Ripartiamo da Dio!
DOPO LA SOSTA DEL SINODO
18 giugno 1995, domenica del Corpus
Domini: processione sui Navigli. Sto tenendo fra le mani l’ostensorio con il
pane consacrato che è il Signore Gesù morto e risorto per noi e moltissima gente
adora il Signore con me. Si concentrano in quest’ostia i ricordi dell’anno, la
conclusione del Sinodo, le memorie di quindici anni di episcopato a servizio di
questo popolo. Contemplo il Signore e mi prende come un brivido di spavento per
la sua inermità. È qui osannato da tanta gente, eppure è debole e tutto si
lascia fare dalle nostre mani. Potremmo fare di Lui qualunque cosa e non
reagirebbe, come non ha reagito nella Passione. È questo il Signore della
gloria, l’Onnipotente, Colui che tiene in mano i destini dei popoli! Di questo
Signore della Gloria noi conosciamo poco; davvero è al di là di ogni nostro atto
di intelligenza, non comprendiamo il rapporto tra la sua infinità e la sua
inermità. È Dio e perciò al di sopra di ogni nostro pensiero: Deus semper
maior, Dio sempre più grande di quanto non possiamo immaginare o
comprendere.
Eppure Tu, o Signore Gesù, sei qui per noi
e l’ostia che contemplo è la Tua vita per noi. Tu sei il nostro tutto, Colui al
di là del quale non possiamo cercare altro, perché in Te vediamo il Padre. A Te
consegno le intercessioni e le preghiere di tutta la Chiesa di Milano al termine
del Sinodo, in un momento in cui le è chiesto di ripartire per camminare verso
il nuovo millennio.
Ma ripartire come? e da dove? Qui la Tua
essenzialità, o Signore, mi grida: mi sono spogliato di tutto, ho lasciato
perdere tutto, per mostrare solo il Padre, il Suo amore per voi. Sì, ne sono
certo: da Dio occorre ripartire, dall’Essenziale, da ciò che unicamente conta,
da ciò che dà a tutto essere e senso. Sarà “Ripartiamo da Dio” il titolo della
lettera pastorale che segna il nostro ripartire come Chiesa di Milano dopo la
sosta del Sinodo, che avevo a suo tempo paragonato alla sosta degli Ebrei presso
le palme di Elim: “Qui arrivarono a Elim, dove sono dodici sorgenti d’acqua e
settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua” (Esodo 15,27). È giunto anche
per noi quel momento che il libro dell’Esodo segnala al versetto seguente:
“Levarono l’accampamento da Elim, e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al
deserto di Sin, che si trova tra Elim e il Sinai” (Esodo 16,1). È chiaro che la
meta finale è il Sinai, l’incontro col Dio dell’alleanza, e il cammino passa per
il deserto, luogo dell’essenzialità. Di tale essenzialità, che è poi il primato
di Dio, vorrei parlare in questa lettera. Anche per rispondere a un
interrogativo corrente: La Chiesa che parla spesso di solidarietà, di giustizia
sociale ecc. sa ancora parlare di Dio?
Non si tratta quindi di una lettera
programmatica nel senso formale del termine. Il programma del 1995/96 si impone
da sé: è l'assimilazione paziente e graduale del testo e delle prescrizioni
sinodali, con alcuni adempimenti - di cui parlerò nell'ultima parte - che
riguardano la ripresa e la riscrizione dei progetti pastorali delle parrocchie e
delle altre realtà ecclesiali alla luce del Sinodo e una riflessione sul
difficile momento vocazionale che stiamo vivendo. Qui esporrò le premesse di
questo lavoro, le condizioni spirituali in cui va eseguito, in continuità con la
mia lettera di presentazione del Sinodo, pubblicata il 1° febbraio 1995 e che vi
invito a rileggere in appendice. Mi riferisco in particolare a quella pagina
dove dicevo: come la Chiesa degli Apostoli, ripartiamo da Dio! Dal Dio nel quale
viviamo, ci muoviamo e siamo, dal Dio dei nostri padri, dal Dio di Abramo, di
Isacco e di Giacobbe, dal Dio dell’Alleanza e delle Scritture, dal Dio del
nostro Signore Gesù Cristo, dal Dio che ci ha guidato fino ad oggi e guida il
nostro cammino verso il terzo millennio, dal Dio mistero inesauribile, dal Dio
Padre, Figlio e Spirito Santo! (cf n.6).
Un testimone straordinario del mistero
trascendente ci accompagnerà nel cammino: è il Cardinale Alfredo Ildefonso
Schuster, nostro Arcivescovo dal 1929 al 1954, che tanti di noi ricordiamo, da
cui tanti - ancora oggi viventi - hanno ricevuto il sacramento della cresima o
l’ordinazione sacerdotale. Il Papa lo proclamerà beato il prossimo 12 maggio
1996. Schuster è passato in questo mondo testimoniando il primato di Dio, uomo
“tutto preghiera”, uomo partecipe dei dolori di questo mondo ma proteso verso i
beni eterni. Alcuni anni fa (1987) abbiamo contemplato il nuovo beato, il Card.
Andrea Carlo Ferrari,, nell'ambito del nostro programma pastorale “educare”,
come Vescovo educatore di un popolo. Quest’anno potremo invocare il Card.
Schuster perché ci insegni a esprimere nella nostra vita e nella nostra Chiesa
il primato di Dio.
La presente lettera comprende quattro
parti:
- nella prima vorrei esprimere i motivi
per cui sento importante per noi ora “ripartire da Dio”;
- nella seconda mi domanderò che cosa ciò
significa in concreto;
- nella terza dirò in che modo una Chiesa
locale è chiamata a vivere il primato di Dio;
- nella quarta spiegherò alcuni
adempimenti pratici.
Quattro domande dunque: 1. Perché
ripartire da Dio? 2. Che cosa comporta il primato di Dio? 3. Come una Chiesa lo
vive? 4. Che cosa fare in pratica quest'anno?
1. RIPARTIRE DA DIO: PERCHÉ?
Non basta che io senta interiormente
l’urgenza di questo tema. Debbo provare a esprimerne le ragioni per chi mi
legge. Lo farò convocando successivamente tre interlocutori: san Paolo, Manzoni
e me stesso in quanto Vescovo da quindici anni in questa Archidiocesi. Certe
cose che si hanno dentro può essere più facile comunicarle in dialogo.
1.1. Vorrei anzitutto dialogare con te,
Paolo apostolo, che nella lettera ai Galati e in quella ai Romani proponi il
vangelo della Grazia, un radicale ripartire da Dio. Perché questa insistenza?
quali destinatari avevi davanti? di che cosa avevano bisogno?
Paolo:
“Avevo davanti a me due tipi di destinatari. Da una parte mi rivolgevo a quei
figli della Legge che erano tentati di prenderla come totalità rassicurante,
quella che oggi chiamereste una “ideologia pratica”. È una mentalità che induce
a pensare che nel “fare” certe cose e nel farle “proprio così” ci sia la chiave
di tutto. Erano tentati di presunzione, della pretesa di possedere in qualche
modo il mistero. Ad essi ricordavo che il Dio di Abramo è il Dio che liberamente
promette senza nostro previo merito e che il senso della vita sta nel
perdutamente affidarsi al Suo mistero santo. Questo mistero è insondabile e non
può essere imprigionato nei nostri schemi, non dipende dalle nostre osservanze,
non è legato ai nostri principi retributivi. “O profondità della ricchezza,
della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi
giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rom 11,33).
Dall’altra parte mi rivolgevo ai pagani di
quei tempi: erano “soli”, senza Dio, con tante divinità, numerose quanto
inutili. La loro tentazione era l’ingordigia delle gioie presenti, da cui
l’apatia, l’insensibilità, lo sbriciolarsi del senso della vita in mille cose
inconcludenti. Ad essi volevo richiamare l’esigenza di unificare l'esistenza
sull’orizzonte ultimo, di fondare la dignità e la bellezza delle cose penultime
e quotidiane nell’ultimo orizzonte e nell'ultima Patria. Non si può vivere di
maschere o di piccoli idoli: occorre misurarsi sull’Oltre, su quel Mistero
assoluto che ci intimorisce e ci attrae, di cui dolore e morte sono come
sentinelle. Ma essi avevano “cambiato la verità di Dio con la menzogna” e
avevano “adorato la creatura al posto del creatore” (Rom 1,25)”.
Chiedo a Paolo: “Ritieni che queste due
tentazioni siano ancora presenti in noi, perfino nella nostra Chiesa?”
Paolo:
“Rileggete attentamente le mie lettere e vedrete che parlano di voi.
Parlano in primo luogo a voi che vi
sentite tranquillamente dentro la Chiesa. Date per scontato quel punto di
partenza che è il primato di Dio e vi affidate sovente a un dio che è opera
della vostra fantasia e non l’al di là di essa, l’al di là di ogni cosa che può
essere pensata o immaginata. Vi fate delle sicurezze con pratiche umane, anche
religiose, con gesti e preghiere. Volete sempre trovare la chiave risolutiva dei
problemi religiosi e pastorali che vi assillano, così da possederla e adoperarla
a piacere. Se parlate di “programmazione” è per sentirvi a posto, per poter
accusare altri e magari Dio stesso dei vostri insuccessi. Questo non è mettere
al primo posto Dio e la sua gratuità! Questo è fare di Dio uno strumento della
propria realizzazione umana e pastorale! Perché non lasciate spazio alle
“sorprese” di Dio?
Le mie lettere parlano inoltre a chi
ricerca evasioni per non pensare seriamente al suo futuro e al senso globale
della sua vita. Denuncio la povertà e l’insufficienza di molte esistenze che si
credono “piene”. Chi non adora il Dio che è al di là di ogni cosa, è schiavo
degli idoli. Occorre ripartire dal Mistero indicibile, riprendere in mano con la
Sua grazia il significato totale della propria esistenza: e questo è
possibile!”.
1.2. Interrogo ora un testimone più vicino
al nostro tempo, un cristiano ambrosiano che ha vissuto fino in fondo le ansie
del cuore umano alle soglie dell’età moderna: Alessandro Manzoni. Gli chiedo:
come hai vissuto il primato di Dio? perché fra tante cose necessarie per i tuoi
contemporanei ti sei dedicato a proporre loro l’unico necessario, Dio e la sua
provvidenza?
Manzoni:
“Ho capito che con Dio non si deve perdere, ma “capitolare”. Lui ascolta i
nostri perché più veri, quelli che nascono dai dolori più intimi: ci risponde
col Suo silenzio e con l’infinita compassione del Suo amore. È quello che ho
vissuto di fronte alla morte dei miei amori più cari e che ho espresso nelle
frasi ancora smozzicate e incompiute del “Natale del 1833” ("Si che tu sei
terribile / Si che tu sei pietoso... i preghi / Doni, concedi e neghi... Ma tu
pur piangi e")[1].
Ma l’ho vissuto anche di fronte alle grandi mutazioni del mio tempo. Le spinte
di questi cambiamenti, i violenti dinamismi che avevano scosso le società
europee, li ho sentiti anzitutto in me. Dopo una lunga ed estenuante lotta, dopo
aver cercato di costruirmi una vita e una fama a mio modo secondo le idee del
tempo, mi sono arreso a Dio. Ho intravisto che in Lui si realizzava quanto in
qualche modo, confusamente, cercavo.
