Effatà apriti
[0] Vi racconto un'esperienza. Questa Lettera pastorale era
partita bene. Mi veniva giù quasi di getto. Scrivevo con una certa noncuranza,
quasi con innocenza. Sfioravo i problemi più gravi con tanta facilità, come uno
sciatore lanciato al volo lungo una pista difficile. Dicevo tra me: "Com'è bello
e com'è facile comunicare, quando si ha davvero qualcosa dentro!".
Poi ho fatto leggere il primo abbozzo a tante persone
sperimentate e competenti. Hanno apprezzato il lavoro, il tema, il modo di
trattarlo. Hanno sentito che era importante e urgente. Ma insieme mi hanno
comunicato centinaia di osservazioni minute e preziose (tralasciare questo,
aggiungere quello, sottolineare quell'altro, chiarire un paragrafo, riscriverne
un altro). Ho cominciato a farlo diligentemente e mi sono accorto che stavo
perdendo la scioltezza.
Prendevo coscienza del fatto che le cose da dire su questo
argomento (come su ogni altro tema importante e complesso) sono tantissime; che
volendo essere stringati si diventa ermetici; che volendo spiegare e
giustificare tutto si diventa pedanti, ecc. E mi sono detto: "Com'è difficile
comunicare davvero ciò che uno ha dentro!".
Ecco, vorrei che tutti voi approfittaste di questa mia
esperienza (non nuova, ma che ogni volta mi costa come se fosse la prima):
comunicare è difficile, richiede un va e vieni dialogico, interlocutori
pazienti, benevoli e attivi.
Vi suggerisco dunque questo esercizio: leggete, fin dove vi
riesce, queste pagine che ho scritto con amore. Leggendo, individuate le frasi,
i paragrafi che "passano" subito, che vi dicono qualcosa, che vi svegliano
dentro, e dite: "Qui il nostro vescovo è riuscito a comunicare!". Individuate
anche le pagine che "resistono", che appaiono ostiche e difficili o astratte o
lontane dalla vostra vita, e dite: Qui non è riuscito, si è irrigidito, ha perso
la scioltezza. Io però come direi la stessa cosa in forma più sciolta e
immediata?".
Ne verrà fuori un vero e proprio "esercizio di
comunicazione". In parte recepirete ciò che ho voluto dire, in parte ve lo
ridirete con parole vostre, e sarà ancora meglio. Avremo così dato il via a una
comunicazione attiva, reciproca, non semplicemente a una lettura passiva e
rassegnata. Avrò già raggiunto un bel risultato, e ne sarò contento.
Affido questa Lettera a tanti "comunicatori di gioia e di
santità" che ricordiamo quest'anno in maniera particolare: san Gregorio Magno
nel XIV centenario dell'ordinazione episcopale (590); san Bernardo di
Chiaravalle nel IX centenario della nascita (Z090); sant'Ignazio di Loyola nel V
centenario della nascita (1491) e nel 450° anniversario della fondazione della
Compagnia di Gesù (1540); san Giovanni della Croce e san Luigi Gonzaga nel IV
centenario della morte (1591); santa Margherita M. Alacoque nel III centenario
della morte (1690); il cardinale John Henry Newman nel I centenario della morte
(11 agosto 1890) e santa Teresa di Gesù Bambino nel I centenario della
professione religiosa (8 settembre 1890). Se il loro nome e la loro memoria sono
giunti fino a noi, è perché hanno saputo comunicare al mondo qualcosa di valido.
Anche noi siamo chiamati a metterci in fila con loro.
[1] "Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole"
(Gen 11, 1). Così la Bibbia idealizza quei primordi felici in cui gli uomini si
potevano intendere con facilità e spontaneità. Ma impegnati in un gigantesco
sforzo che avrebbe dovuto consacrare la loro onnipotenza tecnologica, gli uomini
non seppero reggere alla tensione: si confusero e poi si dispersero. Tale
confusione è considerata dalla Bibbia un castigo divino, che lega per sempre al
nome di una città il simbolo della confusione dei linguaggi e della fatica che
gli uomini e le culture fanno a intendersi tra loro: "La si chiamò Babele,
perché il Signore confuse la lingua di tutta la terra" (Gen 11, 9).
Babele rappresenta dunque l'impossibilità di tutti gli umani
a parlare tra loro con un unico linguaggio. Essa evoca segnali che si
accavallano, si confondono ed elidono a vicenda. Babele è il luogo degli
appuntamenti; mancati: le lingue non si intendono, gli equivoci si moltiplicano e
la gente non si incontra. Al massimo ci si urta, ci si irrita a vicenda,
ciascuno si lamenta perché l'altro non l'ha capito.
Babele è il simbolo della non-comunicazione della fatica e
delle ambiguità a cui è soggetto il comunicare sulla terra.
Babele è anche il simbolo di una civiltà in cui la
moltiplicazione e la confusione dei messaggi porta al fraintendimento.
Nasce di qui la domanda angosciosa: come ritrovare nella
Babele di oggi una comunicazione vera, autentica, in cui le parole, i gesti, i
segni corrano su strade giuste, siano raccolti e capiti, ricevano risonanza e
simpatia?
E' possibile incontrarsi in questa Babele, inserire anche in
una civiltà confusa luoghi e modi di incontro autentico? è possibile comunicare
oggi nella famiglia, nella società, nella Chiesa, nel rapporto interpersonale?
come essere presenti nel mondo dei mass-media senza essere travolti da fiumi di
parole e da un mare di immagini? come educarsi al comunicare autentico anche in
una civiltà di massa e di comunicazioni di massa?
[2] A tante domande sulla malattia del comunicare umano
contrapponiamo ora una scena di risanamento. Contempliamo Gesù nel momento in
cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta
della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama
questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale - "il mistero
dell'apertura": "Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo,
quando guarì il sordomuto" (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del
sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.
1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio
comunicativo di quest'uomo. E' uno che non sente e che sì esprime con suoni
gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene
cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in
sé disperato (7, 31-32).
2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far
capire a quest'uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e
vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del
vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con
simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita
nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la
lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che
ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si
è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l'amore a
chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo
anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il
risanare l'ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l'alto e un
sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa
condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come
titolo di questa lettera: "Effatà" cioè "Apriti!" (7, 34). E' il comando che la
liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il
pollice l'orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa,
dice: "Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e
gloria di Dio" (Rito dell'Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).
3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto
come apertura ("gli si aprirono le orecchie"), come scioglimento ("si sciolse il
nodo della sua lingua") e come ritrovata correttezza espressiva ("e parlava
correttamente"). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa:
"E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne
parlavano". La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come
l'acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si
diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: "E, pieni di stupore,
dicevano: "Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti"" (7,
35-37).
In quest'uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da
Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la
parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale.
Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1. rendersi conto
delle proprie difficoltà comunicative; 2. lasciarsi toccare e risanare da Gesù;
3. riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.
[3] Il comunicare autentico non è solo una necessità per la
sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. E' anche u^ dono, un
traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è
comunicazione.
Tutte queste riflessioni ci inducono a dedicare un biennio
del nostro cammino pastorale al tema del comunicare. Non è un tema accessorio o
"di lusso". Si tratta di una condizione dell'essere uomo e donna e dell'essere
Chiesa.
Il tema si pone in continuità con il triennio educare
1987-1990 (Dio educa il suo popolo, Itinerari educativi, Educare ancora) e con i
primi cinque programmi pastorali 1980-1986 (La dimensione contemplativa della
vita, In principio la Parola, Attirerò tutti a me, Partenza da Emmaus, Farsi
prossimo). Non mi dilungo a spiegare questa continuità. Essa apparirà più chiara
nella terza parte della presente Lettera.
Rifletteremo sulla realtà del comunicare per un biennio. In
questo primo anno, ci occuperemo delle condizioni generali del comunicare umano;
nel 19911992 considereremo il mondo dei mass-media e il nostro posto in questo
pianeta difficile.
La presente Lettera è divisa in tre parti che si rifanno al
noto trinomio vedere, giudicare, agire, con l'avvertenza che il giudicare o
"valutare" è connesso con l'ascolto e la contemplazione del mistero di Gesù,
fonte di ogni giudizio giusto.
Le tre parti della Lettera corrispondono alle tre parti della
narrazione del sordomuto guarito (Mc 7, 31-37)
[4] Perché il tema del comunicare, che è un tema di sempre, è
particolarmente attuale in questo inizio degli anni '90?
Sottolineo alcune occasioni provvidenziali che caratterizzano
questo momento storico.
La prima riguarda il continente europeo. Siamo oggi
interpellati da quella straordinaria possibilità di futuro che il Papa ha
chiamato con il nome di "Europa dello spirito" (cf Discorso al Corpo diplomatico
accreditato presso la S. Sede, 12 gennaio 1990). E' necessario, perché tale
Europa sia possibile, un grande sforzo comunicativo tra i paesi europei, tra
l'est e l'ovest, tra il nord e il sud d'Europa. Tale impegno tocca da vicino la
vita delle Chiese: è un impegno di comunicazione ecumenica ed è insieme impegno
di operare a favore di condizioni di vita in cui la pace, la giustizia e la
salvaguardia dell'ambiente siano assicurate per tutti. Questo impegno è stato
assunto dai rappresentanti delle Chiese europee a Basilea nel maggio dell'anno
scorso 1989. Senza un salto di qualità nella nostra capacità di comunicare, non
coglieremo questa occasione provvidenziale e forse unica della nostra storia.
La seconda occasione è data dalla presenza sempre più
consistente anche nella nostra diocesi di persone provenienti dal terzo mondo.
La comunità cristiana è chiamata in causa non solo per le
emergenze assistenziali, ma anche e soprattutto per preparare le basi di una
Europa multirazziale capace di vivere in pace e giustizia, superando i rischi
dei ghetti e dei conflitti razziali che simili fenomeni portano con sé.
La terza è la preoccupazione recentemente espressa dalla
Chiesa italiana sul rapporto nord-sud anche nel nostro paese, con la Lettera
sulla questione meridionale dell'ottobre 1989. Commentando tale lettera nel
discorso di sant'Ambrogio, del 6 dicembre 1989, ricordavo che essa ci impegna
anche a rapporti di mutua comprensione, fraternità, accoglienza. Gli eventi
degli ultimi mesi non hanno reso più facile questo compito. La lettera che la
Conferenza Episcopale Italiana promulgherà per gli anni '90 sul tema della
carità dovrà trovarci preparati a questo esercizio di comunicazione fraterna.
La quarta occasione è quella della preparazione ormai
imminente al grande giubileo dell'anno 2000. Il Papa ne ha parlato dalla sua
prima Enciclica. Vogliamo vivere questa vigilia del terzo millennio in uno
sforzo non solo di apertura verso tutti ma pure di rinnovata capacità a
comunicare il Vangelo nel contesto della "nuova evangelizzazione". Tale
comunicazione della fede non può prescindere da quel mondo dei mass-media che
sempre più diventa lo scenario consueto della cultura europea e che minaccia di
inghiottire con la sua potenza ogni messaggio non omogeneo a una cultura della
concorrenza e del successo.
Perché sia possibile una comunicazione autentica del
messaggio in una Europa "mediatizzata", in un mondo che sta raggiungendo la
dimensione del "villaggio", occorre che noi ci impegniamo a migliorare in tutti
i campi le nostre capacità comunicative per metterle al servizio del Vangelo.
[5] "Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul
monte, si fermò là. Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi,
storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi ed egli li
guarì. E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli
storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano, i ciechi che vedevano. E
glorificava il Dio di Israele" (Mt 15, 29-31). "... e pieni di stupore dicevano:
Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!" (Mc 7, 37).
Queste parole dei vangeli mi ricordano lo choc provato
durante la visita a Varanasi (Benares), la capitale religiosa dell'India.
Lungo la discesa che porta al fiume Gange, prima di giungere
all'ultima scalinata dove si discende per il bagno sacro, sono ammassati in
mezzo alla strada centinaia di miserabili: storpi, lebbrosi, paralitici,
ciechi... Si agitano incessantemente, gridano, tendono le mani ai passanti per
avere un poco di elemosina. Si muovono a fatica, aggrappandosi a una ringhiera
di legno che passa per il centro della strada e permette loro di tirarsi con le
mani e scivolare sul terreno per ottenere un posto migliore per chiedere
l'elemosina. E' una visione che toglie il fiato! Nessuno di loro parla con chi
gli sta accanto, nessuno sembra pensare al suo vicino e alle sue immense
sofferenze. Ciascuno cerca di farsi notare più dell'altro con grida e gesti,
così da attirare su di sé l'attenzione dei pellegrini.
Ripenso spesso a questo triste spettacolo quando considero la
folla delle incomunicabilità umane che si toccano l'una con l'altra ma non si
parlano, ciascuna tesa verso una impossibile realizzazione del suo desiderio.
[6] Qualcuno tuttavia mi dirà: "Non esageriamo con queste
immagini tetre! Noi sappiamo comunicare e non abbiamo da chiedere niente a
nessuno".
E' vero che ci sono tanti bei momenti comunicativi anche
nella nostra società. Si pensi ad esempio alla facile comunicazione che di
solito esiste tra genitori e figli negli anni dell'infanzia e della
fanciullezza. Ma sono proprio questi momenti belli che ci fanno capire che in
tanti aspetti della vita le cose non vanno proprio come dovrebbero andare.
Proviamo a fare una piccola esplorazione al di là della
facciata. Quanta voglia frustrata di comunicare e quanta stizza e anche rabbia
di non saper comunicare c'è dentro di noi e intorno a noi!
[7] "Non sono in pace con me stesso. Sono in contraddizione
con me stesso. Non mi riesce di esprimere i miei sentimenti come vorrei. Debbo
mandar giù e reprimere, e questo alla lunga mi logora e mi deprime... Non mi
capisco, sento dentro tanta contusione . . . " .
Queste espressioni non sono inventate. Sono un repertorio di
ciò che sentiamo dentro di noi o ci viene comunicato in confidenza da altri o
cogliamo dietro il viso rabbuiato e teso dei nostri amici. La fatica a vivere
dentro di sé, a livello personale, una limpida comunicazione tra pensiero e
cuore, tra desideri e azioni, tra sogni e realtà, tra sentimenti e espressione
esterna, tra malumori e sfoghi, è qualcosa che ci portiamo dentro e che talora
ci è divenuta così connaturale da pensare che non vi sia rimedio alla "piccola
nevrosi" che ogni essere umano deve sopportare. Ma quando leggiamo, per esempio,
qualche vita dei santi o una loro autobiografia o quando incontriamo qualche
persona da cui traspare una grande limpidità, dominio di sé e pace, allora
intuiamo che esiste un modo diverso di vivere, che esso ci sarebbe più
connaturale, ma...
[8] La fatica del comunicare nel rapporto di coppia e nel
rapporto genitori-figli (dopo che essi hanno raggiunto una certa età) è così
proverbiale che stimiamo felici eccezioni quelle coppie o quei genitori che
dicono di non aver problemi a questo riguardo. Anzi li riteniamo su questo punto
poco credibili, desiderosi di mostrare una facciata diversa da quella che invece
è la fatica quotidiana che tutti sperimentiamo. Eppure sarebbe possibile
migliorare notevolmente il tessuto comunicativo all'interno della famiglia se
soltanto volessimo crederci un po' di più e investire un po' di sforzo su un
punto che è essenziale per la sanità e la gioia della vita.
Non parliamo poi dei casi in cui tale rapporto viene infranto
e la comunicazione appare totalmente bloccata: sono i casi che finiscono nel
divorzio o comunque nel crollo dei rapporti di coppia (nel mondo occidentale
siamo da un terzo alla metà delle unioni matrimonialì fallite). Nel caso dei
figli abbiamo le rotture drammatiche provocate dalla droga o da scelte asociali;
anche quando non si arriva a tali eccessi la conflittualità o almeno il blocco
comunicativo, il mutismo tra genitori e figli dopo i quindici-diciassette anni
raggiunge livelli alti e preoccupanti.
[9] Le esperienze di fatica nel comunicare tra loro da parte
dei diversi soggetti sociali è talmente grande che Ci slamo quasi rassegnati a
una conflittualità permanente tra gruppi con interessi diversi sia a livello
economico che a livello culturale e soprattutto politico. Non è che una certa
conflittualità, se contenuta entro i giusti livelli, sia sempre un male. Ma il
tasso odierno di litigiosità, esasperato non di rado dagli organi della
comunicazione di massa, ha raggiunto limiti che sembrano indicare una certa
"nevrosi sociale". Esso affatica gli operatori sociali, economici e politici,
molto più del lecito, crea nell'aria un clima di instabilità e di conflitto che
impedisce di godere anche delle cose belle che la vita e la società pur ci
offrono.
