mercoledì 31 ottobre 2012

1 Novembre - Solennità di tutti i Santi


Di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI 1 minuto fa a Piazza San Pietro:

Cari fratelli e sorelle! Oggi abbiamo la gioia di incontrarci nella solennità di Tutti i Santi. Questa festa ci fa riflettere sul duplice orizzonte dell’umanità, che esprimiamo simbolicamente con le parole “terra” e “cielo”: la terra rappresenta il cammino storico, il cielo l’eternità, la pienezza della vita in Dio.

E così questa festa ci fa pensare alla Chiesa nella sua duplice dimensione: la Chiesa in cammino nel tempo e quella che celebra la festa senza fine, la Gerusalemme celeste. Queste due dimensioni sono unite dalla realtà della «comunione dei santi»: una realtà che comincia quaggiù sulla terra e raggiunge il suo compimento in Cielo. Nel mondo terreno, la Chiesa è l’inizio di questo mistero di comunione che unisce l’umanità, un mistero totalmente incentrato su Cristo: è Lui che ha introdotto nel genere umano questa dinamica nuova, un movimento che la conduce verso Dio e al tempo stesso verso l’unità, verso la pace in senso profondo. Gesù Cristo - dice il Vangelo di Giovanni (11,52) - è morto «per riunire insieme i figli di Dio dispersi», e questa sua opera continua nella Chiesa che è inseparabilmente «una», «santa» e «cattolica». Essere cristiani, far parte della Chiesa significa aprirsi a questa comunione, come un seme che si schiude nella terra, morendo, e germoglia verso l’alto, verso il cielo.
I Santi - quelli che la Chiesa proclama tali, ma anche tutti i santi e le sante che solo Dio conosce, e che oggi pure celebriamo - hanno vissuto intensamente questa dinamica. In ciascuno di loro, in modo molto personale, si è reso presente Cristo, grazie al suo Spirito che opera mediante la Parola e i Sacramenti. Infatti, l’essere uniti a Cristo, nella Chiesa, non annulla la personalità, ma la apre, la trasforma con la forza dell’amore, e le conferisce, già qui sulla terra, una dimensione eterna. In sostanza, significa diventare conformi all’immagine del Figlio di Dio (cfr Rm 8,29), realizzando il progetto di Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ma questo inserimento in Cristo ci apre - come dicevamo - anche alla comunione con tutti gli altri membri del suo Corpo mistico che è la Chiesa, una comunione che è perfetta nel «Cielo», dove non c’è alcun isolamento, alcuna concorrenza o separazione. Nella festa di oggi, noi pregustiamo la bellezza di questa vita di totale apertura allo sguardo d’amore di Dio e dei fratelli, in cui siamo certi di raggiungere Dio nell’altro e l’altro in Dio. Con questa fede piena di speranza noi veneriamo tutti i santi, e ci prepariamo a commemorare domani i fedeli defunti. Nei santi vediamo la vittoria dell’amore sull’egoismo e sulla morte: vediamo che seguire Cristo porta alla vita, alla vita eterna, e dà senso al presente, ad ogni attimo che passa, perché lo riempie d’amore, di speranza. Solo la fede nella vita eterna ci fa amare veramente la storia e il presente, ma senza attaccamenti, nella libertà del pellegrino, che ama la terra perché ha il cuore in Cielo.
La Vergine Maria ci ottenga la grazia di credere fortemente nella vita eterna e di sentirci in vera comunione con i nostri cari defunti.


Buona Festa di Ognissanti! Pb. Vito Valente.
Per altri commenti vedi il post pubblicato lo scorso anno...


Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio?
Per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie,
né possedere carismi eccezionali.
E' necessario innanzitutto ascoltare Gesù
e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà.
L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità,
pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce,
la via della rinuncia a se stesso.
L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento
a seguire le stesse orme,
a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio,
perché l'unica vera causa di tristezza
e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.
Benedetto XVI, 1 Novembre 2006

Mt 5,1-12a
In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Il commento
La santità è una speranza invincibile incastonata nella forza infinita d'una chiamata. Tutti noi siamo stati raggiunti da un'elezione, messi a parte per per abitare la Terra. I santi ne sono gli eredi, e oggi siamo tutti dinanzi ad essa. Come a Giosuè, il Signore ripete anche a noi: «Forza e coraggio, perché Io sono con te ovunque tu vada». Forza e coraggio sono l'altra metà della povertà. Solo chi, come Giacobbe, ha conosciuto davvero la propria debolezza, può abbandonarsi con una sconfinata fiducia a Colui che lo chiama. Giacobbe è l’uomo della carne, peccatore sì ma con la primogenitura nel cuore; nella lotta con Dio ha conosciuto se stesso e per questo diviene Israele, «Forte con Dio». Giacobbe è immagine del santo, il più debole con il Più forte. Vive aggrappato a Colui che ha «legato» il demonio e ha sconfitto uno ad uno i sette Popoli pagani - immagine dei nostri peccati - che usurpavano l'eredità, e con Lui entra a prenderne possesso. 
Ogni aurora che ci accoglie è uno scrigno dal quale il Signore trae gli eventi nei quali ci dona la Terra. Come Giacobbe siamo poveri, ma proprio sperimentando i nostri limiti possiamo lasciarci trasformare nell’amore di Cristo per vivere crocifissi con Lui ovunque ci chiami. Questa speranza ci purifica e fa risplendere in noi la Gloria che è sul suo volto: con Lui poveri, afflitti, miti, affamati e assetati, puri, operatori di pace, perseguitati. In ogni beatitudine si ode l’eco dei passi degli umili, dei piccoli passati nella «grande tribolazione» della vita. Proprio qui hanno lavato le loro opere morte nel sangue dell'Agnello che le ha rese candide di Vita, per annunciare il Cielo promesso a ogni uomo. Celebriamo oggi la storia di un Popolo santo, il cammino della Chiesa nei secoli, la nostra storia. In famiglia, al lavoro, ovunque siamo immersi in un mistero d'amore e comunione che ci fa concittadini dei santi del Cielo e familiari di Dio. Che il Padre illumini gli occhi della nostra mente per «comprendere a quale speranza siamo chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi».



ALTRI COMMENTI

Omelia del Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano

Duomo di Milano, 1 novembre 2012




1. Da sempre conosciuti e glorificati
«Poiché quelli che egli [il Padre] da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo…  quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Epistola, Rm 8,29-30).
Con i verbi seguenti: conosciuti, predestinati, chiamati, giustificati, glorificati san Paolo descrive in questo modo, in questa sequenza di azioni del Padre, i connotati della santità oggettiva che noi abbiamo ricevuto e possiamo ricevere per la fede ed il Battesimo. Per il cristiano, in un certo vero senso, la santità non è un punto d’arrivo riservato a pochi, ma un punto di partenza di tutti. Un dono di Dio prima che una conquista dell’uomo.

2. Conformi all’immagine del Figlio suo
«Nei vari generi di vita  e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria» (Vaticano II, LG, n.41).
È questa conformità con Lui la misura della nostra santità, cioè della nostra pienezza umana, il conseguimento della felicità cui tutti aspiriamo. Infatti l’aggettivo con cui inizia la rassegna delle beatitudini, propostaci dal Vangelo di Matteo appena proclamata, in greco (makàrioi) indica un giudizio di valore sulla felicità. La traduzione letterale sarebbe: “Considerate felici i poveri, i perseguitati, coloro che piangono… perché…”.
Le beatitudini sono sorprendenti, sono un mondo rovesciato rispetto a quanto respiriamo in questi tempi, specialmente nella nostra Europa incamminata verso la decadenza. Chi considera felici quelli che piangono o i perseguitati? La felicità non teme il paradosso del sacrificio perché, da Gesù in poi, la croce è la condizione della resurrezione. Veramente tutto concorre al bene di coloro che sono chiamati secondo il suo disegno (cfr Epistola, Rm 8,18). E come ci dice la lettura dell’Apocalisse questo disegno è universale: è proposto a tutti. Ovviamente attende la risposta della tua libertà!
Così San Paolo nell’Epistola ci rafforza e ci consola: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Epistola, Rm 8,35). Amici, non abbiamo bisogno di censurare il dolore e le prove perché siamo inseparabili dall’amore di Cristo.
È il paradosso cristiano che brilla sul volto dei santi di cui è ricca la nostra gloriosa Chiesa ambrosiana, dei tanti sugli altari e dei tantissimi santi anonimi che ho visto con i miei occhi durante le visite nelle parrocchie, e nei luoghi della sofferenza e della cura (per citare solo gli ultimi due esempi in ordine di tempo: l’Istituto dei tumori e l’Opera San Francesco). Tanta infelicità segnata talora da malinconia e depressione che sembra attanagliare il sofisticato uomo post-moderno non deriva forse dall’aver smarrito l’umanissima strada della santità? Una strada che non chiede necessariamente eroismi ma solo realistico affronto dell’esistenza quotidiana in Cristo, con l'aiuto che la Chiesa ci dona mediante i Sacramenti in modo particolare nella Confessione. «Hanno lavato le loro vesti, rendendole candide» nel sangue di Cristo (cfr Lettura, Ap 7,14). Si sono appunto conformati a Lui. La santità è la strada della riuscita: non solo di quella finale ma di quella presente. Essa infatti dà senso (significato e direzione) al nostro pellegrinaggio terreno.

3. Confessori della fede
La santità, la riuscita domanda la professione nel quotidiano della nostra fede in Cristo Gesù, cioè l’abbandono fiducioso a Lui e a quanto ci ha insegnato con le sue parole e con i suoi gesti.
Benedetto XVI ha precisato che la professione della fede cristiana è più propriamente confessione perché «nella confessione della fede è implicata anche la disponibilità di dare la vita, di accettare la passione. … Chi fa questa “confessio” dimostra che veramente quanto confessa è più che la vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita» (Benedetto XVI, Meditazione nel corso della Prima congregazione generale del Sinodo, 8 ottobre 2012). In questo momento è impossibile non pensare all’impressionante confessione della fede che ci viene da tanti nostri fratelli in Siria, in Nigeria e nei paesi più martoriati dalle guerre e dal terrorismo. Anche per il loro sacrificio il Signore possa concedere a quei popoli la riconciliazione e la pace e ai nostri stanchi popoli europei quella speranza e fortezza indispensabile per affrontare la fatica dei tempi che ci sono dati da vivere: penso in modo particolare e sono vicino a quanti stanno perdendo il lavoro, espressione fondamentale di sé, per il sostentamento personale e della propria famiglia. Per questo nell’Anno della fede noi cristiani siamo chiamati ad uno scatto di testimonianza personale e comunitaria in tutti gli ambienti dell’umana esistenza.

4. Pellegrini verso la Gerusalemme celeste
«Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre… verso la quale noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino». Così ci farà pregare il Prefazio.
La sapienza della Chiesa nostra madre ha fatto precedere nel Calendario liturgico la Solennità di tutti i Santi alla commemorazione di tutti i defunti.
È un modo semplice e diretto per aiutarci a superare il timore della morte che, come dice la Lettera agli Ebrei, ci tiene talora schiavi. Non è più il caso, Gesù l’ha vinta per noi. Così il rapporto con i nostri cari già passati all’altra riva, che visiteremo nei cimiteri, pregando, non deve essere un nostalgico sguardo al passato perché è scambio vivo di affetti che si esprime nel presente e ci accompagna al comune destino di felicità e di santità che ci attende se con umiltà cerchiamo di vivere sulla strada dei comandamenti. Essa è resa per noi luminosa da Gesù che nella Sua esistenza terrena ha compiuto le beatitudini.
Davvero la patria comune che attende ogni uomo che la persegue nella conformità a Gesù. Essa è davvero la luce di Dio (la tradizione dei Padri l’ha sempre chiamata Paradiso): per questo possiamo procedere con sicurezza, senza paura, confortati dalla fede dei santi ed invocando con umiltà, con un'invocazione che sentiamo ancor più vera in questo anno della fede: «Credo Signore; aiuta la mia incredulità» (cfr Mc 9,24). Vinci la mia resistenza alla fede e fammi assumere con semplicità di cuore tutto cio che ci doni per la riuscita della mia vita. Questa preghiera portiamo nel cuore e la vogliamo fare nostra: per tutti, specialmente per quelli che sono nella prova.

