Tre racconti dello Spirito
Lettera pastorale per verificarci sui doni del Consolatore
I. Raccontando dello Spirito
Non ricordo il giorno preciso, ma so che era
il mese di luglio del 1970. Avevo allora 43 anni. Stavo tenendo un corso sugli
Atti degli Apostoli all’Università di San Francisco, in California. Più
che mai, nel susseguirsi delle lezioni e nel contatto con gli studenti, mi
urgeva dentro la domanda: ci sono, nella Chiesa del nostro tempo, comunità
simili a quelle di cui parla questo libro? dove si trova oggi quella gioia,
quell’entusiasmo della preghiera, quella forza della testimonianza il cui
racconto, dopo due millenni, ancora ci affascina? dove esistono assemblee come
quelle di cui parla san Paolo, nelle quali chi entra come estraneo si trova a un
certo momento capito, svelato, coinvolto e sente sorgere spontanea
l’acclamazione: "Veramente Dio è in mezzo a voi!" (cf. 1Cor 14,25)?
Fu in una di quelle sere che avvicinai per la
prima volta un gruppo di persone che si diceva nato da un’esperienza dello
Spirito santo e che coltivava la coscienza di riprodurre, nella Chiesa di oggi,
il volto delle primitive comunità. Non erano esperienze per me del tutto nuove,
ma il momento privilegiato che stavo vivendo, col libro degli Atti che mi faceva
compagnia per tutto il giorno, mi metteva nella condizione di scrutarle più
attentamente e di paragonarle con tante esperienze analoghe dei decenni
precedenti della mia vita.
E’ così che toccai dentro di me quella vena
sotterranea di interrogazione e di ricerca, sempre coltivata in seguito, che
affiora oggi in questa Lettera pastorale: dove si trovano nel nostro tempo
autentiche esperienze dello Spirito, simili a quelle dei primi cristiani? dove e
come e quando esistono le condizioni perché un uomo o una donna, pur contagiati
dal secolarismo, arrivino a esclamare: "Veramente Dio è in mezzo a voi!"? In
altre parole: come lo Spirito santo, sempre all’opera nel mondo, risponde oggi
alle sfide dell’immanentismo, dell’indifferenza religiosa, del consumismo, e vi
risponde non con ragionamenti ma con fatti convincenti di Vangelo?
Questa mia Lettera sulla vita secondo lo
Spirito nelle persone e nella comunità ecclesiale nasce dunque da una
convinzione profonda, maturatasi in me presto, ma verificata attraverso l’intero
percorso della mia vita, che attraversa coi suoi 70 anni buona parte del
cosiddetto "secolo breve", che è il nostro secolo, caratterizzato dalla rapidità
e radicalità dei mutamenti intervenuti tra lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914) e il crollo del muro di Berlino (1989). E’ la convinzione che lo
Spirito c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta
operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non
tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo,
assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è e non si è mai perso d’animo
rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe,
avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi
nodale della nostra epoca che è la perdita del senso dell’invisibile e del
Trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando,
nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa.
Ecco dunque come si articolerà la Lettera.
Vorrei raccontarvi come questa convinzione abbia guidato i miei passi,
specialmente a partire dal Concilio, nel cammino di biblista, e poi in seguito
negli anni del ministero episcopale a Milano, per poi considerare, a partire dal
mio racconto, quello che lo Spirito racconta di sé e del suo mistero e dedurne
qualche conclusione pratica per il racconto che con lui facciamo del mistero di
Gesù. Tutto ciò per capire con voi quale sia la risposta più credibile da dare
alla domanda che è al centro della nostra pastorale in questa fine millennio:
come il mondo moderno, soprattutto il mondo occidentale, può recuperare il senso
del Trascendente?
La riflessione mi porterà a occuparmi anche di
quei luoghi dell’esperienza dello Spirito che sono oggi i movimenti nella
Chiesa. E’ importante chiarire fin dall’inizio il modo del mio approccio:
desidero verificare come, sia in essi che in ogni altra esperienza "spirituale",
si possa cogliere il mistero del Dio vivente, qui e ora. Vorrei insomma,
parlando in generale dei tanti cammini in cui lo Spirito santo si fa presente,
individuare le forme e gli itinerari, anche di purificazione, per cui lo
Spirito, attraverso tali esperienze, tocca veramente il nostro cuore, ci
inquieta, ci consola, ci apre al Mistero santo.
1. Un cammino personale
Il bisogno di una rinnovata esperienza dello
Spirito nasceva in me - e mi sembra in molti nella Chiesa degli anni sessanta e
settanta - da una duplice causa: da una parte assistevamo a un inaridirsi della
vita spirituale nelle realizzazioni di un malinteso "aggiornamento"; dall’altra
ci sentivamo provocati a testimoniare la possibilità di vivere le beatitudini di
fronte a un mondo che appariva per tanti aspetti sempre più "antievangelico".
Per qualcuno la seconda istanza diveniva urgenza di recuperare la fierezza
dell’identità e dell’appartenenza ecclesiale, che sembrava indebolita o
minacciata dai fenomeni della contestazione post-conciliare.
Fu così che, non solo nell’occasione sopra
ricordata ma un po’ per tutti quegli anni e poi in seguito (e l’abitudine e il
desiderio mi sono rimasti anche oggi), potei avvicinare le più diverse
esperienze spirituali, nuove e antiche, dell’Oriente e dell’Occidente.
Tra le nuove, alcune erano nate intorno a
personalità carismatiche, in cui sembrava veramente che lo Spirito stesse
parlando alle Chiese. Riscontravo i benefici di questi incontri soprattutto in
un rinnovato senso di appartenenza comunitaria, in un maggior calore
dell’esperienza spirituale, in una consolazione, che sembrava fugare le ansie e
le paure di fronte all’impressione di un mondo abbandonato al degrado
progressivo e alla crisi di tutti i valori.
Non mi pento di questa ricerca, che ha
arricchito la mia vita e mi ha - lo spero - un poco "allenato" ad ascoltare lo
Spirito che agisce con fantasia e creatività sempre nuova. Direi anzi che la
ricerca aiutò me - e tanti altri - a riscoprire o, come allora si amava dire, a
"riappropriarmi" di tanti luoghi "istituzionali" della presenza dello Spirito,
come la Parola di Dio letta con fede e in preghiera al di là dell’acribia
esegetica (ma non senza di essa), la ricchezza dei sacramenti, della liturgia e
anche della pietà tradizionale, l’appartenenza fedele alla comunione ecclesiale
e alla sua carità militante.
Insieme veniva crescendo sempre più,
soprattutto a partire dal servizio episcopale (e la considero una grazia
speciale di questo ministero) l’esperienza della sovrabbondanza con cui lo
Spirito agisce senza clamore, nella quotidianità. Divenivo testimone di
innumerevoli cammini silenziosi di persone note e ignote, a partire da incontri
anche casuali. Mi colpiva, a esempio, lo scoprire quanto bene nascosto ci fosse
in tanti ammalati, in persone anziane o sole, in famiglie che, senza clamore,
accudiscono con eroismo bambini e adolescenti disabili e li colmano di affetto.
Ricordo ancora oggi l’espressione che mi venne spontanea di fronte a un giovane
gravemente infermo da anni, prossimo a morire: qui è all’opera Gesù risorto! Mi
colpiva l’apertura di cuore di tanti carcerati, la disponibilità e le esigenti
domande di senso di tanti giovani. Vedevo con ammirazione la crescita del
bisogno di silenzio, di tempi prolungati di preghiera, di voglia di stare con i
poveri, di fame della Parola di Dio. Mi impressionava lo scoprire - con gli
occhi della fede educati da tali più calde esperienze spirituali - come lo
Spirito agisse anche in quelli che definirei i "paesi" della lontananza o
perfino dell’assenza di Dio. La constatazione è continuata, si è sviluppata e si
è espressa pure in autentici momenti di grazia, come sono stati a esempio non
pochi incontri della cosiddetta "Cattedra dei non credenti".
