venerdì 15 giugno 2012

La Beata "buona a nulla"


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Negli ultimi giorni a Nepi, tranquillo paese della Tuscia viterbese, è stato tutto un fare. Hanno montato gli schermi nelle chiese e nella piazza del comune, hanno sparso tappeti di fiori nei vicoli, hanno allestito il palco con l’altare e migliaia di sedie nel piazzale sotto i bastioni rinascimentali.  È lì che domenica sera, alle 18, il cardinale Angelo Amato celebrerà la messa per la beatificazione di Cecilia Eusepi, le cui spoglie riposano nella chiesa del della Vergine del Rosario (rimessa a nuovo per l’occasione) accanto a una statua dell’Addolorata di quelle un po’ barocche in uso ai suoi tempi, vestita di nero e con sette spade che le trafiggono il cuore.


Cecilia è una ragazza vissuta all’inizio del secolo scorso, una figlia dell’Italia contadina di allora, che diventa beata dopo che nella sua breve vita non ha fatto niente di speciale. Ultima di undici figli, cresciuta con la madre vedova e lo zio fattore, è morta a soli diciotto anni, consumata dalla tubercolosi che ha sabotato tutti i suoi sogni adolescenziali di diventare suora tra le “mantellate” serve di Maria e andare in missione. Di sé non ha lasciato che pochi quaderni con i suoi ricordi d’infanzia e un diario, scritti solo per obbedienza al suo confessore quando era già minata dalla malattia. E dove definisce se stessa come «un pagliaccio mezzo grullo, buono a nulla». Il timbro di santità che la Chiesa riconosce beatificandola ha a che fare proprio con questa sua ordinarietà: nelle pagine da lei scritte e nelle pieghe della sua vita umile s’intravvede la grazia che tocca coloro che non possono compiere niente da se stessi. E che si esprime soprattutto nel modo semplice e confidenziale con cui Cecilia parlava a Gesù.


Il grande poeta francese  Charles Péguy iscriverebbe Cecilia Eusepi nella schiera dei «santi di nessun esercizio»: quelli che a esercitarsi «non vi hanno neanche pensato (non vi hanno neanche dovuto pensare), essendo stati molto esercitati da Dio». Quelli che nella propria vocazione non hanno introdotto «un’ombra d’invenzione di esercizio vero e proprio», avendo ricevuto tutto come un dono, che li ha resi umili. In questo, Cecilia segue da vicino Teresina di Gesù bambino, che per lei fu come una sorella spirituale: la santa di Lisieux diventata patrona delle missioni senza uscire dal Carmelo, che qualche anno prima di lei aveva camminato sulla “piccola via” della santità vivendo il suo abbandono a Dio come uno stato «d’infanzia spirituale». Una prospettiva molto valorizzata in questi ultimi mesi nella pastorale giovanile della locale diocesi di Civita Castellana, guidata dal vescovo Romano Rossi. 

«La santità» scriveva Cecilia  «non consiste nella grandezza delle mortificazioni, nella grandezza e nella straordinarietà delle opere e delle azioni». Se i nuovi santi e i nuovi beati esprimono a modo loro la temperie ecclesiale del momento, anche Cecilia sembra attingere ai filoni spirituali più intimi e fecondi del pontificato corrente. Ai detrattori che lo rimproverano di non mostrare il polso fermo del condottiero, così come agli ammiratori che ne esaltano l’energia di governo, Benedetto XVI continua a suggerire col suo magistero che a guidare la Chiesa non sono le performances, ben riuscite o inguardabili, degli uomini di Chiesa. Nel novembre 2009, in occasione della visita pastorale a Brescia, papa Ratzinger aveva citato il suo predecessore Paolo VI per descrivere lo stato della Chiesa con parole che sarebbero piaciute sia a Teresina che a Cecilia: «Tanti si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a qualunque altro. Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione che Gesù stesso ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza». (G. Valente)
Fonte: Vatican Insider

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Da "30 giorni" n. 10/11 - 2009

La storia di Cecilia Eusepi, una ragazza vissuta agli inizi del secolo in un paese alle porte di Roma e morta di tubercolosi a soli diciotto anni. È sulla strada della beatificazione ed è considerata una sorella spirituale di Teresa di Lisieux