[10] Anche la Chiesa appare spesso non sciolta nel suo
comunicare quotidiano. Il livello di litigiosità della società civile si
trasmette in parte anche alle istituzioni ecclesiastiche. Non di rado si
comunica con difficoltà all'interno, ad esempio, della parrocchia: tra parroco e
preti collaboratori, tra preti e Consiglio pastorale, tra parrocchia e
movimenti, tra i diversi gruppi di fedeli e le diverse categorie sociali e
culturali (per esempio: vecchi residenti e nuovi immigrati). Un sintomo di
questa fatica comunicativa è dato anche dal moltiplicarsi di piccoli gruppi
omogenei atti a facilitare la comunicazione al loro interno. Tale rimedio si
rivela giusto solo in parte, perché un'intesa di gruppo ricercata per se stessa
rischia poi di esprimersi all'esterno in chiusura verso altre realtà ecclesiali
e quindi non risolve il problema se non al primo livello della comunicazione
interpersonale.
Anche la comunicazione della fede, che pure è un compito
primario della comunità cristiana, appare spesso titubante e incerta. I genitori
fanno fatica a comunicare la loro fede ai figli, specialmente dopo una certa
età, i credenti sono imbarazzati a parlare di fede ai non credenti.
E' questo uno dei problemi più drammatici della nostra
cultura occidentale, che sembra essere entrata in un "mutismo di fede" che
rasenta la paralisi.
[11] Se poi esaminiamo quel fenomeno che pure dovrebbe
costituire nella odierna società un collante sociale di prim'ordine, cioè la
comunicazione di massa, vediamo che essa sembra avere da tempo abdicato a questa
sua funzione per divenire cassa di risonanza, anzi di ampliamento di tutti i
conflitti, anche di quelli interpersonali. A partire dalla cronaca spicciola, in
particolare la "cronaca nera", fino alla comunicazione riguardante i grandi
fenomeni politici, il linguaggio e il tono degli strumenti della comunicazione
di massa (radio, quotidiani, settimanali, televisione) tende sempre più a
suscitare sensazioni forti ed eccitanti per "vendere" meglio e più di altri le
informazioni. La cosa diviene più preoccupante quando la "cassa di risonanza"
appare legata a interessi forti e occulti.
Puntando sul sensazionale, calcando sui particolari che
suscitano attrazione, disgusto, ribrezzo, pietà, si genera una inflazione dei
sentimenti e nello stesso tempo un accresciuto bisogno di emozioni sempre più
elettrizzanti.
Emerge anche un problema inquietante: queste logiche della
comunicazione di massa fino a che punto tendono a plasmare e a rendere più
difficile la stessa comunicazione interpersonale?
[12] Ritornando dunque alla domanda iniziale sulla "folla
delle solitudini" possiamo concludere che, pur potendo noi contare, grazie a Dio
e al nostro residuo di sanità mentale e umana, su non poche comunicazioni che
ancora "avvengono", in realtà c'è una miriade di canali comunicativi che, a
partire dai nostri rapporti interpersonali, sono bloccati o ingorgati. C'è
davvero una folla di solitudini che gridano il loro bisogno di essere risanate.
Per questo ci rivolgiamo in questa Lettera e in questo
programma pastorale a Gesù, Signore e maestro della comunicazione umana, che "ha
fatto udire i sordi e parlare i muti", perché ci assista in questo cammino verso
il ristabilimento di comunicazioni più autentiche tra noi e in tutta la nostra
società.
[13] A questo punto non vorrei che il lettore pensasse che,
per il risanamento dei nostri blocchi comunicativi, gli si proporrà una via
astrusa, pedante e difficile. Neppure vogliamo sostituirci ai manuali che
trattano a lungo della comunicazione interpersonale e sociale, dei suoi disturbi
e dei rimedi. Lasciamo a ciascuno il suo mestiere. Io parlo come vescovo e mi
limito a indicare quei punti nodali che possono aiutare a cambiare direzione
nella vita. Mi interessa perciò rispondere ora alla domanda: che cosa sta alle
radici della "folla di incomunicabilità", che abbiamo sopra richiamato? Non
parlo delle radici propriamente strutturali, riferibili ad esempio alla
imperfezione dei mezzi di comunicazione umana, né di radici in cui appare chiara
una deviazione morale maliziosamente intesa, come nel caso della menzogna e
della falsità. Parlo di qualcosa di più subdolo e pervasivo.
[14] E' sempre pericoloso semplificare in una mate- ria così
complessa. Ardisco farlo perché ritengo che c'è una ragione di fondo a cui si
possono riportare molti insuccessi e fallimenti nella comunicazione.
Si tratta di una talsa idea del comunicare umano che sottostà
a tanti tentativi falliti di entrare in comunicazione con l'altro. Tale falsa
visione non è sbagliata per difetto, cioè per una carente visione dell'ideale
comunicativo. E' sbagliata piuttosto per eccesso: vuole troppo, vuole ciò che il
comunicare umano non può dare, vuole tutto subito, vuole in fondo il dominio e
l1 possesso dell'altro. Per questo è profondamente sbagliata, pur sembrando a
prima vista grandiosa e affascinante. Che cosa c'è infatti di più bello di una
fusione totale di cuori e di spiriti? che cosa di più dolce di una comunicazione
trasparente, in perfetta reciprocità senza ombre e senza veli? Ma proprio in
tale ideale si cela una bramosia e una concupiscenza di "possedere" l'altro,
quasi fosse una cosa nelle nostre mani da smontare e rimontare a piacere, che
tradisce la voglia oscura del dominio.
[15] Sarebbe interessante analizzare questa "bramosia di
possesso" nelle sue radici culturali: come frutto cioè di quella "razionalità
strumentale", tipica dell'epoca moderna che identifica il "sapere" con il
"potere" e che diviene "volontà di potenza" promuovendo un imperialismo della
soggettività da cui può sgorgare ogni sorta di strumentalizzazione e cattura
dell'altro.
Non possiamo approfondire tale tema, del resto già spesso
trattato nella saggistica contemporanea. Ml limiterò a dare tre esempi di come
una volontà di potenza tende a ispirare rapporti non di scambio ma di dominio a
partire dal modo stesso di guardare alla natura e al creato.
[16] La crisi ecologica da tutti denunciata ha alla sua
radice un rapporto strumentale violento tra uomini e natura. I tempi e i modelli
della produzione e del consumo forzano i tempi biologici fino a farli saltare.
Impariamo a nostre spese che neppure la natura è un oggetto totalmente
disponibile e che occorre avvicinarla con spirito di attenzione e dialogo, non
di dominio.
Ci lamentiamo tanto della violenza e della aggressività nei
rapporti interpersonali e sociali. Anche qui ci troviamo di fronte a una volontà
di dominio dell'altro che non rifugge da mezzi drastici purché utili a
raggiungere un fine che viene considerato come necessario o almeno utile a me e
al mio gruppo. Così si spiega tanta disinvoltura nella lotta politica, tanto
carrierismo, tanta facilità a passare dai mezzi leciti a quelli illeciti nella
concorrenza. Si pensa di poter ottenere con qualsiasi mezzo ciò che si vuole.
Su questo sfondo più generale si colloca poi quella che
potremmo chiamare la fretta di comunicare, propria soprattutto dei giovani e di
tutti coloro che non hanno ancora imparato a rispettare i ritmi della persona
propria e altrui. Come la natura ha dei ritmi che non si possono forzare se non
a prezzo di ritorsioni, così, e a maggior ragione, la persona non può essere
avvicinata se non nel rispetto della sua soggettività e iniziando un dialogo
rispettoso che permetta una comunicazione autentica.
Questi e altri esempi mostrano che alle radici di tanti
fallimenti comunicativi sta un atteggiamento di fondo che pervade il rapporto
umano, anche quello con le cose inanimate, e che è una deviazione dal vero
concetto del comunicare: un voler possedere, dominare, sfruttare, identificare
con sé. Tutte scimmiottature della vera comunicazione.
[17] "Queste due cose uccidono l'anima: la disperazione e la
falsa speranza" dice s. Agostino. Ciò vale anche per la comunicazione: una falsa
speranza di comunicare assorbendo in qualche modo l'altro e rendendolo
perfettamente omogeneo a sé porta, a un certo punto, a disperare di riuscire a
comunicare in maniera autentica; così si rompono le amicizie, fanno naufragio i
matrimoni, nasce la diffidenza e la stanchezza là dove c'era l'alleanza e la
fiducia.
C'è però un'altra alternativa: è quella che vogliamo proporre
in queste pagine e percorrere nel nostro cammino di quest'anno.
Imparare a comunicare in maniera corretta aprendosi
all'ascolto del "vangelo della comunicazione", alla "buona notizia" di un
comunicare arduo, ma possibile, quello offertoci dal Dio vivente nell'atto
stesso del suo comunicarsi a noi.
Gesù "che ha fatto udire i sordi e parlare i muti" (Mc 7, 37)
viene a noi come maestro della comunicazione, se ci disponiamo a seguirlo nel
cammino di speranza che egli ci propone.
Questa è anche la preghiera che la Chiesa fa sul bambino dopo
il Battesimo: "Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti
conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede a lode e
gloria di Dio Padre" (Rito del Battesimo dei bambini, n. 74).
[18] Accingendomi a scrivere questa seconda parte della
Lettera risento quel disagio che mi prende ogni volta che devo invitare altri a
contemplare qualcosa del mistero di Dio. Il mistero è là, nuovo e sigillato,
come il roveto ardente. Eppure le parole che noi usiamo ci sembrano trite, un
po' sempre le stesse, e chi legge dice: "Ma si tratta delle solite cose!". E
intanto il roveto ardente è là e nessuno si avvicina sul serio né si lascia
bruciare da esso.
Ora qui il roveto ardente è addirittura il mistero della
Trinità. Non c'è infatti vera comunicazione interumana se non a partire da
quella realtà da cui, in cui e per cui l'uomo e la donna sono stati creati, cioe
il mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, la loro comunione
d'amore, il loro dialogo incessante. Dio crea l'uomo a immagine e somiglianza di
sé. Ogni creatura umana porta in sé l'impronta della Trinità che l'ha creata.
Tale impronta si manifesta anche nella capacità e nel bisogno di mettersi in
relazione con altri comunicando.
Tutto ciò appare già fin dalle prime pagine della Bibbia:
"Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" (Gen 1, 26); "Non è
bene che l'uomo sia solo" (Gen 2, 18); "Il Signore Dio passeggiava nel giardino
alla brezza del giorno" (Gen 3, 8). Con questi accenni discreti si parla della
misteriosa affinità che unisce l'uomo a Dio a differenza di tutte le altre
creature, della reciprocità e dialogicità tra uomo e donna e in genere tra
l'uomo e il suo prossimo, del dialogo che Dio volentieri instaura con la sua
creatura prediletta. Tutte le pagine della Scrittura approfondiscono le vicende,
le crisi, la ricostituzione di questo dialogo.
[19] Siamo quindi invitati ad ascoltare il vangelo della
comunicazione. Dio è comunione e comunicazione: si comunica a noi e ci abilita a
entrare in comunicazione gli um con gli altri, risanando i nostri blocchi
comunicativi.
Potremmo esprimere questo grande tema sinfonico con molti
motivi e richiamarlo con molte icone e simboli. Accennerò solo ad alcuni di
essi, perché il lettore sia invogliato a cercare nella Bibbia e a trovare ciò
che interiormente lo nutre. Non c'è niente che risani tanto il cuore come la
contemplazione del comunicarsi divino nelle sue diverse forme
Il racconto della discesa dello Spirito santo sugli Apostoli
e della conseguente loro capacità di esprimersi e di farsi capire in tutte le
lingue, superando la confusione di Babele (At 2, 1-47), è una delle icone più
efficaci del dono del comunicare che Dio elargisce al suo popolo.
Il brano degli Atti si compone di tre parti. Nella prima (2,
1-3) vengono descritti alcuni segni di una teofania, cioè di un intervento
divino: "venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte
gagliardo", "...apparvero loro lingue come di fuoco". Questi segni richiamano
quelli della grande teofania del Sinai (cf Es 19,16-19), dove il popolo
ricevette la legge e l'alleanza. Ma qui il fuoco assume la figura di lingue,
simbolo del comunicare umano.
Nella seconda parte (2, 3-12) si descrive il miracolo delle
lingue, sia nell'esperienza dei discepoli ("cominciarono a parlare in altre
lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi") sia in quclla degli
ascoltatori ("com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?").
Nella terza parte (2, 14-47) Pietro spiega che cosa è
avvenuto: si tratta del dono dello Spirito santo, inviato da Gesù Cristo che è
stato crocifisso e che è risorto. Vengono anche ricordati gli effetti
"contagiosi" di questo dono; da esso ha origine la prima comunità cristiana:
"quel giorno si unirono a loro circa tremila persone" (2, 41).
Il dono dello Spirito santo a Pentecoste suscita dunque una
straordinaria capacità comunicativa, riapre i canali di comunicazione interrotti
a Babele e ristabilisce la possibilità di un rapporto facile e autentico tra gli
uomini nel nome di Gesù Cristo. Esso suscita la Chiesa come segno e strumento
della comunione degli uomini con Dio e dell'unità del genere umano.
[20] Abbiamo detto sopra che alcuni segni del racconto della
Pentecoste (rombo, vento, fuoco) richiamano la pagina dell'Esodo in cui viene
descritta l'alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora l'alleanza è il fondamentale
evento comunicativo tra Dio e l'uomo. Nell'Esodo essa è introdotta così: "Ho
sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete
ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la
proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un
regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19, 4-5).
Numerose sono nella Bibbia le formulazioni
affini a questa:
"Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa d'Israele...: porrò la mia
legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore" (Ger 31, 33); "Il mio diletto
è per me e io per lui" (Ct 2,16; cf 6, 3).
Con diverse formule si esprime una realtà fondamentale: Dio
vuole entrare in comunione con il suo popolo, vuole comunicare con lui in uno
spirito di reciprocità e dì mutua appartenenza. Promette ed esige fedeltà. Tutte
le pagine della Scrittura risuonano di questa volontà divina: Dio vuole donare,
donarsi.
L'iniziativa è sempre di Dio, il quale offre, per puro amore
e in perfetta gratuità, liberazione, sicurezza, certezza per il futuro: "Il
Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti
gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il
Signore vi ama. Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio
fedele" (Dt 7, 7-9).
Alla radice della comunicazione sta dunque la gratuità.
L'evento comunicativo che regge tutta la storia è un evento gratuito e libero:
Dio decide di comunicarsi all'uomo entrando con lui in alleanza. A tale
iniziativa libera e gratuita del Dio vivente è chiesta una risposta libera e
grata: la risposta della fede.
La comunicazione di Dio, che si attua nell'alleanza, suscita
un popolo: esso è il frutto di tale azione divina. Di quì appare che i
raggruppamenti umani avvolti da questa onda comunicativa di Dio (famiglia,
comunità, popolo, comunità dei popoli) sono luoghi del comunicare umano
primordiale e sono garantiti e sostenuti dalla grazia del mistero di Dio, che li
muove a essere canali di comunicazione autentica fra esseri umani.
[21] A questo punto vorrei suggerire un utile esercizio per
continuare la riflessione sul tema dell'alleanza come tema fondamentale in cui
appare la natura comunicativa dell'agire divino nella storia. Si possono
riprendere i quattro brani biblici che abbiamo fin qui richiamato a proposito
del comunicare (la confusione delle lingue a Babele, Gen 11, 1-9, sopra n. 1; la
guarigione del sordomuto, Mc 7, 31-37, sopra n. 2; la Pentecoste, At 2, 1-47, n.
19; e l'alleanza presso il Sinai, Es 19, 1-7, n. 20) leggendoli come in sinossi,
notando le analogie e le differenze.
Mi limito a sottolineare tre analogie.
La prima riguarda l'impeto della diffusione comunicativa che
deriva dalla guarigione di Gesù nel vangelo di Marco e dall'effusione dello
Spirito nel testo degli Atti: la parola si diffonde, corre gioiosa, supera gli
ostacoli, raggiunge i cuori. In parallelo la comunicazione di Dio con il suo
popolo appare nel libro dell'Esodo all'inizio suscitatrice di timore, ma poi, si
rivela, nel seguito del racconto, come il nodo che terrà insieme per secoli
tutta la vicenda del popolo. All'opposto aleggia nel racconto di Babele la
tristezza di non capirsi, la vergogna di un'impresa non riuscita, l'incapacità
dei popoli a convivere insieme.