Avvertivo così un duplice ordine di presenza
dello Spirito santo: nella comunità ecclesiale, nei suoi cammini ordinari legati
alle celebrazioni liturgiche e alle normali attività pastorali, nei suoi
molteplici fermenti di rinnovamento, di cui i movimenti sono un segno cospicuo,
anche se non unico; e nella vasta scena della storia, in tanti percorsi a prima
vista opachi o lontani.
Insieme, avvertivo però grandi resistenze
all’azione liberante del Consolatore. Da una parte l’inclinazione ad
assolutizzare il proprio movimento o la propria esperienza spirituale, fino a
cosificare il carisma originario, irrigidendolo in una sorta di bagaglio
sovraimposto, col rischio di bloccare la maturazione profonda e libera della
persona. Dall’altra parte la tendenza a banalizzare e "snobbare" qualunque cosa
superasse il già noto o già previsto, la pretesa di programmare cammini propri o
altrui prescindendo da ogni esperienza vissuta dello Spirito, relegandola fra le
realtà superflue o addirittura alienanti. Ciò accade nella vita di molti
battezzati, quando la fede si indebolisce e la ricerca delle cose visibili ruba
il posto al primato da accordare all’invisibile.
Le due resistenze tendevano a concretizzarsi
in due grandi tentazioni. La prima, la tentazione di sostituire all’esperienza
personale dello Spirito, realizzata nell’appartenenza a un gruppo o a un
movimento, il valore assoluto di questa stessa appartenenza, con la tendenza a
fare del leader carismatico una sorta di referente indiscutibile, e con processi
sottili di colpevolizzazione di chi avesse tentato una verifica critica del
proprio vissuto. La seconda, la tentazione dell’autosufficienza, che diveniva
evidente dapprima in una vita ecclesiale vuota e ripetitiva, giocata solo in
alcuni gesti esteriori, e, nei suoi esiti estremi, nel rigetto di ogni
appartenenza, di ogni riferimento all’invisibile, a un messaggio di salvezza
proveniente dall’alto.
2. Una vicenda di Chiesa
L’esperienza del ministero episcopale a Milano
mi ha permesso di verificare ulteriormente il bagaglio di riflessioni. Sento di
potere e dovere lodare Dio per la grande ricchezza di esperienze dello Spirito
che la nostra Chiesa offre, e che ho potuto conoscere di persona negli
innumerevoli contatti e incontri di questi anni.
Penso in primo luogo a innumerevoli gesti
della pastorale cosiddetta ordinaria, spesso considerata come "poco carismatica"
da chi cammina per le vie dell’entusiasmo di piccoli gruppi. Ogni giorno e ogni
settimana, nelle nostre comunità parrocchiali, viene spezzato con abbondanza il
pane della Parola di Dio e il pane dell’Eucaristia, e molte persone semplici ne
traggono alimento per credere e sperare anche in situazioni di vita al limite
dell’eroismo. Penso inoltre alla grande grazia costituita dagli oratori, dai
cammini di catechesi per tutte le età della vita, dalle opere di carità, dalla
vita di fede di tanta gente silenziosamente unita al sacrificio di Cristo. Penso
a tutta quella vitalità spirituale e pastorale che ha in molti Consigli
pastorali parrocchiali e nell’Azione Cattolica il suo punto di riferimento;
penso alla ricchezza di indicazioni dottrinali, liturgiche e spirituali
contenute nei Progetti pastorali parrocchiali riscritti per la seconda volta
dalle parrocchie lo scorso anno. Penso agli splendidi cammini vocazionali di
tanti giovani e ragazze che ho potuto seguire. Penso a tutte le comunità
religiose sparse nel territorio della Diocesi in cui, nella fedeltà a una
regola, si dà testimonianza al Vangelo perseverando nella preghiera quotidiana e
servendo il popolo di Dio, specialmente i più piccoli e i più poveri. Penso pure
ai non credenti che ho incontrato e la cui ricerca sul Mistero è stata
sollecitata da gesti semplici e quotidiani di credenti. Penso a tutti quegli
incontri in cui persone o gruppi legati a movimenti nuovi o antichi mi hanno
testimoniato quanto essi debbano a queste esperienze per la riscoperta della
loro vocazione cristiana e persino sacerdotale. Penso all’entusiasmo, alla
freschezza, al carattere "sorgivo" di certi modi di pregare e di parlare di Dio,
di testimoniarlo nella povertà e nella vita comune.
D’altra parte ho potuto da Pastore fare
esperienza anche delle resistenze e dei rischi accennati: ho verificato come è
ampia tra la nostra gente la percezione di sentirsi abbandonata da Dio nel
dolore e nella prova o la tentazione di non interessarsi a lui, nella
convinzione della Sua irrilevanza. Tanti mi sembrano pensare o agire "etsi Deus
non daretur", come se Dio non ci fosse. Mi sono chiesto come raggiungere e
almeno rendere inquiete queste coscienze perché si aprano alla ricerca del volto
del Signore.
Ho verificato come i meccanismi di
sclerotizzazione o di irrigidimento possano entrare nelle esperienze ecclesiali
sia legate alla pastorale ordinaria sia connesse ai movimenti e alle
associazioni fiorite negli ultimi decenni.
Soprattutto, ho percepito il tarlo sottile,
che si insinua in parecchie di tali esperienze, di costituirsi come "chiesa
nella Chiesa", comunità chiusa in se stessa e resistente all’accoglienza delle
indicazioni pastorali generali o anche solo al dialogo e alla collaborazione con
altre esperienze ecclesiali. Sembra quasi che quanto più una comunità è rigida,
esclusiva e coinvolgente, tanto più tenda ad essere totalizzante, rischiando
alla fine di togliere la libertà nei suoi membri, e quanto più invece è
tollerante e comprensiva, aperta a molti, tanto più tenda a sfilacciarsi e a
divenire irrilevante. E tuttavia quante esclusioni produce la monopolizzazione
che si può fare della propria esperienza spirituale o di quella del proprio
gruppo di appartenenza! Il danno che ne deriva non è solo all’interno della
comunità; tocca altresì il suo compito di annuncio del Cristo, perché non pochi,
nel rigettare forme di appartenenza troppo rigide o chiuse, rigettano il Signore
Gesù che quelle pure professano.
Mi è parso allora importante convocare tutta
la nostra Chiesa e tutti gli uomini e le donne di buona volontà a un esame di
coscienza generale: la posta in gioco, dal mio punto di vista, non è di poco
conto, né si può misurare in calcoli di piccolo cabotaggio, in meschini giochi
di potere nella Chiesa o nella società. La vera posta in gioco è l’apertura
all’invisibile, è l’esperienza del Trascendente, è l’incontro con lo Spirito che
è Signore e dà la vita e può suscitare il nuovo di Dio anche nel cuore o
nell’ambiente più chiuso, appesantito o sclerotizzato.
Tento perciò di proporre a me stesso e a tutti
voi alcuni criteri teologici sulla persona e l’opera dello Spirito santo, quasi
un racconto che lo Spirito fa di sé, per ricavare dal confronto tra esso e la
situazione sopra descritta alcune indicazioni operative, che sollecitino a
rispettare il diverso, pur creando o mantenendo o rinnovando vincoli profondi di
comunione. Vorrei poter aiutare tutti a trovare la giusta misura nel rapporto
tra il rispetto dei cammini individuali di maturazione nella libertà e il
coinvolgimento collettivo caldo ed entusiasta nelle comunità di appartenenza
all’interno dell’unica comunione ecclesiale.
