Legami di Vita Buona
Convegno dei Presidenti e Assistenti unitari regionali e diocesani 2012
Con la Lectio Divina di mons. Domenico Sigalini, Assistente
generale dell’Azione cattolica e vescovo di Palestrina, si sono aperti ieri 21 settembre i
lavori del Convegno nazionale dei Presidenti e Assistenti unitari
diocesani e regionali dell’Ac, che ha a tema i “Legami di vita buona. Azione cattolica, Chiesa locale e Chiesa universale”.
Rivolgendosi
agli oltre 350 responsabili di Ac intervenuti da tutta Italia, mons.
Sigalini ha voluto sottolineare, tra l’altro, come ogni fondamento di “vita buona” presupponga una “fede intelligente”,
poiché «una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo
stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti. Vuole persone
vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti
servili, compromissori». E pensando in particolare ai giovani: «Quanti
di essi credono che la fede sia abbandonare la lucidità della ragione,
un atto che non regge di fronte alla scienza. Certo, se le conoscenze di
Dio e della sua Parola sono ferme alle nozioni rabberciate al
catechismo della fanciullezza, non possiamo dire che stiamo usando
l’intelligenza».
Di seguito il testo della lectio.
***
Troppo indurito è il nostro cuore
14 Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere
dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. 15 Allora
egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei
farisei e dal lievito di Erode! ”. 16 E quelli dicevano fra loro: “Non
abbiamo pane”. 17 Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché
discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete
il cuore indurito? 18 Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non
udite ? E non vi ricordate, 19 quando ho spezzato i cinque pani per i
cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via? ”. Gli
dissero: “Dodici”. 20 “E quando ho spezzato i sette pani per i
quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via? ”. Gli
dissero: “Sette”. 21 E disse loro: “Non capite ancora? ”.(Mc 8, 14-21)
Appena prima di questo brano di vangelo sono state narrate due
moltiplicazioni dei pani, al capitolo 6 (vv. 41-43) e al capitolo 8 (vv.
6-8). Hanno destato grande meraviglia e discussioni, piccoli egoismi e
grandi progetti materiali. Chi aveva trovato la panacea per tutti i suoi
mali: che vuoi di più, ci dà anche da mangiare! Chi aveva pensato che
il miracolo poteva essere di casa tutti i giorni con un uomo così. Gesù
coglie il rischio e fa fatica a far capire che i suoi miracoli sono
segno, soltanto segno. Questo è segno di un altro pane. I farisei
continuano a chiedere segni, sicurezze, certezze, ma Gesù offre un segno
decisivo per la fede dei cristiani: il pane che è Lui, il pane
eucaristico, che è ancora Lui, il pane dell’offerta sacrificale
dell’Eucaristia, che è sempre Lui, il pane della vita, che ne è il
senso, la pienezza.
Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo.
Ne erano avanzati di pani dopo la prima e la seconda moltiplicazione;
Gesù li sollecita a prendere la barca per non fissarsi sui facili
successi e sul facile indice di gradimento ottenuto con il miracolo. E i
discepoli lasciano a terra tutto quel ben di Dio. Era la scorta per la
loro fame, ma la lasciano e si adattano a quel pezzo che è rimasto in
barca. E’ solo un pezzo di pane o è il pane della vita che è Gesù? Su
questo gioco di simboli si sviluppano le domande dure, incalzanti,
mozzafiato di Gesù.
Che pane avevano con sé sulla barca?
Io chi sono per voi? Mi sto facendo in quattro per aiutarvi ad alzare
lo sguardo dal piatto e voi ci ficcate dentro pure la vita! Non siete
capaci di fare il salto di qualità che deve fare ogni uomo di fronte a
tutte le cose. Niente è solo materia, tutto ha un significato che
rimanda a Dio. Questo pane non è la sorgente di un litigio per quando
gli apostoli sentiranno un buco nello stomaco, ma è la presenza di Gesù.
Lui è il pane della vita, il sapore, il senso; il nutrimento, il gusto
della casa e del forno, dell’amore di chi lo ha preparato e del lavoro
che lo ha reso possibile: è una introduzione umanissima alla sua
presenza nel pane e nel vino.
Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!
Il lievito dei farisei e il lievito di Erode sono inseriti in questa
scena da Marco come un inciso, prima di proseguire con le domande di
Gesù e possono essere letti nel contesto come due preoccupazioni o
condizioni per credere alla grandezza del pane che è Gesù: c’è un
lievito che traduce la cecità dovuta alle ideologie, o ad atteggiamenti
culturali di autosufficienza e un lievito, quello di Erode, che
stigmatizza e rappresenta ogni strumentalizzazione del potere. Sono
minacce all’accoglienza del pane che è Gesù, al significato del
consumarsi per gli altri che è assolutamente opposto a quello che i due
lieviti rappresentano.
Se questo pane è poi figura non troppo velata e lontana del pane
eucaristico che deve essere spezzato per tutti, i lieviti errati possono
essere letti come l’autosufficienza, l’egoismo, il dominio dell’uomo
sull’uomo, come fu la vita di Erode. Non sono assolutamente compatibili
questi modi di vivere con l’accoglienza di questo pane, con la
disponibilità e la comunione fraterna che deve caratterizzare ogni
comunità che si raccoglie la domenica attorno al pane eucaristico. Che
senso avrebbe spezzare il pane da gente che si ignora, che non si
sopporta, che si fa la guerra, che non vive in pace, che cerca in tutti i
modi di sopraffare l’altro, di usarlo, pure con i guanti bianchi?.
E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”.
Siamo senza nutrimento, siamo senza concretezza, ci siamo ritrovati
euforici, dopo le belle moltiplicazioni dei pani, dopo aver goduto di un
successo insperato con la gente, dopo che tutti ci guardavano con
invidia perché siamo del giro di Gesù, ma oggi tutto è finito e siamo
rimasti soli. Cercavano con gli occhi un forno, invece dovevano guardare
a Gesù. Quante volte anche noi davanti a Dio diciamo: non abbiamo più
pane
L’abbiamo consumato nell’ingordigia
L’abbiamo creduto un modo di dire di Gesù e non abbiamo conservato quella fede semplice della prima comunione
Non abbiamo pane perché nelle nostre comunità non si fa posto alla sua Parola.
Non abbiamo pane perché abbiamo perso il senso della vita
Non abbiamo pane perché siamo pigri; niente ci soddisfa, e tiriamo a campare
Non abbiamo pane perché ci manca la speranza nella vita
Non abbiamo pane perché sentiamo una fame che non passa con il cibo
Non abbiamo pane perché ci siamo affidati alle superficialità e ora ci lasciano soli
Non abbiamo pane perché la messa domenicale viene dopo le nostre
preoccupazioni economiche, di riposo, di relax. Dopo lo spread e i dati
della borsa.
Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete
che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore
indurito?
Inizia qui la serie di domande che anche noi ci vogliamo fare, che Gesù in maniera incalzante fa ai suoi discepoli.
Se scorriamo il testo vediamo che la parola pane o pani è
detta almeno sei volte e che almeno sette volte Gesù coglie la loro
assoluta incomprensione. Non ci sono dubbi su che cosa voglia dirci il
vangelo con questo episodio e val la pena di lasciarci interrogare. Solo
rispondendo a queste domande potremo trovare pace.
Discutere, intendere, capire è il desiderio e l’impegno di
mettere al servizio della situazione la propria intelligenza e
l’intelligenza degli amici: assieme si sta cercando di capire, ma non ci
si riesce. L’intelligenza è la prima scintilla che deve scattare quando
si tratta di fede; forse è la fame che ha innescato la discussione,
forse la rabbia, il dispetto, ma Gesù vuole che si metta testa a quello
che si fa e si vuol pensare. Ogni esperienza di fede può avere mille
motivi, ma deve passare per il crogiuolo dell’intelligenza. Dio ci ha
dato l’intelligenza perché la usiamo sempre fino in fondo. Abbiamo una
razionalità che non può essere mandata all’ammasso perché troviamo più
comodo fidarci del sentito dire, del sentimento, delle emozioni, delle
atmosfere, delle tradizioni.
