non fede”. Questo sì, è facilissima la “non fede”. «Uomini di poca fede, perché dubitate?». È facilissima, anche per quelli che Lo seguivano, è facilissima la “non fede”, è facilissimo il dubbio, è facilissima la bestemmia, questo sì. Perché la grazia del Battesimo cancella il peccato originale, ma non le conseguenze del peccato originale. È facilissima la “non fede”, è facilissimo il dubbio, è facilissimo il tradimento. Pensate a Pietro: «Anche se tutti ti abbandoneranno io non ti abbandonerò mai». Tre ore dopo… Tre ore dopo! Innanzitutto, mezz’ora dopo, si era addormentato. E poi, tre ore dopo, L’ha tradito. È facilissimo il tradimento. Ma la fede è più facile. È più facile la fede. Se no, vuol dire che non si sa che cos’è. È più facile, perché quando Gesù, dopo il tradimento, l’ha guardato, era più facile scoppiare in pianto, più facile di qualunque altra cosa. La fede è più facile. Non esiste una fede difficile. È più facile. È un’immagine non cristiana di fede dire che la fede è difficile. È più facile, è ancora più facile del tradimento. Pensate a quel povero uomo di Pietro, quel povero peccatore di Pietro: quando Gesù lo ha guardato, è stata la cosa più facile della vita scoppiare in lacrime, è stata la cosa più facile della vita mettersi a piangere. È stata la cosa più facile della vita dire: «Come mi vuoi bene, come mi vuoi bene. Eppure ti ho tradito». È facile la fede, è facile. Non esiste fede (questo è un dogma di fede), non esiste fede se lo Spirito Santo non dona la dolcezza (parla di dolcezza, non può essere difficile la dolcezza, sarebbe una cosa disu­mana), la dolcezza di aderire. È lo Spirito, è la grazia che dona la dolcezza di aderire. Usa la parola dolcezza: più facile di così! È facile la fede. L’istante dopo, si può non credere. L’istante dopo, si può bestemmiare, l’istante dopo si può correre dietro al denaro, alla lussuria e al potere. Ma se uno ha sperimentato questa dolcezza, può correre dietro come tutti, eppure questa dolcezza è la cosa più facile, è la cosa più facile. E il mettersi a piangere dopo aver corso dietro alla lussuria, ai soldi, al potere, il mettersi a piangere, perché questa dolcezza si ripresenta, perché quello sguardo ti riguarda, il mettersi a piangere è la cosa più facile. Non c’è cosa più facile per il bambino che, dopo tutti i capricci di questo mondo, si abbandona in braccio al papà e alla mamma, non c’è cosa più facile. Dite che è difficile per il bambino? Sarebbe una cosa disumana se non si abbandonasse. È la cosa più facile di questo mondo abbandonarsi in braccio al papà e alla mamma.


<I>La vocazione di Pietro e Andrea</I>, Caravaggio, Royal Gallery Collection, Hampton Court Palace, Londra
La vocazione di Pietro e Andrea, Caravaggio, Royal Gallery Collection, Hampton Court Palace, Londra
Volevo dire un’ultima cosa. Che cosa chiede all’uomo questa grazia senza della quale l’uomo non fa nulla? «Ci preceda e ci accompagni sempre la Tua grazia» dice una delle orazioni della Chiesa. Lex orandi legem statuat credendi, così diceva l’antica formula che Pio XII ha citato, ma, forse prevedendo quello che sarebbe successo, poi ha cambiato con Lex credendi legem statuat orandi e cioè che la legge della fede stabilisca la legge della preghiera. Però l’antica formula diceva che è la legge della preghiera a stabilire la legge della fede. Sant’Agostino, per rispondere ai pelagiani, usa normalmente questo argomento: Voi dite che la fede non è grazia, allora perché la Chiesa prega che un non credente si converta? O queste preghiere sono per modo di dire, oppure è Dio che converte il cuore. Voi dite che rimanere nella fede non è grazia, ma allora perché chiediamo nella preghiera del Signore di non indurci in tentazione? Se fosse capacità nostra vincere la tentazione non pregheremmo di non indurci in tentazione. Quindi vuol dire che il non lasciarci vincere dalla tentazione è grazia. O la Chiesa dice le sue preghiere per modo di dire, oppure dovete accettare, dice Agostino agli eretici pelagiani, che ogni passo della vita cristiana è grazia; altrimenti dovreste cancellare le preghiere della Chiesa. «Ci preceda e ci accompagni sempre