Non è stato facile, neanche dopo. Ho
imparato che la lotta con Lui dura tutta la vita, perché Lui è sempre al di là;
crediamo di averlo capito ed è Altro. In fondo sono rimasto fino alla fine un
uomo affaticato nella ricerca, un uomo conscio della sua debolezza e che si
sforzava ogni giorno di ricominciare a credere, ad affidarsi. Voi che
giustamente riposate nell’equilibrio di tante mie pagine, nell’armonia - da me
descritta - di destini ritrovati dopo lunghi dolori, sappiate che tutto ciò a me
è costato molto e che Dio mi ha sempre sorpreso, fino all’ultimo. Non è il mio
un cristianesimo facile. Non mi stupisco quindi del vostro tempo inquieto, non
sono lontano dalle vostre angosce”.
1.3. E a me, da tre lustri Vescovo di
questa Chiesa, che cosa dice il primato di Dio?
Quindici anni fa vi ho proposto “la
dimensione contemplativa della vita” come chiave antropologica per l’oggi, come
asse portante del nostro essere e del nostro agire quale Chiesa di Milano. Oggi
vengo a riproporvi l’assoluto primato di Dio, il soli Deo gloria. Perché?
Direi per le stesse ragioni di allora, ripensate oggi, e per le stesse ragioni
di Paolo e del Manzoni, rilette nel contesto odierno.
1.3.1. Che cosa intendevo allora proporre,
sottolineando il valore della contemplazione nella nostra civiltà convulsa e
anche nella nostra Chiesa? Intendevo ricordare un unico e molteplice primato: il
primato di Dio, di Gesù Cristo, della grazia, della persona, dell'interiorità (o
del "cuore"). Il primato di Dio rispetto a ogni iniziativa o attività umana, il
primato di Gesù Cristo sulla Chiesa, quello della grazia sulla morale, quello
della persona sulle strutture, quello dell'interiorità sul fare esteriore. Il
primato dell'essere sull'avere.
Il primato di Dio su ogni iniziativa
umana: Dio è il Padre che ama per primo, che comunica se stesso e si dona in
Gesù prima ancora di ogni attesa umana , il primo nel perdonare gratuitamente,
Colui da cui tutto viene, tutto dipende, a cui tutto tende e tutto ritorna. È
importante anzitutto sentirci amati.
Il primato di Gesù Cristo, figlio del
Padre, immagine perfetta di Dio e figura dell'uomo perfetto, riferimento di ogni
crescita umana autentica. Lo scopo di ogni cammino umano è divenire come Gesù,
figli di Dio in Lui. Nessuno uomo o donna può realizzarsi se non in Gesù Cristo,
nessuno potrà mai essere più autenticamente persona umana di Lui. Il punto di
arrivo di ogni cammino umano è Gesù Cristo e lo sguardo di ogni uomo e di ogni
donna deve anzitutto fissarsi su Gesù Cristo, contemplare Lui, imparare da Lui,
imitare Lui, seguire Lui. Contemplarlo, accettarlo, seguirlo nella sua vita,
nella sua passione, nella sua morte. Non c'è mai stata realizzazione umana più
alta di quella della croce. Non è dunque anzitutto importante costruire la
Chiesa, ma seguire Gesù Cristo. È il seguirlo, il guardare a Lui per primo,
l'entrare in Lui, il partecipare alla sua vita di Figlio che ci fa Chiesa. La
Chiesa è l'assemblea di coloro che sono veramente figli di Dio in Gesù Cristo,
vivendo come Lui ha vissuto, amando come Lui ha amato e morendo come Lui è
morto, affidandosi al Padre.
Il primato della grazia, cioè dello
Spirito Santo, dono del Padre all'uomo in Gesù, per farci vivere come Gesù
Cristo e farci amare come Gesù ha amato. Questa grazia è, per l'uomo afflitto
dal male, benevolenza e misericordia del Padre, liberazione dalla colpa,
vittoria del bene sul male, azione divina che trae il bene anche dal male. È
l'amore del Padre effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci
permette di agire moralmente seguendo gli esempi di Gesù Cristo, uomo perfetto,
giusto, onesto, verace, mite, saggio e coraggioso, che dà la vita per i suoi
nemici. Qui sta la radice di ogni vera moralità.
In tale luce appare la dignità della
persona umana e della sua libertà. La persona umana è il rispondente di Dio
nella creazione, fatto per rispondere con amore all'amore di Dio in Gesù e
continuare nel mondo l'opera intelligente e costruttiva del Padre. La persona
umana ha in mano i destini del mondo, è responsabile del senso della storia, è
chiamata a collaborare al disegno di riconciliare in unità l'umanità intera.
Simbolo reale e segno efficace di questo formidabile compito storico di rifare
"una" l'umanità è l'Eucaristia.
Nella persona umana decisivo è il "cuore",
l'interiorità. È il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che
cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia. Tutta la
vicenda umana si gioca nell'intimo dell'uomo. La Parola di Dio che illumina e
salva è destinata al cuore umano, lo tocca nell'intimo e lo trasforma. Di qui la
fondamentale importanza del silenzio, dell'attenzione vigile, della riverenza e
disponibilità interiore di fronte a Dio che si comunica: in una parola,
l'importanza della "dimensione contemplativa della vita".
1.3.2. Quanto ho richiamato come sintesi
"teologica" di ciò che sottostava alla "dimensione contemplativa della vita" può
essere ridetto, in chiave di sintesi "epocale", a partire dalle ragioni di Paolo
e del Manzoni rilette oggi.
All’inizio del mio ministero, in anni
ancora sotto la malìa delle ideologie che pretendevano di cavalcare la tigre
della storia, proporre il primato di Dio voleva dire segnalare il limite
costitutivo di ogni visione ideologica, totalizzante. Come Paolo, contro chi
aveva fatto della stessa Legge un assoluto, aveva proposto la libertà di Dio e
della Sua grazia, così io intendevo proporre Dio come misura ultima di tutto,
critica inesorabile delle presunzioni mondane e della violenza da esse
esercitata sulla realtà. L’89 ha mostrato come quell’indicazione cogliesse nel
segno: un mondo senza Dio si disgrega, diventa alienante e violento anche contro
se stesso.
Oggi non è venuta meno l’urgenza di
vigilare contro le catture ideologiche, sempre ammalianti per il loro carattere
di scorciatoia semplificante. Esse esistono, nella società e nella Chiesa, anche
se di segno diverso da quelle degli anni ’80. Tuttavia si fa forse ancora più
urgente il bisogno di parlare ai “nuovi pagani” (l’espressione la mutuo da S.
Natoli, I nuovi pagani, Milano 1995). Sono coloro che, privi
dell’orizzonte totale e rassicurante dell’ideologia ed insieme privi di un
“ultimo Dio” capace di salvare il mondo, vorrebbero ricondurre tutto al
frammento, all’attimo, alla dignità dell’essere umani, soltanto umani e basta,
con tutta la caducità che questo comporta.
Ai “nuovi pagani” vorrei richiamare il
Mistero più grande, come faceva Paolo di fronte agli orfani degli idoli del suo
tempo. Vorrei gridare che vivere significa rispondere all’appello del Mistero
assoluto, Orizzonte del mondo e della vita, verso cui si volge l’interrogazione
più profonda del cuore. Vivere veramente, senza sterili forme rinunciatarie,
senza lasciarsi accattivare dalla subdola tentazione del pensiero debole,
significa lasciarsi illuminare dal grido di trascendenza che abita nel cuore del
nostro cuore. Significa dare ascolto al dinamismo della nostra ricerca di un
luogo o di un evento dove l’Altro si offra al nostro spirito inquieto. Significa
non pacificare a buon prezzo l’inquietudine interiore, ma aprirle spazi di
intelligenza e di desiderio: “Non è la conoscenza che illumina il Mistero -
diceva P. Evdokimov - è il Mistero che illumina la conoscenza”.
Ai credenti, tentati di contrapporre al
nichilismo postmoderno, orfano dell’ideologia, un cristianesimo dalle certezze
facili, malato esso stesso di ideologia, vorrei proporre la fede indagante, non
negligente, del Manzoni: un abbandonarsi credente al primato di Dio che non
rinuncia a porsi le domande cruciali della vita, a vivere la sofferenza, a
portare la Croce, ma in compagnia del Dio che soffre, di Colui che "Volle
l'onte, e nell'anima il duolo / E l'angosce di morte sentire / E il terror che
seconda il fallire / Ei che mai non conobbe il fallir"[2].
A tutti i nostri fedeli vorrei ripetere la
testimonianza di Dietrich Bonhoeffer, morto martire della barbarie nazista
cinquant’anni fa, il 18 aprile 1945. Al fallimento dell'ideologia totalitaria e
violenta egli non contrapponeva un'altra ideologia né una rinuncia decadente e
priva di senso, bensì il far compagnia a Dio nel suo dolore per gli uomini. Così
si esprime nella poesia Cristiani e pagani, contenuta nella raccolta
delle lettere e degli scritti dal carcere:
“Uomini vanno a Dio nella loro
tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla
morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né
pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua
sofferenza.
Dio va a tutti gli uomini nella loro
tribolazione,
sazia il corpo e l'anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona”.
[3]
Paolo e Manzoni, ripensati nel nostro
tempo, mi danno le ragioni per tornare a proporvi il primato di Dio proprio
oggi, fra la nostalgia delle certezze perdute, provata da alcuni, e il trionfo
degli idoli e delle maschere, sostenuto da altri per riempire il vuoto del nulla
e del non senso.
È ciò che il Papa ci invita a fare in
questa fine millennio. Che cos’è la Tertio Millennio Adveniente se non un
pressante invito a ritornare al Dio di Gesù Cristo come alla misura ultima di
tutto, di tutti, della Chiesa stessa? Non si comprende così l'appello al
pentimento e alla conversione anche per la Chiesa?
Ho dunque richiamato le ragioni per questo
appello: ripartiamo da Dio! Ma che cosa vuol dire in concreto per noi,
pellegrini del mondo postmoderno, ripartire da Dio? che cosa vuol dire per la
Chiesa ambrosiana, appena uscita dal Sinodo? che cosa vuol dire per la nostra
società milanese, in un tempo di transizione e di incertezza?
2. RIPARTIRE DA DIO: CHE COSA IMPLICA?
Sono i profeti a insegnarci che cosa
significa ripartire da Dio. Profeta è “colui che tiene lo sguardo fisso verso il
Dio che viene” (Martin Buber), ma ha allo stesso tempo i piedi ben piantati
sulla terra. Mi sembra che oggi ci sia penuria di profeti: c’è chi guarda in
alto mentre i suoi piedi sembrano aver perduto il contatto con la terra degli
uomini (è la tentazione dei tanti spiritualismi caratteristici di un’età che si
è autodefinita New Age); c’è chi è talmente incollato al proprio
frammento di terra da perdere di vista l’insieme e l’orizzonte più grande.
Ripartire da Dio richiede il coraggio di riproporsi le domande ultime, di
ritrovare la passione per le cose che si vedono perché sono lette nella
prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono.
Si potrebbe esprimere in tre modi il “che
cosa” della proclamazione del primato di Dio.
1. Rispetto al cammino personale significa
non dare mai nulla per scontato nel nostro cammino di fede, non cullarci nella
presunzione di sapere già ciò che è invece perennemente avvolto nel mistero;
significa santa inquietudine e ricerca.