2. CONGREGAZIONE PER IL CLERO
Ciò che la Rivelazione cristiana ha introdotto nel mondo non è appena un pensiero, più convincente e coerente di ogni altro pensiero, sebbene, in effetti, un nuovo pensiero abbia cominciato, con il Cristianesimo, ad attraversare e vivificare la storia; non è soltanto un codice comportamentale, più completo ed esigente di ogni altro sistema etico, sebbene i santi, che oggi veneriamo in modo speciale, abbiano vissuto eroicamente quelle virtù, che tutti gli uomini, di ogni provenienza e cultura, riconoscono ed ammirano; non è solo una nuova raccolta di testi sacri, seppure i libri del Nuovo Testamento costituiscano un patrimonio per l’umanità intera.

No! Ciò che il Cristianesimo ha introdotto nel mondo è una nuova “realtà”, una nuova – perché prima impensabile – appartenenza a Dio, una “paternità” dell’Eterno nei confronti di noi uomini, come abbiamo ascoltato nella seconda Lettura: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1). I santi, che oggi la Chiesa ci invita a contemplare nella loro beatitudine, sono quei nostri fratelli uomini che hanno accolto, fino in fondo, il dono di questa paternità, riconoscendo in essa l’intero senso del loro esistere, il luogo dell’autentica libertà, il fine cui è chiamato ogni uomo.

Ma cosa significa essere “figli di Dio”? E in che senso questa figliolanza degli uomini e questa paternità di Dio costituiscono una novità? Dio non è, forse, sempre stato “padre” degli uomini, indipendentemente dalla loro appartenenza o meno alla Religione Cristiana? Si può, forse, affermare che alcuni uomini non sono figli di Dio?

Anzitutto, occorre premettere che l’“idea” stessa della paternità di Dio – idea che sembra ora costituire un dato comunemente accettato – è stata introdotta, nella storia, proprio dalla Rivelazione giudeo-cristiana.

In secondo luogo, è doveroso distinguere, in questo senso, tra due generi di figliolanza nei confronti di Dio. Una è la figliolanza – direbbe San Paolo – “adottiva” (cf. Rm 8,15), introdotta nel mondo da Cristo e dalla Sua grazia; vi torneremo tra poco. L’altra è la figliolanza in senso creaturale: poiché l’uomo non si dà l’essere da se stesso, ma lo riceve da Dio, egli è creatura. In quanto creatura, l’uomo riconosce nella Volontà di Dio – Dio decide liberamente di crearlo – la propria “origine” e, così, può rivolgersi a Lui con affetto filiale. Ma tra Dio e l’uomo permane, al contempo, una distanza “ontologica”, una certa irriducibile “estraneità”, che la tradizione del pensiero filosofico ha chiamato “trascendenza”: Dio, infatti, è eterno, increato e creatore,  puro spirito, immutabile; l’uomo, invece, è creato nel tempo, fatto di materia e soggetto alla corruzione. In questo senso “lato” di paternità, ogni uomo può rivolgersi a Dio, al Dio che sappiamo Trino ed Unico, come ad un Padre.

La figliolanza cristiana, invece, è anzitutto un “fatto”, che accade, per natura, nella Persona di Gesù Cristo e del quale, noi battezzati, siamo resi partecipi: in Lui, vero Dio e vero uomo, quella distanza incolmabile tra il Creatore e la creatura viene superata; l’uomo Gesù, nato da Maria di Nazareth e accudito da Giuseppe il falegname, è il vero Figlio di Dio “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”. Questa unione tra Dio e l’uomo, che in Cristo accade per natura, a noi è comunicata per la grazia dello Spirito Santo, il quale ci trasforma, rendendoci Tempio della Sua Gloria, figli nell’Unico Figlio di Dio, e introducendoci, con Cristo, nel Mistero della Santissima Trinità.

In questa divina figliolanza, che Cristo ci dona, sta la nostra distanza dal mondo, dal suo modo di pensare e di agire, dai suoi ideali, quella distanza rappresentata dalle Beatitudini evangeliche e che ancora San Giovanni esprime, quando scrive: «Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto Lui» (1Gv 3,1). Entrambe queste figliolanze – quella creaturale e quella adottiva – sebbene essenzialmente differenti, sono doni di Dio, verso i quali nessun uomo può vantare alcun diritto, ma che riceve e accoglie con gratitudine.

Durante questa vita terrena ci è data, così, la possibilità di incrementare questa nuova e straordinaria appartenenza a Dio, corrispondendo sempre più al Suo Amore infinito e aderendo, in ogni nostra scelta, alla Sua divina Volontà; oppure, per contro, ci è data la possibilità di incrementare l’appartenenza al mondo, ai suoi ideali di autonomia, di prestigio e di potere. Questa, però, è destinata a finire presto e a lasciarci nudi, per la vita eterna; quella invece, inizia in questa vita, e continua gloriosa in Paradiso, dove saremo: «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9).

Domandiamo alla Beata Vergine Maria, figlia del suo Figlio, Regina di tutti i Santi, la grazia di incrementare i tesori del Cielo e con Lei godere, ora e sempre, la gioia vera, che non conosce tramonto. Amen!

* * *

3. Enzo Bianchi

In questi ultimi decenni sono stati proclamati tanti santi e beati: mai c’è stata nella Chiesa una stagione così ricca di canonizzazioni, segno anche di un’estesa “cattolicità” raggiunta dalla testimonianza cristiana. Eppure molti, all’interno e attorno alla Chiesa, hanno la sensazione di non conoscere dei santi “vicini”, di non riuscire a discernere “l’amico di Dio” – questa la stupenda definizione patristica del santo – nella persona della porta accanto, nel cristiano quotidiano. Questo forse è dovuto anche al fatto che viviamo in una cultura in cui si privilegia l’apparire, un mondo in cui – come ha detto qualcuno – “anche la santità si misura in pollici”: molti allora cercano non il discepolo del Signore, ma l’ecclesiastico di successo, l’efficace trascinatore di folle, l’opinion leader capace di parole sociologiche, politiche, economiche, etiche, la starmediatica cui si chiede una parola a basso prezzo su qualsiasi evento, facendolo apparire il più eloquente a prescindere dalla consistenza della sua sequela del Signore.
Ma è proprio in questa ambigua ricerca della santità attorno a noi che ci viene in aiuto la festa di tutti i santi, la celebrazione della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, al cuore dell’autunno, dopo tutte le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, la Chiesa ci chiede di contemplare la mietitura di tutti i sacrifici viventi offerti a Dio, la messe di tutte le vite ritornate al Signore, la raccolta presso Dio di tutti i frutti maturi suscitati dall’amore e dalla grazia del Signore in mezzo agli uomini. La festa di tutti i santi è davvero un memoriale dell’autunno glorioso della Chiesa, la festa contro la solitudine, contro ogni isolamento che affligge il cuore dell’uomo: se non ci fossero i santi, se non credessimo “alla comunione dei santi” – che non certo a caso fa parte della nostra professione di fede – saremmo chiusi in una solitudine disperata e disperante. In questo giorno dovremmo cantare: “Non siamo soli, siamo una comunione vivente!”; dovremmo rinnovare il canto pasquale perché, se a Pasqua contemplavamo il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie della risurrezione, noi contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. A Pasqua cantavamo che la vite era vivente, risorta; oggi la Chiesa ci invita a cantare che i tralci, mondati e potati dal Padre sulla vite che è Cristo, hanno dato il loro frutto, hanno prodotto una vendemmia abbondante e che questi grappoli, raccolti e spremuti insieme formano un unico vino, quello del Regno.
Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, noi siamo in comunione gli uni con gli altri, Chiesa pellegrinante con Chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore. Oggi dalle nostre assemblee sale il profumo dell’incenso, segno del legame con la Chiesa di lassù, la Gerusalemme celeste che attende il completamento del numero dei suoi figli ed è vivente, gloriosa presso Dio, con Cristo, per sempre.
Ecco il forte richiamo che risuona per noi oggi: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. E’ questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza a sempre nuove idolatrie, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore, nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile.
Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la Chiesa: “Noi non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni” (Ebr 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio. In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno. E la loro vicinanza è davvero capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro, avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre” (Lc 22,42). Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo anche i santi che ancora operano sulla terra perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).


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 APPROFONDIMENTI

La presenza dei santi nella nostra vita

di don Divo Barsotti


Ritiro a Viareggio, 23 luglio 1966
La memoria dei santi nella Liturgia

I primi giorni di questa settimana, la Chiesa ha unito la celebrazione di tre grandi giganti della carità, vissuti quasi nel medesimo tempo nel XVI e XVII secolo: san Vincenzo de' Paoli, san Camillo de' Lellis e san Girolamo Emiliani.
Ora, da ieri, un altro ciclo di festività è iniziato, un ciclo di una bellezza e di una grandezza ancora maggiore. Sono i discepoli immediati di Gesù che noi celebriamo. Entriamo in comunione con Maria Maddalena, con Apollinare e fra pochi giorni con Giacomo Apostolo.
Quali grandi figure la Chiesa ci propone! E com'è grande la gioia per noi di vivere in questi giorni questo legame di affetto con coloro che hanno conosciuto il Signore, lo hanno amato, lo hanno seguito, sono stati a lui uniti con affetto profondo e non l'hanno abbandonato nemmeno nella morte!
Maria Maddalena

Ieri la grande figura di Maria Maddalena. Dopo la Vergine santa, nessun'altra figura femminile, nei Vangeli, viene posta così in risalto come la peccatrice di Magdala e ancora di più perché la Liturgia della Chiesa unisce la figura di lei, la peccatrice, con la sorella di Marta e vede in lei la figura della sposa: vede in lei come il tipo dell'antico Israele che, dopo avere abbandonato il Signore, ora ritorna e si abbandona al suo amore. E il Signore solleva quest'anima dall'abisso della colpa e la unisce strettamente alla sua missione; cosicché la liturgia bizantina parla di Maria Maddalena come di "uguale agli apostoli".
Ma si può dire che sotto certi aspetti è più grande degli apostoli stessi, perché gli apostoli sono a servizio della Chiesa, Maria Maddalena invece in sé la rappresenta tutta. Ecco perché è a lei che Gesù appare per primo dopo la sua Resurrezione gloriosa.
Dai Vangeli, noi non sappiamo se il Cristo sia apparso alla Madre; dobbiamo supporre di sì, ma nessuno ce lo dice. Sono congetture, nulla di più. Ma sappiamo con certezza che egli è apparso a Maria Maddalena. E sappiamo anche che è Maria Maddalena che ha ricevuto la missione – è una cosa fra le più grandi del Vangelo – di andare ad annunziare la Resurrezione agli apostoli stessi. Gli apostoli sono testimoni della Resurrezione del Cristo a tutte le genti, ma testimone della Resurrezione agli apostoli è Maria, una peccatrice.
Quale cosa ci potrebbe dire maggiormente l'immensa misericordia di Dio che, sollevando dall'abisso della colpa una donna, la fa strumento di una sua missione, la più grande di tutte dopo quella di Nostro Signore, naturalmente, e quella di Maria, sua Madre?
Maria Maddalena è uguale agli apostoli, più grande anche degli apostoli per ricevere questa missione, che è come la missione che conferisce agli apostoli il contenuto della loro predicazione futura. Saranno testimoni della Resurrezione, ma se essi sono testimoni della Resurrezione alle genti, testimone della Resurrezione del Cristo agli apostoli è questa peccatrice che donando tutti i suoi peccati a Gesù riceve in cambio l'amore infinito di Dio che la solleva fino a sé per unirsi a lei.
Maria Maddalena è il tipo della Chiesa che si volge ora al suo Dio e accoglie, senza merito alcuno, la grazia di una redenzione che non aveva sperato.
Sant'Apollinare