la Tua grazia, o Signore». Allora che cosa spetta all’uomo in questo cammino in cui l’iniziativa è Sua? «Se Tu non prendi l’iniziativa io non parto», diceva il giorno prima della sua improvvisa morte papa Luciani. Il giovedì notte è morto e il mercoledì aveva fatto il gesto che ogni mercoledì fa il papa, parlando della carità. Gesto tutto incentrato su questa cosa: se Tu non prendi l’iniziativa io non parto. E diceva: cosa vuol dire prendere l’iniziativa? (e citava sant’Agostino, una delle frasi più stupende di Agostino). Non vuol dire soltanto che attira la mia libertà, ma vuol dire anche che mi dà di essere contento di essere attirato. Non solo mi attira, ma mi dà il piacere (Agostino dice proprio voluptas, piacere) di essere attirato. Se non mi dona il piacere di aderire, se non mi dona il piacere di andarGli dietro, non Gli posso andar dietro. Non solo attira la volontà, ma dona il piacere di essere attirato. È una delle pagine più belle del magistero ordinario della Chiesa, quel di­scorso sulla carità di papa Luciani ventidue anni fa. Ma allora che cosa è possibile all’uomo? Lo dico con le parole di don Giussani in un articolo sul Santo Rosario pubblicato su Avvenire domenica 30 aprile (secondo me una delle cose in assoluto più belle, non solo di Giussani ma di tutta la Chiesa in questi decenni): «La risposta a questa grazia sta tutta quanta nella preghiera di cui siamo capaci». La risposta a questa grazia (che non è solo l’inizio ma è di ogni passo) sta tutta quanta nella preghiera di cui siamo capaci. La nostra risposta è una preghiera, è una domanda. La nostra risposta è la sorpresa di una domanda, una domanda come quella di Giovanni e Andrea: «Dove rimani?». Di fronte a una cosa così bella la nostra risposta è: «Rimani!». Di fronte a una dolcezza così grande, la nostra risposta è: «Non abbandonarmi, rimani!». Tutta la nostra risposta è questa, ed è tutta la risposta del bambino quando il papà e la mamma gli vogliono bene. «La nostra risposta è una preghiera. Non è una capacità particolare, è solo l’impeto della preghiera». Può essere il pianto del bambino che chiede al papà e alla mamma di volergli bene. Il pianto. Nell’antica liturgia vi era una messa per chiedere il dono delle lacrime. Si domanda molto di più con le lacrime che non con le parole. L’impeto, l’impeto di una domanda. Habet et laetitia lacrimas suas. Così sant’Ambrogio. Quando uno è contento di questa dolcezza, anche questa letizia ha le sue lacrime. In fondo la gioia si esprime soltanto piangendo. Così Giussani dice in quell’articolo: «La nostra risposta è una preghiera, non è una capacità particolare, è solo l’impeto della preghiera». Poi aggiunge Giussani (voglio leggere questa cosa perché riprende Péguy con cui abbiamo iniziato): «Entriamo nel mese di maggio [ora siamo nella novena del Natale]. Il popolo cristiano da secoli è stato benedetto [l’inizio è Suo: benedetto] e confermato nell’essere proteso alla salvezza [confermato: perché se Lui non conferma, anche se Lo abbiamo incontrato, non rimaniamo nell’incontro. Così la semplicità della Tradizione. Per esempio un dogma del Concilio di Trento dice: «Se uno è in grazia, senza un aiuto speciale della grazia, non può rimanere in grazia». Capite come tutta la vita cristiana è sostenuta dalla Sua iniziativa? Se uno è in grazia, senza uno speciale aiuto della grazia che si può domandare, senza un’attrattiva che si rinnova, non rimane in quell’attrattiva. Non si può vivere di un amore passato, non si può vivere dell’attrattiva di ieri, neppure dell’attrattiva di un istante fa. Non si può. Si vive solo del presente. Quindi se uno è in grazia, per rimanere in grazia occorre il rinnovarsi di questo speciale aiuto]. Il popolo cristiano per secoli è stato benedetto e confermato nell’essere proteso alla salvezza, io credo, specialmente da una cosa: il Santo Rosario». È semplice la vita cristiana, è semplice. Dopo decenni di tante parole, di tante lotte, di tante sfide… C’era un Angelus di papa Luciani che diceva: «Meno battaglie e più preghiere». Il popolo cristiano è stato benedetto e confermato, io credo, da una cosa: la recita del Santo Rosario.