2. Rispetto al nostro agire comunitario e
sociale significa mettere tutti i nostri progetti umani sotto la Signoria di Dio
e misurarli solo sul Vangelo.
3. Rispetto ai frutti che tale
atteggiamento suscita, significa godere una esperienza di profonda serenità e
pace.
2.1. L’inquietudine della notte della fede
Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi
non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una
ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e
coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia
del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire
idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti
alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia
e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro
alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata
giustizia, di riconciliazione, di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi
dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che
sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di
credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante,
che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Sui Navigli,
portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a
questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa
debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della
grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà,
nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
È come nel cammino verso Emmaus (cf Luca
24,13-35). Da principio il Signore si fa sentire stimolando e interrogando
l'inquietudine dei discepoli. Poi si manifesta nelle parole che spiegano le
Scritture, le quali fanno comprendere ai due discepoli che c'è qualcosa al di là
di quanto essi credevano di aver capito. Ma quando Gesù si rivela nella frazione
del pane, subito scompare ed essi lo cercheranno correndo incontro ai fratelli.
Gesù stimola, attrae, si manifesta, e insieme invita ad andare oltre, a non
contentarsi della formula ricevuta o della gioia di un momento.
Talora presumiamo di avere già raggiunto
la perfetta nozione di ciò che Dio è o fa. Grazie alla Rivelazione sappiamo di
Lui alcune cose certe che Egli ci ha detto di Sé, ma queste cose sono come
avvolte dalla nebbia della nostra ignoranza profonda di Lui. Non di rado mi
spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto “Dio” e danno
l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che Egli opera
nella storia, come e perché agisce in un modo e non in un altro. La Scrittura è
assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali.
Preferisce il velo del simbolo o della parabola; sa che di Dio non si può
parlare che con tremore e per accenni, come di “Qualcuno” che in tutto ci
supera. Gesù stesso non toglie questo velo, Lui che è il Figlio: ci parla del
Padre ma “per enigmi”, fino al giorno in cui svelatamente ci parlerà di Lui.
Questo giorno non è ancora venuto, se non per anticipazioni che lasciano ancora
tante cose oscure e ci fanno camminare nella notte della fede.
Perciò anche la Chiesa, fatta a immagine
della Trinità, non può capire mai a fondo se stessa né può cessare di ricercare
con passione e pazienza la sua identità. Molti discorsi pastorali nascondono
l’illusione di sapere tutto sulla Chiesa e sui suoi cammini nel mondo, cose se
si trattasse solo di applicare delle regole e di dedurre conclusioni da
principi. Ma la Chiesa ha la sua origine nel Padre che è prima di ogni principio
e va accolta come dono che si rinnova ogni giorno per la forza sorgiva dello
Spirito.
Questo discorso potrebbe essere frainteso,
quasi si trattasse di “rimettere continuamente in discussione tutto”. Le
certezze che ci sono date in dono sono ben certe e ciascuno le può ritrovare nel
Catechismo della Chiesa Cattolica. Esse sono faro e guida per i nostri cammini,
però non sono più di una “lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non
spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2Pt 1,19).
Non ci dispensano dalla fatica dell'interrogarci, dal timore di illuderci, dal
bisogno di esaminarci con umiltà su quanto diciamo e operiamo ogni giorno.
2.2. L’ultima misura di tutto
Ripartire da Dio vuol dire confrontare con
le esigenze del Suo primato tutto ciò che si è e che si fa: Egli solo è la
misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi
stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui soltanto è
la misura che non passa, l’áncora che dà fondamento, la ragione ultima per
vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall'Alto, vedere il Tutto
prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque.
Ripartire da Dio vuol dire misurarsi su
Gesù Cristo e quindi ispirarsi continuamente alla Sua parola, ai Suoi esempi,
così come ce li presenta il Vangelo. Vuol dire entrare nel cuore di Cristo che
chiama Dio "Padre". Il Vangelo, quando è letto con spirito di fede e di
preghiera ci rimanda a un Dio che è sempre al di là delle nostre attese, che
supera e sconcerta le nostre previsioni; è l'esperienza che facciamo ogni volta
che ci dedichiamo seriamente alla "lectio divina". Non sappiamo ancora leggere
convenientemente il Vangelo se non ci sentiamo spinti verso l'Oltre misterioso
di Dio, verso il segreto del Padre, non riducibile a nessuna misura o
comprensione umana.
Ripartire da Dio vuol dire abbandonare al
soffio dello Spirito il nostro cuore inquieto, perseverare nella notte
dell’adorazione e dell’attesa. È questa la sola via per uscire dalla violenza
dell’ideologia senza cadere nella condizione di naufragio del nichilismo, senza
etica e senza speranza.
Il Dio con noi è il Dio che può aiutarci a
trovare le vere ragioni per vivere e vivere insieme. Rispetto alle acque basse
in cui sembra stagnare oggi la vita civile, sociale e politica del nostro Paese,
partire da Dio significa trovare senso, slancio, motivazione per rischiare e per
amare. “Quando ami, non dire: ho Dio nel cuore. Di' piuttosto: sono nel cuore di
Dio”[4].
Ripartire da Dio significa riconoscere di essere nel cuore di Dio per
un’esperienza di fede e di amore vissuti: riconoscere di essere nati per
imparare ad amare di più, a osare di più, ad andare oltre i limiti delle nostre
comodità e dei nostri piccoli traguardi.
2.3. Esperienza di pace e riconciliazione
interiore
Ripartire da Dio significa farsi
pellegrini verso di Lui aprendosi al dono della Sua Parola, lasciandosi
riconciliare e trasformare dalla Sua grazia. Non c’è altro porto di pace, altra
sorgente di vita che vinca la morte. Solo il Dio della vita sa dare riposo al
nostro cuore inquieto; solo Lui può liberarci dalla paura di amare e contagiarci
il coraggio di scelte di libertà da noi stessi, di servizio agli altri. Solo chi
si riconosce amato dal Dio vivo, più grande del nostro cuore, vince la paura e
vive il grande viaggio, l’esodo da sé senza ritorno per camminare verso gli
altri, verso l’Altro.
Questa esperienza di pace e
riconciliazione interiore la facciamo soprattutto quando diamo a Dio tempi
gratuiti di preghiera, di silenzio, di ascolto della Parola; quando siamo fedeli
alla preghiera quotidiana, senza fretta, con calma, con amore; quando dedichiamo
a Dio con gioia il tempo della Messa domenicale; quando lasciamo che dalle
nostre labbra scaturisca la lode al Padre, il ringraziamento per le cose belle e
buone che ci dà, per le persone che incontriamo e anche per gli eventi sofferti
di cui non capiamo subito il senso.
Avere a cuore l'Eterno è al tempo stesso
la sfida più profonda e l’offerta più grande che sia possibile vivere:
testimoniare questo primato di Dio è il compito più alto che i credenti possano
assolvere in questo tempo di cambiamento e di inquietudine.
Anche qui il Manzoni ci ha detto parole
incisive, descrivendo in tanti episodi del suo romanzo la pace del cuore che
invade l'animo di chi, in momenti burrascosi e oscuri, si affida alla
provvidenza divina: Agnese, Lucia, fra' Cristoforo, l'Innominato... Potremmo
dire che Manzoni ha capito come nel cuore della nostra gente il primato di Dio
si esprime spesso in quella fiducia semplice nella Provvidenza che impedisce
all'attivismo di trasformarsi in ansietà della vita.
3. RIPARTIRE DA DIO COME CHIESA DI MILANO
Il messaggio del primato di Dio e della
Sua grazia potrebbe risuonare etereo, evanescente. Non lo era per Paolo, che
parlava a destinatari ben precisi, rispondendo a sfide concretissime. Non lo era
per il Manzoni, che si professava parte viva della Chiesa del suo tempo, segnata
dalle prove di mutamenti epocali. C’è tuttavia il rischio che lo sia per noi, se
lo proporremo solo a parole o come singoli. Al di là del compito di incarnare
nella propria vita le conseguenze del primato di Dio, c’è per tutti noi il
compito di viverlo insieme. La forza e la concretezza del messaggio passano
attraverso la credibilità con cui lo proporremo come Chiesa, come corpo di
Cristo presente nella storia, come umanità chiamata a riconoscere nei pensieri,
nelle parole e nelle opere di tutti i giorni il primato di Dio, come uomini e
donne cui il primato di Dio dà senso al vivere e alle scelte ordinarie e
straordinarie, abituali o impreviste dell'esistenza. Si tratta di rendere
visibile e in qualche modo percepibile il fatto che esiste in questo mondo
un’esperienza di comunione possibile sotto il primato di Dio. Quale l'ideale di
comunità che ne risulta?
3.1. Una comunità alternativa
C’è un aspetto di profonda verità in
coloro che riscoprono la Chiesa come “comunità alternativa”, a partire
dall’esperienza della Chiesa degli Apostoli. Di fronte alla solitudine dell’uomo
prigioniero dei propri idoli, la comunità dei discepoli che si vogliono bene
annuncia il dono di una comunione nuova, possibile per la grazia di Dio.
Il popolo dell’Alleanza deve essere
riconoscibile per la verità e la libertà dei rapporti che lo costituiscono:
sotto il primato di Dio la Chiesa avverte le pesantezze da cui deve liberarsi,
il cammino di rinnovamento e di riforma che deve intraprendere. Ci è di guida in
questo impegno il Papa che così fortemente ha invitato la Chiesa a riconoscere
il peso delle sue colpe nella storia per purificarsi e rinnovarsi sotto lo
sguardo di Dio, nella gloria del perdono domandato e ottenuto. La Tertio
Millennio Adveniente può essere capita solo nella luce dell’assoluto primato
di Dio anche sulla Sua Chiesa.
La testimonianza della possibilità e
concretezza di una comunità alternativa nella storia sotto il primato di Dio non
è cosa facile. Si paga al caro prezzo della vita giocata per il Signore in
scelte di libertà vera e di donazione al prossimo. Dio è fuoco divorante ed è
sempre terribile cadere nelle mani del Dio vivente: ma è pure esperienza che ci
rende pienamente umani, realizzando la sete del nostro cuore inquieto e dando
senso alle opere e ai giorni della nostra vita. Il Dio vivente non è un Dio
rassicurante e comodo, ma Custodia che racchiude nel santuario dell’adorazione
le risposte ultime, e nutre della promessa della fede - non delle presunzioni
dell’ideologia - l’impegno di chi crede. Per questo una simile comunità
rappresenta nella storia in qualche modo una "utopia" da ricercare sempre con
coraggio rinnovato, ma anche una iniziale realizzazione di fraternità che
potremmo cogliere tanto più quanto più ci faremo piccoli, semplici, tenendo
aperti gli occhi del cuore e cercando di valorizzare ogni più modesta attuazione
di amore evangelico.
Ma come intenderla in concreto una tale
comunità? Non è facile dirlo.
Il concetto di "comunità alternativa" si
presta anche a fraintendimenti. Ma ha un valore provocatorio e stimolante: ci
aiuta a capire il disegno di Dio di "radunare i dispersi" (cf Gv 11,52).
Come si può dunque definire una "comunità
alternativa"? E' una rete di relazioni fondate sul Vangelo, che si colloca in
una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente
funzionali, spesso conflittuali. In tale quadro di società la comunità
alternativa è la "città sul monte", è il "sale della terra", è la "lucerna sul
lucerniere", è "luce del mondo" (cf Mt 5,13-16).