La seconda analogia si riferisce al frutto sociale e
collettivo del dono divino: dalla confusione di Babele (cf Gen 11) emerge un
popolo chiamato a vivere una profonda unità (cf Es 19). Questa unità sarà poi
comunicata a tutti gli altri popoli che si ricollegheranno all'iniziativa divina
dell'alleanza (cf At 2).
La terza si riferisce agli attori di queste scene bibliche
come di molte altre atfini. Dio Padre, che all'inizio ha sanzionato con un
castigo la ribellione delI'uomo (cf Gen 11), prende l'iniziativa di tornare a
comunicare con lui (cf Es 19). Tale iniziativa si compie in maniera svelata e
piena in Gesù Cristo Figlio di Dio che con amore tocca e risana l'uomo incapace
di parlare e di udire (cf Mc 7). Essa ha il suo culmine nel dono dello Spirito
santo che porta a compimento l'opera del Padre e del Figlio (cf At 2). La
comunicazione divina è dunque "trinitaria". Approfondiremo in seguito questo
punto.
Tale lettura con la ricerca delle analogie può essere
ampliata a tanti brani dell'Antico e del Nuovo Testamento che parlano
dell'alleanza e svelano la volontà di Dio di comunicare con l'uomo.
[22] Il dono della comunicazione può essere rifiutato. Il
primo passo verso il rifiuto è la diffidenza, la paura che l'altro non comunichi
davvero in gratuità, ma abbia qualche interesse nascosto. Il primo peccato nel
giardino dell'Eden ha questa caratteristica. "E' vero che Dio ha detto: Non
dovete mangiare di nessun albero del giardino?" (Gen 3, 1). Questa frase del
tentatore, nella sua paradossalità (come è possibile che Dio abbia proibito ogni
frutto?), ha un sottinteso maligno: ci deve pur essere una ragione di
convenienza personale per cui Dio vi ha proibito almeno uno dei frutti... forse
il suo agire non è poi così disinteressato come sembra.
Alla base del rifiuto della comunicazione stanno tanti
motivi,
ma uno dei determinanti è certamente quello della mancanza di fiducia nella
gratuità e sincerità dell'atto comunicativo.
Una elaborazione più complessa di questa diffidenza è
presentata nella prima pagina del libro di Giobbe. Il satana (qui ancora inteso
non come nome proprio, ma nella sua etimologia di "avversario", "accusatore", fa
cadere un sospetto sulla fedeltà di Giobbe: nella sua apparente irreprensibilità
egli è mosso dal proprio interesse, e come lui ogni altro essere umano (cf Gb 1,
9-11) e quindi non c'è posto tra gli uomini per la vera gratuità e, di
conseguenza, per rapporti comunicativi autentici. La scommessa viene accettata e
Giobbe passa attraverso molte prove che lo scuotono interiormente ma nelle quali
non perde la fiducia sostanziale in Dio, con cui egli continua a comunicare pur
nella esasperazione del suo dolore. La scommessa è dunque perduta dal satana.
Egli non è riuscito a provare che l'uomo comunica con Dio solo per interesse
proprio. Anche nell'uomo dunque c'è vera gratuità; la capacità comunicativa
dell'uomo, messa in lui da Dio stesso, è stata passata al vaglio e si è
dimostrata autentica.
Ma la tentazione continua in ogni giorno della storia. Il
Nuovo Testamento chiamerà il tentatore anche diavolo cioè "il divisore". Egli
tende a dividere l'uomo da Dio, l'uomo dall'uomo, gruppi da gruppi, insinuando
il sospetto che l'altro cerca il proprio interesse e vuole farmi fuori. Non
esiste comunicazione autentica - ripete la voce maligna -, bisogna arrangiarsi
per sopravvivere difendendosi da tutti. La comunicazione è viziata da un
sospetto di fondo: l'altro cerca in realtà se stesso, quindi mi può ingannare,
spesso di fatto mi inganna.
Questa tentazione di sfiducia pervade ogni rapporto umano e
lo mina alla radice. Il comunicare è perennemente insidiato da domande come
queste: "Mi vorrà davvero bene? merita davvero il mio amore? posso mai fidarmi
di qualcuno al mondo, al di fuori di pochi intimi? e se Dio stesso mi ingannasse
o mi abbandonasse alla mia solitudine e al mio silenzio? " .
Di simili timori e tentazioni "diaboliche" è piena la terra.
Per questo tanti sono spiritualmente sordi e muti, come il malato del vangelo (cf
Mc 7, 31-37) e nascono tante diffidenze, gelosie, sospetti. Si troncano le
amicizie, si separano le famiglie, si rompono i contratti, si violano i patti
sacri tra le nazioni. Tutto ciò grida verso un risanamento, una riabilitazione
dei rapporti. Bisogna che ci sia Qualcuno, del cui amore non possiamo dubitare,
che compia un gesto di amore irrefutabile: è Gesù sulla croce. Occorre che tutti
i rapporti umani siano invasi da quella gratuità che sopravviene in abbondanza
dall'alto, dal mistero dell'amore gratuito di Dio, dal mistero della morte di
Gesù per noi per puro amore e senza alcun interesse proprio, dal dono dello
Spirito santo.
[23] Potremmo concludere questa prima riflessione sul dono
del comunicare riassumendo i dati fin qui emersi.
L'uomo è fatto per comunicare e per amare: Dio lo ha fatto
così. Di qui si spiega anche l'immensa nostalgia che ciascuno di noi ha per
poter comunicare a fondo e autenticamente. Non c'è nessuna persona umana che
sfugga a questo intimo desiderio. Esso penetra in tutte le nostre relazioni,
rimane anche là dove tutto il resto sembra depravato e corrotto. Anche negli
abissi della più cupa disperazione e disgusto di sé affiora, come una stella
alpina sull'abisso, la voglia comunque di comunicare davvero con qualcuno, di
trovare una persona che in qualche modo ci capisca e ci accetti. Questo stigma
che portiamo dentro per sempre è un riflesso di colui che ci ha fatti e insieme
testimonia delle storture che noi abbiamo imposto a questo desiderio e a questo
diritto sano e sacrosanto. I fallimenti del comunicare umano hanno alla radice
la distorsione di un impulso che è nel fondo di noi stessi.
Come raddrizzare e purificare questa passione profonda e vera
che ci portiamo dentro? come esprimerla in modo autentico?
E' Dio stesso che ci viene incontro: egli è comunicazione, è
capace di risanare i nostri fallimenti comunicativi e dì riempirci della grazia
di un flusso relazionale sano e costruttivo.
[24] Dico anzitutto con una immagine ciò che poi tenterò di
spiegare con parole. Vi invito a contemplare (è annessa a questa Lettera) una
rappresentazione della Trinità che ha il suo capolavoro nell'opera del Masaccio
in S. Maria Novella di Firenze. E' chiamata la "Trinitas in Cruce", la "Trinità
nella Croce" o anche il "Trono delle grazie" ed è molto comune nel mondo
occidentale.
Guardate anzitutto il Padre al centro della figura in alto.
Egli regge con le sue braccia il legno della croce, da cui pende Gesù. Il Padre
è lì nell'atto di offrire il suo Figlio, di comunicarlo a noi in un gesto di
amore infinito. "Dio non ha risparmiato suo Figlio ma lo ha consegnato per tutti
noi" (Rm 8, 32). "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha
mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui"
(1 Gv 4, 9). Il Padre è colui che prende l'iniziativa del dono, è la pura
gratuità, la sorgività pura del comunicare.
Volgete poi lo sguardo contemplativo al Figlio. Nel suo
essere inchiodato alla croce egli, nello stesso tempo, si abbandona e si offre
al Padre, si consegna agli uomini che tanto ama, anche ai suoi uccisori.
Al centro si vede la colomba, figura dello Spirito santo.
Esso sta tra il Padre e il Figlio come segno di comunione tra i due e come
frutto del dono che Gesù fa della sua vita. Lo Spirito "apre" la Trinità al
mondo, al tempo stesso in cui unisce il mondo al Figlio e in lui al Padre.
Tutto questo donarsi di Dio è per l'umanità rappresentata ai
piedi della croce da Maria e dal discepolo prediletto.
La scena rappresenta l'atto supremo della comunicazione
divina. Ogni persona della Trinità divina si dona all'altra e da questa
comunicazione di amore scaturisce un dono straordinario e misericordioso per
l'umanità, chiamata a sua volta a entrare in questa circolazione di amore.
Questa scena è una scena di morte: il Crocifisso è l'uomo rifiutato, di cui
l'umanità non ha voluto accettare il messaggio. Ma ora tutto spira vita,
comunicazione, speranza. E' il mistero pasquale, morte per amore, vita dalla
morte. Tutto è letto infatti nella luce della risurrezione. La comunicazione tra
Dio e l'uomo e degli uomini tra loro viene restaurata e rilanciata secondo
dimensioni e potenzialità divine.
[25] Cerco ora di ridire, in forma espositiva, quanto abbiamo
contemplato nell'immagine della "Trinitas in Cruce". Dio rivela se stesso e il
suo intimo mistero nel modo stesso del suo comunicarsi agli uomini.
Il suo comunicare con noi è il suo comunicarsi, farsi
conoscere nel suo mistero più profondo che noi esprimiamo con il nome di
Trinità. Il comunicarsi divino nella storia culmina, infatti, nella incarnazione
del Verbo di Dio in Gesù di Nazaret e nella sua morte in croce e risurrezione.
Ora se noi contempliamo questo mistero vi scorgiamo anche la manifestazione di
ciò che Dio è in sé.
Nell'incarnazione e nel mistero pasquale noi veniamo,
infatti, a conoscere quel Figlio che S.Ignazio di Antiochia chiama "Verbo
procedente dal silenzio". Egli è colui nel quale il Padre (che è come il
Silenzio, il mistero nascosto che sta all'origine del comunicare) si esprime e
si fa conoscere. Gesù in tutta la sua vita non ha voluto fare altro che rivelare
il Padre: "Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini" (Gv 17, 6). Gesù come
Verbo procedente dal Padre si comunica agli uomini e alle donne di tutti i
secoli fino ad oggi inviando lo Spirito. Lo Spirito può essere chiamato
"l'Incontro": incontro di Parola e di Silenzio, di Dio Trinità con gli uomini.
Per lui avviene in ciascuno di noi il misterioso incontro con l'amore che il
Padre ha per noi fin dal silenzio eterno e che ci manifesta, nel tempo, in suo
Figlio.
Tutto il mistero creativo e redentivo è dunque un grande atto
del comunicare divino, che ci manifesta un Dio unico in Tre persone che possono
anche essere designate come il Silenzio fecondo da cui nasce la Parola mediante
la quale si realizza l'Incontro: e tutto ciò si avvera in pienezza nella Croce.
Per questo un teologo contemporaneo (J. Moltmann) ha scritto: "Se vogliamo
sapere chi è Dio, dobbiamo inginocchiarci ai piedi della Croce". E io aggiungo:
se vogliamo imparare a comunicare, dobbiamo contemplare la Croce, lasciarci
folgorare dal Figlio crocifisso.
[26] La vita intima di Dio, per quanto possiamo co- noscerla
su questa terra, ci appare un continuo profondo inesauribile comunicare tra le
Persone divine. Il Padre "dice" il Figlio, e dicendolo lo genera e gli comunica
tutto ciò che è e ciò che ha. Il Figlio chiama il Padre e gli si dona in
totalità con perfetta obbedienza. Lo Spirito santo procede dal Padre e dal
Figlio, ne è il legame vivente, frutto perfetto e personale del dialogo di amore
tra il Padre e il Figlio.
Tutte queste cose noi possiamo appena intuirle e balbettarle.
In particolare alcune parole di Gesù ci aiutano a entrare in una tale visione.
Molte di esse riguardano il rapporto tra il Padre e il
Figlio: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non
il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio
lo voglia rivelare" (Mt 11, 27); "Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò
che vede fare dal Padre; quello che egli fa anche il Figlio lo fa. Il Padre
infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa" (Gv 5, 19-20); "Io
vivo per il Padre" (Gv 6, 57); "Colui che mi ha mandato è sempre con me" (Gv 8,
29); "Il Padre conosce me e io conosco il Padre" (Gv 10, 14); "Il Padre è in me
e io nel Padre" (Gv 10, 38); "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10, 30);
"Padre... sempre mi dai ascolto" (Gv 11, 4142); "Io non ho parlato da me, ma il
Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e
annunziare... Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a
me" (Gv 12, 50); "Chi ha visto me ha visto il Padre... non credi che io sono nel
Padre e il Padre è in me?" (Gv 14, 9-10).
Altre parole introducono lo Spirito santo in questa comunione
di amore: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché
rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità" (Gv 14,16-17); "Il
Consolatore, lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi
insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (Gv 14, 26);
"Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità
che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza" (Gv 15, 26).
Dalle parole evangeliche traspare quel senso di profonda
comunione e scambio che vige nel mistero di Dio e che è alla radice di tutto il
nostro comunicare umano. Nella comunione trinitaria il dialogo tra le persone
divine è incessante. Possiamo dire che nella Trinità le tre persone divine sono
tanto più persone in quanto formano un'unica comunione e tanto più sono una
comunione in quanto sono persone. Così ciascuno di noi realizza tanto più
pienamente se stesso quanto più vive la propria identità in dialogo e dono con e
per gli altri.
[27] Il comunicare interno al mistero delle Persone divine si
allarga a quella creatura privilegiata che è l'uomo. Ogni uomo e donna di questo
mondo sono chiamati a far parte di questo misterioso flusso comunicativo.
Riportiamo qualche altra parola di Gesù in questo senso: "Questa infatti è la
volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita
eterna (cioè la partecipazione alla stessa vita divina); io lo risusciterò
nell'ultimo giorno" (Gv 6, 40); "Come il Padre che ha la vita ha mandato me e io
vivo per il Padre, cosl anche colui che mangia di me vivrà per me" (Gv 6, 57);
"Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto
conoscere a voi" (Gv 15, 15); "Io in loro e tu in me, perché siano perfetti
nell'unità" (Gv 17, 23).
Queste parole ci introducono a considerare più da vicino come
Dio ha comunicato con l'uomo in maniera piena, abbondante e significativa, cioè
nella storia di salvezza e in special modo nella persona di Gesù.
[28] A partire dalla prima pagina del primo libro della
Bibbia, tutto è storia del comunicare divino alla umanità: "Dio creò l'uomo a
sua immagine, a immagine di Dio 1O creò, maschio e femmina li creò" (Gen 1, 26).
La somiglianza con Dio permette il dialogo con lui, mentre la creazione di uomo
e donna pone dall'inizio ogni persona umana in situazione dialogica con i propri
simili.
Il dialogo di Dio con l'umanità inizia da allora e prosegue
per tutta la Scrittura. Esso ha i suoi momenti di crisi e di rottura, sia nel
dialogo tra uomo e Dio, a partire dal "peccato originale" (cf Gen 3), sia nel
dialogo tra persone umane (a partire dall'uccisione di Abele: cf Gen 4), sia nel
dialogo tra i popoli e le culture (cf sopra n. 1 a proposito della torre di
Babele di Gen 11). Ma ha pure parallelamente le sue continue riprese, suscitate
dall'instancabile amore comunicativo di Dio. Abbiamo ricordato sopra due momenti
fondamentali di queste riprese: l'alleanza presso il Sinai (cf n. 20 e Es 19) e
la Pentecoste (cf n. 19 e At 2).
La Bibbia intera può essere dunque letta come la storia del
dialogo tra Dio e gli uomini e degli uomini tra loro, nel continuo sforzo di
intendersi o nei fallimenti comunicativi che regolarmente si verificano e nel
loro superamento.
Tra tutte le pagine della Scrittura emergono, anche sotto
questo punto di vista, le pagine dei vangeli. Vorrei con alcune brevi
indicazioni aiutare a rileggere in questa luce i fatti e le parole di Gesù.
[29] Do alcuni criteri generali di lettura distinguendo
cinque tipi di brani evangelici in cui emerge il tema della comunicazione.
a. Miracoli in cui Gesù ristabilisce una comunicazione
bloccata o interrotta. Molto efficace al proposito è il racconto della
guarigione dell'indemoniato geraseno che "da molto tempo non portava vestiti né
abitava in casa" (Lc 8, 27), "aveva la dimora nei sepolcri e nessuno più
riusciva a tenerlo legato anche con catene... continuamente notte e giorno tra i
sepolcri e sui monti gridava e si percuoteva con pietre" (Mc 5, 3.5). Questo
essere asociale e chiuso nella sua follia è mutato dalla potenza del Signore in
un uomo che sta tranquillamente seduto presso di lui "vestito e sano di mente" (Mc
5,15), che lo prega "di permettergli di stare con lui" (Mc 5, 18).