II. Lo Spirito racconta
Non è facile parlare dello Spirito santo: è
invisibile ed è dappertutto, pervade ogni cosa ed è al di là di ogni cosa. Tutto
ciò che di bello e di positivo avviene nel mondo è opera sua, tutto ciò che di
santo e di vero si fa e si dice nella Chiesa è opera sua. Ma per parlare di lui
la cosa più facile è lasciar parlare lui, ascoltare il suo racconto.
La dottrina teologica si è messa in ascolto di
quanto racconta lo Spirito e ha trovato tante verità profonde da dire sulla sua
vita come persona della Trinità, come colui che con il Padre e il Figlio è
adorato e glorificato. Rimandiamo per questo alla Enciclica Dominum et
vivificantem (1985), alle pagine del Catechismo della Chiesa cattolica
e di La verità vi farà liberi (il Catechismo per gli adulti della
Conferenza Episcopale Italiana). Qui vorremmo dire qualcosa che parte dal
racconto 1. di ciò che è e fa lo Spirito per Gesù; 2. di ciò che lo Spirito è e
fa per l’uomo; 3. di ciò che lo Spirito è e fa per il mondo.
(Potrebbe essere interessante richiamare
alla luce di queste tre tematiche successive, quanto scritto nei programmi
pastorali In principio la Parola - 1981, Attirerò tutti a me -
1982, Partenza da Emmaus - 1983).
1. Ciò che è lo Spirito è per Gesù
traspare dalle parole ascoltate da Giovanni Battista presso il fiume Giordano:
"L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in
Spirito santo" (Gv 1,33). Parlare dello Spirito santo è parlare di un
uomo su cui lo Spirito è disceso in pienezza, rimane, dimora, riposa, si trova a
suo agio come a casa sua. "Lo Spirito del Signore è sopra di me" dirà Gesù
all’inizio della sua missione (Lc 4,17). Lo Spirito ha espresso se stesso
"al meglio" nella vita di Gesù, figlio del Padre ("Tu sei il mio figlio
prediletto", Lc 3,22), Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), che grida
"Padre" nella esultanza dello Spirito (cf. Lc 10,21). Lo Spirito di Gesù
è lo spirito di figliolanza.
2. Parlare di ciò che è lo Spirito santo
per l’uomo è parlare di ciò che egli compie in ciascuno di noi per farci
essere e vivere come Gesù, cioè da "figli" e del suo agire negli uomini per
farli "Chiesa", cioè una cosa sola in Gesù, il "corpo" di Gesù. Lo Spirito non
fa altro in noi che conformarci a Gesù, renderci come lui "figli" del Padre che
è nei cieli, permetterci di gridare "Abbà" (cf. Gal 4,6: "E che voi siete
figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo
Figlio che grida: Abbà, Padre!").
3. Ciò che fa lo Spirito per il mondo
può essere letto nelle parole del Signore a Paolo che si sentiva solo e
abbandonato a Corinto: "Io ho un popolo numeroso in questa città" (At 18,10).
Parlare dello Spirito santo è riconoscere la sua azione nel cuore di ogni uomo,
nel cuore delle nostre città e della nostra storia, per suscitare in esse
persone e gruppi che siano come Gesù, che come lui pensino, agiscano, soffrano
da veri figli di Dio e come lui donino la vita per i fratelli.
1. Lo Spirito e Gesù
Il rapporto tra il Signore Gesù e il
Consolatore è sottolineato fin dalla nascita (Lc 1,35: "Lo Spirito santo
scenderà su di te"; cf. Mt 1,20: "quel che è generato in lei viene dallo
Spirito santo"), è richiamato nel battesimo presso il Giordano (cf. Mt 3,16),
è implicito nei racconti delle opere potenti di Gesù, ma si manifesta
specialmente nel mistero pasquale.
Nell’ora della resurrezione lo Spirito è colui
che dà vita all’Abbandonato del Venerdì santo, stabilendolo in una comunione con
Dio Padre che ormai abbraccia anche coloro a cui il Crocefisso si è fatto
solidale sulla Croce, cioè tutti i peccatori e tutta l’umanità. Effuso sul
Figlio "addormentato nella morte" e "disceso agli inferi", lo Spirito di
santificazione lo resuscita (cf Rm 1,4) e con lui porta in Dio Padre i
peccatori e i lontani, che il Cristo morto ha unito indissolubilmente a sé.
Lo Spirito di Pasqua è allora Spirito di
riconciliazione e di unità, Spirito della pace, che unisce il Padre e il
Figlio nella comunione vittoriosa della resurrezione, e fa entrare in essa i
separati da Dio e i lontani. Si fonda qui la tradizione teologica soprattutto
occidentale che vede lo Spirito come "vincolo della carità eterna", amore
ricevuto e donato che unisce l’Amante all’Amato, il Padre al Figlio, e in Lui
unisce il Padre a coloro di cui il Figlio si è fatto fratello. Secondo questa
lettura teologica lo Spirito è amore, non l’Amore fontale, che è il Padre, né
l’Amore accogliente, che è il Figlio, ma l’Amore personale, donato dall’Uno
all’Altro, ricevuto in totale accoglienza reciproca, così forte da coinvolgere i
peccatori riconciliandoli col Padre.
In tanto però ha senso la riconciliazione
pasquale, in quanto c’è stata l’esperienza dolorosissima della lacerazione della
Croce: "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui
stesso maledizione per noi... perché noi ricevessimo la promessa dello Spirito
mediante la fede" (cf. Gal 3,13-14). Lo Spirito è presente nell’ora della
separazione della Croce: "Chinato il capo, (Gesù) consegnò lo Spirito" (Gv
19,30). Tale consegna ha un profondo significato teologico: è l’atto
per cui il Figlio consuma il suo sacrificio. Perciò la lettera agli Ebrei
afferma che Cristo "con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio"
(Eb 9,14). Come fa osservare Giovanni Paolo II nella sua lettera
enciclica Dominum et vivificantem (nn. 39 e 41), questi testi della
"consegna" ci autorizzano a cogliere nella sofferenza e morte del Crocefisso
l’icona di un mistero insondabile che si consuma in Dio, Padre, Figlio e
Spirito, mistero inseparabilmente di amore e di dolore, di sofferenza
liberamente scelta per amore delle creature.
2. Lo Spirito e
l’uomo
In base all’evento della consegna dello
Spirito al Padre da parte di Gesù in Croce, lo Spirito di unità e di pace viene
effuso su ogni carne. E’ lo Spirito che grida in noi: "Abbà, Padre!" (Gal 4,6
e Rm 8,15), facendoci figli nel Figlio, riconciliati, nel suo amore
crocefisso, con Dio e tra noi. E’ lo Spirito del battesimo e della
confermazione, quello che fa il pane e il vino Corpo e Sangue di Cristo, quello
che ci fa Chiesa. Lo Spirito fa sì che ognuno che lo accoglie possa dire come
Paolo: "Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me" (Gal 2,20). La
Chiesa è il Corpo di Cristo perché è tempio dello Spirito, la comunità
dell’alleanza eterna che è in persona il Signore Gesù reso vivo e vivificante
nello Spirito. Ecco perché, accanto alla tradizione soprattutto occidentale che
vede nello Spirito il vincolo della carità che unifica, si è potuta sviluppare
un’altra tradizione, particolarmente in Oriente, che vede lo Spirito come
l’"estasi di Dio", colui che rende possibile l’"uscita" di Dio da sé, la Sua
apertura all’altro. Questa tradizione trova conferma nel fatto che tutte le
volte che l’Eterno si esprime "ad extra" nella storia della salvezza lo fa
nello Spirito, che aleggia sulle acque della prima creazione, scende sui
profeti, copre la Vergine Maria, unge il Verbo incarnato e scende a Pentecoste a
costituire la Chiesa dei discepoli, unificata nell’amore.