Ieri si celebrava la festa di Santa Maria Maddalena, oggi di sant'Apollinare e anche per quanto riguarda Apollinare il Nuovo Testamento ci dà indicazioni precise. Ricordate? Ne parlano gli Atti degli Apostoli (cfr. At 18, 24-28) e ne parla soprattutto la Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi. «Alcuni dicono – dice san Paolo – io sono di Cefa, io sono di Apollo, io sono di Paolo... » (cfr. 1 Cor 1, 12). Vedete, lo mettono al posto degli apostoli prima di Paolo, e anche negli Atti degli Apostoli si parla di questo Apollo come di uno che ha la parola travolgente. È quello forse fra tutti i discepoli immediati del Cristo che sapeva parlare meglio degli altri, con un'eloquenza più ricca, più travolgente. San Paolo, infatti, dice di sé, nella Lettera ai Corinzi, che la sua presenza nella comunità non è gradita e la sua parola troppo umile per dei sapienti della Grecia.
Era grandissimo Paolo, indubbiamente, specialmente quando scriveva, ma forse nella sua predicazione non era attraente. Anche l'apparenza non era piacevole: era piuttosto basso e malato. La sua eloquenza era quella di un asiatico – era nato a Tarso, in Cilicia – e poteva sapere il greco, ma forse non tanto bene. D'altra parte le Lettere stesse comprovano che era un vulcano, ma non aveva padronanza piena della retorica greca. Nei confronti di Paolo, Apollo è un predicatore più eloquente, più fastoso, e tutte le folle rimanevano incantate dalla sua predicazione.
La Chiesa non lo celebra per queste doti che potrebbero essere soltanto esteriori, e indubbiamente in gran parte lo erano, perché non è certo che Apollo sia un teologo come Paolo o come Giovanni che ci ha lasciato il Quarto Vangelo. Comunque è uno dei più grandi tra i primi discepoli, dopo gli apostoli.
Vescovo di Ravenna

Noi celebriamo in lui il primo vescovo di Ravenna. La Tradizione ci dice che morì a Ravenna; non sappiamo quanto di questo sia storicamente certo, non abbiamo delle tradizioni che possano risalire così indietro nei secoli da assicurarci che Apollinare sia morto a Ravenna. Probabilmente siccome Ravenna era una grande città, la città dell'Esarcato, la città che rappresentava l'impero orientale in Italia, ha voluto accaparrarsi, come hanno fatto tante altre Chiese, il titolo di una origine apostolica, e non potendo pretendere di essere stata fondata dall'Apostolo, ha detto di essere stata fondata da Apollo.
A noi non interessa sapere né come è morto, e non lo sappiamo, né dove è morto, ed anche questo non possiamo dire di saperlo: a noi interessa che oggi si abbia presente questa figura perché in lui noi dobbiamo celebrare i discepoli immediati degli Apostoli, coloro che non solo sono vissuti in intimità coi Dodici, ma anche probabilmente hanno conosciuto Gesù, lo hanno seguito, lo hanno amato.
Le pietre angolari della Chiesa

Ebbene questi discepoli immediati degli apostoli sono tanti che oggi, praticamente, non li conosciamo più, se non per il nome, e molti altri nemmeno per il nome; ma a loro dobbiamo la nostra fede, dopo i Dodici. La Chiesa è fondata su queste pietre angolari, i Dodici apostoli, e anche di loro sappiamo ben poco, tranne qualcosa di Pietro, molto di Paolo e pochissimo di Giovanni, Per il resto, dopo l'Ascensione di Gesù, se ne perdono le tracce. La Tradizione dice che uno è andato a finire nell'Armenia, quell'altro in India, ma nulla di seriamente certo sappiamo dei Dodici; rimangono i nomi.
E guardate, questo è un insegnamento immenso per la vita spirituale cristiana: le cose più grandi di Dio sono costruite nell'umiltà. Sono appena dei nomi, eppure tutto dobbiamo agli Apostoli dopo Nostro Signore.
Così, quanti saranno i santi nella Chiesa di oggi che rimangono nascosti! Nessuno conoscerà il loro nome, mai, se non in Cielo, e tutto forse dipende da loro: la salvezza delle anime, la fecondità del ministero sacerdotale, la grandezza della dottrina. Forse è qualche povera suora messa in castigo dalla superiora, messa in disparte, nemmeno considerata dalle sue consorelle; è forse qualche malato abbandonato da tutti che vive per anni e anni nel fondo di un letto, nella semplicità e nell'abbandono a Dio, e che non è nemmeno visitato dal suo parroco che ha molte altre cose da fare. Forse da queste anime è retta anche oggi la Chiesa. Come la Chiesa trova fondamento su dodici nomi – appena dodici nomi, perché non sappiamo nulla di più – così anche oggi sono queste umili anime nascoste che reggono il mondo e sostengono la Chiesa.
Trentasei colonne per ogni generazione reggono il mondo

Vi è nella mistica ebraica, e anche nella mistica islamica, una dottrina nella quale si dice che il mondo crollerebbe se non ci fossero, per ogni generazione, trentasei colonne che lo reggono. E questo lo diciamo anche noi cristiani: se il mondo sussiste – perché nessuna cosa ci assicura che domani si leverà il sole – se il mondo sussiste, probabilmente lo dobbiamo ad anime che vivono nella fedeltà a Dio una vita di preghiera e di carità, e il mondo non ne sa nulla ma Dio le conosce. Tra queste anche Apollo, tra queste anche Sila, Timoteo, Tito... Che sappiamo noi? E tanti altri di cui non conosciamo nemmeno i nomi.
Una delle cose che a me piace di più nel leggere, per esempio, le Lettere o anche il libro degli Atti degli apostoli, è tutta quella filza di nomi che non sono altro che nomi. Sono al termine per esempio, della Lettera ai Romani: nomi, nomi, nomi e nessun'altra cosa che nomi (cfr. Rom 16, 1-23). Così anche altre volte in altre lettere.
Eppure gli apostoli vivevano in comunione con tante anime! Noi non ne sappiamo nulla, ma da loro la Chiesa è nata, per loro la Chiesa vive.
Come dobbiamo cercare di vivere in comunione anche con queste anime che rimangono sconosciute!
San Giacomo

Sarà poi, fra due giorni, la festa di san Giacomo. Con quale gioia dovremmo celebrarla! È Giacomo l'Apostolo, fratello di Giovanni, da non confondersi con Giacomo, fratello di Gesù. Sono due figure di una particolare grandezza. Giacomo della famiglia del Signore, strettamente parente del Signore – non fratello vero e proprio, perché Maria non aveva che un figlio, figlio di Alfeo e di Maria di Cleofa – era cugino di Gesù. Sappiamo ben poco di lui.
Nei primi tempi del Cristianesimo si opponevano Giacomo e Paolo. Giacomo era il capo della Chiesa giudaico-cristiana. Paolo, invece, era il capo, riconosciuto da tutti, delle Chiese sorte fra i Gentili. Pietro, che è al di sopra di tutti e due, praticamente è più nell'ombra. Si sentiva la presenza dominante di Giacomo a Gerusalemme e di Paolo nelle Chiese dei Gentili. E i rapporti fra loro non erano molto cordiali. Né Paolo poteva capire Giacomo, né Giacomo poteva capire Paolo.
Anche questo è meraviglioso. Non vi sembra che sia meraviglioso che Dio giochi con gli uomini? Naturalmente alla carità non mancavano, anche se non si capivano. Così Dio costruisce la Chiesa, con elementi opposti che non sanno capirsi fra di loro, ma tutti vivono per la gloria di Dio e per il servizio delle anime.
Di Giacomo si dovrebbe parlare lungamente perché è un'immensa figura, ma la Chiesa non ne parla. Lo mette però tra gli apostoli benché non sia dei Dodici. Era il primo Vescovo di Gerusalemme, il fratello di Gesù. Dopo la morte di Gesù, la famiglia del Signore, che durante la sua vita si era tenuta in disparte come se non volesse accettare la fede del Cristo, dopo l'Ascensione entra esplicitamente, totalmente, nella scia del Risorto. E subito il capo di questa famiglia viene equiparato agli apostoli, anzi ottenne la supremazia della Chiesa di Gerusalemme che è la prima Chiesa cristiana. Morirà poi nel 62 gettato giù dal pinnacolo del Tempio e finito a bastonate e lapidato. Però anche tutto il popolo giudaico, non solo i cristiani, lo venerava come un santo. Viveva sempre nel Tempio, nella preghiera. Troppo vi sarebbe da dire di questo santo, ma io voglio mettere in luce anche gli altri santi ricordati.
Seconda meditazione
I primi santi, "prototipi" insuperabili

Abbiamo parlato stamani delle feste che celebriamo in questi giorni. Mi sembra che l'argomento richieda ancora che noi ci fermiamo, che consideriamo più attentamente che cosa queste feste vogliono dire per noi. Io debbo dire la verità: a me piacciono sempre le feste dei santi.
Voglio sentirmi in compagnia con questa mia grande famiglia dalla quale mi sento accolto, nella quale mi sento amato. Soprattutto, però, quello che in modo particolarissimo mi commuove e mi sembra che leghi il mio cuore, è proprio la presenza di queste prime anime che hanno conosciuto il Signore. E questo per tanti motivi.
Il primo è che la santità cristiana ha una sua norma oggettiva nei rapporti che il Cristo ha avuto con alcune anime in particolare. Con questo voglio dire che i santi che si sono succeduti durante i secoli ripetono in fondo il carisma e la santità di Paolo, di Pietro, di Giovanni; di Marta, di Maria Maddalena, di san Giuseppe, della Vergine. Naturalmente in lontananza anche infinita, se volete, ma mantengono sempre i carismi di santità di quelli che hanno conosciuto Gesù, perché egli è Nostro Signore e rimane per sempre.
Ora, se il Signore nella sua vita nascosta e pubblica, nella sua Morte di croce, è di per sé la causa esemplare di tutta la vita dell'universo, è chiaro che quello che egli ha vissuto nei suoi rapporti con gli uomini si ripete e continua lungo i secoli nei rapporti che Cristo stabilisce con le anime che vivono durante questo fluire del tempo.
Si rende presente la storia del Vangelo