Tra gli altri racconti simili abbiamo già ricordato quello
della guarigione del sordomuto (Mc 7, 31-37) che abbiamo posto all'inizio come
simbolo di questa Lettera (cf n. 2). Si possono anche considerare il racconto
del demonio muto (cf Lc 11, 14), il cieco di Betsaida (Mc 2, 22-25), e".
b. Parole di Gesù che smascherano i tranelli della
comunicazione interpersonale e le ipocrisie e i blocchi comunicativi nei
rapporti tra gruppi. Gesù disillude sin dall'inizio chi si attende da lui ciò
che egli non ha intenzione di fare: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o
mediatore sopra di voi?" (Lc 12,14).
A chi gli chiede di seguirlo ostentando una totale
disponibilità ("Maestro, ti seguirò dovunque andrai": Mt 8, 19) Gesù risponde:
"Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio
dell'uomo non ha dove posare il capo" (Mt 8, 20).
Molti rapporti interpersonali risultano imprecisi e fragili
perché non si è fatta chiarezza sulle intenzioni reali che ciascuno ha e sulle
conseguenze che esse comportano. Per questo Gesù insiste nel precisare le
esigenze della sequela: "Siccome molta gente andava da lui, egli si voltò e
disse: "Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere
mio discepolo"" (Lc 14, 26-27). Per questa chiarezza di linguaggio Gesù non teme
di perdere anche dei seguaci: il ricco che voleva "avere la vita eterna" (Mc 10,
17) se ne andò afflitto quando Gesù gli spiegò che doveva lasciare tutto.
Perfino agli Apostoli, in un momento difficile, Gesù dice: "Forse anche voi
volete andarvene?" (Gv 6, 67).
Terribili sono i rimproveri di Gesù a coloro il cui
linguaggio non è schietto e le cui in-renzioni sono storte, o che non fanno lo
sforzo dovuto per capire a fondo la situazione: "Ipocriti! Sapete giudicare
l'aspetto del cielo e della terra, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?
E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc 12, 56); "Non
intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non
vedete, avete orecchi e non udite?" (Mc 8, 17-18); "Guai a voi, scribi e farisei
ipocriti... guai a voi, guide cieche..." (Mt 23 13ss.); "Guardatevi dal lievito
dei farisei, che è l'ipocrisia. Non c'è nulla di nascosto che non sarà svelato,
né di segreto che non sarà conosciuto" (Lc 12, 1-2).
c. Parole e gesti con cui Gesù promuove e incoraggia la
comunicazione, l'amicizia, lo stare insieme in fraternità. Tutto il suo
insegnamento è dato a partire da una comunione di persone che egli chiama a
"stare con lui" (Mc 3, 14) e che egli tratta come amici ("A voi miei amici,
dico...": Lc 12, 4; "Vi ho chiamati amici": Gv 15, 15). Vi sono nei vangeli
pagine mirabili in cui appare la capacità di Gesù di instaurare un dialogo (per
es. con Nicodemo: Gv 3, 1-14; con la Samaritana: Gv 4, 1-30) e il calore della
sua comprensione e della sua amicizia (per es. in casa di Simone il lebbroso di
fronte alla donna peccatrice: Lc 7, 36-50; in casa di Marta e Maria: Lc 10,
38-42; con Lazzaro: Gv 1 1).
d. Parole e gesti di Gesù con cui egli esprime da una parte
la sua relazione unica con il Padre e insieme il suo voler stare con gli uomini.
Dopo una giornata di incontri con la gente, in particolare con i malati "al
mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo
deserto e pregava "(Mc 1, 35). "In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a
pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno chiamò a sé i suoi
discepoli e ne scelse dodici" (Lc 6, 12-13).
e. Infine si possono considerare tutti i modi che Gesù usa
per comunicare in maniera verbale e non verbale. La povertà della nascita a
Betlemme, la presenza silenziosa a Nazaret per trent'anni, il suo stare a tavola
anche con i peccatori, il suo intrattenersi a lungo con i malati, il suo pianto
su Gerusalemme e su Lazzaro, sono tutti modi esemplari di comunicazione non
verbale. Le parabole e similitudini, le interpellazioni, le invettive, gli
interrogativi con cui scuote i suoi e la gente, sono tutti modi efficacissimi di
comunicazione verbale che possono essere analizzati con frutto anche mediante
gli strumenti della analisi strutturale e della "nuova retorica".
[30] Vi invito a questo punto a fare quattro riflessioni:
considerare anzitutto alcune costanti della comunicazione divina così come essa
ci si presenta nella storia della salvezza, dedurne quindi indicazioni per le
caratteristiche di un'autentica comunicazione umana, riflettere sull'ampiezza
dei destinatari della comunicazione divina e infine sui rischi della
comunicazione.
Potremmo esprimere le costanti nelle seguenti tesi.
1. La comunicazione divina è preparata nel silenzio e nel
segreto di Dio. E' "rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni" (Rm 16,
25), "mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell'universo" (Ef
3, 9).
2. La comunicazione divina all'uomo è progressiva, cumulativa
e storica. Non si verifica cioè in un solo istante, ma comprende diversi tempi e
vicende che vanno capiti e letti nel loro insieme. Essi si collocano nella scena
di questo mondo e la modificano. La comunicazione di Dio all'umanità si attua
con eventi e parole che si rimandano e si spiegano a vicenda. Nel suo insieme
tale rivelazione si chiama "storia della salvezza" ed è descritta nella Bibbia.
La Bibbia è quindi il libro dell'autocomunicazione di Dio ed è sommamente
prezioso per coglierne e comprenderne i diversi momenti e le caratteristiche.
3. L'autocomunicazione divina nella storia si attua in una
dialettica di manifestazione e di nascondimento. Non è un procedere "di gloria
in gloria", in un crescendo di luce senza ombre. E' piuttosto un susseguirsi di
eventi di cui alcuni sono luminosi e altri enigmatici. Solo la pazienza della
decifrazione di tale serie cumulativa di parole e fatti ci permette di cogliere
il mistero vivente che vuole si comunicarsi pienamente, ma solo a chi lo accetta
e lo cerca. Se Dio si comunicasse unicamente come luce, ci annienterebbe. Dio si
rivela nella penombra per coloro che liberamente accettano le prime vestigia
della sua presenza, disponendosi ad accoglierlo.
Questo mi pare anche il motivo fondamentale per cui Gesù
parlava in parabole. L'eccesso di comunicazione annienta l'altro e lo annulla.
Ogni comunicazione è graduale, prudente, rispettosa dell'altro.
4. L'autocomunicazione divina non ha sulla terra la sua
pienezza (anche se ha nel mistero pasquale il suo culmine). Occorre dunque
distinguere la comunicazione in via dalla comunicazione in patria. Solo nella
vita eterna conosceremo come siamo conosciuti (cf 1 Cor 13, 12) e "vedremo Dio
come egli è" (1 Gv 3, 2). Sulla terra il comunicare divino ha valore
anticipatorio su ciò che ci sarà dato, è una promessa di ciò che verrà. Ne
deriva l'incompiutezza di ogni comunicare storico. Quando tendiamo, anche
nell'incontro con Dio, a una comunicazione perfetta e senza ombre, vogliamo
anticipare qualcosa che non è di questa terra ma è proprio della pienezza
definitiva del Regno.
Tale incompiutezza va tenuta presente a maggior ragione in
ogni comunicare umano. Non potremo mai su questa terra conoscere l'altro così
come egli è. Vi sarà sempre un "segreto", una riserva misteriosa, una soglia che
non è possibile né utile varcare.
5. L'autocomunicazione divina è personale. Dio comunica non
altro da sé, ma se stesso, con indicibile amore, e tutto quanto comunica al di
fuori di sé non è che segno o simbolo della volontà di comunicare se stesso come
dono supremo.
Nello stesso tempo la comunicazione divina è interpersonale,
fa appelIo all'altro, all'uomo che la riceve, affinché si metta in stato di
attenzione, di accoglienza, di ascolto. Senza reciprocità non si ha
comunicazione. Il Dio vivente fa appello all'uomo vivente suscita la fede e la
speranza.
6. La comunicazione divina assume tutti i modi della
comunicazione interpersonale: è informativa, appellativa e insieme
autocomunicativa. Comunicando informa su contenuti e dottrine che rinviano alla
verità personale del Dio vivente. Fa appello all'uomo chiamandolo, promettendo,
minacciando, esortando. E' autocomunicativa, perché ciò che alla fine Dio vuole
comunicare è la sua persona.
Possiamo cogliere questi tre momenti della comunicazione
divina (e in fondo di ogni comunicazione) nelle tre diverse persone con cui un
verbo viene coniugato. Alla terza persona ("è") si esprime la verità di un
contenuto, di una informazione. Alla seconda persona sia all'indicativo che
all'imperativo ("tu sei - sii") si esprimono gli appelli, le esortazioni, le
indicazioni precettive. Alla prima persona ("io sono") colui che parla si
comunica f;no alla manifestazione di sé e del suo mistero. Ricordiamo che la più
alta parola dell'Antico Testamento con cui Dio si designa è, appunto, "Io Sono"
(Es 3, 14).
[31] Ritengo opportuno approfondire un momento la tesi n. 5
del titolo precedente, dove ho detto che la comunicazione divina è non solo
personale ma anche interpersonale.
Il comunicare di Dio con l'uomo, radice e immagine perfetta
di ogni comunicare nel mondo, non è a senso unico (parola di Dio - ascolto
dell'uomo). Esso suscita un circuito di risposta che è proprio di ogni
comunicare autentico: parola-ascolto-risposta.
Dio richiede dall'uomo anzitutto l'ascolto e l'accoglienza
fiduciosa della sua Parola: la fede. E' la prima risposta che l'uomo dà con
tutto se stesso a Dio che parla, ricevendo il suo messaggio e accogliendolo come
principio e norma per la sua esistenza.
La fede suscita poi nel credente una serie di risposte di
valore che toccano diversi aspetti del comunicare umano: riconoscenza, lode,
ammirazione, adorazione, offerta di sé, fiducia, affidamento, domanda fiduciosa.
Nasce di qui la multiforme e indescrivibilmente ricca attività della preghiera.
La preghiera è dialogo, non monologo: già nel suo primo
sorgere nasce dalla fede (o almeno dal desiderio e dalla intuizione di fede? e
si configura quindi come risposta. In seguito, si nutre costantemente della
parola di Dio nella liturgia, nell'ascolto della parola della Chiesa, nella
lettura personale della Bibbia, nel discernimento delle ispirazioni dello
Spirito santo. C'è dunque un ritmo ininterrotto di parola divina e risposta
umana, che dispone a recepire nuove parole e risposte di Dio. Il dialogo tra il
credente e il suo Dio, tra ogni battezzato e il Padre, il Figlio e lo Spirito
santo costituisce la trama di tutta la giornata. Chi prega così può ripetere le
parole di Gesù: a Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo" (Gv
8, 29); "Io non sono solo perché il Padre è con me" (G2) 16, 32).
[32] Le costanti della comunicazione divina ci permettono di
considerare ora alcune caratteristiche della comunicazione interumana che
possiamo derivare dalla contemplazione del modo con cui Dio si rivela.
1. Ogni comunicazione autentica nasce dal silenzio. Infatti
ogni parlare umano è dire qualcosa a qualcuno: qualcosa che deve anzitutto
nascere dentro. Nascere dentro suppone un autoidentificarsi, un autocomprendersi,
un cogliere la propria interiore ricchezza. Molte forme di loquela non sono vera
comunicazione, perché nascondono un vuoto interiore: sono chiacchiera, sfogo
superficiale, esibizionismo... Ogni vera comunicazione esige spazi di silenzio e
di raccoglimento. Non è necessaria la moltitudine delle parole per comunicare
davvero. Poche parole sincere nate da un distacco contemplativo valgono più di
molte parole accumulate senza riflessione.
2. La comunicazione ha bisogno di tempo. Non si può
comunicare tutto d'un colpo, in fretta e senza grazia. Se Dio ha diffuso una
comunicazione tanto importante ed essenziale come quella dell'alleanza nell'arco
di un lungo tempo storico, vuol dire che anche la comunicazione ha bisogno di
tempi e momenti, è un fatto cumulativo, richiede attenzione all'insieme. A
questo riguardo noi manchiamo spesso per disattenzione, fretta, superficialità.
Occorre saper cogliere i momenti giusti senza bruciare le tappe.
3. Non bisogna spaventarsi dei momenti di ombra. Luci e ombre
sono vicende normali del fatto comunicativo. Chi nel rapporto interpersonale
vuole solo e sempre luce, chiarezza, certezza assoluta, dà segno di voler
dominare piuttosto che comunicare, cade nella gelosia e si aliena l'altro, anche
se in apparenza lo conquista. Dobbiamo accettare la "croce" della comunicazione
se vogliamo giungere a quella trasparenza che è possibile in questa vita.
4. La trasparenza comunicativa raggiungibile quaggiù non è
mai assoluta. Il volerla forzare oltre il giusto, oltre la soglia di quello che
è il segreto, forse neppure accessibile del tutto a chi lo possiede, fa scadere
nella banalità. Mi domando se alcune volte anche nei gruppi religiosi non si
pratichi una comunicazione di se che non rispetta il segreto di ciascuno. La
Chiesa ha istituito la confessione privata proprio per questo. Non tutto ciò che
è personale e privato può essere comunicato ad altri in pubblico; la conoscenza
di tutto quanto è nel fratello o nella sorella non sempre aiuta l'amicizia e
l'amore. Pudore, riserbo, rispetto sono garanti dell'amicizia vera.
5. La comunicazione coinvolge sempre in qualche modo la
persona che comunica. Pur se molti rapporti comunicativi non raggiungono la
profondità di una comunicazione in cui chi parla dice qualcosa di sé,
implicitamente però ogni comunicare coinvolge la persona che parla, almeno al
livello più semplice della verità delle informazioni che sono trasmesse e
dell'autenticità dei sentimenti che sono espressi. Dunque, in qualche modo, chi
parla dice sempre qualcosa di se, esprimendo la sua onestà di fondo (o
disonestà) e la sua apertura (o chiusura) agli altri e al mondo.
6. I tre modi che sopra abbiamo ricordato (informazione,
appello, autocomunicazione) sono continuamente in atto nei nostri discorsi, in
modi più o meno espliciti. L'abitudine ad ascoltare bene gli altri (prima ancora
di pensare cosa dobbiamo dire noi) ci renderà sensibili a molte di queste
sfumature mirabili del comunicare tra persone e ci aiuterà anche a cogliere dove
stanno i blocchi comunicativi e come si possono superare.
7. Dobbiamo ricordare ciò a cui sopra abbiamo dedicato un
apposito paragrafo, cioè la reciprocità. Non c'è autentico comunicare se non c'è
l'intenzione di suscitare una risposta. D'altra parte questa intenzione, per
essere seria, deve partire dall'attenzione a ciò che l'altro sente, vive o
desidera. Molte volte la risposta è svagata o sfocata perché la comunicazione
iniziale, di avvìo, è stata formulata al di fuori dell'orizzonte e degli
interessi di chi ascolta. Questa è una delle ragioni del dialogo difficile, per
esempio, tra figli e genitori di una certa età, quando chi parla non fa la
fatica di mettersi nel contesto e negli interessi di colui al quale vuole
parlare. E' anche una delle cause dell'insuccesso di certe iniziative di
catechesi per gli adulti.
Si può collegare qui il tema vasto e importante del dialogo,
a partire da quello più semplice fino al dialogo di fede. Richiamo l'importanza
di documenti della Chiesa che ne trattano espressamente: l'Enciclica di Paolo
VI, Ecclesiam suam (1964), nella sua terza parte è tutta dedicata al dialogo
che, secondo quattro cerchi concentrici, coinvolge tutta l'umanità;
l'Esortazione postsinodale di Giovanni Paolo II Riconciliazione e Penitenza
(1984), con la descrizione del dialogo che "per la Chiesa è, in certo senso, un
mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo"
(n. 25).
[33] Destinatari della comunicazione divina sono tutti gli
uomini, ogni uomo e donna che viene in questo mondo, e tutto l'uomo nella
pienezza della sua umanità, della sua storia e della sua cultura. Tale passione
comunicativa universale di Dio in Gesù Cristo nello Spirito santo è
l'evangelizzazione, cioè l'annunzio della buona notizia di Dio che si comunica,
il mistero stesso di Dio amore reso vicino e presente a ogni uomo e donna in
qualunque parte della terra. La Chiesa, e ogni persona che si sente amata da
Dio, è dunque spinta a evangelizzare a partire dal fuoco divino.
"Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" dice Gesù
(Mt 10, 8). In queste parole sta il segreto dell'evangelizzazione che è
comunicazione dell'Evangelo secondo lo stile dell'Evangelo: la gratuità, la
gioia del dono divino ricevuto per puro amore. Solo chi ha provato tale gioia la
può comunicare: ma a tutti è dato di provarla. Non esistono preclusioni per
questa "esperienza religiosa" che non richiede nessuna particolare
predisposizione (come forse avviene per alcuni dei fenomeni che comunemente
vanno sotto il titolo di "esperienze religiose"). Basta essere uomini e donne e
accettare di essere amati così come il Padre ce ne ha dato testimonianza storica
incontrovertibile nella croce di Gesù.
Chi ha accettato di lasciarsi amare in tale maniera, trova
che non c'è altra "notizia" da comunicare e far conoscere più valida e bella di
questa. Naturalmente tenendo conto delle leggi comunicative sopra ricordate, tra
cui quella della progressione e del rispetto della libertà altrui e dei suoi
tempi.
L'evangelizzazione è qualcosa di misterioso e di un po'
inafferrabile, come la comunicazione autentica che non si lascia del tutto
programmare e possedere. E' un mistero che ha le stesse caratteristiche luminose
e velate del mistero di Dio.
[34] Come rovescio della medaglia di quanto
finora si è
detto, può essere utile considerare brevemente a quali rischi è esposto il
comunicare umano e cristiano. Ci servirà per fare un buon esame di coscienza su
tanti fallimenti comunicativi sia nel rapporto interpersonale o di gruppo, sia
nello stesso sforzo di essere evangelizzatori.
Esprimo sinteticamente tre rischi del comunicare: la
dissociazione, la non reciprocità, l'impazienza.
a. Intendo per dissociazione l'incapacità a vivere l'unità
dell'atto del comunicare di cui è modello la realtà trinitaria, che è insieme
Silenzio, Parola e Incontro. Se il comunicare è soltanto parola, scade nel
verbalismo o nel concettualismo. Se è solo silenzio, cade nel mutismo, nella
paura a investire in atti comunicativi, nella timidezza e nel ritrarsi
orgoglioso e scontroso, oppure dà luogo ad ambiguità comunicativa per troppo
risparmio di parole. Se è o pretende di essere solo incontro, scade
nell'esteriorità e nella strumentalizzazione dell'altro.
b. La non reciprocità è pretesa di comunicare a senso unico:
"Io so che cosa voglio dire, pretendo di sapere già che cosa l'altro vuole,
decido io che cosa mi deve rispondere". Chi pensa così (e non sono pochi a
vivere questo modo di comunicare) considera nella comunicazione solo il
movimento di andata, perché quello che dovrebbe essere il ritorno libero e
imprevedibile è già stato anticipato come se tutto dipendesse solo dal punto di
partenza. Spesso tale atteggiamento è motivato da una certa paura ad affrontare
l'altro, per cui si precondiziona la sua risposta temendo che sia diversa da
quanto noi ci aspettiamo. Quanti intoppi comunicativi, quanti malintesi nascono
da un simile comportamento, soprattutto quando esso viene usato da chi ha
qualche autorità! Si vizia così in radice una risposta libera e intelligente.
c. Ma forse il difetto più frequente è quello della
impazienza e della fretta, del non dare modo all'altro di elaborare le sue
risposte, del volere subito il risultato. La Scrittura ci richiama alla pazienza
dell'agricoltore che non forza i tempi del raccolto, ma investe con fiducia pur
se talora "semina nel pianto" (cf Sal 126, 5; Gc 5, 7ss).
Ciascuno contempli a lungo il modo di comunicare di Gesù nei
vangeli, il modo di comunicare di Dio nelle Scritture, e si esamini sui suoi
difetti comunicativi; ne troverà tanti, molti più di quanti io non possa
indicare. La comunicazione umana va perciò continuamente risanata. Dio è non
solo esempio di comunicazione, ma pure colui che perdona, riabilita, risana la
comunicazione umana imperfetta e segnata dal peccato.
Ogni fallimento comunicativo riconosciuto e messo nelle mani
della misericordia divina è pegno e garanzia di un passo avanti nel comunicare
autentico. Anche nell'amicizia vale il principio che talora uno scontro o un
litigio risanato rinsalda l'amicizia più della paura o del riserbo che può
celare ambiguità e sospetti.
I1 Signore Gesù "che ha fatto udire i sordi e parlare i muti"
(cf Mc 7, 37) ci ottenga di vincere noi stessi e di aiutare molti altri alla
comunicazione autentica.
[35] Vorrei concludere questa seconda parte della Lettera,
destinata all'ascolto e alla contemplazione, suggerendo un'icona che riassume
tante delle riflessioni precedenti. E' l'icona di Maria, così come appare in una
pagina del vangelo di Luca (cf 1, 26-55). Si potrebbe dire, a modo di
annotazione collaterale, che Maria è anche colei che risponde in maniera
particolare al bisogno della comunicazione religiosa e umana. La tradizione
mariologica e la pietà mariana hanno arricchito l'immagine biblica di Maria con
una tale densità di relazioni comunicative che chi non vi è abituato può essere
portato a dubitare dell'autenticità umana e rivelata di questa ricchezza vissuta
nel cattolicesimo.
Occorre contemplarla dal di dentro, mettendo naturalmente da
parte alcune deviazioni, per cogliere tutta la genuinità e l'evangelicità di
quanto la pietà cattolica autentica vive nella sua relazione con il mistero di
Maria.
Mi limiterò ad alcune riflessioni che partono dalla Scrittura
e invitano a contemplare la Vergine dell'annunciazione, la Madre della
visitazione e la Sposa del Magnificat.
[36] Maria viene raggiunta dall'annuncio dell'angelo mentre
si trova in un profondo silenzio contemplativo. Da lei escono poche ed
essenziali parole che manifestano un proposito saldo di verginità, un profondo
rispetto del mistero di Dio, uno stare come "ancella" alla sua presenza. Maria
nell'ascolto contemplativo si lascia raggiungere dal mistero del Padre
attraverso la Parola del Figlio per celebrare l'Incontro nella grazia e nella
forza dello Spirito Santo. In Maria, Vergine dell'annunciazione, si manifesta la
struttura trinitaria dell'autocomunicazione divina: dal Silenzio, attraverso la
Parola, verso l'Incontro.
L'accoglienza verginale dell'autocomunicazione di Dio indica
la dimensione contemplativa che sta alla radice del comunicare.
[37] Invito a contemplare parola per parola questa pagina
evangelica domandandosi quale figura del comunicare umano si manifesta
nell'incontro di due donne e di due generazioni.
E' un comunicare che si manifesta anzitutto nel mistero della
voce, comunicativa di gioia, vibrante e modulata così da far trasalire chi
l'ascolta ("Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il
bambino ha esultato di gioia nel mio seno": Lc 1, 44). Attenzione reciproca e
concretezza sono alla base della comunicazione dialogica tra Maria e Elisabetta.
E' un incontro nel gesto e nella parola che esprime la sovrabbondanza del cuore,
la gratitudine e la gratuità. Maria si sente capita a fondo, sente che il suo
segreto, che non aveva osato dire a nessuno e che non sapeva come esprimere
senza timore di essere tacciata di follia, è stato capito, accolto, stimato,
apprezzato. La tenerezza di questo incontro è figura di un comunicare umano e
riuscito.
[38] Il Magnificat è anzitutto una dossologia, un canto di
lode: la lode è fondamento della prassi comunicativa. Non si comunica nella
tristezza, con il muso lungo, ripiegati su di sé.
Il Magnificat nel suo svolgersi percorre le diverse forme
della difficoltà o dell'incapacità a comunicare e viceversa della comunicazione
avvenuta: tra le generazioni (1, 50-51: "i superbi nei pensieri del loro cuore"
che non sanno comunicare sono dispersi, mentre le generazioni di coloro che
temono Dio comunicano l'una con l'altra); nel cuore dell'uomo (1, 52);
nell'ambito politico e sociale (1, 51-53); nel popolo della promessa (1, 54-55).
Dobbiamo imparare a cantare il Magnificat con la vita:
l'accoglienza dell'autocomunicazione divina da parte di Maria è fondamento della
capacità del nostro comunicare nella storia e anticipazione del comunicare nella
pienezza della vita eterna. A questa pienezza comunicativa volgeremo la nostra
attenzione specifica nel programma pastorale 1992-1994 con il tema del vigilare.
"O Maria, Madre e modello della comunicazione, ottienici che,
contemplando i misteri in cui Dio Padre si dona a te e al mondo per mezzo del
tuo Figlio nell'incontro dello Spirito santo, noi possiamo sottoporre la nostra
voglia di comunicare a quella purificazione e a quella luce che derivano da
tanto mistero, e ci lasciamo anche noi attrarre in questo scambio di amore".
[39] In questa terza parte, alla luce dell'autocomunicarsi
del Dio vivente, è necessario verificare la nostra vita di singoli e di
comunità. Nel prossimo anno 1991-1992 questa verifica verterà sul mondo dei
mass-media e su come ci collochiamo in esso. In questo anno 1990-1991 ci
limiteremo a suggerire piste di riflessione per il nostro comunicare in
generale.
La domanda di fondo è quella del primo e del
secondo
paragrafo di questa Lettera: è possibile incontrarsi a Babele? come vivere la
grazia di Pentecoste? in un mondo afflitto da tante fatiche comunicative e
schiacciato da una massa confusa di informazioni e di messaggi, come ristabilire
canali di comunicszione autentica, creare oasi di incontro vero, contribuite a
migliorare il clima comunicativo generale segnato dalla conflittualità e dalla
diffidenza?
Per questo proporremo anzitutto alcune domande che aiutino a
"interiorizzare" quanto detto fin qui, in vista di una presa di coscienza
adeguata della situazione attuale e dei rimedi che Dio ci offre nella sua
alleanza pasquale. Poi esporremo alcuni itinerari comunicatitvi che ci
aiuteranno a rileggere le prime cinque Lettere pastorali dal punto di vista del
comunicare. Infine proporremo alcune tecniche che potranno essere utilmente
messe in opera quest'anno per migliorare i canali comunicativi in noi e nelle
nostre comunità, e suggeriremo alcuni momenti di verifica della nostra
comunicazione nella fede, soprattutto a riguardo di alcune categorie da
privilegiare negli appuntamenti pastorali di quest'anno.
[40] E' possibile riprendere in mano la prima e la seconda
parte di questa Lettera (vedere, ascoltare e contemplare) sotto forma di domande
che ci aiutino a comprendere fino a che punto le cose richiamate sono parte
della nostra coscienza.
Mi limito ad alcuni esempi. Potrà essere un utile esercizio
quello di tradurre in domande rilevanti il contenuto di altre pagine delle prime
due parti della Lettera. Suggerisco di riprendere più volte, durante l'anno,
singolarmente e insieme, tali domande al ISne di verificare e migliorare la
nostra comunicazione.
[41] * Quali segni trovo in me di alcuni blocchi del mio
comunicare? insofferenza, malumori frequenti, fatiche eccessive nel lavoro,
disgusto di alcuni rapporti? riesco a dominare abbastanza il flusso dei miei
sogni ad occhi aperti, del mio fantasticare? so moderarmi nell'uso della
televisione? con quale criterio ascolto la musica? ho talora l'impressione di
fare alcune cose o di concedermene altre per "fuggire" da realtà mie o vicine a
me a cui non vorrei pensare? e queste realtà non sono appunto "blocchi
comunicativi"? le mie amicizie sono durature? mi lamento spesso dell'incoerenza
e poca fedeltà delle persone amiche? sono spesso diffidente nei loro confronti?
dopo un litigio so ricomporre il rapporto? (cf sopra n. 7).
[42] * Quale "voto" darei al nostro comunicare sia nella
coppia sia nel rapporto genitori-figli? ottimo, passabile, mediocre, scarso,
insufficiente, disastroso? penso che sia possibile salire di un gradino più in
su nel modo del nostro rapporto? che cosa ho fatto oggi per migliorare le nostre
relazioni? che cosa mi propongo di fare questa sera? (cf sopra n. 8).
[43] * Come descriverei dal mio punto di vista le difficoltà
di comunicazione tra i diversi strati sociali di cui ho più diretta esperienza,
in particolare nell'ambiente di lavoro? mi lascio spesso esasperare o turbare o
coinvolgere eccessivamente dalla conflittualità sociale e politica? che cosa mi
aiuta a ritrovare la calma e la padronanza di me stesso? (cf sopra n. 9).
[44] * Quale il giudizio sulle mie relazioni all'interno
della comunità cristiana? hanno per me qualche rilevanza, le ritengo importanti
oppure mi toccano poco? se sono impegnato all'interno della parrocchia, mi sento
capito, valorizzato? so valorizzare gli altri, li stimo davvero, anche se fanno
cose diverse dalle mie? cosa farò oggi per migliorare il mio rapporto con il
parroco, con gli altri operatori pastorali? quale dima regna all'interno del
Consiglio pastorale, nelle Commissioni, nelle Consulte? ci si sforza di capirsi,
di volersi bene, di accettarsi, pur nelle differenze di vedute? quale il mio
rapporto di comunicazione con il vescovo? leggo le sue lettere pastorali, lo
incontro talora in occasioni solenni come le feste in Duomo, le Scuole della
Parola? ascolto la sua voce alla radio? oserei scrivergli se avessi necessità di
comunicare con lui? parlo con fiducia con i suoi vicari e collaboratori, con il
decano, con il parroco? se sono membro di una comunità religiosa, come coltivo
le relazioni fraterne all'interno della mia comunità? come la mia comunità
ascolta la voce del Papa, del vescovo? come mi sento accolto, in quanto
religioso, nell'ambito della Chiesa locale? come viviamo e comunichiamo la gioia
del Vangelo? (cf sopra n. 10).
[45] * Ho riscontrato qualche volta in me la nostalgia di non
saper comunicare o l'irritazione per non esserci riuscito? quali le cause di
questi fallimenti? riesco a cogliere in me quel "gusto del dominio" che sta alla
radice di un comunicare non autentico? sono anch'io vittima della "fretta" nel
comunicare? so ascoltare gli altri? sono uno da cui gli altri vanno volentieri e
anche riescono a confidarsi? (cf sopra nn. 14-15).
[46] * Prego talvolta perché il Signore mi si comunichi e
risani le mie relazioni umane? mi sento desideroso di accogliere il dono della
comunicazione divina? uso del sacramento della Riconciliazione a questo scopo? (cf
sopra n. 17).
[47] * Ho di me e degli altri questa consolante visuale, che
siamo fatti per comunicare e per amare, o mi lascio vincere dalla sfiducia in me
stesso e negli altri? (cf sopra n. 18).
[48] * Rileggere i testi citati sulla Pentecoste e
sull'alleanza e lasciare che sgorghi in me una preghiera di lode a Dioper quanto
ha fatto per noi e per me,per volermi essere alleato e amico, dalla mia parte
... (cf sopra nn. 19-20)
[49] * Preparandomi al sacramento della penitenza mi
esaminerò sulla differenza che statna, l'avversario, suscita in me riguardo Dio
e il suo disegno su di me, riguardo alla purezza delle mie intenzioni, riguardo
alle intenzioni del prossimo nei miei confronti (cf sopra n. 22).
[50] * In un' adorazione eucaristica contemplare il verbo
fatto uomo per me, crocifisso e nascosto nel mistero del dacramento per potersi
comunicare a me pienamente. Adoro il Padre dal cui silenzio procede questo dono,
il Figlio che mi si dà in pienezza, lo Spirito che rende presente Gesù
nell'Eucarestia (cf sopra n.24).
[51] *So affidarmi all'amore comunicativo della Trinità? so
aspettare con pazienza e fiducia i tempi di Dio? mi lascio intimorire dal suo
silenzio nei momenti della prova? che parte ha nella mia vita la speranza della
pienezza del dono eterno? Da queste interrogazioni lasciar scaturire la
preghiera di pentimento e la richiesta di più fede e speranza (cf sopra nn.
26-27)
[52] * So leggere la Bibbia in particolare i Vangeli come
libro del comunicare di Dio? quale passo dei vangeli mi attrae maggiormente come
icona della forza comunicativa di Gesù trasmessa agli uomini? (cf nn. 28-29).
[53] * Quante volte il mio parlare con altri evade dalla
superficialità e diventa anche dono? so informare con oggettività, senza
esagerazioni? nel parlare a qualcuno tengo presente la sua situazione e le sue
attese? la mia preghiera è monologo o dialogo? (cf sopra nn. 30-32).