Si potrebbe dire, allora, che lo Spirito è sia
colui che unifica i diversi, stabilisce ponti di riconciliazione e di
pace, sia colui che apre e diversifica, suscitando la varietà dei doni e
dei carismi, spingendo continuamente i discepoli a uscire da se stessi per
andare verso l’altro e accoglierlo.
L’azione dello Spirito santo sull’uomo e
sulla Chiesa può allora caratterizzarsi in due direzioni. Da una parte, il
Consolatore è principio invisibile dell’unità, che supera le divisioni e le
frammentazioni, dà pace ai cuori, li salda nella gioia della comunione col Padre
e col Figlio in lui, è l’anima dell’unità della Chiesa e fa di questa unità
segno, strumento e profezia dell’unità del mondo. Dall’altra parte, lo Spirito
suscita la ricchezza dei doni e dei ministeri i più diversi e spinge a vivere la
vita nuova dei risorti come servizio e missione: "Vi sono poi diversità di
carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è
il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto
in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per
l’utilità comune" (1Cor 12,4-7). Spirito di unità, il Consolatore è non
di meno sorgente di varietà carismatica e ministeriale, fonte di doni e servizi
differenti chiamati tutti a contribuire alla crescita comune nell’unico Corpo di
Cristo, che è la Chiesa.
La comunione ecclesiale, vivificata dallo
Spirito, si presenta pertanto come un insieme di diversità riconciliate, una
varietà unificata nella carità e nella reciprocità, a immagine di quel
"reciproco abitare l’uno nell’altro e compenetrarsi l’uno nell’altro" (pericoresi),
per cui ciascuna delle tre Persone nella Trinità è se stessa eppure totalmente
inabita nelle altre e accoglie le altre in sé, nella perfetta unità del Dio
unico. Gesù ci fa percepire qualcosa di questo abisso di differenze in comunione
quando -soprattutto nel vangelo secondo Giovanni - rapporta la comunione dei
discepoli alla sua comunione col Padre: è il "come" giovanneo che illumina il
rapporto tra la Trinità e la Chiesa, consentendoci di riconoscere nella vita
trinitaria l’origine, il modello e la meta della comunione ecclesiale. "Amatevi
gli uni gli altri, come io ho amato voi" (Gv 15,12; cf. 13,34).
"Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa
sola... siano come noi una cosa sola" (Gv 17,21.22).
Sotto l’azione dello Spirito la Chiesa vive di
un’unità profondissima, frutto della partecipazione alla vita eterna di Dio,
senza però che l’unità significhi massificazione, esprimendosi anzi in una
varietà di volti, di carismi e di servizi che ha qualcosa di analogo alla
varietà esistente fra le stesse Persone divine. Lo Spirito dunque unifica il
diverso e diversifica l’unito, riconcilia il distinto e distingue nella
comunione dei riconciliati. Vivere secondo lo Spirito richiede perciò la piena
accoglienza della sua duplice azione: rifiuta lo Spirito tanto chi opera
divisione, quanto chi volesse massificare e appiattire le diversità. Accoglie
invece lo Spirito chi promuove e rispetta valorizzandola la diversità da lui
suscitata, ma si adopera perché tutto concorra all’utilità comune e serva per
l’edificazione dell’unico Corpo del Signore Gesù, che è la Chiesa della Trinità
(per alcune piste di lavoro in questa direzione durante l’anno liturgico, cf.
Lavorare insieme 1997/98, pp. 7 - 15).
3. Lo Spirito e il
mondo
Il Signore Gesù è vivo e presente in tutte le
più diverse situazioni del tempo e dello spazio mediante lo Spirito santo:
riempito di Spirito nell’atto del suo risuscitamento dai morti (cf. Rm 1,4),
il Risorto dona lo Spirito a ogni carne e si presenta vivo e vivificante nello
stesso Spirito a tutte le generazioni degli uomini. L’abisso dei secoli che ci
separa dalla storia del Figlio nella carne è scavalcato grazie all’azione del
Consolatore: nello Spirito Gesù prende possesso oggi dei cuori che si aprono a
Lui sia nell’ascolto della Parola e nella partecipazione ai sacramenti, sia più
in generale nell’accettazione del mistero della vita e della morte e
nell’esperienza della carità, della solidarietà e della giustizia. Lo Spirito
santo è la memoria potente di Cristo, il Signore che dà la vita perché rende
presente qui ed ora il Vivente al di là di tutte le barriere sociali, razziali,
culturali, religiose.
Alla luce di questo racconto della rivelazione
- qui appena evocato - diventa allora necessario chiederci se e in che misura le
nostre comunità ecclesiali sono capaci di vivere, nel loro interno e nei
rapporti rispettosi e amicali tra le varie aggregazioni, la profonda comunione
che le unisce nell’unico Signore e nell’unico Spirito, accogliendosi
reciprocamente nella carità intorno al ministero dei pastori, a partire dal
ministero unificante del Vescovo. Non di meno si profila l’urgenza di domandarci
se e come esse riconoscano la diversità dei doni dello Spirito non solo al loro
interno e nella più ampia comunità ecclesiale, ma pure nell’ordinarietà della
vita di tanti uomini e donne che sono tempio dello Spirito, a volte perfino al
di là della loro consapevolezza.
Occorre insomma riconoscere lo Spirito, che
soffia dove vuole, dovunque egli soffi, senza rigidezze e sclerotizzazioni,
senza pregiudizi e forzature, senza chiusure ed indebite assolutizzazioni della
propria appartenenza, anche dell’appartenenza al corpo visibile della Chiesa
cattolica: "Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà" (2Cor 3,17).
Come affermavo all’inizio, lo Spirito c’è, opera dappertutto, c’è e opera prima
di noi, meglio di noi, più di noi. Una delle tentazioni più sottili e perfide
del Maligno è quella di farci dimenticare la presenza dello Spirito, di farci
cadere nella tristezza come se Dio ci avesse abbandonato in un mondo cattivo,
con il quale lottiamo ad armi impari, perché l’indifferenza, l’egoismo e la
dimenticanza di Dio hanno a poco a poco il sopravvento. E’ questo un grave
peccato "contro lo Spirito santo" (cf. Mt 12,31s), che nega in pratica la
sua forza e la sua capacità pervasiva, la sua penetrazione come vento e come
soffio in tutti i meandri della storia. Al contrario, la fiducia nel Signore che
"ha un popolo numeroso in questa città" (At 18,10) promuove un
discernimento realistico sulle condizioni positive e negative della fede nel
nostro mondo, senza indulgere né a vuoti ottimismi né a sterili pessimismi. Lo
Spirito santo fa intravvedere quella rete di relazioni di amore che lui sta
formando nel mondo e che è riflesso di quella rete di relazioni di amore che è
la Trinità santa.
Tali considerazioni mi introducono già alla
terza e ultima parte della Lettera pastorale, dove vorrei appunto coniugare il
racconto della mia esperienza, narrato nella prima parte, con il racconto che lo
Spirito fa di sé in questa seconda parte, per tracciare alcune linee che aiutino
la revisione di vita di tutte le comunità cristiane che costituiscono la nostra
Chiesa - siano esse parrocchie, movimenti, gruppi o associazioni - e
analogamente la revisione dei nostri atteggiamenti personali rispetto al
racconto che facciamo oggi dell’agire dello Spirito in noi e nella storia.