Una riflessione sulla comunità cristiana
come comunità alternativa è rinata in anni recenti. Al di là delle proposte
talora un po' utopiche o a rischio di chiusura ideologica, il tema è certamente
legato al progetto di Gesù per una nuova umanità: purché si intenda questo
progetto in senso largo e aperto, come progetto che si realizza in molti modi
analogici, che rimane sempre aperto alla creatività dello Spirito.
Una comunità alternativa nel senso del
Vangelo non è dunque una setta, né un gruppo autoreferenziale che si distacca
orgogliosamente dal tessuto sociale comune, né un'alleanza di alcuni per
emergere e contare. Non è perciò necessariamente e sempre visibile come gruppo
compatto, perché sa accettare anche la diaspora, può cioè trovarsi, per diverse
circostanze storiche, in "dispersione". Ma nell'insieme ha caratteri di
visibilità e in ogni caso, visibile o meno, agisce sempre come il lievito, le
cui particelle operano in misterioso collegamento fra loro e si sostengono a
vicenda per far fermentare la pasta.
Nel Nuovo Testamento ci sono offerti
diversi modelli di comunità alternative: quello della chiesa di Gerusalemme,
descritto in At 2-5, quello vigente nelle comunità di Antiochia o Filippi o
Efeso o Corinto, che comprende sia rapporti interni fra i membri di ogni
comunità locale, sia ricchi scambi tra comunità diverse con forme molteplici di
comunione nella preghiera, nella fede, nella carità. I testi del Nuovo
Testamento ci mostrano che tali comunità non erano esenti da problemi,
divisioni, tensioni, scandali: ma tutto ciò era occasione di revisione e alla
fine di crescita nella fede, nel perdono e nell'amore. Comunità alternativa non
significa dunque comunità perfetta o senza difetti, ma comunità che si lascia
formare e correggere dall'azione dello Spirito santo per porre quelle premesse
di comunione e di perdono che preludono alla Gerusalemme celeste.
Anche con tutti i suoi peccati la comunità
alternativa rimane un ideale di fraternità in divenire, destinato a mostrare a
una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri,
che non ci sono solo rapporti di convenienza o di interesse, che il primato di
Dio significa anche emergere di ciò che di meglio c'è nel cuore dell'uomo e
della società.
La Chiesa è, nel suo insieme e
nelle mille diverse realizzazioni analogiche, una simile comunità, e come tale
ha una funzione di orientamento e di proposta di senso alla comunità più larga
degli uomini e delle donne di tutto il mondo. Lo è sia come comunità cattolica
sia come comunione di chiese cristiane che credono in Cristo e che si sforzano,
malgrado le loro divisioni (che sono una dolorosa controtestimonianza) di dare
l'esempio di molteplici convergenze e scambi di doni spirituali e materiali, in
spirito di amicizia e di gratuità, in un sincero cammino ecumenico.
“Fate tutto senza mormorazioni e senza
critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio in mezzo a una
generazione perversa e degenere, nella quale dovete risplendere come astri nel
mondo, tenendo alta la parola della vita”: così san Paolo esortava la piccola
comunità di Filippi, immersa in un mondo pagano senza cuore e senza speranza, a
dare testimonianza anche col modo di stare insieme con pazienza e con amore (Fil
2,14-16). C'è dunque una funzione di illuminazione e di orientamento ("splendere
come astri nel mondo") che è affidata non solo alla testimonianza dei singoli ma
anche ai diversi modi di fare comunità che si riscontrano nella storia della
Chiesa e che si collegano tutti nell'essere diverse manifestazioni dell'unico
Corpo di Cristo.
Per questo la "comunità alternativa"
rimanda a quella comunione misteriosa che è all'origine di tutto e che è il
mistero di Dio.
3.2. Radicata nel mistero di Dio
Essere Chiesa sotto il primato di Dio
significa “corrispondere” al dono del Suo amore, nel senso di una analogica
“corrispondenza tra ciò che Dio è in Sé, nel suo mistero trinitario e ciò che ci
chiede di essere tra noi”. “La formula più corrente mediante la quale Giovanni
dà espressione alla realtà escatologica della Chiesa è la semplice congiunzione
‘come’ (kathòs). Essa non soltanto stabilisce un legame di somiglianza
tra Cristo e i suoi discepoli, ma indica che ciò che è in Dio deve essere pure
in coloro che gli appartengono”[5].
La comunione di amore tra il Padre e il
Figlio è al tempo stesso la sorgente, il modello e la patria della comunione
fraterna che dovrà legare i discepoli fra loro: “I testi in kathòs, che
affermano una corrispondenza ontologica fra le persone divine e la comunità
cristiana, sfociano in un comando: ‘Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato
voi’ (Gv 15,12: cf 13,14); o in una preghiera: ‘Che essi siano uno, come noi
siamo uno’ (Gv 17,21.22)”[6].
Due "no" vanno pronunciati senza riserve
in questo sforzo di coniugare l’assoluto primato dell’Eterno e il nostro cammino
di Chiesa. Il "no" a una comunione troppo tenue e il "no" a una comunione che
divenga chiusura. Nella prima la solitudine non è vinta, nella seconda il
Mistero rischia di essere soffocato. Ciò che ci viene chiesto oggi è di essere
la Chiesa dell’amore: un popolo di donne e uomini liberi che accettano di vivere
sotto l’assoluto primato di Dio e perciò nell’esperienza di comunione fraterna
che deriva dal partecipare della Sua grazia, vivificati dal Suo amore.
Non dobbiamo illuderci che ciò sia facile
né che dia luogo senz'altro a comunità idilliache. Sarebbe una grande illusione
e farebbe torto alla fatica e al lungo cammino del disegno redentivo di Gesù.
Ascoltiamo un maestro di vita, Jean Vanier, fondatore della comunità dell'Arca:
“Desideriamo vivere in un mondo perfetto, una comunità perfetta, una chiesa
perfetta... Questa idea della perfezione, alla quale ci aggrappiamo, è così
profondamente ancorata in noi che ci spinge a negare le nostre ferite e a
disprezzare quelle degli altri, a condannare una comunità che non è perfetta o
non corrisponde al nostro ideale”. Così una comunità non si crea, ma si
distrugge. Invece “il senso di appartenenza sgorga dalla fiducia, fiducia che è
accettazione progressiva degli altri, così come sono, con i loro doni e i loro
limiti, essendo ognuno chiamato da Gesù. Così diventiamo coscienti che il corpo
della comunità non può mai essere perfettamente uno. È la nostra condizione
umana. È normale per noi non essere perfetti. Non dobbiamo piangere sulle nostre
imperfezioni perché non veniamo giudicati per questo. Il nostro Dio sa che, da
molti punti di vista, siamo zoppi e a metà ciechi. Non vinceremo mai la corsa
alla perfezione nei giochi olimpici dell'umanità! Ma possiamo camminare insieme
con speranza e rallegrarci di essere amati nelle nostre spaccature. Possiamo
aiutarci gli uni gli altri a crescere nella fiducia, la compassione e l'umiltà,
a vivere nell'azione di grazia, imparare a perdonare e a chiedere perdono, ad
aprirci di più agli altri, ad accoglierli e a fare ogni sforzo per portare la
pace e la speranza nel mondo. È per questo che ci radichiamo in una comunità:
non perché è perfetta, meravigliosa, ma perché crediamo che Gesù ci raduna per
una missione. Ce la dà come una terra nella quale siamo chiamati a crescere e a
servire”[7].
3.3. In realizzazioni concrete
Come si realizza concretamente nella
storia la comunione della Chiesa sotto il primato di Dio, a immagine della
Trinità santa?
Provo a chiederlo ai protagonisti della
prima ora e a me stesso dopo questi anni di servizio pastorale nella Chiesa
ambrosiana. Fra i testimoni della prima ora, come all’inizio ho interrogato
Paolo, adesso vorrei interrogare il pescatore Pietro. Lo scelgo quale figura di
ogni discepolo che consapevolmente ha scelto di vivere la propria vita nella
sequela di Cristo sotto il primato di Dio, quale immagine cioè di un cristiano
“impegnato” dei nostri tempi - vescovo, presbitero, diacono, consacrato o
consacrata, laico - deciso a giocarsi per il Regno. Vorrei inoltre interrogare
qualcuno di quella folla che nei vangeli segue Gesù un po’ da lontano, spesso
solo spinto dal desiderio di ottenere qualcosa, di saziare una fame anche
terrena.
3.3.1. Pietro, il pescatore
di pesci fatto pescatore di uomini mi dice: “Aver detto sì alla Sua chiamata ad
amarlo (cf Gv 21,15ss) mi ha reso responsabile degli altri davanti a Lui
(“pasci” cioè nutri “le mie pecore”). Il senso di responsabilità davanti a Dio e
per il mondo è il primo esigente volto dell'appartenergli con tutto il cuore. Ho
dovuto dire no a ogni tentazione di disimpegno e di fuga, a ogni voler andarmene
da solo, per conto mio, senza gli altri o separato da loro. L’amore a Cristo mi
urge dentro, per essere al servizio di Dio solo nel servizio degli altri. Ed è
vivendo tale responsabilità nell’amore che mi sono accorto di dover “tendere le
mani” (Gv 21,18), di dovermi perdutamente arrendere al disegno di Dio su di me,
rinunciando ai miei calcoli, perfino ai miei progetti pastorali, per lasciarmi
docilmente condurre da prigioniero del Signore dove Lui ha voluto e vorrà per
me: “Un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18)”.
Essere pescatore di uomini significa farsi
carico anche della fede di altri, riconoscere che l’unica cosa che conta è
servire Dio e amare gli altri secondo il cuore di Dio. Qualunque sia la tua
vocazione e il tuo carisma nella Chiesa, essere discepolo di Gesù e pescatore di
uomini significa vedere tutto nella luce della fede in Lui e nulla anteporre
alla Sua chiamata, farsi carico del prossimo come se n’è fatto carico Lui,
radunare le pecore perdute come le ha radunate Lui, vivere la passione per la
causa del Regno come l’ha vissuta Lui. Perciò la Chiesa avrà sempre bisogno di
discepoli così, siano essi ministri ordinati o consacrati o laici impegnati,
uomini e donne. Senza di loro la Chiesa si risolve in burocratica e vuota
ripetizione di gesti: dove non c’è il primato di Dio riconosciuto, celebrato e
testimoniato nella fede viva, nella carità operosa, nell’ardente speranza, tutto
rischia di inaridirsi e morire. Ripartire da Dio significa per la Chiesa essere
la comunità dei discepoli che Gesù ama e invia.
3.3.2. E tu, che fai parte della grande
folla che seguiva Gesù (cf Gv 6,2), perché sei qui? che cosa ti interessa di
Lui, così che non vorresti distaccartene e desideri ancora essere chiamato
“cristiano”, mentre d'altra parte non hai il coraggio di seguire Cristo fino in
fondo né intendi farti carico della fede di altri?
È questa oggi la condizione di tanti, che
va sotto il nome di “adesione parziale”, “scelta soggettivistica” di alcuni
contenuti della fede rispetto ad altri, cristianesimo di abitudine ecc. Qual è
la condizione reale di questi nostri fratelli e sorelle che sono presenti ancora
a molte eucaristie domenicali o almeno nelle grandi feste e nei grandi passaggi
della vita (battesimi, matrimoni, funerali ecc.), ma che non si vedono quasi mai
nei momenti dell'impegno attivo nella comunità o là dove c’è bisogno di prendere
pubblicamente posizione per Gesù Cristo e la sua Chiesa?