In ognuno di noi si rinnova in parte o la funzione di Maria, o il carisma di Pietro, o la missione di Paolo, o la contemplazione di Giovanni; magari l'amore fervido di Maria Maddalena, l'impegno di lavoro umile disinteressato pieno di affetto di Marta; e anche l'ammirazione, l'acclamazione della folla.
Voi lo vedete nelle feste. Per esempio: che cosa vi impedisce di rivedere e di rivivere, anche in una grande festa popolare, la commozione di Gerusalemme quando Gesù entra in città cavalcando un asinello (cfr. Mt 21, 7 e paralleli)? È chiaro che in una festa popolare, sia che si faccia in una grande città sia che si faccia in un piccolo paese, è quella festa che si rinnova, è quella festa che in qualche modo si fa presente. Noi dobbiamo rivivere questo.
È sempre il Vangelo; oltre il Vangelo non c'è nulla. Si può vivere quel medesimo atto, quel medesimo mistero in una partecipazione più o meno piena, più o meno intensa, ma è sempre la medesima. Si può amplificare se invece di Gerusalemme è New York, o ridurre se invece è il paese di Massarosa [comune in provincia di Lucca], ma è quella medesima festa e anche la reazione della folla è la stessa. Chi lo acclama, chi lo bestemmia, chi dice: «Ma che cosa succede qui? Impediscono anche il traffico». È la medesima cosa, la medesima cosa!
Ora proprio questo, ecco, è il primo motivo perché mi commuovo quando celebro le feste di coloro che hanno visto il Signore, che lo hanno conosciuto, che lo hanno seguito più da vicino: io mi sento particolarmente legato a loro. Anche se conosco soltanto il loro nome, però so che la mia vita è legata agli apostoli, alla Vergine Maria, a Maria Maddalena, a Maria di Betania, a Marta. Io lo so e lo sento che la mia vita è particolarmente legata ai fratelli del Signore.
Noi come i primi discepoli

E rivedo nei miei atteggiamenti o negli atteggiamenti degli altri, il medesimo atteggiamento del malato che chiede un miracolo, l'entusiasmo della folla che lo acclama; oppure la capziosa volontà di chi vuole cogliere in fallo il Maestro, vuole giudicarlo o criticarlo, o vuole metterlo in cattiva luce.
E alcune volte rivediamo, nell'atteggiamento degli altri, qualche cosa che somiglia all'odio dei farisei, dei sacerdoti contro Gesù. E purtroppo qualche volta rivediamo e risentiamo in noi qualche cosa di quello che fu il timore degli apostoli quando si allontanarono da Lui. E se non proprio il tradimento, se non proprio l'abbandono, una certa tiepidezza nel seguirlo, una certa paura ad abbandonarci fino in fondo alle sue esigenze di amore. Anche noi siamo pavidi come gli apostoli: anche noi come gli apostoli, tante volte, per la nostra fedeltà a lui, per esserci a lui donati, vorremmo qualche cosa in cambio.
Tra due giorni noi leggeremo nel Vangelo: «Di' a questi due figli miei che uno sia alla tua destra e l'altro sia alla tua sinistra» (cfr. Mt 20, 21). Chi sa che anche noi qualche volta non siamo stati tentati da una certa ambizione segreta, da una certa vanità, da una certa gelosia, nei confronti del Signore! Lo vorremmo tutto per noi, e in fondo non dico che ci dispiaccia che egli ami altre anime, ma che le ami più di noi non ci piace mica troppo. Così abbiano anche noi gli stessi sentimenti mediocri, meschini, che avevano quelli che vivevano con lui; e come ebbe pazienza con gli apostoli così l'ha con noi. Come non si scandalizzava, come non rigettava da sé la loro debolezza, così non rigetta nemmeno noi, così come siamo.
I santi che sono vissuti con Gesù sono più vicini a noi

Io veramente, ecco, nella festa di questi che hanno vissuto con lui, mi sento più vicino anch'io al Signore, perché mi ritrovo in queste persone. Non solo sento che essi intercedono per me, sento che essi mi conoscono e mi amano. Mi ritrovo in loro più di quanto non possa trovarmi in sant'Ignazio di Loyola, in san Francesco d'Assisi o anche in san Giovanni Bosco. Eppure questi sono più vicini a me nel tempo, ma io mi sento più vicino a quelli che storicamente sono più vicini al Signore. Ed essere più vicini al Signore li fa veramente norma per tutti i tempi mentre, ad esempio, san Giovanni Bosco non è norma per tutti i tempi.
Senti tu san Girolamo come norma della tua vita? Lo senti lontano da te. Certo che è santo, certo che anch'egli ci ama, certo che anch'egli intercede per noi, ma non lo sentiamo vicino così come possiamo sentire vicino a noi la Vergine pura o Maria di Magdala; come sentiamo Pietro, come sentiamo Giacomo o Giovanni. E magari anche Marta, e magari anche le figure secondarie del Vangelo che pure sono così vive perché ricevono vita dal fatto che vivono nell'ombra del divino Maestro, per il fatto che vivono un rapporto d'amore, di umiltà, di servizio, nei riguardi di Colui che è il Figlio di Dio.
In comunione con i santi per esserlo con Cristo

Ecco dunque: è una folla alla quale io mi sento vicino. E com'è bello entrare in questa folla, sentirci oggi, sì, discepolo di Apollo, o di Paolo, o di Cefa; non per contrapporre l'uno all'altro, ma per entrare in questa folla di persone che la Chiesa giorno per giorno ci fa presente con le sue feste, perché giorno per giorno, attraverso di loro, più facile e più normale e, direi, più naturale, divenga per noi l'entrare anche in comunione col Cristo, il vivere con lui.
Di fatto, la nostra comunione col Cristo è la comunione col Cristo risorto. Ma come la viviamo noi, che viviamo nel tempo, se non rinnovando i misteri della sua vita nascosta e anche quelli della sua vita pubblica? Dal momento che io vivo quaggiù in terra e devo insegnare a scuola, andare in laboratorio, stare in famiglia; dal momento che viviamo una vita che è simile a quella di Nostro Signore quando viveva a Cana di Galilea, a Nazareth, a Gerusalemme, per unirci più intimamente a lui rinnovando i misteri della sua vita, dobbiamo non soltanto vivere una comunione col Cristo, ma sentirci anche compagni degli apostoli mentre si va pellegrinando anche noi attraverso i campi o per le strade. Vuol dire per noi essere compagni di Marta mentre siamo fra le pentole in cucina e dobbiamo sbucciare le patate, mettere la carne sul fuoco. E ci sentiamo fratelli di Lazzaro e di Maria Maddalena, odi Maria di Betania quando lo accogliamo nella nostra casa, quando sentiamo la sua tenerezza di amico verso di noi, quando egli viene a noi scegliendoci fra mille per riposare nella nostra casa, per vivere con noi un'intimità di pace e di gioia. Ecco, proprio questo mi piace: non vivo mai la mia comunione col Cristo che vivendo anche la mia comunione con tutta questa folla di suoi testimoni, di suoi amici, di suoi fratelli; degli apostoli, dei discepoli, e anche di coloro che non lo amavano come il fariseo Simone, gli scribi che scettici stanno a vedere... Si rinnova perpetuamente quella vita, si fa presente in ogni condizione e in ogni luogo e in ogni tempo quello che l'Evangelo ci ha tramandato.
Tutta la storia del mondo è compresa nel Vangelo

Davvero tutta la storia del mondo è compresa in quelle poche pagine. Non c'è una storia più grande pur essendo così umile in sé; tanto umile che la storia politica delle nazioni non la ricorda nemmeno. Quando hai studiato la storia romana non c'era nulla di Maria di Magdala, non c'era nulla di Nazareth, di Cana di Galilea: eppure tu senti che tutta la storia non è che quello, il Vangelo, il Vangelo che sempre si rinnova, i misteri di questa vita del Signore che sono sempre presenti perché in ognuno di noi si ripetono quelle scene, quei rapporti, si vive quella medesima vita.
Noi dobbiamo abituarci a vivere questo. È questa la realtà della nostra vita. Attraverso tutti i segni, in fondo, non si vive altra realtà. Che cosa è la nostra vita in senso definitivo se non il nostro rapporto con Dio? Ma il nostro rapporto con Dio è possibile senza il Cristo? È nel Cristo che noi viviamo la nostra unione con Dio. Pertanto il Vangelo è veramente la nostra vita; noi ci sentiamo lì viventi. Le cose, gli avvenimenti, non ripetono che quello, non sono che quello, non sono che quella medesima Presenza.
II Vangelo è la nostra vita

E questo dobbiamo ricordarci: che non è soltanto la Messa che fa presente il Mistero della Croce, non è soltanto la Messa che fa presente la Resurrezione di Gesù. Tutta la vita degli uomini, tutti gli avvenimenti della storia, la vita anche privata di ogni creatura fa presente sempre di nuovo quel medesimo Mistero.
Si è detto tante volte che, prima che Gesù nascesse, tutta la storia degli uomini, tutti gli avvenimenti del mondo non erano che una figura, una prefigurazione, una profezia, un annuncio di quello che sarebbe avvenuto. Così, tutto quello che avviene dopo questa morte e Resurrezione del Cristo non fa che ripetere, e fa nuovamente presente, sotto segni più o meno diversi, sempre quel medesimo mistero.
Ti senti tu Maria Maddalena? Devi sentirti questo. Mi sento io Apollo o Sila o Pietro o Giovanni? Debbo sentirmi questo. Per imparare ad essere poi come Gesù, a divenire una cosa sola con lui, intanto devo essere il suo amico e il suo discepolo, debbo essere ora o la sposa o la madre, debbo essere ora o colui che lo serve, come Marta, o il fratello suo.
I rapporti sono già stabiliti, sono quelli del Vangelo e non c'è altro rapporto. Ci sono i fratelli, ci sono i discepoli, ci sono gli apostoli, ci sono gli amici, c'è la serva, c'è la sposa, c'è la Madre... Ci sono i nemici, ci sono gli scettici, ci sono gli indifferenti... In che rapporto sei tu col Cristo?
Chi siamo noi?

Un giorno Nostro Signore domandava agli apostoli: «Chi dite che sia il figlio dell'uomo?» (Mc 8, 29). Ma ora il Signore dice a noi: «Voi chi siete?». Non dobbiamo soltanto domandare chi è Dio: chi è lui lo sappiamo. Quello che è da domandarci è chi siamo noi. Siamo i discepoli, gli amici, i fratelli? Siamo gli apostoli? Siamo la serva, la madre, la sposa? Siamo la peccatrice che implora il perdono? Siamo il malato che è guarito da Lui? Siamo la folla che ascolta? Siamo la folla che lo bestemmia? Chi siamo noi? Come dobbiamo domandarcelo!
Ecco, se ce lo domandiamo ci ritroviamo subito. Lui è il fratello, con lui siamo andati a passeggio, insieme con Apollo, con Giacomo, con Maria Maddalena o con Marta. E con Marta indaffarata, dobbiamo ascoltare le parole così belle di Gesù che dice, con tanta bontà: «Marta, Marta, ma perché te la prendi tanto? Ma lascia stare, non ti preoccupare tanto, non essere tanto ansiosa!» (cfr. Lc 10, 41).
Così per noi. Ognuno di noi non vive che una scena; ogni giorno si cambia la scena ma è sempre quello che si vive: il Vangelo.
Ecco perché dobbiamo amare Marta, ecco perché dobbiamo sentirci vicini a Maria Maddalena, ecco perché dobbiamo sentirci sempre figli di Maria, della Vergine pura; ecco perché dobbiamo con Pietro, Giacomo e Giovanni salire sul monte per vedere Gesù trasfigurato, o cercare di essere vicini a lui nella sua Passione. Egli ci ha chiamato in disparte con sé.
Chi siete voi? Siete questo. Dovete rendervene conto.
Ascoltate il Signore! Non è il Signore che vi parla? Perché altrimenti non mi ascoltereste mica! I discepoli erano abituati a questa parola, ascoltavano sempre volentieri anche se prevedevano che cosa il Signore avrebbe detto. E voi siete come i discepoli che ascoltano. Che cosa vi dice stamani? Senso di sorpresa e di intimità nello stesso tempo, senso di devozione e di amore: per lui non per altri, perché il nostro rapporto è con lui solo, attraverso dei segni. Attraverso tutti i segni non è che il Signore. Questo giustifica non poco l'amore che dobbiamo avere a tutti i testimoni del Cristo.
San Giacomo il Maggiore