III. Raccontiamo insieme
1. L’amico importuno e lo Spirito
Vorrei iniziare la terza parte con un’icona
evangelica che prendo dalla parabola detta dell’"amico importuno". Gesù
racconta: "Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico,
prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla
da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare,
la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi
per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si
alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza" (Lc
11,5-8). Gesù stesso interpreta così la parabola: "Ebbene io vi dico:
Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché
chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra
voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un
pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà
uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai
vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro
che glielo chiedono!" (vv. 9-13).
Immaginiamo che l’amico importuno sia chi
bussa alle porte delle nostre comunità cristiane, direttamente o indirettamente,
chiedendoci il pane della Parola di Dio. Potremmo trovarci nella difficoltà in
cui si trova il personaggio della parabola: la porta è chiusa, i piccoli sono a
letto, la notte è già avanzata. Tutto, insomma, è al suo posto, e ci costa
scomodare le cose mettendo a soqquadro l’intera casa, come avveniva nelle
abitazioni dell’epoca di Gesù, dove si dormiva per terra sulle stuoie, e si
occupava il pavimento dell’ambiente di ingresso che fungeva normalmente anche da
camera da letto. Un gruppo o una comunità che non si lasciasse scomodare
dall’amico importuno, che preferisse la propria ordinata organizzazione dei
tempi e degli spazi all’apertura generosa all’altro, realizzerebbe il contrario
di ciò che Gesù fa fare al personaggio del racconto. Non solo: ma l’uomo che si
lascia disturbare e soddisfa la fame dell’amico importuno è assunto niente di
meno che a immagine del Padre celeste, che non nega lo Spirito a chi con
insistenza glielo chiede. Dunque, una comunità, un movimento, un gruppo che si
apre all’accoglienza dell’altro ed è disponibile a lasciarsi disturbare e
perfino a lasciarsi mettere in questione dall’urgenza della carità e della
comunione, diventa icona vivente del Padre che dà lo Spirito, sorgente di quella
vita e di quella gioia che solo dallo Spirito vengono.
Come fare in modo che tutte le nostre comunità
siano così ricche di Spirito santo da esser pronte ad accogliere la sfida
dell’amico importuno? Come mantenerci così vigilanti da saper scoprire e
valorizzare il dono dell’inopportunità, rappresentato dall’altro e dal diverso
da noi? A questo esame di coscienza vorrei chiamare tutte le nostre comunità -
parrocchie, istituzioni, associazioni, gruppi, movimenti -, perché si
sottomettano volentieri e con generosità al giudizio della Parola di Dio e si
aprano al soffio dello Spirito.
2. Lo Spirito racconta Gesù in noi
Mi lascio aiutare da una dottrina
tradizionale: quella dei doni dello Spirito santo. Essa ha il suo fondamento
biblico nella descrizione del virgulto messianico (virgulto in ebraico è "nezer",
donde verrebbe anche la parola Nazaret e l’aggettivo Nazareno riferito a Gesù,
che è il virgulto messianico su cui riposa lo Spirito del Signore, secondo Is
61,1-2 [cf. anche 60,21] citato in Lc 4,18-19): "Un germoglio
spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di
lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del
Signore" (Is 11,1-2). A sapienza, intelletto, consiglio, fortezza,
scienza e timore di Dio, la tradizione teologica e spirituale, basandosi sul
testo dei LXX e della Vulgata, aggiunge il dono della pietà. Sono i doni che lo
Spirito ha dato in pienezza a Gesù, che risplendono nelle sue azioni e nelle sue
parole e che suscitano in noi i sentimenti e i gesti di Gesù.
La riflessione teologica - in particolare
quella di San Tommaso d’Aquino - ha collegato i sette doni alle tre virtù
teologali e ha messo questo quadro globale in correlazione con le otto
beatitudini (Mt 5,1-10), sviluppando un’articolata descrizione della vita
dell’uomo nuovo, vivificato e trasformato dallo Spirito santo. La fede è parsa
così l’anima dell’intelletto, della scienza e del consiglio. La speranza è stata
vista come la sorgente del timor di Dio e della fortezza, mentre alla carità
sono state rapportate la pietà e la sapienza. A sua volta poi la fede può essere
collegata con la beatitudine dei puri di cuore, di coloro che piangono, dei
misericordiosi; la speranza con la beatitudine dei poveri in spirito, degli
affamati di giustizia, dei perseguitati; la carità con quella dei miti e degli
operatori di pace. Non si tratta di classificazioni rigide, bensì di un modo per
evocare la ricchezza, la spontaneità, la libertà filiale con cui si muove il
cristiano sotto l’azione dello Spirito: "infatti tutti quelli che sono guidati
dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio" (Rm 8,14). Come dice un
grande autore spirituale "chi si lascia guidare dai doni dello Spirito santo si
può paragonare a una nave che voga a piene vele, con il vento in poppa; chi
invece si lascia guidare dalle sole virtù e non dai doni, a una scialuppa che si
fa avanzare a forza di remi, con più lentezza e molta maggior fatica e rumore" (L.
Lallemant, La dottrina spirituale, IV, 3, 2, § 2).
Seguendo i dieci frutti dell’azione del
Consolatore e le beatitudini loro connesse mi è sembrato di poter delineare
quasi un decalogo della vita secondo lo Spirito, che deve ispirare le nostre
comunità perché siano aperte all’amico importuno e legate l’una all’altra da una
comunione che sia immagine fedele della comunione trinitaria. Come lo scorso
anno ho proposto una Regola di vita del cristiano ambrosiano, così
quest’anno offro come uno specchio perché ciascuna comunità possa verificarsi
sui doni del Consolatore e sulla propria qualità di "comunità alternativa"
aperta ai doni dello Spirito e docile alle sue ispirazioni (cf. Lettera di
presentazione del Sinodo 47°, n. 5-9 e Ripartiamo da Dio, n. 3.1).
1. La fede è
la virtù teologale per la quale ci si affida perdutamente a Dio e si vede ogni
situazione ed ogni rapporto nella luce del Trascendente. Essa dà il cuore nuovo
per consentire alla Verità, che ci ha visitato personalmente in Gesù Cristo, e
gli occhi nuovi capaci di discernere in tutto i segni della Sua presenza e della
Sua chiamata. Grazie alla fede la comunità risponde alla Parola di Dio e si
lascia convocare e plasmare da essa. Senza fede non c’è convocazione intorno al
Signore risorto, non c’è comunità delle donne e degli uomini che si riconoscono
e vogliono essere suoi discepoli. Si potrebbe dire che è la fede che ci fa
Chiesa, radunandoci come popolo di Dio, che appartiene a Lui e Gli obbedisce.
La prima caratteristica che fa di un gruppo,
di un movimento o di un’associazione una comunità ecclesiale è la professione di
fede, non solo oggettivamente in sintonia con quella della Chiesa nella sua
cattolicità, ma esistenzialmente e soggettivamente attuata nell’esperienza del
Mistero proclamato, celebrato e vissuto.
A ciascuna delle nostre comunità porrei allora
la prima domanda: è la tua fede quella della Chiesa cattolica? vivi intensamente
l’adesione al Dio vivente che la Chiesa ti ha fatto incontrare? sei una comunità
che ascolta la Parola con fede, che celebra la divina liturgia e testimonia il
Vangelo del Signore Gesù? Come vivi la beatitudine dei puri di cuore, degli
afflitti, dei misericordiosi?
In forma di esortazione direi a ciascuna delle
nostre aggregazioni:
Sii anzitutto una comunità di fede, nutrita
della fede di tutta la Chiesa e vivi nell’adesione incondizionata del cuore e
della vita al Dio vivente, che ha parlato a noi in Gesù Cristo. Coltiva la
rettitudine delle intenzioni, sii gioiosa nell’afflizione, pronta nella
misericordia verso i lontani e i vicini!