Prendendo spunto dalla “grande folla” e
dalle sue diverse reazioni, di cui ci parla il capitolo 6 del vangelo secondo
Giovanni, cerco di dare voce a qualcuno fra questi molti nostri fratelli e
sorelle. Perché, se non sei deciso a impegnarti fino in fondo, tuttavia hai
comunque seguito Gesù fino all’altra riva del mare di Galilea e ora sei di nuovo
qui (cf Gv 6,1)?
Uno della folla:
“L’ho seguito vedendo i segni che faceva sugli infermi (cf Gv 6,2). In questo
mondo senza segni e senza profeti Egli mi ha attratto, mi ha incuriosito, mi ha
fatto sperare che avesse qualche risposta anche per i miei problemi. Non posso
dire di avere sentito “amore” per Lui, forse non sarei capace di “perdere” la
mia vita per il Vangelo: ma avevo bisogno di segni, di risposte, e sono andato.
Lui è stato ospitale con me: mi ha
parlato, con parole non sempre comprensibili, ma nuove, mi ha nutrito con un
pane che non sapevo bene donde venisse. Mi ha fatto bene questo contatto, anche
se poi sono andato via, tornando alle mie occupazioni, senza aver troppo capito
che cosa era successo, però arricchito di un po’ di forza dentro, di un po’ di
conforto e di desiderio di incontrare ancora sul cammino della mia vita altri
segni così.
Lui è stato ospitale con me...Perché
dovreste voi, che vi dite Sua Chiesa, comportarvi diversamente da Lui? Perché
dovreste essere una comunità chiusa, di pochi eletti, di impegnati al cento per
cento, e disprezzare o allontanare me che faccio parte della “gran folla”? Senza
contare che qualcuno di quelli come me ha iniziato a impegnarsi a fondo e
neppure io escludo che un giorno potrei farlo...”.
La voce del Vescovo:
Sono parole che mi toccano, perché Gesù è stato a lungo con persone come te e
non le abbandona di sua iniziativa. Il capitolo 6 di Giovanni mostra Gesù
impegnato in un lungo discorso con gente che alla fine si allontana, almeno per
qualche tempo (“Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non
andavano più con lui” Gv 6,66). Ma non è Gesù a respingerli. Egli continua a
spiegare e a chiarire il suo pensiero fin che gli è possibile.
Nella nostra Chiesa siamo ben coscienti
della vastità di un simile problema. Una larga percentuale dei nostri battezzati
in Occidente appartiene a questa categoria e ad essi pensiamo in particolare
quando parliamo di “nuova evangelizzazione” (dimenticando forse che è tutta
la comunità che deve lasciarsi penetrare dalla spada del Vangelo).
Certamente rimangono valide le
prescrizioni disciplinari e canoniche che stabiliscono che cosa è e che cosa non
è compatibile con la piena appartenenza alla comunità cristiana. Tuttavia
sentiamo che la Chiesa è come una grande rete che raccoglie ogni sorta di pesci
(cf Mt 13,47-50), un grande albero presso cui nidificano a loro vantaggio molte
specie di uccelli (cf Mt 13,31-32). Una Chiesa che è sotto il primato di Dio
Padre universale sente il dovere di essere ospitale, paziente, longanime,
lungimirante. Non può arrogarsi il giudizio definitivo sulle persone e sulla
storia, che spetta soltanto a Dio. La Chiesa è una grande città, le cui porte
non devono essere chiuse a nessuno che chieda sinceramente asilo. Guai se la
Chiesa dei discepoli dell’amore divenisse una setta o un gruppo esclusivo o se
gruppi nella Chiesa, che possono porre lecitamente condizioni rigorose per i
loro membri, le volessero porre per la Chiesa intera!
Uno della folla:
“Mi sento confortato e sollevato dalle tue parole. Certamente i bisogni per cui
tanta gente come me si rivolge alla Chiesa possono essere anche molto umani (cf
Gv 6,26): bisogno di conforto, di una parola di vita, di consolazione, sapere
che esiste un punto di riferimento morale serio, qualche aiuto concreto...Perché
dovreste rinfacciarmi queste cose? È vero: potrei riceverle, poi andarmene e
forse non tornare più. Ma Gesù non mi ha negato queste cose, anche se poi ha
continuato a predicare il Regno, a chiamarmi a conversione...Mi auguro dunque
una Chiesa ospitale verso tutti, che annunci il Vangelo senza sconti, come pure
senza preclusioni o settarismi”.
La voce del Vescovo:
E io che cosa sento di fronte a queste affermazioni? Certamente mi toccano e in
qualche modo mi mettono in imbarazzo. Vorrei davvero che la mia Chiesa fosse
ospitale e nello stesso tempo non vorrei che si creassero confusioni rispetto
alla verità del Vangelo. Come Paolo, Pietro e Giovanni voglio mettermi sotto
l’assoluto primato di Dio: tutto ciò che la mia Chiesa ha seminato l’ha fatto
con la Sua grazia, è Sua grazia. Guai a me se volessi verificare i risultati,
contare i fedeli, vedere subito i frutti. Devo affidarmi perdutamente a Colui
che mi ha chiamato ad amarlo e a seguirlo, lasciandomi cingere e portare da Lui.
È il solo modo per vivere la responsabilità pastorale nella verità e nella pace.
Devo inoltre capire che i tanti che mi
ascoltano distratti, che mi incontrano una volta e poi vanno via, i tanti
“disimpegnati” fra i miei cristiani, sono amati tantissimo da Dio e vanno amati
da me che voglio vivere sotto il primato di Dio. A loro devo andare per
annunciare il Vangelo a tempo e fuori tempo; devo ascoltare le loro domande,
anche le più materiali; devo capire che il loro cuore sta sotto il primato di
Dio e va aiutato ad aprirsi a Lui nella libertà.
La Chiesa è cammino da massa a
popolo dell’Alleanza: in questo cammino c’è chi è più avanti e chi è più
indietro, chi si muove solo ora e chi si stanca. Guai a me se riducessi la
Chiesa a comunità di giusti e di perfetti! L’icona della Trinità per la Chiesa
non è punto di partenza, ma punto di arrivo, dono già iniziato che deve tuttavia
compiersi in itinerari progressivi e costanti, finché giungano a pieno
compimento le promesse di Dio.
Agli altri, ai pescatori di uomini, a
coloro che hanno accettato di farsi carico della fede di altri, agli impegnati,
chiedo di condividere con me la responsabilità verso l’annuncio del Regno, di
costruire insieme questa Chiesa pronta come sposa adorna per il Suo Sposo, in
cammino verso il giubileo del 2000.
3.4. In cammino verso il duemila
Il Papa ci chiede di programmare in
comunione con tutta la Chiesa il cammino di preparazione al grande Giubileo.
Egli pensa a un itinerario trinitario, scandito negli ultimi tre anni di questo
millennio e preceduto da un tempo antepreparatorio, al quale già appartiene il
presente anno pastorale.
La meta di tale itinerario verso il 2000 è
radunare i dispersi nel grande evento della riconciliazione giubilare, attraendo
le genti verso tanti focolai di amore e di fede, dove i discepoli dell’amore
testimonino in semplicità e letizia, in parole e in opere, il Vangelo della
carità. Per questo la nostra preparazione al prossimo Convegno di Palermo (20 -
24 novembre 1995) è già parte di questo cammino. Sarà pure importante ripensare
al cammino decennale compiuto dal Convegno diocesano di Assago del novembre
1986, in particolare per quanto riguarda le Scuole di formazione all'impegno
sociale e politico.
Il Papa ricorda poi il ruolo dei Sinodi e
il contributo delle singole Chiese mediante i giubilei: “Nel cammino di
preparazione all’appuntamento del 2000 si inserisce la serie di Sinodi,
iniziata dopo il Concilio Vaticano II: Sinodi generali e Sinodi continentali,
regionali, nazionali e diocesani” (n.21). “Nella preparazione dell'anno 2000
hanno un proprio ruolo da svolgere le singole Chiese, che con i loro Giubilei
celebrano tappe significative nella storia della salvezza dei diversi popoli” (n.25).
Per noi dunque il Sinodo diocesano
concluso il 1° febbraio 1995 rappresenta una tappa importante nella preparazione
al 2000. L’assimilazione del Sinodo, prevista per l'anno pastorale 1995/96 sarà
un nostro modo di vivere con tutta la Chiesa la preparazione al grande Giubileo.
Ci aiuterà, come già sopra ricordato, la figura del card. Schuster, il nostro
prossimo beato.
In questa preparazione si inserirà,
nell’anno pastorale successivo (1996/97) un Giubileo ambrosiano di grande
rilievo: il decimosesto centenario della morte di sant’Ambrogio (3 aprile 397).
Un apposito comitato sta preparando il programma che sarà reso noto presto.
Questo anno pastorale sarà anche il primo dei tre immediatamente precedenti il
2000 e sarà perciò dedicato a Gesù Cristo Salvatore (cf Tertio Millennio
Adveniente, nn. 40-43). Il motto di sant'Ambrogio "Omnia Christus est
nobis" - “Cristo è tutto per noi ” - ci aiuterà a cogliere il rapporto
fra il primato di Dio e la signoria di Cristo sulla nostra vita e sul mondo.
L’anno 1997/98 sarà dedicato allo Spirito
Santo e ci impegnerà a renderci docili al soffio dello Spirito dovunque esso
spiri e a lasciarci guidare da Lui come Chiesa in perenne conversione e riforma
per proclamare il primato di Dio.
L’anno 1998/99 sarà dedicato a Dio Padre
di tutti. Cercheremo di cogliere come il primato di Dio si esprime nella
molteplicità delle ricerche di Lui e nel movimento ecumenico.
L’anno 2000 sarà l’anno giubilare del
soli Deo gloria: “l’obiettivo sarà la glorificazione della Trinità,
dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia”
(Tertio Millennio Adveniente, n.55).
4. ALCUNI ADEMPIMENTI PRATICI PER IL 1995/96
Come ho ricordato all’inizio, questa non
vuol essere una lettera programmatica, bensì ispirativa. È un invito a
esaminarci sul primato di Dio nella nostra vita personale, nelle nostre
relazioni, nella vita della Chiesa e della società. È un invito a dare il primo
posto a ciò che proclama e riconosce il primato di Dio su tutte le altre cose. È
un invito in particolare a vivere momenti di preghiera “gratuita”, di adorazione
e di lode. Tutto ciò è destinato a dare aria e luce al nostro contesto spesso
gravato da tanti problemi e preoccupazioni.
A questa luce risaltano alcuni obiettivi
che sono propri di un anno postsinodale. È anzitutto un anno destinato a una
lettura sistematica del Sinodo, con l’aiuto degli appositi sussidi.
È un anno da dedicarsi, da parte dei
Consigli pastorali parrocchiali e delle altre istituzioni formative, alla
riscrizione del progetto pastorale.
È un anno nel quale vorrei stendere la
“Regola di vita del cristiano ambrosiano” che ho già iniziato a prevedere con
l’aiuto del Consiglio Pastorale diocesano, delle claustrali, dei giovani.