Una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo stesso
Signore che non vuole automi o persone compiacenti. Vuole persone vere,
intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili,
compromissori. Quanti giovani credono che la fede sia abbandonare la
lucidità della ragione, un atto che non regge di fronte alla scienza.
Certo, se le conoscenze di Dio e della sua Parola sono ferme alle
nozioni rabberciate al catechismo della fanciullezza, non possiamo dire
che stiamo usando l’intelligenza. Abbiamo un luogo dove la fede deve
fare i conti con l’intelligenza sempre, con la vita concreta, con i
fatti quotidiani come la nascita, la morte, la malattia; questo luogo è
la vita concreta di una comunità cristiana: la parrocchia
La parrocchia serve una fede che cerca l’intelligenza e che non si dà
senza ragioni. Il sapere Dio che offre la parrocchia è intrinsecamente
spinto a delinearsi nella vita dell’uomo e in ogni sua domanda, per
questo non può non dirsi con parole di uomo, con simboli e linguaggi
umani, dentro i significati profondi della vita e di ogni vita, nella
quotidianità e nel susseguirsi degli eventi, nella ricerca faticosa di
senso e di felicità degli uomini. La mediazione culturale non è un
optional per la testimonianza cristiana della fede.
Entra in campo qui un servizio alla fede che deve abitare la cultura.
È autentico servizio alla vita quotidiana della gente, al tessuto di
relazioni del territorio, alla costruzione di una società una fede che
si fa cultura.
- Che sa rispondere ai grandi interrogativi dell’uomo andando oltre
le risposte ben compaginate o didascaliche di ogni catechismo, che si fa
domanda prima di essere risposta. E’ una fede che si comunica,
qualitativamente diversa da quella che rimane nel chiuso della propria
consolazione
- per questo è necessario un passaggio da una cultura inconsapevole,
che faceva parte dell’habitat naturale di una società cristiana a una
nuova consapevolezza. Forzando, ma non troppo, il concetto si può dire
che occorre passare da una generazione di cristiani che hanno ricevuto
le risposte senza farsi le domande, a cristiani che si interrogano con
tutti gli uomini sul proprio destino, sul senso ultimo della vita. Qui
si apre tutto il campo della inculturazione della fede
- un altro livello di necessità dell’esprimersi culturalmente della
fede e che è a portata di parrocchia, proprio per la sua popolarità e
concretezza, è
* tutto lo sforzo di cambiamento di mentalità assolutamente
improrogabile per aiutare i nuovi poveri a ridarsi speranza da sé, entro
nuovi modi di pensarsi nel proprio territorio, per uscire dall’usura,
per ridare forza alle strutture educative, per innestarsi nelle
relazioni umane. E’ ancora fede che si fa cultura se è vero come abbiamo
detto sopra, che la carità e forma della fede.
* la consapevolezza che si deve tradurre ogni pensiero, ogni
contenuto della fede in un linguaggio laico, in un linguaggio che ha la
persona umana al centro dell’attenzione. Bisogna diffidare delle
comunicazioni semplicemente cristiane. Il pensiero sociale della Chiesa è
tutto traducibile in linguaggio laico. E’ in voga purtroppo una sorta
di fondamentalismo che non si applica seriamente a ridire con linguaggio
laico le grandezze della fede in Gesù. E’ una scorciatoia che, se da
una parte aiuta a sentirsi a posto in coscienza, perché siamo stati
capaci di dire con coraggio la nostra fede, dall’altra lascia l’uomo
solo ad affrontare il delicato momento del dirsi della fede nella sua
vita, nelle sue fatiche quotidiane, nella pressione degli eventi, nei
problemi che rimangono spesso aperti non solo per tutta una vita, ma
anche per stagioni di storia.
Il nostro cuore è indurito
Gesù fa però anche un’altra domanda, chiama in causa non solo
l’intelligenza, ma anche il cuore, anche la capacità di lasciarsi
coinvolgere in una esperienza di dono. Cuore, nel nostro modo di dire è
termine che significa amore, dono, l’offerta di tutta la persona. E’
necessario per la completezza di una adesione di vita. Non basta
l’intelligenza, occorre la capacità di amare. Gesù fa una domanda che
suona come un rimprovero, che ci mette al muro: avete il cuore indurito?