di Stefania Falasca

«.. Come un pagliaccio mezzo grullo, buono a nulla». Questa non è che la storia di una ragazzina. La storia di una breve vita. Che pochi hanno conosciuto. Non era un genio, non ha lasciato opere. Nulla di eclatante, niente di speciale insomma. Se non fosse che per Qualcuno sia stata invece tanto preziosa. Tanto che se ne meravigliava lei stessa: «A volte stupita mi domando, che cosa abbia potuto trovare in me Gesù, così di attraente, da attirarlo verso il mio nulla, da ricolmarmi delle Sue più affettuose cure. La mia debolezza estrema, ecco l’unica possibile risposta».
Cecilia Eusepi è il nome di questa ragazzina vissuta agli inizi del secolo in un paese alle porte di Roma e consumata dalla tubercolosi a soli diciott’anni. Di sé non ha lasciato che pochi quaderni con i suoi ricordi d’infanzia e un diario, scritti solo per obbedienza al suo confessore quando era già minata dalla malattia. Eppure forse tra non molto la vedremo salire agli onori degli altari. Non appena alcuni dei miracoli ottenuti per sua intercessione avranno superato il severo vaglio della commissione medica e teologica. La causa di beatificazione, introdotta poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1928, procede speditamente. Dieci anni fa, il 1° giugno ’87, veniva dichiarata venerabile da Giovanni Paolo II. E oggi c’è già chi la considera una sorella spirituale di santa Teresa di Lisieux, della quale quest’anno ricorre il centenario della morte, e alla quale Cecilia Eusepi somiglia per moltissimi aspetti. «Anzi», dichiara Tito Sartori, postulatore generale della causa, «non sarebbe azzardato definirla una nostra piccola Teresina. Tra le ultime figure di santità riconosciute dalla Chiesa, Cecilia è quella che più ha assorbito e seguito fino in fondo la “piccola via” indicata dalla grande santa francese patrona delle missioni».

Cecilia Eusepi; a sinistra, Teresa di Lisieux, entrambe all’età di quindici anni
Cecilia Eusepi; a sinistra, Teresa di Lisieux, entrambe all’età di quindici anni
Un segno della grazia
Nepi è un’antica cittadina della Tuscia a quaranta chilometri da Roma. Uno dei tanti sonnolenti paesi di provincia che un tempo appartenevano all’Italia contadina. In questo ambiente viene a stare Cecilia, arrivando da Monte Romano, il paese vicino nel quale era nata il 17 febbraio 1910, ultima di undici figli. Con la madre vedova e lo zio materno si stabilisce a tre chilometri dal paese, nella tenuta “La massa”, proprietà dei duchi Lante della Rovere, dove lo zio lavora come fattore. Vivacissima e sensibile, Cecilia cresce circondata da un affetto particolare, soprattutto da parte dello zio, alle cui cure il padre prima di morire l’aveva affidata. A sei anni, come tante bambine del popolo, viene mandata a scuola presso il monastero cistercense di Nepi che ospitava a convitto le orfane di guerra. Per la spiccata sensibilità e la prontezza nell’apprendere tutto ciò che le veniva insegnato, le monache non nascosero la speranza di averla un giorno tra le mura del chiostro. Ma non era la vita monastica ad attrarre Cecilia. Poco più in là, a cento metri dal convento, si trovava la parrocchia di San Tolomeo tenuta dai Servi di Maria, alla quale era annesso il seminario, allora affollatissimo di aspiranti sacerdoti per le missioni. Attorno alla parrocchia di San Tolomeo gravitava tutta la vita giovanile del paese. Cecilia, finite le scuole primarie, è qui che passa il suo tempo, ed è in questo contesto che matura precocemente e con sorprendente chiarezza la sua vocazione. Tanto che appena dodicenne, insieme ad altre compagne più grandi, chiede di entrare come terziaria nell’ordine dei Servi di Maria e l’anno seguente, nonostante la giovanissima età e i tentativi di dissuaderla da parte dei familiari, ottiene dal vescovo la dispensa per entrare postulante tra le Mantellate Serve di Maria. Andrà a studiare a Roma, a Pistoia e poi a Zara. Ma la sua aspirazione di partire come missionaria non si realizzerà. Nell’ottobre del ’26, colpita dal male che due anni dopo la porterà alla morte, è costretta a ritornare a Nepi.
Questa è tutta la sua breve vicenda. E di tutte le circostanze che l’hanno costituita parla Cecilia stessa nel racconto autobiografico Storia di un pagliaccio. Titolo umoristico, emblematico della considerazione che aveva di sé stessa: «Un pagliaccetto», appunto. Lo scrive per obbedire alla richiesta del padre Gabriele Roschini, suo confessore, al quale lo consegna nel giugno del ’27 su di un vecchio quadernetto di scuola. «Padre, mi perdoni se sono tanto disordinata… perdoni il titolo», gli dice ridendo, «ma non ho trovato di meglio da mettere per la mia storia». La richiesta di stendere un diario era partita addirittura dal cardinale Alessio Lepicier, dell’ordine dei Servi di Maria, che durante le sue visite a Nepi aveva avuto modo di incontrare questa bella ragazzina dallo sguardo chiaro. Lo racconta padre Roschini al processo: «Un giorno, ricevuto in udienza da Sua Eminenza, l’informai del ritorno di Cecilia a Nepi per malattia, e Sua Eminenza mi disse: “Quella fanciulla è un segno della grazia di Dio. È un’anima eletta. Padre, lei farebbe bene a chiedere a quella ragazza di mettere per iscritto un diario. Sono certo che ne trarremo giovamento”». La storia semplice di «un pagliaccio» comincia proprio con l’intenzione di assecondare la volontà dei superiori, nonostante le costasse fatica, per le sofferenze provocate dalla malattia: «… Volentieri mi accingerò a questo lavoro, sapendo di fare cosa grata a Gesù, prima di tutto obbedendo, poi manifestando la Sua misericordia infinita verso di me, piccolo debolissimo fiorellino».