Fra due giorni noi celebriamo la festa di san Giacomo il Maggiore, il fratello di san Giovanni, quello che è stato il primo apostolo martire.
Vorrei dire due parole su questo san Giacomo perché merita parlarne. Ma che cosa sappiamo di lui? Sappiamo ben poco. Nel Vangelo se ne parla di più che degli altri apostoli, ma sappiamo poco ugualmente. È morto quasi subito dopo l'Ascensione. La Lettera di Giacomo, è composta da Giacomo il Minore, il fratello del Signore. Quello che possiamo dire di san Giacomo apostolo è tutto quello che si legge nel Vangelo e negli Atti. Due o tre anni dopo l'Ascensione viene messo a morte da Erode. Ricordate il testo degli Atti? «Erode ha incarcerato Pietro perché voleva farlo morire, come aveva già fatto morire Giacomo» (cfr. At 12, 2-3).
È il primo testimone del Signore dopo Stefano, è il primo che muore per rendere testimonianza a Gesù. E basta questa morte a metterlo sul piano dei due più grandi fra gli apostoli, Pietro e Giovanni. Basta questa morte perché certo egli non ha esercitato quasi nessun apostolato; non ne ha avuto nemmeno il tempo. Tutti gli altri, se noi giudichiamo le opere, le fatiche, possono sembrare più grandi, ma tutte le opere e le fatiche non valgono una morte tanto più meritevole, tanto più grande, in quanto sappiamo che cosa voleva dire morire prima che il Signore fosse ritornato nella sua gloria.
E questo intendo dire. Avete presente la Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi, ma anche le altre Lettere? Egli manifesta un certo timore della morte: non vuole morire, ma vorrebbe che, lui vivo, ritornasse Gesù e lo portasse sulle nubi nei cieli, perché tutti gli apostoli stanno nell'attesa che egli presto ritorni (cfr. 1 Ts 4, 15-18). Li ha lasciati per un poco, ma egli verrà nella sua gloria e tutto finirà finalmente.
Invece Stefano, Giacomo, non solo non vedono la sua gloria, ma appena dopo alcuni mesi o pochi anni dopo l'Ascensione del Cristo sono strappati via senza che vedano il trionfo della fede cristiana nel mondo. Almeno Paolo vede questo e piano piano non solo si adatta all'idea della morte, ma la desidera come nella Lettera ai Filippesi: «Cupio dissolvi et esse cum Christo – Desidero di lasciare questo corpo, di morire per essere con Cristo» (cfr. Fil 1, 23). E già nel 62, e poi nelle Lettere pastorali, egli attende la morte.
La grandezza della fede dei primi martiri

Ma in questi primissimi martiri, la fedeltà a Gesù, la testimonianza che essi danno col sangue suppone una fede estremamente grande. Sembra che il Signore li abbia delusi, chiede loro la vita prima di avere dato a loro il segno di una sua venuta che sembrava imminente. E si noti: per quanto riguarda santo Stefano, non solo nella sua morte ripete un po' la morte di Gesù, ma la sua morte avviene in uno stato di rapimento estatico. Li avete presenti gli Atti? Santo Stefano dice: «Ecco io vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo stare alla destra di Dio» (cfr. At 7, 56).
Ma per san Giacomo quale morte nascosta! Quale morte silenziosa, umile! Erode lo incarcera, lo uccide. Nemmeno gli Atti degli Apostoli dicono in che modo egli è morto. Soltanto per inciso si dice che Erode aveva già ucciso Giacomo e ora voleva uccidere anche Pietro e Pietro sfugge alla prigione. Questa morte così nascosta quale fede non suppone! Nell'estasi, nella visione, Stefano può superare il disagio di non aver visto ancora il trionfo del Cristo; Giacomo crede a questo trionfo pur dovendo morire nell'oscurità, nel silenzio.
È il primo dunque dei martiri; sotto certi aspetti, si dice che il protomartire è Stefano, ma come più pura e più grande è la testimonianza di questo apostolo del Signore, il quale non muore in un grande alone di gloria, non muore dinanzi alle folle, non muore in una visione estatica ma muore nel silenzio, si direbbe quasi dimenticato anche dagli altri Undici dei quali egli faceva parte, perché nemmeno san Luca si sente in qualche modo sollecitato a descriverci i suoi ultimi giorni, il modo della sua morte, i suoi sentimenti nel dare la vita per il Signore.
Umiltà e nascondimento

Quello che si diceva stamani dunque mi pare che sia vero anche per quando si parla di san Giacomo il Maggiore e cioè quello che Dio più ama, quello che più stima nell'uomo è l'umiltà di una fedeltà nascosta, serena, che non chiede a Dio miracoli, che non chiede assicurazioni e garanzie, ma si affida a lui, si abbandona a lui con semplicità; lascia che il Signore faccia di lui davvero quello che egli vuole.
Questa è la grandezza di san Giacomo, mi sembra. Fintanto che viveva Gesù, anche lui, come Giovanni, preso dall'ambizione voleva accaparrarsi il primo posto nel Regno di Dio. Poi egli muore invece nel silenzio, e nessuno sembra più far caso a lui né menzione di lui. Ecco la grandezza di Giacomo: da questa ambizione, da questi propositi di gelosia nei confronti degli altri, passare a questo puro silenzio di umiltà, di semplicità, a questa testimonianza di amore in cui è finita per Giacomo ogni ricerca di sé.
Forse proprio per questa umiltà, per questo silenzio nel quale egli muore, merita di essere alla destra o alla sinistra del divino Maestro nel Regno dei cieli.
E questo ha veduto l'anonimo scultore che ha scolpito le statue degli apostoli sulla facciata di San Martino di Lucca. Non c'è mica Pietro alla destra o alla sinistra di Nostro Signore: ci sono Giacomo e Giovanni.
E in che cosa sono grandi gli apostoli? Lo dicevo prima: nel fatto che sono vissuti con Gesù. Dopo l'Ascensione gloriosa del Cristo, essi vivono un impegno di apostolato che li porta a grandi fatiche, che li fa andare in tutti paesi.
Nostro Signore fra tutti i Dodici ne ha preferiti tre: Pietro, Giacomo, Giovanni. Di Pietro sappiamo quello che ha fatto dopo l'Ascensione; di Giovanni sappiamo che probabilmente è morto ultimo di tutti gli apostoli. Non ha forse molto lavorato, ma ha pregato ed è vissuto continuamente nella contemplazione del Cristo. Viveva in una intimità così grande che noi possiamo dire che gli scritti suoi sono veramente anche oggi la testimonianza di una vita mistica la più alta che sia stata mai vissuta nella Chiesa di Dio...
Terza meditazione
Dalla sofferenza alla gloria

Stamani, alla Messa, abbiamo parlato di santa Maria Maddalena, di sant'Apollinare, di san Giacomo apostolo. Poi abbiamo di nuovo insistito sull'importanza che hanno per noi le festività di questi primi discepoli del Cristo.
Abbiamo detto che la vita cristiana implica una rinnovazione di quei rapporti, una ripetizione, un farsi presente nella vita di ognuno di noi dei rapporti che Gesù ha stabilito con tutti coloro che lo hanno conosciuto, lo hanno veduto, lo hanno amato, che sono vissuti con lui.
Finalmente abbiamo parlato di Giacomo il Maggiore, di cui il 25 ricorre la festa. Abbiamo dunque Giacomo fratello del Signore e Giacomo fratello di Giovanni. Abbiamo detto che Giacomo fratello di Giovanni è uno dei testimoni della Trasfigurazione, ed è uno dei tre apostoli privilegiati chiamati da Gesù ad essere testimoni nel giardino del Getsemani. In nessuna scena del Vangelo Gesù ci appare più vicino a noi nella sua umiltà. Lo pensiamo oppresso dalla sofferenza, schiacciato sotto la paura della morte che lo abbatte e solo Giacomo, Giovanni e Pietro sono con lui. Così il Signore non fa partecipi della sua gloria e della sua beatitudine se non coloro che ha fatto partecipi della sua Passione.
L'insegnamento che ci deriva da questa scelta divina sembra che sia questo: solo coloro che conoscono Gesù nella sua sofferenza possono anche conoscerlo nella sua gloria. Si paga ogni elezione divina!
Forse Giovanni e Giacomo, e anche Pietro, una volta testimoni della Trasfigurazione sul monte Tabor, credevano che fosse facile, che fosse soltanto motivo di gioia, che fosse soltanto una elezione di gloria quella che li aveva chiamati vicini al Salvatore, vicini al Maestro divino; invece, dopo essere stati testimoni della Trasfigurazione sul monte, ora sono chiamati ad essere testimoni e partecipi dell'agonia del Getsemani. Lassù era Figlio di Dio; lassù Pietro dice a Gesù: «Se vuoi facciamo qui tre tende» (cfr. Mt 17, 4). Vogliono rimanere con lui. È sempre facile accettare la gioia, e ciascuno di noi vorrebbe in questa gioia dimorare perennemente.
Dio è esigente

Quaggiù infatti non potremo mai noi essere testimoni del Cristo, non potremo mai pretendere di essere suoi compagni, suoi amici se, pur essendo stati testimoni della sua gloria in alcuni istanti privilegiati della nostra esistenza, non vorremo essere testimoni della sua Passione e compagni di lui nel dolore, nella pena dell'Orto del Getsemani.
Ed è così difficile per noi essere testimoni di questa Passione o partecipi di queste sofferenze! Lassù era facile credere alla divinità di Gesù, ma qui anche Giacomo con Pietro e Giovanni si addormentano; ascoltano soltanto, nel sonno del dormiveglia, la preghiera angosciosa del Figlio che si rivolge al suo Padre celeste: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice; però non come voglio io, ma come vuoi tu!" (cfr. Lc 22, 42).
È una della pagine, questa, certo tra le più straordinarie del Vangelo. Bisognava pure che gli apostoli, che gli evangelisti volessero essere pienamente sinceri nel tramandare fino a noi questa testimonianza della paura, dell'angoscia del Figlio di Dio di fronte alla morte. Ma anche della debolezza, della vigliaccheria di coloro che erano stati scelti, di coloro che Gesù aveva chiamato con amore di predilezione a seguirlo più intimamente di tutti gli altri. Ma proprio questo ci dice le esigenze di Dio.
Dio non sceglie noi a seguirlo se non siamo pronti a seguirlo anche in questa umiliazione, in questo stato di pena, in questo stato di angoscia, in questa desolazione infinita.
Si paga ogni grazia che discende da Dio. Credevano gli apostoli di non pagare per nulla la gloria di cui erano stati fatti partecipi, quando erano stati sul Monte, e invece proprio poche settimane dopo sono chiamati nella notte a soffrire col Signore l'agonia della Passione.
Ecco quello che dice Giacomo, e Giacomo ce lo dice più di Pietro e di Giovanni, non solo perché con loro fu testimone di questa angoscia infinita del Figlio di Dio, ma perché prima degli altri dovette subire il martirio senza avere conosciuto ancora il trionfo di un Cristianesimo che invadeva tutto l'Impero e in pochi anni, da Gerusalemme, faceva suo centro Antiochia per poi fare suo centro Roma, dove morirà proprio colui che era stato eletto capo dei Dodici, Pietro, che era stato compagno di Giacomo sul Monte della Trasfigurazione.
L'insegnamento della morte di Giacomo