È infine un anno nel quale dobbiamo
prevedere gli impegni futuri del triennio giubilare, che per noi sarà
caratterizzato dall’anno centenario della morte di sant’Ambrogio (397-1997).
Nella luce del primato di Dio ci viene dunque
chiesto di affrontare alcuni adempimenti pratici, che traducono quanto abbiamo
detto in fatti concreti. Con quale spirito vivremo questi adempimenti? come
tradurremo il messaggio di questa lettera in un cammino postsinodale che esprima
il nostro "ripartire da Dio"?
La lettera dei Vescovi lombardi dell'8 settembre
1994 "La fede in Lombardia" contiene molti spunti significativi al
proposito. Da parte mia richiamo alcuni suggerimenti conclusivi.
4.1. Riscrivere il progetto pastorale
La riscrizione del progetto pastorale avrà come
punto di partenza questa domanda: la nostra Chiesa, la nostra comunità, sa
ancora parlare di Dio? parlano di Dio le nostre assemblee liturgiche? le nostre
catechesi fanno presentire il Mistero insondabile, quello che non si comunica
solo con le parola, ma anche con i gesti, i silenzi, gli esempi della vita?
insegnamo a pregare, a immergersi nel Mistero santo? i nostri ragazzi sentono
che c'è una ragione profonda del nostro interesse educativo, quella di aprirli a
ciò che è al di là delle cose visibili, di far gustare loro l'amicizia con Gesù
figlio di Dio e fratello nostro? la nostra carità è sostenuta dalla riverenza
amorosa verso il povero perché vede in chi è nel disagio il Cristo sofferente e
glorioso ("l'avete fatto a Me". Cf Mt 25,40)?
Data l'importanza di questa riscrizione del
progetto pastorale aggiungo in appendice alcune riflessioni sulla storia e la
metodologia di questa fondamentale attività di una parrocchia e di una
istituzione educativa, attività che non deve mai considerarsi conclusa ma va
regolarmente e pazientemente ripresa in ordine a un continuo aggiornamento del
nostro modo di fare pastorale.
4.2. La preghiera nelle nostre comunità
In questa luce invito a rivedere con particolare
cura il capitolo della preghiera delle nostre comunità, sia di quelle
parrocchiali come di tutte le altre: l'invito si può ritenere quindi anche
esteso, sempre nel rispetto dell'autonomia e delle tradizioni proprie dei
singoli Istituti, anche a tutte le comunità di vita consacrata.
Il nostro modo di pregare in comune lascia
trasparire qualcosa del mistero di Dio? se un non credente entrasse in chiesa
nel momento della preghiera o di una celebrazione, si sentirebbe portato a
gustare qualcosa di un al di là invisibile ma presente, adorato, amato, cercato
con tutta l'ansia del cuore? Le nostre comunità insegnano a pregare? facciamo
conoscere i metodi di preghiera, il metodo della "lectio divina", le tradizioni
semplici di orazione che ci vengono dall'antichità cristiana? chi volesse
imparare a pregare può venire da noi senza sentirsi costretto a cercare in
tradizioni lontane o esoteriche un avviamento al modo di incontrare Dio nella
preghiera e nel silenzio? il nostro modo di cantare sostiene la preghiera, eleva
lo spirito e il cuore a Dio e ce ne fa presagire la grandezza e la bontà?
La preghiera dei preti e dei consacrati è
visibile, esemplare, capace di far desiderare la gioia della preghiera? avviene
talvolta ciò che è avvenuto a Gesù, che dopo la sua preghiera si sente
domandare: insegna a pregare anche a noi così (cf Lc 11,1)?
Le indicazioni ripetute date in questi anni per
la preghiera in famiglia hanno avuto qualche riscontro? Se ne è parlato qualche
volta negli incontri, nei consigli pastorali? si è cercato insieme, con le
famiglie più impegnate, di vedere come aiutare altre famiglie a riscoprire
qualcosa di questo tesoro? le missioni popolari hanno avuto come frutto una
ripresa della preghiera in famiglia?
4.3. La messa festiva
La messa festiva è vissuta come momento di
elevazione della mente e del cuore a Dio, come occasione privilegiata della
proclamazione del primato di Dio? Cosa facciamo perché sia davvero quella "sosta
che rinfranca", quel momento in cui il cristiano beve alla sorgente della vita?
Abbiamo mai pensato a come vivere un po' anche noi, pur tenendo conto delle
diversità culturali, quella gioia della messa domenicale che caratterizza le
comunità del terzo mondo? Le diverse celebrazioni eucaristiche conducono al
cuore del mistero di Gesù morto e risorto che proclama il primato del Padre?
Ricordiamo che non si tratta spesso di accrescere il contenuto didattico o
didascalico delle celebrazioni, talora fin troppo carico. Il primato di Dio non
lo si proclama solo a parole, ma con i silenzi, i gesti, il ritmo lento e grave,
il tono raccolto, il cuore che vibra, il canto che comunica le vibrazioni del
cuore, la musica che non distrae ma raccoglie ed eleva...
4.4. Gli esercizi spirituali
Un momento tipico in cui si esprime nel concreto
il primato di Dio è quello degli Esercizi spirituali. Sono un tempo gratuito
dato a Dio solo per amore di Lui soltanto. Si potrà rileggere la lettera dei
Vescovi Lombardi "Gli Esercizi spirituali e le nostre comunità cristiane"
del 1992. Sarebbe molto bello se ogni comunità parrocchiale potesse celebrare in
quest'anno il primato di Dio con gli Esercizi spirituali in parrocchia.
4.5. Il catecumenato degli adulti
Vorrei anche richiamare l'attenzione da avere per
quanti, giovani e adulti, sempre più numerosi anche da noi, scelgono oggi di
"ripartire da Dio" iniziando il cammino in vista del battesimo. Il Sinodo ha
parlato, nella cost. 97, di come aiutare le comunità cristiane a impostare in
modo corretto ed efficace gli itinerari previsti per l'iniziazione cristiana,
soprattutto il cammino di catecumenato degli adulti non battezzati. E' un punto
sul quale saremo chiamati in futuro a porre un'attenzione crescente, in vista di
una proclamazione costante del primato di Dio per ogni uomo o donna che lo cerca
con cuore sincero.
4.6. Affrontare la sfida della carenza di
vocazioni
Un ultimo pensiero lo dedico a un punto nel quale
la nostra proclamazione del primato di Dio entra in una difficile tentazione
epocale. Ci chiediamo: come proclamare con fiducia il primato di Dio quando
sembrano venir meno le vocazioni sacerdotali, alla vita consacrata, al servizio
missionario?
La destinazione dei sacerdoti novelli di questi
ultimi anni ha messo infatti in luce ancor più chiaramente un fenomeno che si
avvertiva già da qualche tempo: la scarsità di preti giovani e il progressivo
innalzarsi dell'età media del clero. Aumentano le parrocchie con un solo
parroco, mentre diminuiscono gli aiuti per le messe festive e per i sacramenti,
in particolare la confessione.
I parroci dunque vedono aumentare le loro
attività, e magari hanno pure il dovere di seguire frazioni o chiese che fino a
poco tempo prima erano seguite nella cura pastorale da altri sacerdoti.
Aumentano pure le situazioni nelle quali sacerdoti giovani o ancora abbastanza
vicini al mondo dei giovani vengono incaricati di seguire la pastorale giovanile
di più parrocchie, mentre non sempre trova risposta la domanda di parroci di
parrocchie piccole e vicine perché un vicario parrocchiale abbia cura della
pastorale giovanile di più parrocchie .
Anche la vita consacrata è toccata dallo
stesso fenomeno: è come se nel mondo occidentale venisse meno la capacità di
osare per Dio, di dedicarsi per tutta la vita a una vocazione impegnativa. I
giovani stentano a fare scelte definitive.
Le comunità cristiane reagiscono in
maniere diverse al mutamento. E le loro reazioni sono talvolta motivate da
paragoni rispetto ad altre situazioni nelle quali la penuria di vocazioni ancora
non si è mostrata con tutta la chiarezza che essi vedono sotto i loro occhi.
Una prima reazione istintiva può essere
quella di sorpresa o di sfiducia, perché si ritiene che non si sia provveduto
alla comunità secondo le attese. Oppure si avverte un senso di stanchezza che
abbatte ancora di più la capacità di reagire e di suscitare risposte pastorali
diversificate. Penso alle situazioni nelle quali si stenta a collaborare tra
presbiteri di parrocchie vicine, o ai Decanati nei quali la riunione dei
presbiteri o dei Consigli Pastorali decanali non divengono occasione per
risparmiare e ridistribuire energie e per collaborare più strettamente al
perseguimento di mete pastorali comuni. Penso a quelle comunità in cui la
notizia che le Suore dovranno lasciare la parrocchia per carenza di vocazioni
suscita al momento iniziative volte a prolungare la loro presenza, ma non
conduce a una seria interrogazione né sulle carenze vocazionali della parrocchia
né sul modo di attivarsi da parte dei laici per assumere le loro responsabilità.
Vi è un secondo tipo di risposta negativa:
sospinti dalle abitudini acquisite in tempi di abbondanza di clero, non ci si
sforza di individuare mete prioritarie per la vita della comunità, e così la
proposta pastorale si fa generica, senza la capacità di sostenere la
individuazione e la crescita di energie nuove attraverso la cura delle diverse
vocazioni che la comunità cristiana ha nel suo interno. Nella linea di una
corretta reazione alla difficoltà in cui siamo immersi, ricordavo già negli
scorsi anni - in occasione della Messa crismale del Giovedi santo -
l’importanza “di svolgere un’attività vocazionale libera e fiduciosa, non
preoccupata e ansiosa”, basata sulla partecipazione della fede di Abramo, e
scaturente da un cuore “affidato alle promesse del Signore”, frutto di un “volto
di Chiesa che sa attrarre perché umile e semplice”.[8]
Più dolorosa, e alla fine debilitante, è
la reazione di presbiteri e cristiani che si lasciano prendere dal nervosismo
nei confronti della situazione, e hanno la tentazione della polemica verso
questa o quella situazione, questo o quel responsabile della vita della comunità
parrocchiale, o decanale o diocesana.
Quali gli atteggiamenti positivi, giusti,
quelli per i quali il Signore permette questa prova, per purificare,
santificare, edificare la Sua Chiesa?
* Anche qui occorre avere il coraggio di
rifarci anzitutto al primato di Dio. “Gesù andava attorno per le città e i
villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e
curando ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché
erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi
discepoli: “ La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il
padrone della messe che mandi operai nella sua messe!”” (Mt 9,35‑38). È dunque
il padrone della messe Colui a cui fare riferimento! A noi è chiesto di entrare
nel cuore del Signore, di guardare con i Suoi occhi, con uno sguardo sostenuto
dalla certezza della misericordia preveniente del Padre e di imparare a vivere
la tentazione epocale che nasce dalla penuria di vocazioni, affinché vengano
accresciute la nostra fede e la nostra speranza.
Per vivere in maniera cristiana questa
sfida pastorale che ci prepara al duemila, occorre che ciascuno di noi apra il
cuore nella fede per comprendere il Signore che educa il suo popolo e per
partecipare ai sentimenti di Gesù di fronte alle folle “stanche e sfinite”. Mi
sembra che la sofferenza del nostro tempo e della nostra Diocesi nel ripensare
il modo con cui le nostre forze possono rispondere ai bisogni pastorali, sia la
grande prova che attende la Chiesa occidentale nel nuovo millennio. Ad altri
tipi di persecuzioni per il Vangelo che le generazioni cristiane hanno
sperimentato si sostituisce per noi oggi questo dolore della penuria e della
sproporzione delle forze, drammaticamente sperimentato da tutto un popolo
cristiano.