La chiesa di San Tolomeo a Nepi  (Viterbo) [© Fotopoint, Nepi]
La chiesa di San Tolomeo a Nepi (Viterbo) [© Fotopoint, Nepi]
Come santa Teresa di Lisieux
Il diario si sofferma a lungo sugli anni dell’infanzia. Lo stile usato da Cecilia è carico di immagini e paragoni teneri e infantili, che si dipanano in un racconto commosso e ricchissimo di particolari. Cecilia sembra avere una memoria straordinaria degli oggetti e delle emozioni che l’hanno attraversata fin dai primissimi anni e insieme alla percezione di essere fragile appare chiara in lei fin dall’inizio la percezione di essere amata in modo particolare, senza alcun personale merito. Alle volte fa sorridere per le espressioni dialettali e ingenue, apparentemente in contrasto con la sapienza che caratterizza le sue riflessioni. Chi legga questo racconto potrà forse meravigliarsi del modo infantile e confidenziale che ha Cecilia di parlare del suo legame di appartenenza a Gesù: «Sì, lo amo tanto Gesù… ma le opere dove sono? Le opere che dimostrino questo amore? Non ne ho… padre, io però non mi sgomento, volerò a Lui con le ali dei miei grandi desideri, o, meglio, cercherò di essere una piccola bambina, per stare sempre tra le Sue braccia, e che opere si possono pretendere dai bambini? Questi per dimostrare il loro affetto non si servono che di carezze, di baci, non offrono che piccoli ed umili fiori campestri, potendone avere quanti ne vogliono». Ma tutta la sapienza di Cecilia è in questo essere bambini, abbandonati alla grazia di Dio. Proprio come santa Teresa di Lisieux. Lo dice lei stessa: «Giungerò a Gesù per un piccolo sentiero, breve, molto breve, tracciatomi dalla piccola Teresa del Bambin Gesù». Era stata proprio la lettura della Storia di un’anima a far scattare in Cecilia ancora bambina il desiderio di abbracciare la vita religiosa. «Fin da piccola mi preoccupavo delle fatiche dei missionari. I buoni padri raccontavano di terre lontane, di conversioni e battesimi. Le più grandi aspirazioni riempivano il mio cuore, speravo anch’io di andare lontano dove nessuno m’avesse conosciuta per far conoscere e amare Gesù così come io l’amavo, desideravo la salvezza delle anime dei poveri infedeli, avrei suggellato la mia fede col sangue. Le monache ci raccontavano le vite dei santi. Un giorno mi capitò di leggere la storia di Teresa del Bambin Gesù. La lessi tutta d’un fiato e mi commossi fino alle lacrime… in verità non capii granché… una cosa però la compresi subito: che la santità non consiste nella grandezza delle mortificazioni, nella grandezza e nella straordinarietà delle opere e delle azioni… quella santità non è da tutti […] e sentii nel cuore che questa era la strada che dovevo percorrere». Quando Cecilia legge la Storia di un’anima non aveva ancora compiuto dieci anni e Teresa di Lisieux non era ancora stata proclamata venerabile. Più tardi dirà: «Non avevo mai pensato di chiamarla sorella, sebbene avessi notato, fra l’anima mia e la Sua, una grande somiglianza, non per la corrispondenza alla grazia, ma per i doni di grazia che Gesù ci ha concessi».
«L’importanza della lettura delle vite dei santi, in particolare quella della santa francese è, nella vicenda umana di Cecilia, addirittura incalcolabile», commenta Tito Sartori. «Il racconto autobiografico e il suo diario ne sono testimonianza e documentazione palese. Cecilia manifesta la sua evidente dipendenza da Teresa sia nell’uso di concetti che nei movimenti dello spirito: il cantare la misericordia del Signore, la coscienza della propria debolezza, il sentirsi attratti da Gesù. Ma ci sono anche dei fatti che stranamente le accomunano: l’aver abbracciato la vita religiosa in tenera età, la consapevolezza di essere stata preservata dal peccato mortale, l’evento della propria conversione, la difficoltà nel leggere i libri di spiritualità, il desiderare non la sofferenza, ma solo l’abbandono, l’aver ricevuto due missionari come fratelli da accompagnare con le preghiere, lo sperimentare anche la crisi spirituale, il morire giovane per la medesima malattia».