Ma la gloria della Resurrezione, la testimonianza di un riconoscimento della gloria del Risorto nelle apparizioni, sostiene Giacomo anche nella solitudine, nel silenzio del carcere e nella solitudine anche della sua morte che non conosce estasi, che è una morte comune tranne in questo: nell'essere una morte violenta.
La morte di Giacomo è veramente l'insegnamento più grande di tutta la sua vita perché dice che cosa significhi per un cristiano essere stato testimone della Resurrezione di Gesù.
Ora, noi tutti cristiani abbiamo visto Gesù risorto. Lo dice il sermone di Gesù dopo la Cena. Egli ora è con noi; noi sappiamo che Egli è risorto. Noi siamo testimoni in qualche modo della sua gloria. Non dobbiamo dunque lasciarci sgomentare come non si lasciò sgomentare san Giacomo. Non dobbiamo lasciarci vincere dall'apparente silenzio di Dio, non dobbiamo lasciarci scandalizzare dalla desolazione in cui egli sembra lasciarci. Nessuna prova ora deve più allontanarci dal Cristo.
I tre che volevano stare sempre con Gesù sul Monte della Trasfigurazione fuggono poi da lui nel giardino del Getsemani, l'abbandonano. «È buona cosa per noi stare qui» (cfr. Mt 17, 4), gli avevano detto sul monte della Trasfigurazione. Invece non è bello stare qui o là, perché qui è la Gloria e là la Passione: è bello stare con lui, questo è bello. Non è bella la gloria, non è bella la passione, è bello rimanere con Cristo.
E questo Giacomo ha imparato. Ora Giacomo è pronto a stare con Cristo che gli appare dopo la sua Resurrezione, ora Giacomo ha imparato a stare con Gesù anche nel suo martirio umile e senza gloria.
Quello che conta è rimanere con lui

Quello che importa è stare con lui: ecco quello che hanno imparato gli apostoli. Quello che importa è rimanere con lui; ecco quello di cui ora dà testimonianza l'apostolo Giacomo. Ora egli vive quello che ha detto Gesù nel sermone dopo la Cena: «Rimanete con me ed io con voi» (cfr. Gv 15, 4).
Non diamo importanza ai nostri stati interiori, sia che questi stati interiori siano di gioia o di oppressione; sia che noi viviamo nell'agonia, sia che viviamo nella gioia. Non è la gioia che ci importa, non è la passione che ci attira; l'unica cosa a cui noi siamo legati è rimanere con Lui indipendentemente e al di là di ogni nostro sentimento umano, perché di questo ci hanno dato testimonianza gli apostoli dopo la Resurrezione del Cristo.
Non l'hanno abbandonato più, non sono più fuggiti da lui, sia che egli apparisse loro, li confortasse con rivelazioni e col successo del loro apostolato, sia che invece tacesse e sembrasse abbandonarli in mano di coloro che volevano la loro morte.
Ma nessuno più di Giacomo ci insegna tutto questo. È vero, anche san Paolo nelle sue Lettere ci fa conoscere come egli non vivesse che questo rimanere nel Cristo. Sia nell'esperienza di una rivelazione della gloria del Cristo – ed egli ha avuto tante rivelazioni, ne parlano gli Atti, ne parlano le sue Lettere, specialmente la Seconda ai Corinzi (cfr. 2 Cor 12, 1.7) – sia che invece il Signore lo abbandonasse nelle mani dei falsi fratelli, in mezzo al mare, battuto dalle verghe dei Giudei, in carcere dei Romani, egli rimaneva con Cristo ed il Cristo era con lui.
Ma, dicevo, nessuno dà testimonianza più alta di questa fedeltà di Giacomo che nei pochi anni dopo la Resurrezione del Cristo sembra non vivere che questa duplice esperienza: l'esperienza delle apparizioni di Gesù sulle rive del lago, nel Cenacolo chiuso, nella morte silenziosa dimenticata, nel carcere per opera di Erode. Sia in un caso come nell'altro, quello che fa la continuità di questa sua vita è il fatto che egli vive ora nel Cristo, è il fatto che egli vive ora per Cristo, è il fatto che egli non conosce più che Gesù solo.
Questa deve essere la vita di tutti i discepoli di Gesù. Viviamo anche noi la Resurrezione! Non è più permesso a noi come fu permesso agli apostoli di abbandonarlo e lasciarlo solo: dobbiamo vivere con lui qualunque cosa ci chieda, senza scandalizzarci e senza troppo entusiasmarci nei nostri giorni di gloria e di gioia fidandoci di noi stessi, credendo che questa gloria e questa gioia rimarranno fino alla morte. No! Tutta la vita cristiana sarà sempre un passare dalla gioia alla sofferenza, dalla sofferenza alla gioia. Quello che non passa è la presenza del Cristo.
Che importa la gioia? Che importa la sofferenza? Non diamo peso né all'una cosa né all'altra. L'unica cosa importante è questa presenza del Cristo, Cristo che mai ci abbandona e che noi non dobbiamo mai più abbandonare.
Predicare innanzitutto con la vita

Ecco, mi sembra, uno degli insegnamenti che ci dona san Giacomo che muore martire e muore di una morte di cui nessuno sa nulla, una morte che sembra in qualche modo smentire le grandi promesse dell'apostolato a cui li aveva eletti Gesù: «Andate nel mondo intero» (cfr. Mt 28, 19; Mc 16, 15). Giacomo non andrà fuori di Gerusalemme; il suo cammino è da Gerusalemme al cielo.
«Predicate a tutte le genti» (cfr. Mt 28, 19; Mc 16, 15). Egli non predica a nessuno, ma predica tutto con la sua morte. San Giacomo predica a tutti nell'accettazione serena, umile e perfettamente gioiosa, pur nel silenzio e nella solitudine, di questa sua morte.
Gli altri potranno andare sulle strade del mondo, gli altri potranno vivere anni e anni di apostolato fecondo: nell'Armenia, nell'India, a Roma, nella Spagna, nella Grecia, in tutto il mondo allora conosciuto. Eppure anche Giacomo risponde, anch'egli obbedisce al comando del Cristo: «Andate, predicate la mia dottrina a tutte le genti». Egli non va che nel cielo, o piuttosto in prigione per poi salire in cielo. Egli non predica a nessuno; non si parla di un suo discorso negli Atti. La sua parola è soltanto la morte.
Questa è la parola che egli ancora ci dice: sapere morire umilmente fedeli al Signore senza pretendere grazie straordinarie, senza pretendere assicurazioni da Dio.
La nostra sicurezza è soltanto la nostra umile fedeltà.

 

Giacomo Biffi - "Le cose di lassù" - 2


Un libro splendido da leggere in questi giorni... (*)

* * *


(*): Vedi anche in questo blog il post:
02 Nov 2011
I Novissimi - G. Biffi. Il paradiso, il purgatorio, l'inferno e lo scandalo della libertà. di Giacomo Biffi. "Verrà a giudicare i vivi e i morti", diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso ...

Giacomo Biffi - "Le cose di lassù" - 1

Un libro splendido da leggere in questi giorni... (*)


(*): Vedi anche in questo blog il post:
02 Nov 2011
I Novissimi - G. Biffi. Il paradiso, il purgatorio, l'inferno e lo scandalo della libertà. di Giacomo Biffi. "Verrà a giudicare i vivi e i morti", diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso ...


La settimana di esercizi spirituali in Vaticano fu introdotta nel 1929 da papa Pio XI (1922-1939), inizialmente in Avvento poi spostata in Quaresima da papa Paolo VI (1963-1978). Nel corso degli anni si sono succeduti predicatori di rango – religiosi, vescovi e cardinali, tra i quali due futuri pontefici come l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla (poi papa Giovanni Paolo II [1978-2005]) nel 1977 e il Prefetto della Congregazione per la Dottrina delle Fede Joseph Ratzinger nel 1983 – che nella cappella Matilde, ora Redemptoris Mater, hanno guidato questo breve ma intenso periodo di raccoglimento e meditazione del papa e dei suoi collaboratori.

Gli esercizi per la Quaresima 2007, guidati dall’arcivescovo emerito di Bologna - e già predicatore in Vaticano nel 1989 - Giacomo Biffi, hanno avuto come filo conduttore l’invito di San Paolo a pensare «alle cose di lassù» (Col 3,2). Per far questo è indispensabile prima mettere da parte – a ciò è dedicata la Riflessione introduttiva (pp. 7-19) -, con la ragione prima che con la fede, il diffuso scetticismo sulle «cose di lassù» e chiedersi se sia davvero ragionevole limitare il reale entro i confini del visibile: «L’uomo “mondano” e secolarista possiede la più arrischiata delle certezze: la certezza di ciò che non c’è. È una certezza che conviene solo a Dio: solo colui che è onnisciente può elencare le cose che non ci sono. Certo, una volta condotta a termine l’esplorazione del mondo visibile, posso arrivare a una ragionevole persuasione che non esistano l’ippogrifo, i centauri e le sirene. Ma in nessun modo, se voglio restare razionale, posso convincermi che non esistono i Serafini» (pp. 11-12). La percezione del mondo invisibile che ci circonda è inoltre la più saggia risposta allo scoraggiamento che può cogliere di fronte all’assedio del mondo: il rimedio non sta – come spesso accade - nel negare l’assedio e scendere ingenuamente a patti con gli assalitori, bensì nel rendersi conto «[…] che il “piccolo gregge” possiede già un Regno; sta cioè nel non perdere mai di vista la totalità delle cose come stanno, e in particolare l’effettiva estensione del mondo celeste, popolato di angeli e di santi, esuberante della divina energia da cui viene senza soste investita la terra» (p. 16). Questo Regno invisibile, infine, non è remoto, le cose di lassù sono già presenti in mysterio quaggiù, soprattutto nella celebrazione eucaristica, in cui – persino nella celebrazione più dimessa – secondo la descrizione di un transitorium ambrosiano, gli angeli circondano l’altare e Cristo amministra il pane dei santi e il calice della vita per la remissione dei peccati: «Angeli circumdederunt altare / et Christus administrat Panem sanctorum / et Calicem vitae in remissionem peccatorum» (p. 18)