[54] * Sento in me qualcosa della passione evangelizzatrice
di Gesù e dei suoi apostoli? sento la gioia dell'Evangelo? (cf sopra n. 33).
[55] * Quali sono i rischi del comunicare a cui vado più
facilmente soggetto? Considero con attenzione, nella comunità, quelle persone
che per motivi fisici o psicologici fanno maggior fatica a comunicare e vivono
nella solitudine? quale l'attitudine mia e della comunità verso coloro che hanno
difficoltà di udito (anziani, sordi) o di parola? si pensa a loro nella Messa
festiva? (cf n. 34).
[56] * Contemplare Maria leggendo lentamente Lc 1, 26-55 e
pregandola affinché mi ottenga un cuore capace di comunicare con Dio e con i
fratelli e un risanamento delle mie storture comunicative (cf sopra nn. 35-38).
[57] E' possibile, a questo punto, rivisitare i cinque primi
programmi pastorali proposti alla diocesi negli anni '80 per rileggerli nella
prospettiva del comunicare.
Essi volevano infatti aiutare a costruire una figura di
cristiano e di comunità cristiana scaturita dalI'Evangelo e capace di
proclamarlo nella cultura e nella civiltà di questo fine millennio. Ora questa
figura di cristiano e di comunità fluisce dalla comunicazione che Dio fa di sé
all'umanità. E' quindi possibile rileggere tali programmi alla luce di quanto
detto finora. Darò qualche spunto di rilettura insistendo soprattutto sul
programma che mi pare sia stato finora meno capito e assimilato, ossia Partenza
da Emmaus.
[58] Ci si educa al comunicare sviluppando la "dimensione
contemplativa della vita". Ogni comunicare nasce dal silenzio, non però vuoto o
triste, ma pieno della contemplazione delle meraviglie che Dio ha operato in
favore del suo popolo. Occorre reinterrogarsi sui tempi dati al silenzio nella
vita quotidiana, durante la liturgia, nei periodi di ritiro che ci proponiamo
noi stessi o che proponiamo alle nostre comunità. Si potrebbe rileggere
utilmente la Lettera su alcuni aspetti della meditazione cristiana della
Congregazione della Dottrina della Fede ( 1989). E' anche importante
interrogarsi, a partire dal silenzio di Maria che accoglie con stupore e timore
la parola dell'angelo, sulla nostra capacità di guardare con stupore alle cose,
agli eventi, alla vita, al mistero di Dio. Qual è il nostro grado di purezza di
cuore? E' scritto, infatti, "beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,
8).
Ricordo quanto avevo già detto nella prima Lettera pastorale
sul ruolo delle comunità monastiche e claustrali in diocesi come luoghi di
ricarica spirituale, oasi di silenzio, centri di irradiazione della preghiera
contemplativa. Ne approfittiamo?
[59] L'ascolto credente della parola di Dio libera e unifica.
Esso unisce anche tra loro quelli che ascoltano la stessa Parola, producendo
esperienze di autentica comunicazione. Le Scuole della Parola, che quest'anno
saranno continuate per i giovani sul tema della prossima Giornata mondiale della
gioventù - Avete ricevuto uno Spirito da figli (Rm 8,15)- possono pure divenire
scuole di un comunicare più autentico. E' necessario pertanto che siano riprese
una volta al mese anche nei gruppi giovanili delle parrocchie e nelle
associazioni e movimenti, imparando a comunicare vicendevolmente sul tema
meditato.
Si può incominciare con il rileggere il testo biblico
proposto, lasciando che dopo una pausa di silenzio alcuni sottolineino le parole
che li hanno maggiormente colpiti, chiedendosi poi perché quelle parole hanno
avuto particolare risonanza; inizia così un fruttuoso scambio nella fede.
Imparare a comunicare nella fede a partire dalla Parola è uno dei frutti che ci
attendiamo da questo primo anno sul comunicare.
L'ascolto della Parola nella celebrazione eucaristica
domenicale può e deve generare delle forme semplici, ma intense e significative,
di comunicazione nella fede: nei gruppi, nelle famiglie, nelle comunità, nei
cammini di coppia. Si tratta dell'appuntamento settimanale più importante per i
cristiani; preparato e atteso, arricchito da un'omelia che aiuta a penetrare le
ricchezze della Parola, esso si rivela sempre in grado di rigenerare la
comunicazione tra noi alla luce dei pensieri e della logica di Dio, rivelataci
nelle pagine che vengono proclamate nella liturgia.
Non posso non ricordare, a questo punto, l'importanza della
comunicazione con coloro che venerano come noi e scrutano attentamente la Sacra
Scrittura. Mediante l'ascolto e la conoscenza attenta della Parola, noi ci
apriamo al dialogo ecumenico con i fratelli riformati d'Occidente. Anche nel
rapporto con le "sette", oggi tanto difficile e per il momento quasi
"impossibile" a causa del loro atteggiamento spesso rigido e incapace di
dialogo, più che la polemica diretta vale la conoscenza profonda e amorosa della
Scrittura, che permetta di dire con garbo ai visitatori importuni: "No grazie,
la Bibbia l'abbiamo già, la leggiamo e la conosciamo, per grazia di Dio, anche
più di voi!".
[60] La liturgia fa opera di mediazione tra l'interiorità
contemplativa colmata dal dono della Parola e l'espressione esterna e pubblica
dell'adorazione e della lode. Essa non sta soltanto dalla parte del "rito"
esteriore e della "celebrazione" visibile, ricca di parole elevate, di simboli e
segni. Presuppone e coltiva pure l'interiorità del credente; educa e forma alla
comunicazione autentica con Dio suggerendo le parole e gli atteggiamenti giusti
e genera una comunità chiamata al dialogo nella fede e nella vita. Perciò la
liturgia, praticata integralmente (e non solo nei suoi aspetti cerimoniali),
educa alla comunicazione. La comunità esprime e realizza se stessa nella misura
in cui è capace anzitutto di ascolto comune della Parola e di risposte giuste
anche a livello pubblico.
Cuore, centro e culmine della liturgia è l'Eucaristia, dalla
quale derivano e a cui si riportano tutti gli altri sacramenti. Suggerisco di
rileggere le pagine di Itinerari educativi che prospettano la liturgia e il
cammino sacramentale come il cammino educativo della Chiesa per eccellenza, nel
quadro dell'anno liturgico. Si possono pure rileggere le pagine di Attirerò
tutti a me (recentemente richiamate nel documento L'Eucaristia al centro della
comunità religiosa), in cui viene descritta l'azione formativa che l'Eucaristia
esercita sulla comunità e le caratteristiche di una comunità che da essa si
lascia plasmare. Scopriremo che una tale comunità è aperta, pronta a donarsi,
umile e attenta agli altri, cioè disposta a comunicare con verità a tutti i
livelli.
E' importante, e primario compito del lavoro pastorale, che
soprattutto la celebrazione domenicale dell'Eucaristia, per il modo con cui è
preparata ed eseguita, esprima con chiarezza il suo dinamismo interno, vera .
propria forza che abilita e sollecita a una comunicazione profonda in grado di
spingersi fino al dono di sé e alla convinta testimonianza del Vangelo.
Tra questi vari livelli a cui l'Eucaristia abilita a
comunicare, va ancora una volta richiamato quello ecumenico. Dobbiamo in
particolare renderci sensibili a quanto pensano, dicono e fanno i nostri
fratelli delle comunità cristiane non cattoliche anche in campo liturgico. E'
specialmente importante conoscere di più e apprezzare i tesori della liturgia
orientale, il "secondo polmone della Chiesa" come lo definisce Giovanni Paolo II.
Voglio pure richiamare il sacramento della Penitenza o
Riconciliazione. In esso sottoponiamo alla potenza del Cristo crocifisso e
risorto i nostri fallimenti e blocchi comunicativi perché siano medicati e
risanati. Siamo convinti della forza di questo sacramento? lo offriamo ai
fedeli, se siamo preti, e lo esigiamo dai preti, se siamo laici?
[61] L'autocomunicazione divina fonda, in chi l'accoglie,
l'esigenza di comunicare gratuitamente ad altri quanto gli è stato gratuitamente
comunicato.
Le forme di esercizio di questa comunicazione sono
l'evangelizzazione, la catechesi, il dialogo fraterno, l'omilia, ecc. Nel
programma pastorale Partenza da Emmaus abbiamo trattato, in particolare, della
catechesi per gli adulti e degli adulti. Sarà bene che ogni comunità rilegga
quanto ha fatto a partire da quella Lettera e, in particolare, dal Convegno di
Busto Arsizio Catechisti Testimoni (1984). A tutti raccomando la ripresa della
Lettera Partenza da Emmaus proposta ne Il Segno di quest'anno 1990 sotto il
titolo Ripartire da Emmaus.
Ai presbiteri chiedo di approfondire con l'ausilio delle
Settimane residenziali, previste per il gennaio 1991, la loro singolare
responsabilità di "comunicare la fede" nelle condizioni odierne della gente, non
trascurando di considerare il problema dei tratti fondamentali che dovrebbero
essere ritrovati nel presbitero perché egli sia reale punto di riferimento per
le persone, luogo capace di ascolto e di consiglio per i singoli e l'intera
comunità. Chiedo inoltre di approfondire le esigenze, anche di metodo, della
comunicazione degli adulti in vista di una reale attenzione a dove l'altro "si
trova" (come situazione spirituale) e ai passi che "catecumenalmente" insieme
con lui andrebbero compiuti.
Un'esperienza di dialogo unita alla proclamazione è stata
percorsa, in questi anni, nella cosiddetta Cattedra dei non credenti. Pur se i
metodi per tali incontri possono variare, è importante promuovere luoghi in cui
chi non crede o ha difficoltà di fede, ma è in seria ricerca possa esprimersi,
confrontarsi, essere ascoltato e capito.
Ogni cristiano e ogni realtà ecclesiale dovranno comunque
interrogarsi sull'urgenza evangelizzatrice che nasce dalla comunicazione del
dono di Dio. In particolare la pastorale giovanile nella nostra diocesi è stata
invitata a porsi come pastorale missionaria. Esprimo alcune ulteriori
riflessioni che ci aiuteranno a questo proposito, specialmente in relazione a
chi non crede o ha difficoltà di fede, dedicandole ai nostri missionari e
missionarie che operano in ogni parte del mondo, e in particolare ai preti
diocesani Fidei donum che operano in Zambia, Camerun, Brasile, Messico e Perù.
[62] Mi ha sempre stupito e confortato il comportamento di
Gesù con gli Undici dopo la Risurrezione: "Li rimproverò per la loro incredulità
e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto
risuscitato. Gesù disse loro: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a
ogni creatura"" (Mc 16, 14-15). Proprio a questi uomini, increduli e ostinati, è
affidata la comunicazione del Vangelo!
[63] Possiamo comunicare il Vangelo perché anzitutto è stato
a noi comunicato da coloro che prima di noi hanno creduto. Davvero possiamo
ripetere con s. Agostino: "Io credo in colui nel quale hanno creduto Pietro,
Paolo, Giovanni...". Perché non continuare aggiungendo ai nomi dei primi
testimoni quelli di tutte le persone per le quali noi siamo venuti alla fede, di
quei comunicatori del Vangelo che costituiscono la nostra storia di credenti e
la storia delle nostre comunità? Possiamo aggiungere il nome dei nostri
genitori, dei nostri nonni, dei nostri sacerdoti, di qualche religioso o
religiosa, dei catechisti, di tutti i credenti, uomini e donne, grazie ai quali
noi apparteniamo a una lunga storia di fede. Guardando nel nostro passato,
troveremo i loro volti e le loro voci; allora salirà alle nostre labbra la
gratitudine perché scopriremo che la comunicazione della fede è stato in primo
luogo un dono per noi.
[64] Nasce di qui la nostra responsabilità di comunicatori.
Con Paolo ripetiamo: "Ho creduto e perciò ho parlato" (2 cor 4, 13); proprio
perché è stata detta a noi, la fede deve essere detta, a nostra volta, da noi.
I primi discepoli del Signore, quando il tribunale ebraico
vorrebbe chiuder loro la bocca, replicano: "Noi non possiamo tacere quello che
abbiamo visto e ascoltato" (At 4, 20). Gesù stesso li aveva ammoniti: "Chi
dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al
Padre mio che è nei cieli" (Mt 10, 32). Paolo chiede a Timoteo di imitare
l'esempio di Gesù che ha dato la sua bella testimonianza di fede davanti a
Ponzio Pilato (cf 1 Tm 6, 12ss.).
Giovanni, nella sua Prima Lettera, ricorda la necessità di
riconoscere pubblicamente Gesù nella sua divinità e umanità (cf 1 Gv 4, 15; 4,
2). Oggi, come allora, a ciascuno di noi è dato l'impegno di rispondere a quanti
ci chiedono ragione della speranza che è in noi, spiegazioni che devono essere
date con gentilezza e rispetto (cf 1 Pt 3, 15).
[65] Le ultime parole di Pietro sopra riportate sottolineano
un altro aspetto della comunicazione del Vangelo a coloro che non credono. La
Lumen Gentium (n. 16) ricorda che anche i non cristiani, i non credenti, sono
ordinati in vario modo al popolo di Dio: "Coloro che senza colpa ignorano il
Vangelo di Cristo e la sua Chiesa e che tuttavia cercano sinceramente Dio e con
l'aiuto della sua grazia si sforzano di compiere la volontà di lui, conosciuta
attraverso la coscienza, possono conseguire la salute eterna" Anche la Dei
Verbum ci ricorda che Dio ha "assidua cura del genere umano, per dare la vita
eterna a tutti coloro che cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica
del bene" (n. 3). Queste affermazioni fondano la necessità di comunicare il
Vangelo con coloro che non credono; è lo stile del dialogo. Già lo aveva
indicato con ampiezza Paolo VI nell'Ecclesiam suam: "La Chiesa deve venire a
dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola. La Chiesa
si fa messaggio. La Chiesa si fa colloquio" (n. 38).
Al termine del Vaticano II, Paolo VI affermò: "Una simpatia
immensa ha pervaso il Concilio. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito
l'attenzione del Concilio. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi;
invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso
il mondo. I suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati; i suoi
sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette. La Chiesa è scesa a
dialogo con il mondo" Nella Gaudium et Spes troviamo indicate le ragioni e le
forme del dialogo del credente con tutti gli uomini di buona volontà. Il
Concilio invita i credenti a leggere nella realtà, nella storia, negli eventi,
tutto ciò che può costituire una sorta di consenso, di dialogo appunto, su
valori e ideali da interpretare alla luce del Vangelo (cf nn. 4-10).
Occorre leggere anche nel mondo di oggi i "veri segni" della
presenza e del disegno di Dio (cf n. 1 1). Persino un fenomeno così inquietante
e negativo come l'ateismo deve essere letto in modo da discernere le ragioni di
tale rifiuto, forse l'appello, l'inconsapevole attesa di una fede più evangelica
(cf n. 21). Il Concilio compie ancora un passo verso il dialogo quando afferma
che la Chiesa può utilmente mettersi in ascolto di chi non crede, perché anche
da lui può venire una provocazione di fede, una scintilla di verità (cf nn.
40.44).
[66] La ragione di tale dialogo è che tra l'orizzonte del
credente e quello di chi non crede non esiste assoluta incomunicabilità, proprio
perché già qui e ora prende corpo nei solchi della storia il regno di Dio.
Questo regno che si esprime pure nell'accogliere, assumere, purificare,
rettificare, salvare quanto la fatica degli uomini ha costruito (cf nn. 38-44).
Il Concilio crede nella comunicazione profonda esistente tra tutti coloro che
cercano con cuore sincero. Il cristiano sa che questo è il tempo di una nascosta
gestazione e perciò egli è capace di comunicazione con tutti coloro che cercano
con verità.
[67] La comunicazione del Vangelo non si attua soltanto nel
dialogo esplicito. C'è un immenso campo di azione che compete particolarmente ai
credenti laici e che riguarda l'affermazione, il sostegno e la promozione dei
valori profondi che sono previ a qualunque confessionalità e comuni a tutti gli
uomini. Tutto ciò che ha attinenza alla coscienza, alla responsabilità, alla
giustizia, alla pace, alla salvaguardia dell'ambiente, fa parte di un linguaggio
a tutti accessibile, che ha le sue radici nell'opera creatrice e redentrice del
Signore. Il modo di comportarsi e di interagire nella vita quotidiana, nei
rapporti interpersonali, negli affari e nella politica, in quei mille contatti
quotidiani che si vivono in famiglia, nei luoghi di lavoro e nel tempo libero,
dovunque siano in questione anche modeste e semplici scelte morali (come quella
di dare una risposta gentile o un'informazione corretta) può irradiare tali
valori a misura dell'intensità con cui sono vissuti, o negarli, o aggredirli.