2. La fede illumina
l’intelligenza: essa dà cuore e occhi per consentire e credere alla
verità. Perciò una comunità di fede si apre all’intelligenza spirituale, a
quello scrutare la rivelazione che può essere vissuto veramente solo sotto
l’azione dello Spirito santo. Il dono dell’intelletto va quindi invocato e
accolto per avere quel "contuitus mysteriorum" che ci permette di abbracciare in
unità la molteplicità dei misteri rivelati, di avere uno sguardo sintetico e
penetrante su tutto l’insieme di ciò che leggiamo nella Scrittura e riceviamo
dalla Tradizione vivente della Chiesa. Il dono dell’intelletto ci fa penetrare
nell’intimo del mistero di Dio, cogliendo la radice unitaria da cui scaturiscono
Creazione e Redenzione, l’alleanza, la predicazione del Regno e la morte e
risurrezione, la Scrittura e la Tradizione. Questo dono di uno sguardo profondo,
affettuoso e unificante lo si riceve e lo si sviluppa sottomettendosi di
continuo al giudizio della Parola di Dio quale è proclamata, spiegata e
testimoniata nella comunione della fede ecclesiale e perseverando nella
preghiera contemplativa e nella lectio divina.
A ciascuna comunità cristiana chiederei
allora: come vivi l’intelligenza spirituale? sei pronta a sottometterti alla
Parola di Dio? ti lasci mettere in discussione da essa? Sei al tuo interno
"scuola di preghiera" e di lectio divina? aderisci sinceramente al
magistero dei Pastori? misuri l’intelligenza legata al tuo carisma e ai maestri
a te interni con l’intelletto della fede cattolica e con la guida
all’intelligenza delle Scritture offerta dal Papa e dal Vescovo?
Sottomettiti alla Parola di Dio nella
preghiera interiore e nella comunione con i tuoi Pastori, per essere una
comunità ricca di intelligenza spirituale, capace di fare sintesi in mezzo alla
frammentazione e confusione del nostro tempo!
3. Al dono
dell’intelletto è connesso quello della scienza: mentre il primo ci fa
comprendere la verità che viene da Dio, il secondo ci aiuta a vedere in lui
l’insieme del mondo e della vita. La scienza spirituale è la visione della
realtà che consegue all’incontro col Signore che cambia il cuore e la vita.
L’intelligenza intende la verità nel suo offrirsi, la scienza abbraccia sotto la
luce della verità l’orizzonte vitale di ciascuno e della comunità. Grazie al
dono della scienza sono nate le grandi sistemazioni teologiche della storia
della fede, e il cristianesimo è capace di contribuire alla ricerca del
significato ultimo e delle urgenze penultime di fronte alle questioni e alle
sfide culturali ed etiche più diverse. Grazie alla scienza della fede è
possibile cogliere i segni dei tempi e i fermenti evangelici presenti
dappertutto, anche nelle situazioni apparentemente più chiuse alla luce della
verità rivelata. Grazie alla scienza è possibile comprendere i bisogni concreti
di una determinata comunità e tracciare per essa un adeguato progetto pastorale.
In tutte le nostre comunità è necessario
aprirsi a questo dono dello Spirito santo, in comunione con tutta la Chiesa: sei
una comunità che si nutre della scienza della fede? curi la formazione
catechistica e teologica dei tuoi membri? ti preoccupi di ascoltare i maestri di
teologia e di esperienza spirituale, che lo Spirito suscita nella Chiesa e che
essa ti propone o raccomanda? sei attenta ai progetti pastorali?
Sii una comunità desiderosa di crescere nella
scienza della fede, nutrita di solidi maestri, che siano voce della sinfonia
della verità che illumina e salva, quale essa è presente nella varietà e
ricchezza di testimoni donati all’intera comunione cattolica, nel tempo e nello
spazio, nel passato come nel presente! Sii una comunità che scrive e attua un
piano pastorale in fedeltà allo Spirito!
4. Dall’intelletto e
dalla scienza, illuminati dalla fede, deriva pure il dono del consiglio
che conduce a scegliere bene di fronte alle diverse alternative che la vita ci
propone. Il consiglio ci guida nella provvisorietà e nell’incertezza a non fare
passi falsi, ci aiuta a discernere, a non essere precipitosi, a non
assolutizzare nulla di ciò che è meno di Dio. Forma pratica del dono del
consiglio è la direzione spirituale, che aiuta la persona a orientare e vivere
la propria vita secondo Dio in ogni situazione.
Nelle nostre comunità il dono del consiglio va
tenuto in gran conto, e va ricercato ed accolto attraverso cammini interiori in
cui non si scarichi mai sull’appartenenza al gruppo o al movimento o sulla
presunta volontà del capo ciò che deve essere oggetto di libera maturazione
personale, sotto la luce dello Spirito santo.
Il consiglio è allora la condizione della
libertà spirituale: sei una comunità dove tale dono è apprezzato e promosso? gli
itinerari di maturazione personale delle coscienze sono in te rispettati e
valorizzati, anche quando possono creare fatica al comune cammino? incoraggi i
tuoi membri alla pratica della direzione spirituale, vissuta possibilmente con
persone che siano sufficientemente libere rispetto alla tentazione di
assolutizzare l’appartenenza al gruppo? sei consapevole che il tuo movimento o
gruppo è "una via", una delle tante vie nella Chiesa? che questa "via" è
veramente ecclesiale solo quando riconosce che altre "vie" sono o possono essere
vocazioni di Dio e che senza di esse il piano salvifico, nell’oggi della Chiesa,
non è completo?
Sii una comunità docile al dono del consiglio,
rispettosa dei cammini personali di maturazione spirituale e pronta ad aiutare
ciascuno a vivere nella libertà le proprie scelte sotto l’azione del Consolatore
e la guida di persone sagge e interiormente libere!
5. Come
l’intelletto, la scienza e il consiglio si rapportano alla virtù teologale della
fede, così il timor di Dio e la fortezza si radicano nel dono della speranza.
La speranza è l’attesa di un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi: in
quanto tale, quando è attesa del bene sommo della vita eterna, essa non può
essere frutto di un desiderio umano, ma è dono dall’alto, è accoglienza delle
promesse che Dio fa in Gesù Cristo. Solo in lui ci è data infatti la speranza
che non delude, perché ci è anticipata e promessa la vita che vince il peccato e
la morte per sempre. La speranza apre allora la vita del credente al futuro di
Dio, alle sue novità e alle sue sorprese.
Una comunità cristiana è per vocazione e
grazia testimone della speranza, pronta a rendere ragione a chiunque della
speranza che è in lei (cf. 1 Pt 3,15). La Chiesa intera presenta in tal
senso un’indole escatologica, è cioè popolo della speranza teologale, in cammino
verso il compimento definitivo delle promesse fatte dal Padre nel Figlio morto e
risorto per noi.
Sei una comunità ricca di speranza? davanti ai
tanti mali del tempo presente, mantieni alta la capacità di guardare sempre e
comunque all’orizzonte dell’avvenire di Dio per noi? testimoni speranza a quanti
ti incontrano? vivi la gioia di quanti sperano nel Signore? Vivi la beatitudine
dei poveri in spirito, degli affamati di giustizia, dei perseguitati?
Sii una comunità viva nella speranza, capace
di testimoniare a tutti e sempre l’eccedenza delle promesse di Dio, che ci
libera da ogni prigionia dei mali presenti e dalla paura della morte, e ci fa
guardare avanti con fiducia, con distacco dai beni terreni e dai soldi, con una
certezza più forte di ogni fallimento o persecuzione o sconfitta!