Il Primo giorno (pp. 21-51) di meditazione è dedicato al duplice invito che risuona all’inizio della Quaresima: «convertiti e credi al Vangelo», «ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai». Il primo invito richiama la necessità della conversione, e con essa la dimensione quaresimale dell’intera esistenza, che nessuno può aggirare credendo che non ci sia nulla da riformare nella propria vita: «La Quaresima non ci viene data per vedere se ci sia o no nella nostra vita qualcosa da cambiare, ma per capire in che cosa dobbiamo cambiare; perché qualcosa da cambiare c’è in ogni caso» (p. 26). Del resto la prospettiva cristiana è l’unica che offre un modo «sano» di confrontarsi con – e affrontare – la debolezza umana, superando l’inutile senso di avvilimento e rabbia, o la farisaica cultura della denuncia: «[…] non è vero che oggi non ci sia più il senso del peccato: c’è un acutissimo senso del peccato altrui (che non è salvifico)» (p. 27). La necessità del pentimento non è dovuta solo al fatto di «vedersi peggiori», ma anche all’esigenza di elevarci al livello di quel Regno bello e invisibile cui apparteniamo. Tutto ciò costa sicuramente, «Però un frutto immancabile del pentimento è la gioia, una gioia intima e segreta che nasce da un rapporto nuovo col Dio che ci rinnova» (p. 29).
L’altro messaggio quaresimale, ci ricorda l’inevitabile destino di ciascuno a tornare in polvere, «[…] c’invita senza tanti complimenti anche a riflettere sulla nostra morte personale […]» (p. 33), la nostra, non quella degli altri, quella morte che celiamo con tutte le forze ai bambini e anche a noi stessi finché è lontana, poiché di fronte ad essa si infrangono tutti gli obiettivi, le illusioni e le speranze. La morte invece è un fatto ineluttabile, cui può opporsi soltanto un altro fatto: «Solo l’avvenimento del trionfo sulla morte – cioè il fatto della risurrezione di Cristo (che è il “cuore” del Vangelo), come principio e garanzia della nostra – può salvare l’uomo dall’avvenimento della morte; vale a dire, può salvare l’uomo dalla sua invalicabile assurdità» (p. 39). Questo promemoria apparentemente macabro – che imbarazza purtroppo gli stessi sacerdoti, timorosi che il fedele faccia scongiuri impropri durante l’imposizione delle sacre ceneri – in realtà è ricco di speranza: «Attenzione: la cenere, sulla quale la Chiesa ci invita a meditare, non ci dice quello che l’uomo è, ma quello che l’uomo sarebbe se fosse vera la visione puramente materialistica ed edonistica della vita. […] non vuol incuterci la paura della morte, vuol incuterci la paura di un’esistenza vissuta con l’idea desolata che la morte sia l’accadimento conclusivo di tutto» (p. 41).
Da questa consapevolezza è possibile così ridare pieno senso alla propria vita, rendendola feconda e davvero degna del Regno invisibile che ci attende: è il caso del beato Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954) arcivescovo di Milano, come attesta l’ultimo consiglio, un deciso invito alla santità, lasciato ai suoi seminaristi pochi giorni prima della morte: «Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi. Ha paura invece della nostra santità» (p. 48).

Nel Secondo giorno (pp. 53-90) la meditazione è incentrata sulla figura di Cristo, che domina il mondo invisibile; gli Apostoli si trovano di fronte alla novità sconvolgente «[…] di aver convissuto e di essere entrati in intimità con “qualcuno” che sta al cuore di tutto il succedersi dei fatti e delle epoche, sta “sopra” ogni essere, sta “prima” di ogni accadimento, sta al “traguardo” di ogni vicissitudine terrena» (p. 58). L’inno paolino della Lettera ai Colossesi (1, 12-20) esprime la «[…] relazione tra il Cristo Redentore – che è “prima” ed è il “primeggiante” - e l’intero universo, mediante la terna di proposizioni: «in lui» (en autò), «per mezzo di lui» (di’autoù), «in vista di lui» (eis autòn).
Tale prospettiva inoltre non è affatto pura speculazione: «In realtà, niente più di essa può aiutare il credente a trovare una giusta attitudine ei confronti delle persone, delle idee, degli accadimenti» (p. 67). Ad esempio la questione del rapporto con i non credenti, spesso risolta con gli errori opposti della condanna senza appello o di un falso irenismo che ponga tutto sullo stesso piano; il bene che si può riscontrare in essi non è tratto dal nulla, poiché «[…] i valori, dovunque si trovino, oggettivamente sono sempre suscitati da Cristo. Egli dalla destra del Padre opera sulle menti, sulle coscienze, sugli atti per mezzo del suo Spirito, che “spira dove vuole”, non conosce barriere etniche o culturali e sa “cristianizzare” silenziosamente anche le realtà in apparenza più remote dal Vangelo» (p. 69). E una prospettiva cristocentrica non può non spingere all’apostolato, poiché se tutto è stato creato in lui, per mezzo di lui e in vista di lui, allora ciascun uomo è caratterizzato da una primordiale e incancellabile appartenenza a Cristo, che precede l’appartenenza ecclesiale, ma che in essa «[…] aspira ad essere positivamente compiuta e sublimata dall’azione redentrice […]» (p. 71).
Questa giornata è conclusa dall’ammonimento dello scrittore russo Vladimir Sergeevic Solov’ëv (1853-1900) che delinea l’Anticristo come un figura apparentemente buona, la cui malvagità è tanto più efficace quanto più si cela sotto le rassicuranti vesti del pacifismo, dell’ecumenismo, del dialogo a tutti i costi. Egli ammira Cristo, ma tre cose di Lui gli riescono intollerabili: la distinzione tra bene e male, la Sua pretesa di unicità, e il fatto che Egli sia vivo; in pratica tutto ciò che fa di Cristo l’unico vero Salvatore e non un personaggio del passato da cui imparare qualche buona parola. «Verranno giorni, ci dice Solov’ëv, quando nella cristianità si tenderà a risolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso, concreto e razionale della fede, in una serie di “valori” facilmente esitabili sui mercati mondani» (p. 87). L’ammonimento di Solov’ëv – che scriveva un secolo fa - suona davvero profetico se si pensa ai tanti ambienti cattolici – è quasi, purtroppo, un fenomeno di massa – in cui la figura di Cristo scompare dietro tante buone esortazioni da manuale di educazione civica, al punto che, lamentava don Divo Barsotti (1914-2006), «[…] in molti discorsi delle nostre comunità […] Gesù Cristo è una scusa per parlare d’altro» (p. 87).

Il Terzo Giorno (pp. 91-122) è dedicato sempre a Cristo, ma da una prospettiva diversa: «Ieri la nostra ammirazione è stata conquistata dalla sua “Domenica eterna”; oggi cercheremo di ripensare con gratitudine e commozione al Giovedì Santo e al Venerdì Santo» (p. 91). L’invito di Gesù Cristo, durante l’Ultima Cena, a ricordarsi di Lui - «fate questo in memoria di me» -, fa sì che la Chiesa sia «[…] primariamente ed essenzialmente, una “memoria”: la memoria indefettibile del suo Salvatore» (p. 94), e non un vuoto ricordo, ma «[…] una memoria così intensa e soprannaturalmente efficace da ripresentare nella realtà e mettere nelle nostre mani la persona adorabile dell’Unigenito del Padre […]» (ibid.). In questo rito è concentrato tutto l’amore di Cristo il quale non solo si sacrifica ma si offre anche come cibo, permettendoci la massima intimità possibile con Lui. «Quando arriva – e presto o tardi arriva per tutti - il momento dello sconforto, del pessimismo, delle tentazioni contro la speranza, ricordiamoci di questo amore: chi è stato amato in questo modo dall’Unigenito del Padre non può non avere, dopo ogni prova, un destino di gioia» (p. 100)
Dopo l’Ultima Cena inizia l’agonia nel Getsemani, durante la quale Cristo prova tristezza, paura e angoscia, e continua la sua azione sacerdotale offrendo le sue stesse sofferenze e la sua obbedienza (cfr. Eb 5,7). Una volta innalzato sulla croce poi il Suo sguardo si posa su tutti coloro a favore dei quali Egli offre il suo stesso sacrificio: «Dalla croce, nel momento di morire per me, il Signore mi ha visto: così può dire ciascuno di noi. I suoi occhi – forse materialmente annebbiati dalle lacrime, dai sudori, dagli spasimi dell’agonia – in quell’istante ricevevano soprannaturalmente una lucidità nuova, una potenza visiva senza confronti, sicchè nessuna delle creature infelici e colpevoli da riscattare e rinnovare è sfuggita all’attenzione appassionata di colui che si donava per tutti» (p. 108), consolato dalla vista di coloro che nei secoli si arrenderanno al Suo amore, prima fra tutti Maria che sotto la croce coopera col suo dolore alla redenzione.
La centralità di Cristo è talmente importante che Giovanni Colombo (1902-1992), poi cardinale arcivescovo di Milano, la applicava anche all’ambito letterario: «Tutto – quale che sia la consapevolezza degli autori – o parla implicitamente di Cristo o ne esprime il desiderio inconscio o per assurdo lo invoca, confessando la pena e la vuotezza per la sua assenza» (p. 116). Come Giacomo Leopardi (1798-1837) che, nella poesia Alla sua donna, si rivolge ad una creatura perfetta che ritiene però inesistente: «Noi, concludeva don Giovanni Colombo, per fortuna sappiamo che questo capolavoro di umanità e di bellezza esiste davvero; ed è la natura umana di Cristo. Dunque proprio al Signore Gesù, il più affascinante degli esseri umani, nel suo significato più profondo e più vero, questo inno è rivolto» (p. 119).

Nel Quarto giorno (pp. 123-165) si rivolge uno sguardo anagogico, cioè in alto, nella sua vera essenza, alla Chiesa, cercando di intuire la realtà che si cela dietro una veste umana che può risultare squallida o comunque poco entusiasmante, e che tuttavia trae una singolare vitalità dall’eterno sacerdozio di Cristo. «Anzi, chi attraverso l’esperienza rinnovatrice dell’iniziazione battesimale comincia a far parte della famiglia dei discepoli di Gesù, riceve in eredità un “regno incrollabile (cfr. Eb 12,28) ed entra in una festa cosmica che coinvolge cielo e terra e tutta la vicenda salvifica. Appunto questa è la sostanza dell’appartenenza al “nuovo Israele” […]: “Voi vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli” (cfr. Eb 12,22-23)» (p. 130). Nella Bibbia la Chiesa è descritta con le immagini del corpo mistico e della sposa: entrambe indicano la relazione di essa con Cristo, poiché il corpo è inconcepibile senza il capo e la sposa senza lo sposo. Questo vincolo – che per la Chiesa è vitale – è indispensabile per comprenderne la vera natura, senza fraintendimenti: «Il peccato originale della ecclesiologia “catagogica” è il ritenere che la verità della Chiesa possa essere attinta a partire non dalla sua intrinseca relazione con Cristo, come è insegnato dalla Rivelazione, ma dalla sua - pur necessaria, ma non costitutiva – relazione col mondo; non dal suo rapporto di quasi-immanenza col Regno, ma dal suo pur incontestabile coinvolgimento nella storia. Così, credendo di fotografare la Sposa del Re, si finisce col fotografare soltanto il suo guardaroba: gli abiti dimessi e impolverati di cui la riveste fatalmente la notra povertà» (p. 142).
Alla festa di nozze tra Cristo e la Chiesa allude un transitorium ambrosiano: «Hodie celesti Sponso iuncta est Ecclesia» (p. 148); l’evento si manifesta nell’adorazione dei Magi, nel Battesimo al Giordano e nel miracolo di Cana, tutti contemplati simultaneamente nell’inno.
La giornata è chiusa dall’«ecclesiologia» di Alessandro Manzoni (1785-1873), il cui inno La Pentecoste inizia proprio contemplando la Chiesa, cogliendo così la stretta connessione tra essa e lo Spirito; una connessione costitutiva, dal momento che la Chiesa è frutto dell’effusione dello Spirito, e la Pentecoste, a sua volta, contiene la Chiesa in nuce. «Non c’è nulla perciò di più assurdo che contrapporre lo Spirito alla Chiesa e la Chiesa allo Spirito. Sant’Agostino dice che “uno possiede lo Spirito Santo a misura che ama la Chiesa di Cristo”» (p. 158).