Sclerocardia è l’indurimento: sclerosi del cuore. E’ lì bloccato come
una pietra. Che cosa può esprimere un pezzo di pietra se non la durezza
di una vita che sta altrove, che non si commuove per niente, che non
comanda al viso nemmeno un sorriso, alle mani una stretta d’accoglienza,
al corpo uno slancio di dedizione? Chi ha il cuore indurito per
eccellenza nell’Antico Testamento è il faraone, il padrone dell’Egitto,
colui che tiene prigioniero il popolo, che lo sfrutta, che non bada a
sofferenze, che calcola il numero dei mattoni, che comanda la morte dei
neonati, che si mette contro Dio, contro il suo piano di salvezza (cfr
Es 4, 21). Alla fine di ogni piaga che ritma le speranze e delusioni del
popolo di Israele che vuol uscire dall’Egitto c’è un ritornello: il
cuore del faraone è ostinato nella sua durezza di cuore. Il salmo 4
dice: Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore? Perché amate cose vane e cercate la menzogna? Nel vangelo di Matteo (13, 15) si richiamano le parole di Isaia : Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito. Ezechiele (2,4) dice: Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito.
Lo stesso Marco (6,52) appena dopo la moltiplicazione dei pani, nelle
stesse condizioni, sulla barca, nella fatica di reggerla col vento
contrario, con Gesù che cammina sulle acque e viene in loro aiuto,
ancora dice: Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito.
Insomma Gesù nella sua infinita sapienza e bontà continua a chiedere
agli apostoli di aprire il cuore, di mettersi in una condizione di
amore, di dono, di accoglienza, di apertura.
Lasciati andare, smollati, vieni giù dalle tue sicurezze, fidati, fa
un passo, rischia, dona la tua vita, smettila di stare sulle tue, apriti
alla vita, buttati nell’avventura dell’amore, esci dal tuo comodo
loculo…Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia
bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dá,
non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo
fratello bisognoso (Deut 15, 7)
A questo cuore indurito serve una cardioterapia, fatta di preghiera,
di ascolto della Parola, di relazioni umanissime e di scuola d’amore. La
famiglia, l’amicizia, l’innamoramento, il fidanzamento sono tutte
cardioterapie se hanno al centro l’amore fino all’ultima goccia di Gesù.
Questi apostoli hanno bisogno di una full immersion nel cuore di Gesù.
La faranno, ma prima verrà la passione
Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ?
Sono domande che Gesù fa usando letteralmente le parole dei profeti
Is 6, 9-10 Ascoltate pure, ma senza comprendere,osservate pure, ma senza conoscere.Rendi insensibile il cuore di questo popolo,fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhie non veda con gli occhiné oda con gli orecchiné comprenda con il cuorené si converta in modo da esser guarito”.
Ger 5, 21 “Questo dunque ascoltate,o popolo stolto e privo di senno,che ha occhi ma non vede,che ha orecchi ma non ode.
Ez 12, 12 Il principe, che è in mezzo a loro si
caricherà il bagaglio sulle spalle, nell’oscurità, e uscirà per la
breccia che verrà fatta nel muro per farlo partire; si coprirà il viso,
per non vedere con gli occhi il paese.
Nei discepoli si verifica un’altra volta e chissà per quante volte
ancora il dramma dell’antico popolo, dell’uomo che continua a fuggire la
premura di Dio, che snobba il suo amore, che chiude gli occhi davanti
all’evidenza, che si chiude in se stesso, che butta fuori Dio dalla
vita. Gesù si mette così nella linea dello struggente amore di Dio per
l’umanità e vuol far capire agli apostoli che in questa azione di
assoluta misericordia si vuol collocare.
Gesù si manifesta come colui che realizza il piano di Dio, pensato da
secoli, come poi San Paolo cercherà di annunciare a tutti i pagani.
Allora la storia di questi discepoli è la nostra storia, le loro
difficoltà sono le nostre, le loro chiusure sono le nostre
autosufficienze, i loro dubbi sono i nostri rifiuti a seguire Gesù.
E non vi ricordate….