6. Dalla speranza
teologale deriva il timor di Dio: esso nasce dalla consapevolezza di
doversi misurare non solo col corto orizzonte delle cose che passano, ma con
l’orizzonte ultimo e definitivo della vita eterna che non passa. Il timor di Dio
è allora l’atteggiamento che ci fa vivere costantemente sotto lo sguardo del
Signore, preoccupati di piacere a Lui piuttosto che agli uomini. Dio che ti
guarda è sì il Dio giudice, ma questa espressione va ben capita, perché non ha
nulla a che vedere con una sorta di occhio maligno o severo puntato su di te
solo per coglierti in fallo: si tratta del Dio Padre che ti conosce e ti ama
come nessun altro e vuole per te il bene vero. Agire come a Lui piace è allora
per te il bene più grande, la consolazione più profonda, anche quando sul
momento dovesse costarti. Il timore di Dio è un timore filiale, reverente,
affettuoso, che teme soprattutto di dispiacere al cuore del Padre.
Una comunità che vive nel timore di Dio evita
ogni logica umana di potere e di successo, diffida della mondanità che
continuamente tenta i discepoli del Signore, non fa calcoli per vincere o
affermarsi a danno di altri, ma ha come solo scopo quello di seguire Gesù che in
tutto ha fatto la volontà del Padre, anche quando ciò dovesse significare
abbracciare la sua Croce e seguirlo nella sua passione.
Quale posto dai al timor di Dio nelle tue
valutazioni e nei tuoi progetti? sei una comunità che si lascia giudicare dal
Signore, preoccupata di piacere a lui in ogni cosa? ti misuri sulle esigenze del
Vangelo e della sequela di Gesù o ti lasci a volte ammaliare da calcoli di
riuscita terrena?
Sii una comunità che vive sotto lo sguardo di
Dio, desiderosa di piacere in tutto a lui solo, e perciò vigile ed operosa nel
timore del Suo santo nome, libera da calcoli e valutazioni solo mondane!
7. La speranza
teologale offre l’orizzonte su cui si costruisce l’atteggiamento del timor di
Dio e motiva al tempo stesso la fortezza nelle scelte e nei
comportamenti: essere forti secondo Dio significa essere fedeli e perseveranti
nella fede, senza lasciarsi sviare da opinioni peregrine, da mode seducenti ed
egoiste, da calcoli di opportunità o di successo. La fortezza è l’atteggiamento
di chi è saldo e costante nell’obbedienza amorosa al Signore, e sopporta per lui
prove e desolazioni, senza abbandonare la via a volte oscura e dolorosa della
sua sequela.
La Chiesa - che, come dice Agostino, "avanza
fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio" - non deve lasciarsi
allontanare dalla via di Cristo né dalla paura, né dalla lusinga. Il discepolo
non crede all’adulazione, né si piega davanti alla minaccia se ha accolto e
coltivato in sé il dono spirituale della fortezza.
Sei una comunità forte nella speranza della
fede? sei costante nei tuoi cammini, perseverante nella tua fedeltà alla
chiamata di Dio? sei affidabile? mantieni fede agli impegni assunti, anche se
questo dovesse costarti e chiederti sacrifici non indifferenti?
Sii una comunità forte nella speranza,
perseverante nella via che Dio ha tracciato per te e la Chiesa ha confermato
attraverso i suoi Pastori, libera e coraggiosa nella fedeltà e nella
testimonianza, anche a caro prezzo, liberante per tutti i tuoi membri e per
chiunque ti avvicina, nel dono della libertà vera che viene dal Signore!
8. La carità
è la virtù teologale che rende presente in noi l’amore con cui Dio stesso ama:
"L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo
che ci è stato dato" (Rm 5,5). Nella carità tutti i doni dello Spirito si
collegano l’uno all’altro nella verità dell’uomo nuovo. Grazie alla carità il
nostro cuore diventa accogliente nei confronti degli altri, ne rispetta la
diversità e la libertà, ne cerca il bene vero ed è reso capace di sacrificarsi
per esso. La carità "è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità,
non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse,
non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma
si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta"
(1Cor 13,4-7). Vivere nella carità significa allora per una comunità
cristiana essere aperta, accogliente e generosa verso l’altro, specialmente
verso l’amico importuno della nostra parabola. Questa apertura accogliente e
generosa è necessaria anzitutto all’interno della comunione ecclesiale, che a
immagine della Trinità è unità di diversi: guai a una comunità che si separasse
o chiudesse in se stessa, che escludesse gli altri o non si sforzasse di essere
in comunione con tutti intorno al Vescovo, segno e strumento di unità.
Sei una comunità aperta? sei accogliente e
generosa? sei rispettosa delle diversità che esistono nella Chiesa, non solo a
parole, ma coi fatti e nella verità? e sei aperta e accogliente con chi dal di
fuori si avvicina a te, specie con chi è in cerca del volto di Dio e desidera
incontrare Gesù Cristo? sei pronta a non servirti della Chiesa, ma a servirla,
perché cresca il Regno di Dio, anche se tu dovessi scomparire? Quale la tua
mitezza di fronte alle incomprensioni e alle offese? Quale il tuo servizio alla
comprensione e alla pace?
Sii una comunità viva e operosa nella carità,
aperta, capace di gesti concreti di riconciliazione, accogliente e generosa
verso tutti i fratelli e le sorelle nella fede, anche se diversi da te, pronta a
far spazio all’altro, chiunque sia e da qualsiasi parte venga, per riceverlo con
rispetto e amore e offrirgli con gratuità il dono che Dio ti ha fatto. Perdona
largamente con gioia, opera con tutte le forze per la pacificazione dei cuori!
9. Alla carità si
riferiscono in particolare i doni spirituali della pietà e della sapienza: la
pietà è l’orientamento del cuore e della vita intera ad adorare Dio, a
prestargli il culto che lo riconosca come sorgente e meta di ogni dono
autentico. La pietà è la tenerezza per Dio, l’essere innamorati di lui e il
desiderare di rendergli gloria in ogni cosa. La misericordia del Signore è stata
talmente grande con noi che egli desidera la nostra carità verso di lui! Grazie
alla pietà il cristiano non cerca solo le consolazioni di Dio, ma desidera
fargli compagnia nella sua gioia e nel suo dolore per il peccato del mondo.
Una comunità di fede, di speranza e di carità
si lascia riconoscere allora in modo particolare dalla sua pietà. Sei una
comunità tesa ad adorare e venerare Dio in ogni tua scelta? nutri nei tuoi
membri questa tenerezza per Dio, che è frutto di un grande amore, ricevuto
dall’alto e donato con gratuità? dai testimonianza in questo mondo dell’urgenza
di amare il Signore al di sopra di tutto, con tutto il cuore, con tutta la
mente, con tutto il nostro essere?
Sii una comunità ricca di pietà, innamorata di
Dio e desiderosa di rispondere al suo amore con un amore umile, ma tenero,
appassionato e disposto a far compagnia al suo dolore e alla sua gioia in ogni
momento!
10. La sapienza
è infine il dono per il quale ogni cosa è misurata, nella sua verità e
consistenza, sulla carità di chi ci ha amato fino alla morte di croce. E’ il
valutare in base all’amore e il sapere che spesso il senso ultimo non è rivelato
se non a un cuore che ama. Sapiente è chi si lascia amare da Dio e sa che in
questo grembo accogliente dell’amore eterno è custodita - sia pur nel silenzio -
la risposta ultima a tante domande penultime, che alla mente appaiono senza
risposta. Sapiente è chi non vuol convincere con la sola forza della ragione, ma
- pur utilizzando l’intelligenza e amandone l’esercizio - sa che la verità si
irradia anzitutto per mezzo della carità.