Quanto più la comunità cristiana e il singolo fedele saranno in grado di esibire
scelte e stili di vita coerenti con il Vangelo, pur senza sottolinearlo
esplicitamente, si eserciterà una forza aggregante e persuasiva sull'insieme dei
comportamenti umani per la ricostruzione di una comunione sui grandi temi etici
che hanno le loro radici nella rivelazione di Dio.
[68] In questa forma di comunicazione implicita che si attua
nell'impegno morale quotidiano, il credente ha nel cuore qualcosa che gli urge,
lo muove, mobilita tutte le sue energie: è la "gioia del Vangelo", la sua novità
incomparabile. Chi crede, anche nel rapporto con chi è molto lontano, non può
rinunciare a voler comunicare la formidabile differenza ed eccedenza, il "di
più" e l'"oltre" che sono costitutivi dell'Evangelo. Tale differenza, che è
peculiare della fede, si traduce in una eccedenza di ideali di vita rispetto
alla giustizia puramente legale, eccedenza che è indizio e anticipazione di
rapporti umani eticamente più densi e aperti a un orizzonte trascendente, che è
riflesso della Gerusalemme celeste e della perfetta comunione di cuori che in
essa sarà raggiunta.
Proprio perché nasce dal mistero di Dio, la comunicazione del
Vangelo custodisce la differenza: è in grado quindi di offrire ai progetti umani
l'orizzonte di senso, la contestazione critica, l'energia progettuale. In tal
modo l'esperienza cristiana evita le riduzioni intimistiche e si fa pubblica:
rigenera la libertà umana, suggerisce progetti concreti di gesti e interventi
con cui la libertà, volendo efficacemente il bene di tutti, si mette al servizio
della comunità degli uomini.
[69] La comunicazione divina, partendo dal mistero del Padre
si comunica nella Parola del Figlio e tale comunicazione si realizza
nell'Incontro, lo Spirito. Anche la comunicazione interpersonale si realizza
nella verità dei gesti di solidarietà e di condivisione. Il progetto del "farsi
prossimo" ci ha spinto nel 19851986, sollecitati pure dal Convegno di Assago,
verso itinerari comunicativi della carità: interpersonale, assistenziale,
sociale, socio-politica e ha stimolato il nascere delle Caritas parrocchiali,
che però non esistono ancora in tutte le parrocchie. La Chiesa italiana si
prepara a porre gli anni '90 sotto il segno della carità.
Vorrei fare due sottolineature. La prima riguarda la carità
nelle relazioni quotidiane, nelle cosiddette "relazioni brevi". E' qui che si
esercita ogni giorno e mille volte al giorno la prossimità concreta, che ogni
altra forma di carità trova la sua verifica impietosa. Non pochi eccellono nella
solidarietà delle "relazioni lunghe" (di tipo più ufficiale, organizzativo,
programmatico) e vengono meno nelle relazioni brevi della quotidianità per
nervosismi, forme di cattivo umore, ripulse e sospetti infondati, mutismi
punitivi, amarezze coltivate, punzecchiature tanto frequenti quanto inutili. Per
questo occorre superare un grande ostacolo, che è quello dell'abitudine e dello
scoraggiamento. Abbiamo tentato tante volte di instaurare relazioni vere e
amicali verso le persone che ci stanno a gomito, ma non siamo riusciti. Allora
ci siamo accontentati di un rapporto di convivenza non belligerante, di
tolleranza reciproca, di pazienza, di sospiri lamentosi, dicendo: "Tanto non
cambio né io né lui o lei".
Partiamo dunque dalla persuasione che ormai non c'è più molto
da fare e che è già tanto stare in qualche modo insieme. Ebbene, proprio da qui
è possibile sviluppare un'"arte" dei rapporti che inizia dalla constatazione che
"non cambiamo né io né lui o lei" e che pure qualcosa, anzi molto, può cambiare.
Cominciamo rileggendo, in questa luce, le pagine della seconda parte di questa
Lettera e mettiamoci in atteggiamento di silenzio e di ascolto davanti a Dio che
si comunica anche a chi non lo accoglie; contempliamo Gesù che ricuce
continuamente i rapporti sfilacciati tra lui e gli Apostoli o degli Apostoli tra
loro. Preghiamo la Madonna della comunicazione e lasciamoci guidare dalla
lampada che si accende nel nostro cuore al soffio dello Spirito dell'Incontro.
Vedremo che già qualcosa sta cambiando. Basta cominciare.
Una seconda sottolineatura del "farsi prossimo 1990" riguarda
un tema che spesso ho richiamato in questi ultimi tempi: l'accoglienza e
l'apertura verso gli immigrati extracomunitari. Nel 1985 tale urgenza si
delineava appena; oggi è diventata un fenomeno rilevante specialmente nella
nostra città. La Caritas e la Segreteria per gli esteri si sono fortemente
impegnate per fronteggiare questa emergenza che tuttavia deve mobilitare la
capacità comunicativa delle nostre parrocchie e gruppi. "Comunicare con chi è
straniero" costituirà una forma di attuazione di questo programma pastorale.
Non entro in altri particolari perché ne ho parlato a lungo e
in molte occasioni negli ultimi mesi. Soltanto ricordo che si tratta di una
frontiera esigente e urgente della carità e della comunicazione.
Se oggi riusciremo a comunicare con questi nostri fratelli,
per il domani avremo preparato orizzonti comunicativi per l'intera nuova Europa
che, secondo la parola di Giovanni Paolo II, potrebbe diventare una "Europa
dello spirito".
Concludo dicendo che forse non tutte le nostre parrocchie
(perché non poche sono lodevolmente in prima linea) hanno capito questa seconda
urgenza proprio perché hanno trascurato la prima delle due sottolineature ora
fatte. Hanno cioè identificato la carità semplicemente con la carità
assistenziale o socio-politica e hanno deciso a priori che cosa possono fare o
non fare in proposito. Non hanno preso sul serio anzitutto il cammino della
carità interpersonale che è l'esercizio quotidiano dell'accettazione degli altri
e di sé con amore e simpatia. Così vanno a cercare più lontano quelle forme del
"farsi prossimo" che stanno sulla porta di casa, con il rischio di non vedere
neanche più bene ciò che sta oltre i confini della parrocchia.
[70] Non voglio entrare in un discorso che ci occuperà l'anno
prossimo, ma mi sembra opportuno richiamare fin da ora qualcosa sul rapporto tra
la comunicazione in un mondo dominato dai mass-media e la comunicazione della
fede e nella fede. Molti studiosi dei problemi della comunicazione di massa
ritengono oggi che la rivoluzione tecnologica che è sotto i nostri occhi stia
modificando gli stessi processi comunicativi ordinari. Sono d'accordo, almeno
fino a un certo punto, con tali affermazioni.
Vorrei però dire qualcosa che mi pare ancora più importante
per noi. Lo studio dei processi di comunicazione attraverso i mass-media, in
particolare di quelli elettronici, ci porta a riscoprire, al di là del processo
di comunicazione mediante segni razionali, la ricchezza di forme di
comunicazione nella fede da sempre esistite nella Chiesa e che forse gli ultimi
secoli, condizionati dalla ragione ragionante e calcolante, ci hanno fatto un
po' dimenticare.
Vale dunque la pena, al di là di discussioni complicate e di
terminologie difficili, esercitarsi a ritrovare quelle forme comunicative della
fede, verbali e non verbali, che sono sempre state in onore nella tradizione
cristiana e che ultimamente sono state un po' trascurate o poco curate, perché
non c'era coscienza del loro valore.
Do alcuni pochi esempi di queste "tecniche" per stimolare la
fantasia di ciascuno a frugare nella memoria e nel tesoro dell'esperienza
propria e della propria parrocchia e rivalutare forme antiche del comunicare
cristiano.
[71] Nella preghiera. Le posizioni del corpo: in piedi, in
ginocchio, la preghiera fatta camminando (per esempio nelle processioni), le
mani alzate (per esempio nella recita del "Padre nostro"); la genuflessione, gli
inchini, il gesto del segno della croce; le mani imposte per la benedizione; il
bacio del Crocifisso o della reliquia; il bacio inviato da lontano al
tabernacolo, come usano fare i bambini... Tutti questi segni, se compiuti con
serietà e senza fretta, anzi con una certa modesta solennità sono un modo di
comunicare la fede, di far sentire che sia chi li pratica sia chi sta intorno
vive un'esperienza di fede. Ho conosciuto recentemente un giovane straniero che,
venuto in Italia per studiare le opere d'arte senza sapere nulla del
cristianesimo, è stato scosso dalla percezione dei capolavori dell'arte sacra e
insieme dalle persone inginocchiate in preghiera nelle chiese. Anche da un solo
gesto si riconosce un uomo di fede, come da un gesto si coglie la misera
esteriorità di un ossequio che di fede ha poco! Occorre abituare i bambini fin
da piccoli, in particolare i chierichetti all'altare, ad aborrire i gesti
sbadati, le genuflessioni furtive o a sghimbescio...
I silenzi. Parlo dei silenzi personali, per esempio lo stare
in silenzio ed in ascolto prima di iniziare una preghiera vocale o mentale, come
pure dei silenzi nella liturgia: prima di iniziare le orazioni della Messa, dopo
il vangelo e la omilia, dopo la comunione. Vi sono silenzi che appaiono pieni di
preghiera e di raccoglimento; altri che sembrano pause vuote e inutili; altri
che non ci sono più...
[72] Un modo antichissimo e mirabile di comunicare la fede è
il canto. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che Paolo e Sila, nel fondo
della prigione, ancora dolenti per le battiture, "in preghiera cantavano inni a
Dio mentre i carcerati stavano ad ascoltarli" (At 16, 25). Il valore
comunicativo, la forza della vibrazione emotiva, sonora, ritmica, luminosa,
propri del canto e della musica sono straordinari. Le vite dei santi e dei
grandi convertiti ce ne danno autorevole testimonianza. Perciò considero il
canto come comunicazione verbale e non verbale insieme, perché gli elementi non
propriamente concettuali superano di gran lunga quelli razionali. La musica poi
ha una forza evocativa immensa.
Ma occorre che tali valori siano percepiti da chi suona, da
chi canta, da chi dirige e da chi ascolta e partecipa. Su questo punto siamo
ancora molto indietro rispetto, ad esempio, alle comunità cristiane di altri
paesi dove tutti cantano con dignità e partecipazione. Il cantare insieme,
l'ascoltare insieme qualche esecuzione musicale appropriata in momenti ben
determinati della liturgia, l'ordine e la proporzione tra gli interventi della
schola cantorum e dei fedeli, la scelta accurata dei testi e delle musiche,
contribuiscono molto a esprimere e a suscitare sentimenti profondi di fede, di
adorazione, di preghiera.
Quante occasioni perdute nelle nostre assemblee liturgiche!
Chiedo all'Ufficio per la pastorale liturgica e in particolare alla Sezione per
la musica sacra di favorire con intelligenza e decisione il cammino di
educazione liturgica delle nostre comunità, anche attraverso le varie iniziative
che già sono state attuate in diocesi negli scorsi anni (corsi per animatori
liturgici, ecc.). Desidero che si arrivi, lungo il biennio 1990-1992,
all'edizione ufficiale del Libro di preghiera e dei canti per la diocesi.
Ci si potrebbe dilungare parlando dei diversi modi di pregare
in pubblico. Ho inteso solo dare qualche esempio perché ogni comunità possa fare
un esame di coscienza serio sull'insieme dei modi con cui comunica, o potrebbe
comunicare, nella fede restando nell'ambito della propria quotidianità.
[73] Anche l'essere presenti è già un modo di comunicare.
L'impegno dei nostri preti per una presenza in mezzo ai ragazzi e ai giovani
dell'oratorio, la loro disponibilità a essere accostati per un dialogo o per la
direzione spirituale, il far sentire che si è con il cuore in mezzo alla gente,
consci della propria missione di presbiteri, è già un modo importante di
irradiare la fede.
[74] L'uomo è capace di raccontare miti e di eseguire calcoli
esatti e rigorosi, di fare della poesia e della informatica, di scrivere favole
e costruire robot. Perché? Non è una domanda futile. La risposta può permetterci
di capire meglio il mistero di un'umanità che al tempo stesso prega e calcola,
sogna e pianifica.
I diversi e a prima vista incompatibili linguaggi di cui la
stessa persona è capace, possono condurci a meglio comprendere l'uomo che di
tali linguaggi è autore e che in essi si manifesta.
Oggi sembra esserci, nella mentalità comune occidentale,
trascuranza per i linguaggi simbolici e poetici a vantaggio di una comunicazione
esatta, rigorosa, controllata. Al conoscere, si dice, deve presiedere la
scienza; arte e religione, invece, esprimono sentimenti, stati d'animo. Il
linguaggio serio sembra dunque quello dell'obiettività e del rigore. La verità e
l'oggettività si raggiungerebbero solo mediante discorsi controllati ed esatti,
mentre i discorsi dell'esperienza religiosa, come quelli dei diversi vissuti
umani, sarebbero al più espressioni di stati d'animo, di emozioni.
Eppure noi avvertiamo che questa rigida divisione non
rispetta la nostra più profonda verità e non rispetta il modo di comunicarsi a
noi proprio della rivelazione dell'Antico e Nuovo Testamento.
Senza niente togliere alla validità dei linguaggi propri
delle scienze, linguaggi che tendono a essere rigorosamente univoci -il grande
sviluppo delle scienze è stato possibile proprio grazie a questo tipo di
comunicazione - non possiamo negare al linguaggio umano una molto più grande
valenza di strumenti e di significati. E' esperienza che spesso facciamo: le
parole talora non bastano a dire la ricchezza dei nostri sentimenti. Allora
ricorriamo, per esempio, a dei gesti, a dei segni, a dei simboli che aiutino a
comunicare ciò che le parole non sono capaci di manifestare. Ogni dono, per
esempio, è guidato da questa comunicazione non puramente verbale ma simbolica,
cioè dalla capacità di istituire una comunicazione più ricca delle parole. Tutti
i simboli infatti dicono di più, dischiudono al di là dei significati immediati
e letterali ulteriori valori comunicativi.
Ecco perché la comunicazione simbolica è una grande ricchezza
umana alla quale da sempre l'uomo ha fatto ricorso. Non è senza significato il
fatto che proprio gli eventi decisivi dell'esistenza siano stati, nelle più
diverse culture, accompagnati da linguaggi e gesti simbolici; pensiamo al
nascere e al morire, alle scelte di vita, al pasto e alla casa. Tutti questi
eventi e questi luoghi, ben al di là della loro funzionalità e del loro
significato immediato, racchiudono un valore simbolico senza del quale la nostra
esistenza sarebbe davvero insignificante. E' qui che l'arte, in particolare
l'arte sacra, si innesta per interpretare queste dimensioni simboliche della
vita, proporle, farle vibrare, approfondirle.
Per questo la qualità umana della nostra comunicazione non
può fare a meno dei simboli; ma neppure la qualità della nostra esperienza di
fede può fare a meno di tale peculiare forma di comunicazione. Del resto non c'è
tradizione religiosa che non sia ricorsa a tale tipo di comunicazione. Questo ci
stimola a una scelta attenta dei simboli artistici nelle nostre chiese:
all'architettura agli arredi sacri, dall'altare al fonte battesimale, dal
confessionale alla Via Crucis, dalle vetrate ai quadri e agli affreschi, dalle
tovaglie agli arazzi e ornamenti e alle vesti sacre, tutto deve essere preparato
e utilizzato con rispetto e dignità, con semplicità e con gusto. Occorre
incoraggiare gli artisti perché per primi penetrino e poi aiutino noi a sentire
la ricchezza dei valori religiosi che può sprigionarsi dalle autentiche opere
d'arte.
Pensiamo ancora a un altro aspetto così pervasivo della vita
come il tempo: possiamo semplicemente ridurlo a una dimensione quantitativa,
alla transizione inesorabile di anni, mesi, giorni, ore? perché la Chiesa non
rinuncia ad avere un suo calendario, scandito non dai ritmi sempre identici
delle stagioni, bensì da una storia, da un cammino verso il fine (e non verso la
fine)? il tempo, senza spessore simbolico, non sarebbe forse una insopportabile
condanna?
La Bibbia è un libro pieno di simboli stupendi ed è sempre
stata per questo la grande ispiratrice degli artisti. Dal giardino dell'Eden
alla città dell'Apocalisse, dal linguaggio dei profeti a quello delle parabole,
la rivelazione di Dio all'uomo fa costantemente ricorso alla comunicazione
simbolica. Anche i miracoli, fatti prodigiosi, sono letti dal vangelo di
Giovanni come segni (cf Gv 2, 11; 4, 54 ; 20, 30-3 1 ).