* Comprendiamo meglio allora che cosa
significa condividere la passione per il Regno che è stata l’anelito del cuore
di Cristo e sentire come Lui chiama ancora oggi tanti a seguirlo. Questa
condivisione stimola i preti e tutti i consacrati e le consacrate a proporre a
molti giovani di associarsi a loro nel cammino della sequela per il Regno.
Dobbiamo fare comprendere con la nostra vita e con le nostre parole, che fare il
prete, dedicare tutto se stessi a Cristo, è anche umanamente una forma di
vita piena e appagante. Dobbiamo suscitare, incoraggiare, accompagnare cammini
vocazionali fin dalla preadolescenza. Le diverse iniziative del Seminario
minore, della Comunità propedeutica, della Pastorale vocazionale e della
Pastorale giovanile, in particolare il "Gruppo Samuele" vanno conosciute e
utilizzate assai di più.
Segnalo in particolare che non abbiamo
finora dato il dovuto rilievo alla novità del Diaconato permanente e ai grandi
frutti che da esso possono derivare per la nostra pastorale anche per una
migliore ridistribuzione delle forze sul territorio.
* Mentre ci impegniamo a pregare il
Padrone della messe e a collaborare con Lui perché mandi molti validi operai
nella sua vigna, occorre imparare a cogliere i nuovi segni della speranza e a
dare spazio alle nuove realtà vocazionali del laicato, della famiglia, della
dedizione personale.
Frutto di una autentica disposizione di
fede e di speranza nei confronti della situazione odierna sarà la capacità di
sollecitare una collaborazione più generosa ed efficace all’opera di
evangelizzazione e di cura della fede. Ricordiamo l’importanza di laici
seriamente dedicati al Vangelo, alla cui ricerca e formazione dobbiamo porre
molta attenzione.
* Essenziale però rimane lo spirito di
collaborazione e di reciproca accogliente attenzione che vediamo ormai
svilupparsi tra i preti e i laici soprattutto nell’ambito del Decanato. È in
questa “pastorale unitaria” che risiede ora la nostra maggiore speranza di
sostenere e aiutare una evoluzione del modo di vivere delle comunità
parrocchiali in tempi di penuria di sacerdoti.
“Unità pastorale” diviene quindi non
soltanto uno strumento pratico di azione in determinate circostanze, bensì un
modo globale di rispondere alla sfida che caratterizza questi decenni della
nostra Chiesa.
CONCLUSIONE: PORTANDO GESÙ PER LE VIE DI MILANO
Signore, ti sto sostenendo fra le mie
mani, mentre la gente ti adora e ti loda, ma in realtà sei Tu che stai
sostenendo me, sei Tu che stai sostenendo questo popolo. Esso contempla il
primato del tuo amore, che ti ha messo qui nelle specie del pane, in memoria
vivente della tua passione e morte, della tua debolezza e della tua solitudine.
Signore, nella tua debolezza e solitudine
Tu sei la nostra forza. Tu sei il risorto, Tu cammini in mezzo a noi dando vita
e speranza. Tu non deludi coloro che si appoggiano a Te e credono al primato del
tuo amore. Tu ci inviti a ripartire da Te, a ripartire dopo il nostro Sinodo
dalla proclamazione del primato del Padre tuo, a rifarci a quelle cose
essenziali da cui deriva ogni nostra forza e gioia. Nutrici, o Signore, col tuo
pane. Nutrici con quelle cose che danno senso alla nostra vita, fa' che nella
contemplazione di Te nel tuo vangelo noi attingiamo coraggio per riprendere il
nostro cammino verso la fine del secondo millennio, incontro al mistero di Dio.
Maria, Madre di Gesù e della Chiesa, tu
che dall'alto del Duomo vedi il lungo itinerario del tuo popolo, fa' che
troviamo la via giusta. Non permettere che ci smarriamo tra le molteplici strade
del nostro mondo. Ci accompagnino in questo viaggio verso l'eternità di Dio i
nostri santi, in particolare i santi vescovi che in questo secolo hanno retto la
nostra Chiesa. Beato cardinal Ferrari, e tu che sarai presto proclamato beato,
cardinale Ildefonso Schuster, intercedete per noi!
+ Carlo Maria Card. Martini
Arcivescovo
Milano, 8 settembre 1995
Appendice 1
Appunti per una riscrizione del progetto
pastorale parrocchiale
1. Nel quadro del triennio sull’educare,
precisamente nella lettera pastorale “Itinerari educativi” del 1988, domandai a
tutte le parrocchie e alle altre istituzioni formative di dotarsi di un progetto
pastorale. L’obiettivo che mi prefiggevo era di suscitare una sempre maggiore
coscienza del carattere responsabile dell' “agire pastorale”. Mi pareva
importante che i sacerdoti e i laici impegnati, per poter svolgere efficacemente
il proprio ministero e sfuggire alla tentazione del disimpegno o dello
scoraggiamento, riflettessero sullo stile e il metodo usato da Dio per "educare
il suo popolo" interrogandosi sugli obiettivi e gli itinerari dell’agire
pastorale.
2. Non mi muovevano tanto argomentazioni
di principio, né considerazioni metodologiche astratte. Piuttosto mi preoccupavo
di stimolare a trovare soluzioni concrete e praticabili a talune difficoltà
vissute da preti e laici, che mi venivano segnalate in occasione delle visite
pastorali alle parrocchie e ai decanati.
In primo luogo, molti operatori pastorali
lamentavano la fatica di ritradurre in concreto nel vissuto ordinario delle
comunità parrocchiali le proposte contenute nelle Lettere pastorali che di anno
in anno si susseguivano; quando ciò poi accadeva, v’era il rischio che, per dare
spazio alle nuove sollecitazioni del Vescovo, si finisse per soppiantare o
trascurare altre iniziative, magari attivate soltanto l’anno precedente.
Inoltre una conoscenza sempre più assidua
delle parrocchie ambrosiane mi aveva convinto della necessità di sfuggire ad una
duplice tentazione nella vita pastorale: da un lato, il rischio della routine,
che conduce a rappresentarsi la vita pastorale come una ripetizione di gesti e
parole; dall’altro, il pericolo di un attivismo frenetico che sconfina spesso
nell’arbitrio e nell’improvvisazione. Tutte queste difficoltà mi suggerirono di
richiamare l’attenzione della diocesi sulla necessità che ogni parrocchia
provvedesse a farsi carico in prima persona di dare vita ad un ponderato e
sapiente sforzo di progettazione e verifica dell’agire pastorale. Ecco dunque le
motivazioni che stavano alla base della richiesta di redigere un progetto
pastorale in ogni parrocchia. In altre parole, come ebbi a dire poco tempo dopo
ad una folta rappresentanza di membri dei Consigli pastorali parrocchiali nel
Duomo di Milano, era mia intenzione richiamare l’evidenza che l’educare non è
soltanto cosa del cuore, ma è pure cosa della testa, cioè richiede metodo,
intelligenza; non basta educare a casaccio o a stagioni nel lanciare un’idea
dimenticando poi tutto. Educare esige pazienza, metodo, perseveranza e il
progetto scritto è utilissimo per verificare successivamente le attuazioni e le
distanze.
3. Ben presto ebbi modo di verificare che
la richiesta avanzata di redigere un progetto pastorale parrocchiale aveva colto
nel segno. Un primo riscontro lo rinvenni in interventi di valenti studiosi, che
riflettendo su alcuni aspetti della teologia pastorale convenivano
nell’assegnare una particolare importanza all’obiettivo di una seria
programmazione della vita della parrocchia. Mi limito a citarne uno:
“Programmare, e lavorare con un progetto, è alternativo al procedere a rimorchio
o estemporaneamente. Programmare è conseguenza del riconoscimento di una
responsabilità, da un lato, e dell’esigenza di una logica nell’agire dotata di
qualche stabilità, dall’altro. Programmare nell’azione pastorale suppone
anzitutto di non avere delegato ad altri di pensarla e di deciderla, quasi
pronti o rassegnati ad accettare qualsiasi passo a scatola chiusa; e di non
immaginare la vita della chiesa legata ad un discernimento (o piuttosto ad un
estro, ad un arbitrio) estemporaneo, così incoerente e privo di una logica di
continuità da vanificare ogni sguardo prospettico. Nell’uno e nell’altro caso,
la rinuncia a programmare supporrebbe un’abdicazione di umanità, che non avrebbe
probabilità di senso cristiano” (C. Tullio).
Un ulteriore riscontro lo si ebbe dalla
recezione della proposta da parte delle comunità parrocchiali della Diocesi. A
partire dal settembre dell’anno successivo (1989) si è potuto provvedere ad
un’analisi critica di quasi 700 progetti, dalla quale emergeva complessivamente
un confortante segnale di maturità circa la consapevolezza che ispira l’intensa
attività pastorale delle nostre comunità (cf M. Vergottini, Rilettura dei
progetti educativi parrocchiali, Ambrosius 5 (1990), pp. 456-485). Oggi, non
soltanto il numero delle parrocchie che hanno provveduto ad una stesura del
rispettivo progetto è ulteriormente cresciuto, ma alcuni di tali contributi, già
riveduti e corretti, costituiscono un segnale inequivocabile della maturità con
cui ci si accinge come Chiesa a farsi carico del compito della evangelizzazione
e della testimonianza della carità.
4. Qualche anno più tardi, nella Lettera
alla città di Milano, “Alzati e va’ a Ninive” (marzo 1991), tesa a
sottolineare la necessità di una nuova, coraggiosa e coerente evangelizzazione,
ho avuto modo di riconsiderare l’urgenza della stesura di un progetto
parrocchiale. Nel quadro di una pastorale imperniata sulla figura della
parrocchia veniva posto l’accento su due strumenti privilegiati, utili a
favorire una “fede adulta” fra quanti a vari livelli prendono parte attiva alla
vita della comunità cristiana: precisamente il consiglio pastorale parrocchiale
e il progetto pastorale. Il consiglio pastorale parrocchiale - osservavo -
abilita un gruppo di persone mature a esprimere, alla luce della fede e in
rapporto con le indicazioni della Chiesa un giudizio unitario sulla vicenda
della comunità intera e a essere parte attiva nel promuovere anche negli altri
una reale capacità di condivisione. Mediante il progetto pastorale poi la
parrocchia individua le urgenze, le possibilità, le priorità e gli appuntamenti
con cui essa intende annunciare il Vangelo a ogni condizione di vita.
Sullo stretto legame che intercorre fra
queste due dimensioni dell’agire pastorale, il “consigliare” e il “programmare”
avevo avuto già modo di riflettere in occasione della pluriennale attività dei
Consigli presbiterale e pastorale, che in questi anni sono stati per me
un’occasione privilegiata per ripensare il piano pastorale diocesano e per
prendere coscienza dell’utilità di celebrare un nuovo Sinodo. Proprio a
conclusione dell'attività del II Consiglio pastorale diocesano fui sollecitato a
tracciare un profilo spirituale del “consigliare” nella Chiesa. Ricordo di aver
sottolineato come colui che consiglia deve avere la comprensione
amorevole della complessità della vita in genere e della vita ecclesiastica in
specie. Il consigliare infatti non è un atto puramente intellettuale, bensì un
atto misericordioso che tenta di guardare con amore le situazioni umane concrete
- parrocchie, decanati, Chiesa, società civile, società economica -. Il
consigliere nella comunità deve inoltre avere un grande senso del consiglio come
dono. Dono da richiedere nella preghiera, perché non si può presumere di averlo,
e da vivere con distacco. Il consiglio non è un’arma di cui posso servirmi per
mettere al muro gli altri; è un dono a servizio della comunità, è la
misericordia di Dio in me.