Una comunità è ricca di sapienza spirituale
quando sa dare alla carità il primo posto in tutte le sue scelte e i suoi
rapporti, quando cioè non esclude nessuno, non rigetta nessuno, non giudica e
non misura soltanto sui criteri della propria appartenenza. Una comunità è
sapiente quando contagia con la vita l’amore più grande che viene da Dio e porta
a Dio.
Sei una comunità che vive la sapienza
dell’amore e la sapienza della Croce? attui in tutto il primato della carità? ti
lasci amare da Dio per essere in ciascuno dei tuoi membri accogliente e generosa
nell’amore?
Sii una comunità ricca di sapienza spirituale,
capace di misurare e vivere ogni cosa sotto il primato della carità, che viene
da Dio e ci fa partecipi della vita di Dio: fa’ strada a lui e al suo amore
infinito, piuttosto che farti strada in questo mondo!
Ci aiutino nella contemplazione dell’opera
dello Spirito nella sua Chiesa e in questo esame di coscienza, le parole
ispirate con cui sant’Ambrogio esaltava la ricchezza terrestre e celeste dei
doni promananti dallo Spirito: "Anche fiume è stato detto lo Spirito santo,
secondo quanto è stato letto: ‘Dal suo seno proromperanno fiumi di acqua viva.
Ma questo lo diceva dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che stavano per
credere in lui’ (Gv 7,38-39). Dunque, un fiume è lo Spirito santo, e
fiume grandissimo, poiché... scaturì dall’intimo di Gesù, come apprendiamo dalla
profezia di Isaia. Grande è questo fiume che scorre sempre e non viene mai meno,
e non è solo fiume, ma anche fiume di vasto impeto e di straordinaria grandezza,
come anche David disse: ‘L’impeto del fiume allieta la città di Dio’. La ‘città
di Dio’, la famosa Gerusalemme, non viene bagnata dal corso di qualche fiume
terreno, ma quello Spirito santo, che procede dalla fonte di vita e che ci sazia
con un piccolo sorso, scorre, mi sembra, in quei celesti ‘troni, dominazioni e
potenze’, angeli e arcangeli, con più grande abbondanza, ribollente nel suo
corso pieno delle sette virtù spirituali. Se, dunque, il fiume straripa dopo
aver superato la sommità degli argini, quanto più lo Spirito, che sovrasta ogni
creatura, se da un lato sfiora gli altri campi più bassi, e cioè quelli della
nostra mente, dall’altro letifica la natura delle creature celesti con una più
ampia ubertà di santificazione! E non ci preoccupi il fatto che qui disse
‘fiume’ o altrove sette spiriti. Con queste santificazioni si intende, come
disse Isaia, la pienezza delle sette virtù spirituali: lo spirito di sapienza e
di intelligenza, lo spirito di consiglio e di fortezza, lo spirito di conoscenza
e di pietà, lo spirito del timor di Dio. Uno, dunque, è il fiume, ma molti sono
i corsi dei suoi doni spirituali. Questo fiume, dunque, esce dalla fonte della
vita" (Lo Spirito santo, I, 156-159).
Giovanni Paolo II, nella sua Epistola
apostolica Operosam diem all’Arcidiocesi milanese, per il XVI centenario
della morte di sant’Ambrogio, riassume con le parole "sobria ebbrezza dello
Spirito" questa ricchezza di insegnamenti del nostro Patrono: "Con l’espressione
‘sobria ebbrezza dello Spirito’ Ambrogio sembra voler sintetizzare la sua
concezione della vita spirituale. Ci fa comprendere così che essa è ebbrezza,
gaudio e pienezza di comunione con Cristo, ci insegna altresì che non si traduce
in una esaltazione scomposta ed entusiasta, ma esige piuttosto una sobrietà
operosa; ricorda soprattutto che essa è dono dello Spirito di Dio. Coloro
che attingono diligentemente alle Sacre Scritture, ricevono questa ebbrezza che
‘rinsalda i passi di una mente sobria’ e che ‘irriga il terreno della vita
eterna che ci è stato donato’" (n. 28).
Conclusione
Ecco le riflessioni che propongo alla Diocesi
nell’anno pastorale 1997-98, che sarà per noi il secondo anno di preparazione al
grande Giubileo. Lo scorso anno, dedicato alla centralità di Gesù Cristo Figlio
di Dio e per noi anche anno santambrosiano, ho proposto una Regola che
servisse per rivedere la vita come sequela battesimale di Gesù e insieme
applicasse al cammino di ogni cristiano la lettera e lo spirito del nostro
Sinodo 47°. Quest’anno, anno dello Spirito santo, invito a rivedere il nostro
volto di comunità cristiana su quello che chiamerei un "decalogo" della vita
secondo lo Spirito, esposto nella terza parte di questa Lettera. E’ un invito
rivolto a tutte le parrocchie, le istituzioni, le aggregazioni e i movimenti
operanti in Diocesi e che può considerarsi esteso, nell’ambito delle regole e
tradizioni di ciascuna, anche alle comunità religiose e a tutte le esperienze di
vita consacrata. Si tratta infatti di criteri spirituali nei quali ciascuno si
può rispecchiare.
La presente Lettera non intende di per sé
riprendere i cosiddetti "criteri di ecclesialità" che sono stati enunciati nella
Christifideles laici del 1988 (nn. 28-31) e dalla nota pastorale dei
Vescovi italiani del 1993 (Le aggregazioni ecclesiali nella Chiesa) e che
rimangono validi, ma vuole aiutare ogni comunità, anche parrocchiale, a
rileggersi alla luce della dottrina dello Spirito santo, nell’atteggiamento di
conversione propiziato dalla preparazione al grande Giubileo.
Quali le condizioni e le occasioni più
favorevoli per questa revisione di vita? I tempi dell’anno liturgico, così come
sono presentati in Lavorare insieme 1997/1998 (pp. 9-14), e gli
appuntamenti diocesani (ivi, pp. 23-27) costituiscono un ambito
privilegiato per il percorso. L’insegnamento che ho esposto può essere utile in
particolare per momenti di esercizi spirituali, parrocchiali o di gruppo, per
giornate di ritiro o Quarantore, per campi scuola ecc. Potrà anche essere
opportuno ritrovarsi insieme come membri di diverse aggregazioni. Un’occasione
rilevante sarà quella degli Esercizi spirituali alla Diocesi che terrò, sui doni
dello Spirito santo, dal 13 al 17 ottobre prossimo (cf. Lavorare insieme
1997/98, p. 24). L’importante è mettersi nella condizione di docilità allo
Spirito che è presente e all’opera prima di noi, più di noi e meglio di noi e
che guiderà ciascuno "alla verità tutta intera" (Gv 16,13).
A Maria, discepola fedele dello Spirito di
amore, per le mani di sant’Ambrogio, grande dottore dello Spirito nella Chiesa
occidentale, affido questa Lettera e le persone e i gruppi a cui essa è
indirizzata, nella fiducia che anche per mezzo della loro preghiera e della loro
vita chiunque li avvicini sia portato a riconoscere il Dio vivente e a
esclamare: "Veramente Dio è in mezzo a voi!" (1 Cor 14,25).
+ Carlo Maria Card.
Martini
Arcivescovo
Arcivescovo
Festa dei Santi Martiri Protaso e Gervaso
18 giugno 1997
INDICE GENERALE
TRE RACCONTI DELLO SPIRITO
I. RACCONTANDO DELLO SPIRITO: UN CAMMINO PERSONALE E UNA VICENDA DI CHIESA Un cammino personale Una vicenda di Chiesa |
II. LO SPIRITO RACCONTA
Lo Spirito e GesùLo Spirito e l’uomo Lo Spirito e il mondo |
III. RACCONTIAMO INSIEME L’amico importuno e lo Spirito Lo Spirito racconta Gesù in noi CONCLUSIONE |