[75] In che senso la comunicazione simbolica è veicolo
privilegiato dell'esperienza religiosa e perciò dovrebbe essere un modo a noi
familiare per comunicare nella fede)?
Perché il linguaggio simbolico è sommamente rispettoso della
"differenza" e della "distanza". Esso non ci mette in presa diretta con un mondo
di oggetti. A differenza del trattamento "scientifico" della realtà, che è
appunto volto a comprendere il suo oggetto, il linguaggio simbolico non è
totalmente ostensivo, dimostrativo di un mondo di oggetti, di utensili
perfettamente dominati dalla nostra intelligenza. Così il linguaggio simbolico
ci impedisce di stabilire con la realtà e soprattutto con la realtà di Dio un
rapporto di pieno e adeguato possesso, un rapporto di dominio come avviene
invece con il linguaggio delle scienze. Il linguaggio simbolico ci impedisce di
stabilire, con colui al quale ci rivolgiamo, un rapporto di tipo oggettivo, come
un qualcosa da afferrare e da possedere. Pur comunicandosi, Dio non sta
nell'ambito delle evidenze immediate. Il credente che si rivolge a lui e parla
di lui con il linguaggio dei simboli, pur riconoscendolo e ravvisandolo in
tutto, avverte l'impossibilità di dire di lui come si dice di tutte le altre
cose. Non senza ragione la religiosità veterotestamentaria non consentiva la
diretta nominazione di Dio.
Scopriamo così che il linguaggio simbolico, mentre dice di
Dio, al tempo stesso lo nasconde, impedendo che la sua trascendenza finisca
prigioniera dei nostri concetti. Possiamo parlare di una comunicazione che
rispetta l'alterità, la trascendenza di Dio. Contro la tentazione di mettere le
mani su Dio possedendolo magicamente, quasi riducendolo al talismano di cui
disponiamo, il linguaggio simbolico, mentre ci aiuta a dire Dio, ne custodisce
la trascenza. Forse la pagina più suggestiva che ci aiuta a cogliere questa
singolare comunicazione del mistero di Dio è nel libro dell'Esodo. All'accorata
preghiera di Mosè perché Dio riveli la sua gloria, il suo volto, non è data una
risposta esaustiva. Dio sarà visibile solo di spalle; il suo volto non potrà
essere contemplato faccia a faccia (cf Es 33, 18-23).
Ritroviamo la stessa logica nelle manifestazioni del Risorto
ai suoi discepoli e a Maria Maddalena: un rivelarsi che custodisce l'incognito,
un darsi che subito si sottrae alla presa della nostra conoscenza (cf Gv 20,
11-29). Nell'incerta luce del tramonto a Emmaus lo sconosciuto si rivela
attraverso un segno --lo spezzare del pane--e si sottrae allo sguardo (cf Lc 24,
13-35); l'apparente povertà del simbolo custodisce la ricchezza della
rivelazione.
[76] Il linguaggio non è dunque un codice che si possa
esprimere a piacere con formule matematiche, ma è un mezzo d'espressione quanto
mai modulato e variato, che conta molto sugli aspetti vibratori della parola e
della frase, sulle ricchezze allusive dell'immagine, sulla forza coinvolgente
dell'evocazione, sulla scossa prodotta dall'interiezione ecc. Per questo il
parlare della fede deve sempre nascere da una certa pienezza emotiva (presente
in noi per la grazia dello Spirito santo anche nei momenti di personale
aridità), e deve usare, come faceva Gesù, del simbolo della parabola, del
racconto, dell'esempio, dell'accenno personale, dell'appello, dell'ammonizione e
anche dell'appassionata perorazione. Non dobbiamo certo sottovalutare
l'argomentazione e la concettualità (la "fatica del concetto" rimane sempre
necessaria per "pensare la fede"), ma dobbiamo ricordare che la trasmissione
quotidiana della fede si realizza in molte modalità differenti che si
compenetrano e si aiutano mutuamente.
Non mi dilungo su questo tema che appartiene agli
specialisti. Vorrei però terminare ricordando che le civiltà occidentali, che
hanno inventato i nuovi strumenti della comunicazione di massa, sono anche
quelle radicate nella Bibbia. Esse hanno il compito di far risaltare come la
moltiplicazione degli strumenti che trasmettono informazioni e messaggi
riproducendo, più che nel passato, il carattere visivo e uditivo, vibratorio e
modulatorio, emotivo e sensitivo dei messaggi stessi, non solo non si oppone
alla trasmissione del messaggio di Dio contenuto nella Bibbia, ma ne mette in
luce la ricchezza e la varietà espressiva.
[77] Vorrei ora proporre alcune verifiche e adempimenti
pratici per aiutare le comunità a mettere in pratica quanto ho detto finora.
Divido questi suggerimenti in tre punti:
* verifiche che propongo a tutti;
* verifiche e adempimenti che propongo a singole realtà. Mi
limiterò a quelle entità pastorali che sono state specialmente tenute presenti
nel triennio sull'educare, per mostrare la continuità tra i due programmi.
Tuttavia ogni altra realtà potrà interrogarsi in maniera analoga. Nessuno si
senta escluso dal lavoro suggerito da questa Lettera, unicamente perché non
riceve qui una speciale menzione;
*un adempimento pratico per una particolare categoria di
persone, che sia come un simbolo e un richiamo sintetico di tutto il lavoro di
quest'anno: i diciottenni-diciannovenni.
1. Verifiche per tutti
Fare seriamente, più volte durante l'anno, l'esame di
coscienza sulle domande espresse ai nn. 7 e 40. Il primo adempimento è infatti
l'assimilazione riflessiva dei principi esposti nella Lettera.
2. Verifiche per alcune singole realtà
[78] La famiglia: è il primo luogo nel quale attuare una
verifica del rapporto comunicativo. Si vedano in particolare i nn. 8 e 40.
Nell'ambito della pastorale familiare potranno essere suggerite altre
iniziative, come i gruppi di spiritualità familiare promossi dall'Azione
Cattolica, che costituiscono un utile strumento per tale revisione di vita. I
consultori familiari di ispirazione cattolica vanno incoraggiati ad ampliare la
loro opera, soprattutto per quelle famiglie dove la comunicazione è divenuta
difficile o si è interrotta.
[79] La parrocchia: è anch'essa luogo privilegiato per la
comunicazione. In essa deve verificarsi quella traduzione concreta della
comunione spirituale con iniziative atte a conoscersi, a frequentarsi, a
stimarsi. Nella parrocchia il Consiglio pastorale deve essere uno strumento
primario per comunicare e promuovere la comunicazione. Si dedichi durante l'anno
una o due sedute del Consiglio a riflettere su questo argomento, partendo per
esempio dalle domande poste ai nn. 10 e 40. Si faccia anche una riflessione
sulle qualità comunicative degli incontri di decanato.
I gruppi: alla luce delle riflessioni accennate al n. 10 si
verifichi la qualità della comunicazione sia all'interno del gruppo, sia nel
rapporto con la parrocchia e le altre realtà della Chiesa locale.
La pastorale vocazionale. I sacerdoti, i religiosi e le
religiose si interroghino: sappiamo comunicare la gioia della nostra vocazione?
Le comunità religiose possono porsi le domande al termine del n. 44. Le attività
di pastorale vocazionale dovrebbero interrogarsi sulla loro capacità di cogliere
le attese e le domande dei giovani e sulla loro capacità di superare i rischi
del comunicare espresse ai nn. 34b e 34c.
I progetti educativi: le realtà che li hanno preparati nei
due anni trascorsi a partire dal programma sull'educare li rivedano in
particolare alla luce dei nn. 30-32. Le costanti comunicative ivi indicate sono
sufficientemente considerate nei nostri programmi?
Il post-Cresima: il sussidio preparato in adempimento di
quanto indicato lo scorso anno fornirà la traccia per rivedere quanto si è fatto
in proposito nell'ambito della comunicazione della fede ai nostri ragazzi.
Scuole per operatori pastorali: anche qui le indicazioni date
in adempimento a Educare ancora aiuteranno a fare di queste scuole un sussidio
per intendere la seconda parte di questa Lettera (cf nn. 18-38).
La catechesi degli adulti: si veda quanto detto sopra al n.
32,7 e ai nn. 61-68.
Scuole dì formazione all'impegno sociale e politico: saranno
riprese quest'anno e forniranno l'occasione per una riflessione attenta sui nn.
4.9.11 (cf anche nn. 15-16).
Piano Montini per i nuovi centri religiosi ed educativi: non
va dimenticato questo impegno che dovrebbe concludersi presto se si rinnoverà la
generosità di singoli fedeli, enti e parrocchie, che ha caratterizzato i primi
due anni. Si tratta di un servizio necessario e indilazionabile alla
comunicazione della fede nei nuovi insediamenti abitativi che si vanno
continuamente moltiplicando.
Pastorale universitaria: alla luce della recente lettera del
Consiglio Permanente della CEI sui problemi dell'università e della cultura in
Italia, sarà importante riflettere in particolare sui nn. 9.11.15. 16.61-68.
Immigrati extracomunitari: sono menzionati in questa Lettera
come un caso serio della nostra carità (cf nn. 4 e 69).
Il futuro Sinodo diocesano: dobbiamo prepararci fin da ora
perché costituirà una pietra di paragone del nostro saper comunicare nella
Chiesa locale. La meditazione attenta di questa Lettera costituirà una
preparazione spirituale all'evento che celebreremo al termine del programma
dedicato al comunicare.
In continuità con il programma educare, sarà nel contempo
utile tenere presenti, a livello locale, gli altri momenti di particolare
impegno educativo, coordinandoli sotto il segno della "comunicazione della e
nella fede". Così la preparazione alla prima Comunione, alla Cresima e alla
Professione di fede, come pure la preparazione al Matrimonio, potranno essere
vivificate con alcuni esercizi di comunicazione di fede secondo quanto
raccomandato all'inizio di questa terza parte della Lettera.
3. Una categoria particolarmente significativa come scelta
per gli anni 1990-1991 e 1991-1992: il biennio per i diciottenni-diciannovenni.
[80] a. Il perché di questa scelta e le principali
indicazioni operative.
La categoria che scegliamo è conseguente al cammino di questi
anni. Si tratta dei diciottenni-diciannovenni (l'età degli ultimi due anni della
scuola superiore), di coloro che accolgono la comunicazione della fede fatta dai
loro genitori ed educatori e si apprestano a trasmetterla a loro volta
impegnandosi in scelte vocazionali secondo il Vangelo. Continuiamo così
l'impegno giovanile dell'anno 1988-1989, culminato nell'Assemblea di Sichem e
nel cammino di Santiago, e quello dell'anno 1989-1990 che ha avuto i suoi
momenti forti nella costituzione dell'organismo diocesano di pastorale giovanile
e nel Gruppo Samuele.
Continuando tale attenzione ai giovani e nel contesto della
complessiva proposta diocesana per la pastorale giovanile (che comprende tra
l'altro la Veglia missionaria, la Scuola della Parola, la Giornata della pace,
la Veglia in tradizione symboli, il pellegrinaggio a Czestochowa), vogliamo
mettere a fuoco in questo biennio la realtà dei diciottenni e diciannovenni, che
già da tempo viene seguita in diocesi con iniziative che hanno, come momenti
forti, gli Esercizi spirituali e la Redditio symboli. E' giunto il momento di
rendere partecipe tutta la diocesi delle esperienze positive fatte in tanti
decanati. Si tratta di individuare per questi giovani alcune tappe a livello
diocesano, che potranno poi essere opportunamente sostenute con iniziative
decanali e locali secondo le indicazioni della pastorale giovanile.
I momenti proposti a livello diocesano saranno quattro:
1. l'apertura dell'anno pastorale la sera del 7 settembre
1990, in Duomo, riservata ai diciottenni e diciannovenni;
2. un'iniziativa di natura vocazionale da proporsi nel tempo
di Avvento;
3. gli Esercizi spirituali in Quaresima;
4. la Redditio symboli per i diciannovenni nel contesto della
vigilia di Pentecoste ( 18 maggio 1991 ) .
[81] b. Alcune indicazioni più specifiche per gli addetti ai
lavori.
L'iniziativa per i diciottenni-diciannovenni ha alle spalle
un lungo periodo di maturazione. Nel 1979 nasceva, nell'ambito della FIES
diocesana, la proposta di Esercizi spirituali per i giovani del diciottesimo
anno di età. Nell'anno seguente l'Azione Cattolica elaborava, in collaborazione
con alcune parrocchie, un cammino che--avendo come punto di riferimento gli
Esercizi--accompagnasse per un anno intero il cammino dei diciottenni. Da circa
sei anni l'itinerario educativo si è allargato a comprendere gli ultimi due anni
della scuola superiore, quindi anche i diciannovenni. Ultimamente è maturata
l'intuizione di concludere tale cammino con il momento della Redditio symboli,
un gesto di riconsegna al vescovo della fede ricevuta e vissuta negli anni
precedenti, e di attestazione della disponibilità a continuare con profondità la
vita cristiana. La scelta di privilegiare questa fascia di età è motivata dal
fatto che può essere considerata un "banco di prova" della nostra capacità di
comunicare la fede: è il momento della maggiore età, del diritto di voto, della
patente; più profondamente è la stagione dell'emergere di domande fondamentali e
dell'urgenza di scelte decisive.
L'obiettivo che ci proponiamo è di accompagnare nella fede i
diciottenni-diciannovenni, di operare perché possano essere dotati di radici
profonde e di sostenere le loro domande più vere e guidarle verso una ricerca
vocazionale.
Il progetto che ci guiderà in questo biennio sarà fatto
conoscere a tutti i giovani e agli educatori. Da parte mia vorrei proporre
alcune sottolineature:
* ho già indirizzato ai diciottenni-diciannovenni la lettera
per la sera del 7 settembre in Duomo;
* la situazione della diocesi non rende facile a tutte le
comunità parrocchiali la possibilità di avviare una proposta specifica per
questa fascia di età. Chiedo che si dia vita a forme di "ospitalità verificata":
i responsabili decanali offrano a tutti i giovani un luogo dove attuare il
cammino (una parrocchia, il decanato). Auspico che nessuno si senta destituito
dalle proprie responsabilità; tutti invece incoraggino i giovani ad affrontare
qualche sacrificio per poter crescere e ritornare alla propria comunità più
arricchiti e formati;
* per rendere possibile la diffusione capillare
dell'iniziativa, invito ogni parrocchia e gruppo a esprimere all'Ufficio
diocesano per la promozione della pastorale giovanile il nominativo di un
responsabile--educatore laico o religiosa--che intenda esplicitamente affiancare
il sacerdote nell'attenzione ai diciottenni e diciannovenni;
* il significato dell'itinerario è di favorire
l'assimilazione della proposta e di curare i dinamismi che fanno interiorizzare
e personalizzare i contenuti via via affrontati. Per tale strumento è
indispensabile "la regola di vita" da consegnare al vescovo durante il rito
della Redditio symboli (cf anche, in proposito, Itinerari educativi, n. 27,
primo paragrafo);
* gli Esercizi spirituali si terranno durante il periodo
quaresimale. Si cercherà di offrire un numero sufficiente di corsi di Esercizi
per gruppi non troppo numerosi, con impostazione e tematiche uniformi, così da
aiutare tutti i partecipanti a compiere un serio cammino vocazionale;
* infine raccomando a tutti un atteggiamento di apprezzamento
nei confronti di questo sforzo per creare convergenza su una medesima proposta.
Non vogliamo mortificare la vivacità di molte comunità e iniziative pastorali;
desideriamo piuttosto tenerle in tensione verso un progetto che, proponendo le
stesse tappe e gli stessi contenuti, miri a superare la dispersione di Babele
favorendo un linguaggio comune tra i giovani di una diocesi tanto vasta come la
nostra.
[82] Concludo ricordando che per gli itinerari educativi
degli adolescenti e dei giovani potrà aiutare la considerazione di due figure di
santi giovani: Pier Giorgio Frassati, beatificato nel maggio scorso e san Luigi
Gonzaga, di cui ricorre nel 1991 il IV centenario della morte.
I pastori, nell'applicazione di questa Lettera, prendano come
esempio e patrono san Gregorio Magno, di cui ricordiamo il 3 settembre il XIV
centenario dell'ordinazione episcopale e dell'elezione a Papa (590). La prudenza
e la saggezza della sua Regula pastoralis ci guidino nel nostro cammino di
quest'anno. E la Vergine della comunicazione interceda per tutti noi.