E finisco leggendo alcuni versi della poesia di Péguy con cui ho iniziato. Descrive il rimanere in questa grazia. «Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile». Facile anche il peccato, anche il tradimento, come Pietro. Facile anche la tentazione di correr dietro alla lussuria, all’usura e al potere. Ma facile essere riabbracciati. E piangere di gratitudine. Più facile. La differenza è che chi non ne fa esperienza non sa questa cosa più facile. Sa tutte le altre cose, ma non sa questa cosa più facile. Più facile, più bella, più semplice. Tutto diviene facile. «Il rimpianto, la partenza e anche l’avvenimento». Anche il riaccadere di quello stupore è facile: in Paradiso sarà perenne, qui è facile, qui è facile che riaccada, non perenne. E dice ancora sant’Agostino: il Signore anche ai Suoi eletti, ai Suoi santi può non dare in alcuni momenti l’attrattiva avvincente a Sé perché così, sperimentando di essere peccatori, pongano in Lui la speranza e non in loro stessi. Facile. «E l’addio temporaneo, la separazione, / Il solo angolo della terra dove tutto si fa docile. […]Ciò che dappertutto altrove richiede un esame / Qui non è che l’effetto di un’inerme giovinezza». Ciò che dappertutto altrove richiede un esame per cui devi dimostrare di essere bravo. Anche in casa è così, tante volte. Devi dimostrare di essere bravo. E non puoi essere un povero peccatore. Devi dimostrare di essere bravo. Così, al fatto di essere peccatore come tutti, aggiungi anche l’ipocrisia, che è peccato più grave, quello dei farisei. «Ciò che dappertutto altrove richiede un esame / Qui non è che l’effetto di un’inerme giovinezza. / Ciò che dappertutto altrove chiede un rinvio / Qui non è che una presente fragilità. // Ciò che dappertutto altrove richiede un attestato / Qui non è che il frutto di una povera tenerezza. / Ciò che dappertutto altrove chiede un tocco di destrezza / Qui non è che il frutto di un’umile inettitudine […].Ciò che dappertutto altrove è costrizione di regola / Qui non è che un impeto e un abbandono». Come dice Giussani. Solo l’impeto della preghiera, solo l’impeto della domanda. Come il bambino che durante la giornata può rompere tante volte un bicchiere. Lo rompesse anche mille volte e mille volte dicesse “mamma, aiutami a non romperlo”, questo è l’uomo cristiano. “Mamma, aiutami a non romperlo”. Ed è più facile, più felice per il bambino dire in braccio alla mamma: “Mamma, aiutami a non romperlo”, che neanche rompere il bicchiere.«Ciò che dappertutto altrove è costrizione di regola / Qui non è che un impeto e un abbandono; / Ciò che dappertutto altrove è una dura penale / Qui non è che una debolezza che viene sollevata. […] Ciò che dappertutto altrove sarebbe un duro sforzo / Qui non è che semplicità e quiete; / Ciò che dappertutto altrove è la scorza rugosa / Qui non è che la linfa e le lacrime del tralcio. […]Ciò che dappertutto altrove è un bene deperibile / Qui non è che quiete e veloce disimpegno; / Ciò che dappertutto altrove è un impettirsi / Qui non è che una rosa e un’impronta sulla sabbia. […] Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / Abbiamo perso il gusto per i di­scorsi / Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice». Buon Natale.