La tomba di Cecilia nella chiesa 
di San Tolomeo, dove il corpo 
della ragazza è conservato ancora intatto
La tomba di Cecilia nella chiesa di San Tolomeo, dove il corpo della ragazza è conservato ancora intatto
Il «piccolo niente» di Gesù
Il 23 ottobre 1926, con il ritorno a Nepi, inizia per Cecilia l’ultimo breve e doloroso percorso della sua vita, segnato dal manifestarsi e acutizzarsi progressivo della tubercolosi. Periodo reso ancor più doloroso dalla solitudine per quello che lei chiama «l’esilio a La massa». Un esilio sofferto per la consapevolezza di non poter più prendere i voti, per la lontananza da Nepi e le calunnie da parte dei proprietari dell’azienda. Unico conforto, la devozione filiale alla Madonna Addolorata che lei chiama il suo «cuore» e all’Eucarestia, il suo «tesoro», che il padre Roschini due volte alla settimana, con qualunque condizione di tempo, puntualmente le porta. Non mancano però, a rompere l’esilio, le frequenti visite dei contadini, dei compagni dell’Azione cattolica e dei ragazzi del seminario accompagnati dai padri, i quali non poche volte chiedono a questa ragazzina inferma e poco istruita consigli per le omelie. In questi ultimi anni, Cecilia avrà della “piccola via” una coscienza lucidissima: «Umiltà, abbandono, amore». «Abbandono», scrive, «come è cara questa virtù! Oh se tutti ti comprendessero, la terra si trasformerebbe in anticamera del Paradiso! Ci fa riposare tranquillamente sulle ginocchia di Gesù, ci fa dormire posando il nostro capo sul cuore di Lui, ci fa vivere felici, perché abbandonati ad un tale amico, siamo sicuri della nostra sorte. Come il bimbo dovendo attraversare di notte una folta foresta insieme alla mamma, si aggrappa alle sottane di questa sicuro che la mamma lo condurrà a buon termine, così è l’anima che si abbandona a Gesù». Fino alla fine non verrà meno alla semplicità e all’allegria, muore cantando le preghiere a Maria che aveva imparato da piccola. È il 1° ottobre 1928. E anche questa data appare quasi una coincidenza. Teresa era morta il giorno precedente, il 30 settembre, del 1897. E nel 1927, anno in cui fu proclamata da Pio XI patrona delle missioni, il 1° ottobre Teresa era apparsa in sogno a Cecilia, così come è documentato nel diario, preannuciandole la morte proprio per quel giorno.
«Quando morì», ricorda un anziano contadino che l’ebbe conosciuta, «alcuni dicevano: “È morta una santa”, ma altri dicevano che era solo buona, una buona ragazza che aveva sofferto e criticavano i primi come se si dovessero fare i santi per forza. Ma il suo funerale fu una festa, fu come andare ad un matrimonio. I Servi di Maria diedero in suo onore un pranzo e in quello stesso giorno arrivò loro, da benefattori lontani, una consistente somma di denaro che andò a riparare alle condizioni economiche del seminario. Proprio come Cecilia aveva detto e desiderato». Cecilia avrebbe voluto riposare per sempre nella chiesa di San Tolomeo, ai piedi dell’altare dell’Addolorata, lì dov’era il suo “cuore”. E anche questo desiderio venne esaudito, durante la guerra, quando per timore dei bombardamenti i frati decisero di trasportare le sue spoglie all’interno della chiesa. In quell’occasione venne fatta una ricognizione dei suoi resti e i presenti videro con sorpresa che il corpo era rimasto intatto (così come si trova tutt’ora) «e tanto la pelle era morbida», ricorda padre Pietro, attuale parroco di San Tolomeo, «che sembrava stesse dormendo… Nel rivestirla ci accorgemmo poi che dietro la schiena aveva un’ampia ferita che lasciava vedere le viscere, con nostra doppia sorpresa notammo che non c’era più alcun segno delle devastazioni prodotte dalla tubercolosi».
«Tutto», aveva scritto Cecilia all’inizio della Storia di un pagliaccio, «consiste qui, nel riconoscere il proprio nulla… Sono certa che se Gesù avesse fatto a qualche altra anima le stesse grazie che ha fatto a me, l’aureola di santità non avrebbe tardato a cingere a questa la testa, ma Gesù, il quale ama scherzare con le Sue creature, si compiace di ricolmare di grazie quelli che nessuno s’aspetta, che magari non ne sono degni, quelli che vede più miserabili, per far risplendere maggiormente la Sua misericordia, compiacendosi della loro confusione e della loro meraviglia».