Il consigliare è pure il momento
dell'indagine e della creatività. Parecchi dei nostri Consigli pastorali
parrocchiali sbagliano su questo punto: propongono un tema, chiedono il parere
dei singoli membri, ciascuno dice la prima idea che gli viene in mente, e poi si
vede la maggioranza. Invece, occorre non una semplice raccolta di pareri, ma una
istruzione di causa, che valorizzi il gusto dell'indagine e del confronto con le
soluzioni già date in altri luoghi e situazioni.
5. Finalmente, il recente Sinodo 47° ha
recepito appieno tutte queste sollecitazioni nel capitolo “La parrocchia luogo
della corresponsabilità pastorale” dove si afferma che il progetto pastorale è
“espressione oggettiva, segno e alimento della comunione che anima e fonda la
comunità visibile della parrocchia” (cost 142, § 3); e ancora: “le linee
fondamentali del progetto pastorale di ogni parrocchia sono quelle disposte
dalla Chiesa universale e da quella diocesana, ma queste vanno precisate per il
cammino della concreta comunità parrocchiale ad opera in particolare del parroco
con il consiglio pastorale. Il progetto pastorale di ogni parrocchia deve
interpretare i bisogni della parrocchia, prevedere le qualità e il numero dei
ministeri opportuni, scegliere le mete possibili, privilegiare gli obiettivi
urgenti, disporsi alla revisione annuale del cammino fatto, mantenere la memoria
dei passi. Esso è un punto di riferimento obiettivo per tutti, presbiteri,
diaconi, consacrati e laici; come pure per tutte le associazioni, i movimenti e
i gruppi operanti in parrocchia. Va tenuto infine presente che la precisazione
dei criteri oggettivi di conduzione della parrocchia favorisce la continuità
della sua vita al di là del cambiamento dei suoi stessi pastori” (cost 143, §
3).
Per poter interpretare il testo delle due
costituzioni, in tutta la sua densità e le sue sfumature, suggerisco ai Consigli
pastorali parrocchiali di meditarlo insieme, alla luce della mia Lettera di
presentazione del Sinodo, dell'Introduzione del Libro Sinodale e di questa
ultima lettera. Un tale esercizio di rilettura renderà il Consiglio pastorale
sempre più consapevole della sua identità e dei suoi compiti.
6. Nel quadro della cura che da oggi in
poi caratterizzerà la nuova stagione della Chiesa ambrosiana stabilisco dunque
che ogni comunità parrocchiale debba provvedere da quest'anno ad una revisione
del progetto pastorale - o, eventualmente, alla prima elaborazione -, alla luce
delle disposizioni del Sinodo che costituisce il criterio normativo per misurare
e riorientare la vita delle nostre comunità. Eventuali eccezioni o difficoltà
saranno sottoposte ai Vicari Episcopali di zona.
Se è vero che l’azione pastorale modella
forme e strutture in modo che nella Chiesa ogni persona possa incontrare il
Signore in termini personali per conoscerlo e seguirlo in un cammino spirituale
semplice e applicabile a tutti, si comprende come l’adempimento della
stesura/revisione di un progetto pastorale parrocchiale debba essere avvertito
non già come un dovere in più, che si aggiunge alla lista delle tante “cose da
fare”. Prima ancora che un atto di obbedienza nei confronti di un’esplicita
richiesta del Vescovo, la realizzazione del progetto è un servizio a se stessi,
alla propria realtà parrocchiale, così da favorire una ripresa di
autoconsapevolezza critica sulla qualità del lavoro apostolico, provvedendo ad
una verifica sui bisogni e le risorse educative in loco, riprofilando mezzi,
tempi e criteri di realizzazione degli obiettivi prefissati. In gioco dunque sta
anzitutto la necessità di maturare sempre più consapevolezza che il momento
progettuale costituisce un requisito essenziale dell’agire pastorale,
prospettiva questa che proprio in quanto consente di metterci nuovamente a
contatto con il disegno salvifico che il Signore ha per ciascun uomo e donna,
diviene scoperta che infonde sollievo e insieme incita ad un impegno più
esigente ed appassionato nella missione evangelica e nell’edificazione
ecclesiale.
Redigendo un progetto pastorale la
comunità si assume la responsabilità di operare una decisione pastorale saggia e
muove da un attento esercizio di discernimento spirituale/pastorale, per
rispondere all’interrogativo di come “qui e ora”, per “questi” uomini e donne la
comunità cristiana è in grado di formulare e predisporre itinerari di incontro
con il Signore. L’icona evangelica del padrone di casa che estrae dal suo tesoro
“cose nuove e cose antiche” (cf Mt 13,52) risulta estremamente istruttiva del
saggio equilibrio di un'attenta valorizzazione della ricchezza di iniziative
della nostra tradizione ambrosiana e insieme della disponibilità a inventare
nuove modalità per liberare la forza del vangelo.
7. Nel sollecitare le parrocchie al
compito della revisione del progetto pastorale, ritengo utile suggerire alcuni
criteri che possono favorire una tale impresa. Certo, la realizzazione di un
progetto pastorale è atto che impegna originalmente la singolarità e la
personalità di ogni comunità parrocchiale, per cui non si può affatto ipotizzare
l’esistenza di uno schema-base eventualmente da personalizzare a piacere.
Nondimeno, senza pregiudicare la libertà e l’inventiva di ciascuna comunità,
richiamo alcuni suggerimenti di carattere metodologico.
* L’obiettivo sotteso alla realizzazione
di un progetto pastorale parrocchiale non dev’essere quello di elaborare in
proprio una sorta di “teologia della parrocchia”, né di fare una silloge di
documenti magisteriali, neppure di proporre soltanto una puntuale registrazione
delle “tante cose che attualmente si fanno”. Il progetto, in quanto interessa
una specifica parrocchia, deve tenere presente la sua storia, la sua condizione,
il suo contesto socio-culturale e spirituale; deve focalizzare l'attenzione
sugli itinerari di fede che vengono offerti alle persone che vivono in
parrocchia, come cura premurosa nei loro confronti. È utile, infine, trovare una
proficua chiave di lettura (per es. le quattro costituzioni conciliari, oppure
la triade Parola, Eucarestia, Diaconia, o altri schemi biblici o teologici,
quali l’articolazione suggerita dai cinque progetti pastorali: contemplazione ‑
Parola ‑ Eucarestia ‑ missione ‑ “farsi prossimo”, o altri suggeriti dal Libro
sinodale) che possa consentire di contemplare il “volto” della Chiesa e insieme
misurare la vicinanza/distanza dell’esperienza ecclesiale vissuta.
* Il punto di partenza deve essere
l’analisi della situazione in cui la parrocchia opera (quartiere/paese, abitanti
- famiglie - lavoro). Non si tratta di dar vita ad una ricerca sofisticata
sotto il profilo sociologico, ma di pervenire ad una conoscenza meno
superficiale dell'ambiente socio-culturale in cui è inserita la comunità
parrocchiale, così da valutare l’incidenza dei mutamenti sociali sull'ethos ed
il vissuto spirituali delle persone che vivono in quel determinato territorio,
in modo da avvertire bisogni e resistenze in ordine alla proposta del messaggio
credente. Per venire incontro alle difficoltà delle parrocchie con minori
potenzialità, e insieme per evitare inutili sprechi, è auspicabile che ogni
decanato possa costituire l’ambito di osservazione sul territorio e di
rilevazione dei comportamenti.
* Si tenga presente la parola chiave del
Sinodo, cioè quella di “unità pastorali”, per programmare l’attività della
parrocchia nel quadro della collaborazione interparrocchiale e decanale.
* Prima di accingersi alla stesura
materiale del testo è bene aver riflettuto a sufficienza sulla struttura dello
stesso, affinché assuma coerenza, organicità, sinteticità. Il momento
progettuale acquisterà sempre più valore allorquando eserciti una funzione
critica nei confronti della prassi pastorale vigente, segnalando attenzioni,
priorità, correzioni ed omissioni nel lavoro pastorale ordinario. In questa
linea, è opportuno che si prendano in considerazione anche quei capitoli della
pastorale che generalmente risultano scottanti e spesso scoperti (l’accostamento
dei “lontani”, l’educazione socio-politica, il post-cresima, ecc.).
* Il progetto pastorale parrocchiale
risulta tanto più credibile quanto più in esso si percepisce la coscienza di
essere partecipe del cammino della Chiesa locale, di essere docile al magistero
episcopale, dunque quanto più è dato registrare un respiro ed una memoria
diocesana. Il Libro del Sinodo, unitamente alle più recenti Lettere pastorali,
in particolare quest’ultima “Ripartire da Dio”, inquadrate nella cornice
dell’insegnamento del Papa, costituiscono i testi-base da cui deve muovere
questo sforzo di progettazione/programmazione/verifica del lavoro parrocchiale.
* Un’ultima e decisiva acquisizione è
infine lo sforzo di pervenire al ritrovamento di una chiave di lettura
originale, personale, capace di mostrare il carattere “proprio” ed irrepetibile,
che lega questo progetto a questa comunità. Il “leit motiv” può essere un’icona
evangelica, una cifra ideale, un idea-guida, capace di fornire sinteticamente il
tutto nel frammento, l’angolo di visuale grazie al quale ci si apre alla realtà
nella sua interezza. Si tenga presente la cost. 140 del Sinodo su "Le diverse
tipologie di parrocchie della Diocesi". Diversa sarà per esempio la sintesi
unitaria che caratterizza una parrocchia con una storia millenaria rispetto ad
una di recente costituzione magari ancora in attesa di realizzare
l'edificio-chiesa. In ultima analisi, non bisogna dimenticare che l’obbedienza
nella vita cristiana ed ecclesiale è creativa e interpellante proprio in quanto
essa nasce dalla decisione della libertà: a nessuna parrocchia è consentita
un’anonima assimilazione del piano diocesano, ad ogni comunità è richiesta
invece una personale riappropriazione del cammino diocesano a partire da un
forte ricentramento sull’essenziale, per "ripartire da Dio".
Appendice 2 Lettera di presentazione alla Diocesi del Sinodo 47°
[1]
A. Manzoni, Il Natale del 1833 (primo getto), da M. Pomilio, Il
Natale del 1833, Milano 1983, p. 133
[2]
A. Manzoni, Inni Sacri - La Passione, strofa 6
[3]
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Alba 1988, p. 427
[4]
cf Gibran Kahlil Gibran, Il profeta, Milano 1987, p. 20
[5]
P. Le Fort, Les structures de l’Eglise militante selon Saint Jean,
Paris 1979, p. 172
[6]
ib.
[7]
Jean Vanier, Il corpo spezzato, Milano 1990, p 98ss.
[8]
cf La fede di Abramo e la parsimonia di Giuseppe, Giovedi santo 1991,
p. 12; cf anche Un presbiterio che si rigenera, Giovedi santo 1990