Infine nel Quinto giorno (pp. 169-203) si contempla più a fondo il mistero del Corpo e del Sangue di Cristo e con esso la vera natura della Chiesa. L’eucarestia è innanzitutto rendimento di grazie - come indica la parola stessa -, è un atto di obbedienza ad un comando del Signore - «fate questo» -, infine è un sacramento, cioè realizza ciò che significa; dall’eucarestia la Chiesa – che è quindi popolo che ringrazia, popolo che obbedisce, ed è in sé stessa sacramento in quanto trasmette la grazia di Dio – può ridare all’umanità il senso della gratitudine per ciò che preesiste e ci è dato – e che non è dovuto alla nostra attività -, la nostalgia dell’obbedienza, la capacità di saper leggere attraverso i segni della creazione: «Il mondo pare diventato per la cultura prevalente un magazzino esposto al saccheggio, più che un poema da comprendere e assaporare nella sua bellezza e nella sua verità» (p. 175).
Ad uno sguardo ulteriore l’eucarestia è caratterizzata dalla memoria – una memoria oggettiva: «Non è solo il ricordo della Pasqua, è la Pasqua del Signore […]» (p. 176) -, dal sacrificio di alleanza, dalla dimensione escatologica; di qui la Chiesa è un popolo che ricorda - la Chiesa è una memoria, aveva detto il cardinale in precedenza -, legato a Dio da un patto, nell’attesa delle cose future. «Una Chiesa nutrita dalla speranza eucaristica può contribuire a rianimare questo mondo infiacchito» (p. 179).
Uno sguardo ancora più in profondità ci rivela la vera e propria res dell’eucarestia, cioè il mistero pasquale: innanzitutto la morte, cui palesemente rimandano il Corpo dato e il Sangue versato; poi la risurrezione, poiché non è un banchetto funebre, ma è un vivente che ci convoca alla Sua mensa, dalla quale «[…] si sprigiona l’energia della risurrezione […]» (p. 182); infine l’ascensione al cielo, anch’essa parte integrante del sacerdozio di Cristo: «[…] anche l’ingresso di Cristo nel santuario celeste è un momento formalmente sacrificale. Gesù che sale al cielo è il Sacerdote della Nuova Alleanza che si presenta al cospetto del Padre, offrendogli la vittima unica e pienamente sufficiente, cioè il suo Corpo “dato” e il suo Sangue “versato” (cfr. Eb 7,24-25; 9,11-12)» (p. 183).
Dunque «[…] se l’eucarestia è il sacramento della croce, allora la croce connota tutta la vita ecclesiale; se ci pone in comunione con la grazia della risurrezione, allora la comunità cristiana deve riconoscere come propria l’esistenza rinnovata scaturita dalla Pasqua; se ci dà la presenza del Cristo vivo e Signore, allora la Chiesa deve sussistere e operare nella consapevolezza di questa misteriosa ed entusiasmante immanenza del suo Maestro e Sposo, che è con lei “fino alla fine del mondo”» (p. 185).
L’ultimo sguardo è per Maria, la creatura più unita a Colui che domina e colma di sé le cose di lassù, e Biffi rinnova l’invito di sant’Ambrogio (339-397): «Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio» (p. 203).

Nella Riflessione conclusiva (pp. 205-211) - che precede il Discorso (pp. 213-214) e la breve Lettera (pp. 215-216) di Sua Santità Benedetto XVI - il cardinale sottolinea come la contemplazione del mondo invisibile non sia affatto un pretesto per trascurare la vita quotidiana e i propri doveri: «Anzi, noi “cerchiamo le cose di lassù” appunto perché lassù si trova la chiave per sciogliere gli enigmi e per superare le contraddizioni dell’universo, dell’uomo, delle sue vicissitudini […]» (p. 207), come dimostra la feconda opera civilizzatrice prodotta dal monachesimo benedettino, poiché «Ogni attenzione alle realtà terrene che non partisse dalla contemplazione delle realtà celesti, rischierebbe di essere non bene inquadrata o addirittura deviante, e ogni azione diretta a sistemare o ad alleviare i guai del mondo, che non fosse un’umile e generosa collaborazione con l’opera di redenzione intrapresa dal Padre del Signore nostro Gesù Cristo potrebbe inavvertitamente assumere le incongruenze di un ingenuo pelagianesimo» (p. 208). (S. Chiappalone)


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Un impressionante dettaglio…

18 luglio 2009 / In News



Se si legge con attenzione l’enciclica …
C’è un personaggio inquietante e apocalittico che Benedetto XVI evoca, a sorpresa, nella recente enciclica “Spe salvi”: l’Anticristo. Per la verità il papa non cita direttamente questo oscuro soggetto che è drammaticamente preannunciato fin dal Nuovo Testamento, ma lo chiama in causa attraverso una citazione di Immanuel Kant che fa una certa impressione rileggere in questi tempi in cui l’Europa sembra in guerra contro la Chiesa, spesso strumentalizzando alcuni gruppi sociali (come gli immigrati musulmani o le donne o gli omosessuali) per sradicare le radici cristiane e per limitare la libertà dei cattolici e della Chiesa. Scriveva Kant: “Se il cristianesimo un giorno dovesse arrivare a non essere più degno di amore (…) allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un’opposizione contro di esso; e l’anticristo (…) inaugurerebbe il suo, pur breve, regime (fondato presumibilmente sulla paura e sull’egoismo). In seguito, però, poiché il cristianesimo, pur essendo stato destinato ad essere la religione universale, di fatto non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi, sotto l’aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose”.

Il Papa sottolinea proprio questa possibilità apocalititca che viene affacciata da Kant secondo cui l’abbandono del cristianesimo e la guerra al cristianesimo potrebbero portare a una fine non naturale, “perversa”, dell’umanità, a una sorta di autodistruzione planetaria, sia in senso morale che in senso materiale (e un tale orrore, peraltro, è oggi nelle possibilità teniche dell’umanità). Essendo l’enciclica un testo molto rigoroso e ponderato, è da escludere che Benedetto XVI abbia evocato l’Anticristo e la “fine dell’umanità” a caso.
Il suo pensiero peraltro è del tutto lontano da suggestioni millenaristiche, c’è dunque da credere che se richiama questi temi scorga veramente nel nostro tempo un confronto drammatico e mortale fra Bene e Male. Oltretutto già in un’altra recente occasione è stata evocata e ben meditata, in Vaticano, la figura dell’Anticristo. E’ accaduto quest’anno, il 27 febbraio, negli esercizi spirituali predicati al Papa dal cardinale Biffi (immagino che i temi siano stati concordati): si è meditato proprio sulla profezia dell’Anticristo (vedi “Le cose di lassù”, ed. Cantagalli). Biffi ha citato infatti il “Racconto dell’Anticristo” di Vladimir Solovev scritto nella primavera 1900, come avvertimento al XX secolo che era agli albori. In quelle pagine il personaggio apocalittico veniva eletto “Presidente degli Stati Uniti d’Europa” e poi acclamato imperatore romano.
“Dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente e merita più approfondita riflessione” spiega Biffi “è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista”. Praticamente un campione perfetto del politically correct. Ecco le parole di Solovev: “Il nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di compassione, non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano… Era un convinto spiritualista”, credeva nel bene e perfino in Dio, “ma non amava che se stesso”.
In sostanza questa figura – l’antagonista di Gesù Cristo – si presenterebbe, secondo un’antica tradizione, con gli aspetti più seducenti, una contraffazione dei “valori cristiani”, in realtà rovesciati contro Gesù Cristo, quelli che oggi carezzano il senso comune. L’Anticristo di questo racconto infatti tuona: “Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e io ve l’ho data. Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”. Parole in cui molti sentono echeggiare quell’accusa al cristianesimo (che sarebbe causa di intolleranza e conflitti) oggi tanto diffusa. Tuttavia si sbaglierebbe a ritenere che il Papa stigmatizzi solo e semplicemente l’anticristianesimo dilagante a causa del laicismo, sebbene così aggressivo e pericoloso. C’è molto di più nei suoi pensieri. Proprio Ratzinger, da cardinale, in una memorabile conferenza a New York, il 27 gennaio 1988, davanti a un uditorio ecumenico, soprattutto di teologi, citò lo stesso racconto di Solovev esordendo così: “Nel ‘Racconto dell’Anticristo’ di Vladimir Solovev, il nemico escatologico del Redentore raccomandava se stesso ai credenti, tra le altre cose per il fatto di aver conseguito il dottorato in teologia a Tubinga e di aver scritto un lavoro esegetico che era stato riconosciuto come pionieristico in quel campo. L’Anticristo un famoso esegeta!”.
Questo discorso fu ripetuto dal cardinale anche a Roma, davanti a una platea di teologi cattolici. Molti, in quelle platee, trovarono sicuramente “provocatoria” questa citazione, sia pure espressa con la pacatezza tipica di Ratzinger che esorta tutti, sempre, a riflettere. Essa però esprime la consapevolezza dell’attuale pontefice – e prima di lui di Paolo VI e di Giovanni Paolo II – che il pericolo non viene solo dall’esterno, da una cultura avversa e da forze anticristiane, ma anche dall’interno, da “un pensiero non cattolico” che dilaga nella stessa cristianità, come denunciò con parole drammatiche Paolo VI quando arrivò a parlare del “fumo di Satana” dentro il tempio di Dio.
Che nella Chiesa, specialmente negli ultimi pontefici, sia diffusa la sensazione di vivere tempi apocalittici (non necessariamente “la fine dei tempi”, ma forse i tempi dell’Anticristo) appare evidente da tanti loro pronunciamenti. Inoltre fa riflettere, anche in Vaticano, la gran quantità di “avvertimenti” soprannaturali, che vanno in tal senso, contenuti in “rivelazioni private” a santi e mistici e in apparizioni di quesi decenni: in qualcuna di esse si afferma addirittura che l’Anticristo sarebbe un ecclesiastico di questo tempo (un “pastore idolo” che sconvolgerà la vita della Chiesa), ma è un’immagine che molti interpretano come riferita a un “pensiero non cattolico” dentro la Chiesa, fenomeno che in effetti è ben disastrosamente visibile. Dà un quadro ragionato e illuminante di tutto questo padre Livio Fanzaga nel volume, appena uscito, “Profezie sull’Anticristo” (Sugarco). Un quadro prezioso per comprendere il senso e la preoccupazione di tanti interventi pontifici. Angosciati sia per le sorti della fede che per le sorti dell’umanità.
La particolare attenzione della Santa Sede all’Italia è dovuta al fatto che qui il peso dei cattolici ha dato – come ha sottolineato il Papa stesso – il segnale di una inversione di tendenza rispetto alle devastazioni anticristiane e nichiliste del resto d’Europa. La Chiesa cioè scommette sull’Italia per riportare l’Europa alle sue radici cristiane e alla fede. Per questo allarma fortemente che in questi giorni, nel Palazzo della politica, si tenti di soppiatto – con la connivenza di alcuni cattolici – di reintrodurre un “reato di opinione riferito alla tendenza sessuale” (come lo definisce “Avvenire”) che apre la strada alla “demoralizzazione” del Paese e domani potrebbe fortemente minacciare la stessa libertà della Chiesa di insegnare la sua morale. Oltretutto tale limitazione alla libertà di pensiero e di parola viene pretesa in nome di un’ideologia libertaria, paradosso che fa riflettere amaramente oltretevere, dove questi scricchiolii sono percepiti come pericolosi avvertimenti prima di un possibile crollo.
Antonio Socci
Da “Libero, 8 dicembre 2007