E’ utile dare risalto anche a questo verbo che spesso torna nelle
Sacre Scritture; un verbo legato alla memoria, che per la bibbia non è
il riportarsi a cose passate, ma a un fatto vivo e attualmente operante.
Così è la memoria della Pasqua, così è l’Eucaristia che è memoria,
memoriale della morte e Risurrezione di Gesù, così sono tutti i gesti
sacramentali.
Gli apostoli se vorranno fare parte di un nuovo modo di vivere la
vita e il rapporto con Dio dovranno esercitare e confrontarsi
continuamente con questo significato di memoria. Non siamo cultori di
diari, di musei, non siamo antiquari o specialisti del mercato delle
pulci dove puoi trovare pezzi antichi a basso prezzo, ma siamo
ricostruttori di vita vera, riproduttori di gesti autentici di salvezza,
li riviviamo, non li togliamo dalla formalina per guardarli o
dall’antitarme per metterli in mostra. L’Eucaristia è qui, è oggi
spezzare il pane che è la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.
Vengono ricordate le sette sporte, le dodici ceste: sono ancora le
sporte e le ceste del pane eucaristico che viene spezzato ogni giorno,
ogni domenica nell’Eucaristia per i fedeli di oggi. Si dice due volte
“pezzi di pane”, perché l’Eucaristia è proprio pane spezzato, fatto in
pezzi. L’intento degli evangelisti è chiarissimo e noi oggi ancora
viviamo questa gioia di avere tra noi il pane che è Gesù.
E disse loro: “Non capite ancora? ”
Il brano di vangelo termina con un’altra domanda ancora, con una
infinita serie di punti interrogativi, di inviti a cambiare testa, a
entrare in un altro ordine di idee, di atteggiamenti, di conoscenza di
Gesù. Dobbiamo decidere di affidarci interamente a Gesù. E’ tempo di
accorgerci della nostra durezza di cuore, di risvegliarci nella verità.
Questo brano di vangelo ci dice la forza e l’impegno che esige sempre la
lettura della Parola di Dio; è una lettura che continuamente ci
provoca, non è fatta per far riposare le orecchie, ma per far cantare il
cuore.
Così mi immagino che dicessero tra di loro gli apostoli:
Siamo su quella barca e stiamo riprendendo il cammino con Gesù; è
stato veramente emozionante partecipare alle moltiplicazioni dei pani,
ma ci siamo fermati al livello dello stomaco. Ci siamo riempiti la
pancia, e capivamo a fatica che non erano espedienti per soccorrere la
fame di cibo della gente. Noi euforici di questo potere abbiamo
avvertito in Gesù una certa tensione. Dopo la prima moltiplicazione ci
ha quasi obbligati a metterci in barca per cambiare aria. Ci aveva visti
troppo attaccati al successo, non voleva che ci lasciassimo prendere la
mano da un eventuale potere e già lì ci ha detto che avevamo un cuore
duro. Ma perché?
Poi un’altra moltiplicazione e ci siamo ancora meravigliati. Ancora
un altro spostamento in barca, con un solo pane. Non ci eravamo accorti
che quel pane era per noi solo Gesù. Non capivamo, Ci ha fatto un fuoco
di fila di domande, ci sembrava perfino impaziente. Ci ha detto che
abbiamo il cuore malato, duro come una pietra. Ci ha riportato alla
storia dei nostri padri che hanno spesso voltato le spalle a Dio. Volete
abbandonare Dio anche voi? Volete capire che questo pane sono io, il
senso della vita sono io, il Dio che ha fatto cielo e terra si fa
incontrare da me?
Gli avremmo creduto pienamente più tardi, quando dopo quell’ultima
cena, abbiamo toccato con mano la sua tristezza, ma anche la sua volontà
incrollabile di dono fino alla fine, il suo essere pronto a dare la
vita volontariamente. Quella sera ci ha fatto capire che nessuno lo
stava consegnando anche se lo tradiva o ingannava, nessuno lo stava
prendendo con inganno, ma si offriva lui. Da sempre aveva aspettato quel
momento. Quel pane oggi per noi è ancora la sua presenza, Lui nella
pienezza del dono di sé e sarà sempre la nostra forza, sarà al centro
della nostra preghiera, lo contempleremo in adorazione ininterrotta.