lunedì 29 ottobre 2012

Esci dalla tua terra e vai...ma dove?


Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha avuto  luogo la Conferenza Stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (13 gennaio 2013) sul tema: "Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza".Sono intervenuti:  l’Em.mo Card. Antonio Maria Vegliò, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti; S.E. Mons. Joseph Kalathiparambil, Segretario del medesimo Pontificio Consiglio. Ne pubblico gli interventi dopo il testo del Messaggio del Papa.

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Messaggio di Benedetto XVI per la 99.ma Giornata mondiale del migrante e del rifugiato - "Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza".

Cari fratelli e sorelle! Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, ha ricordato che «la Chiesa cammina insieme con l’umanità tutta» (n. 40), per cui «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (ibid., 1). A tale dichiarazione hanno fatto eco il Servo di Dio Paolo VI, che ha chiamato la Chiesa «esperta in umanità» (Enc. Populorum progressio, 13), e il Beato Giovanni Paolo II, che ha affermato come la persona umana sia «la prima via che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione ..., la via tracciata da Cristo stesso» (Enc. Centesimus annus, 53). Nella mia Enciclica Caritas in veritate ho voluto precisare, sulla scia dei miei Predecessori, che «tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo» (n. 11), riferendomi anche ai milioni di uomini e donne che, per diverse ragioni, vivono l’esperienza della migrazione. In effetti, i flussi migratori sono «un fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale» (ibid., 62), poiché «ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione» (ibidem).
In tale contesto, ho voluto dedicare la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2013 al tema «Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza», in concomitanza con le celebrazioni del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e del 60° della promulgazione della Costituzione Apostolica Exsul familia, mentre tutta la Chiesa è impegnata a vivere l’Anno della fede, raccogliendo con entusiasmo la sfida della nuova evangelizzazione.
In effetti, fede e speranza formano un binomio inscindibile nel cuore di tantissimi migranti, dal momento che in essi vi è il desiderio di una vita migliore, unito molte volte alla ricerca di lasciarsi alle spalle la «disperazione» di un futuro impossibile da costruire. Al tempo stesso, i viaggi di molti sono animati dalla profonda fiducia che Dio non abbandona le sue creature e tale conforto rende più tollerabili le ferite dello sradicamento e del distacco, magari con la riposta speranza di un futuro ritorno alla terra d’origine. Fede e speranza, dunque, riempiono spesso il bagaglio di coloro che emigrano, consapevoli che con esse «noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (Enc. Spe salvi, 1).
Nel vasto campo delle migrazioni la materna sollecitudine della Chiesa si esplica su varie direttrici. Da una parte, quella che vede le migrazioni sotto il profilo dominante della povertà e della sofferenza, che non di rado produce drammi e tragedie. Qui si concretizzano interventi di soccorso per risolvere le numerose emergenze, con generosa dedizione di singoli e di gruppi, associazioni di volontariato e movimenti, organismi parrocchiali e diocesani in collaborazione con tutte le persone di buona volontà. Dall’altra parte, però, la Chiesa non trascura di evidenziare gli aspetti positivi, le buone potenzialità e le risorse di cui le migrazioni sono portatrici. In questa direttrice, allora, prendono corpo gli interventi di accoglienza che favoriscono e accompagnano un inserimento integrale di migranti, richiedenti asilo e rifugiati nel nuovo contesto socio-culturale, senza trascurare la dimensione religiosa, essenziale per la vita di ogni persona. Ed è proprio a questa dimensione che la Chiesa è chiamata, per la stessa missione affidatale da Cristo, a prestare particolare attenzione e cura: questo è il suo compito più importante e specifico. Verso i fedeli cristiani provenienti da varie zone del mondo l’attenzione alla dimensione religiosa comprende anche il dialogo ecumenico e la cura delle nuove comunità, mentre verso i fedeli cattolici si esprime, tra l’altro, nel realizzare nuove strutture pastorali e valorizzare i diversi riti, fino alla piena partecipazione alla vita della comunità ecclesiale locale. La promozione umana va di pari passo con la comunione spirituale, che apre le vie «ad un’autentica e rinnovata ineconversione al Signore, unico Salvatore del mondo» (Lett. ap. Porta fidei, 6). E’ sempre un dono prezioso quello che porta la Chiesa guidando all’incontro con Cristo che apre ad una speranza stabile e affidabile.
La Chiesa e le varie realtà che ad essa si ispirano sono chiamate, nei confronti di migranti e rifugiati, ad evitare il rischio del mero assistenzialismo, per favorire l’autentica integrazione, in una società dove tutti siano membri attivi e responsabili ciascuno del benessere dell’altro, generosi nell’assicurare apporti originali, con pieno diritto di cittadinanza e partecipazione ai medesimi diritti e doveri. Coloro che emigrano portano con sé sentimenti di fiducia e di speranza che animano e confortano la ricerca di migliori opportunità di vita. Tuttavia, essi non cercano solamente un miglioramento della loro condizione economica, sociale o politica. È vero che il viaggio migratorio spesso inizia con la paura, soprattutto quando persecuzioni e violenze costringono alla fuga, con il trauma dell’abbandono dei familiari e dei beni che, in qualche misura, assicuravano la sopravvivenza. Tuttavia, la sofferenza, l’enorme perdita e, a volte, un senso di alienazione di fronte al futuro incerto non distruggono il sogno di ricostruire, con speranza e coraggio, l’esistenza in un Paese straniero. In verità, coloro che migrano nutrono la fiducia di trovare accoglienza, di ottenere un aiuto solidale e di trovarsi a contatto con persone che, comprendendo il disagio e la tragedia dei propri simili, e anche riconoscendo i valori e le risorse di cui sono portatori, siano disposte a condividere umanità e risorse materiali con chi è bisognoso e svantaggiato. Occorre, infatti, ribadire che «la solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere» (Enc. Caritas in veritate, 43). Migranti e rifugiati, insieme alle difficoltà, possono sperimentare anche relazioni nuove e ospitali, che li incoraggiano a contribuire al benessere dei Paesi di arrivo con le loro competenze professionali, il loro patrimonio socio-culturale e, spesso, anche con la loro testimonianza di fede, che dona impulso alle comunità di antica tradizione cristiana, incoraggia ad incontrare Cristo e invita a conoscere la Chiesa.
Certo, ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana. Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 – è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti. Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Oggi, infatti, vediamo che molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria. Così, mentre vi sono migranti che raggiungono una buona posizione e vivono dignitosamente, con giusta integrazione nell’ambiente d’accoglienza, ve ne sono molti che vivono in condizioni di marginalità e, talvolta, di sfruttamento e di privazione dei fondamentali diritti umani, oppure che adottano comportamenti dannosi per la società in cui vivono. Il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono.
A tale proposito, non possiamo dimenticare la questione dell’immigrazio¬ne irregolare, tema tanto più scottante nei casi in cui essa si configura come traffico e sfruttamento di persone, con maggior rischio per donne e bambini. Tali misfatti vanno decisamente condannati e puniti, mentre una gestione regolata dei flussi migratori, che non si riduca alla chiusura ermetica delle frontiere, all’inasprimen¬to delle sanzioni contro gli irregolari e all’adozione di misure che dovrebbero scoraggiare nuovi ingressi, potrebbe almeno limitare per molti migranti i pericoli di cadere vittime dei citati traffici. Sono, infatti, quanto mai opportuni interventi organici e multilaterali per lo sviluppo dei Paesi di partenza, contromisure efficaci per debellare il traffico di persone, programmi organici dei flussi di ingresso legale, maggiore disponibilità a considerare i singoli casi che richiedono interventi di protezione umanitaria oltre che di asilo politico. Alle adeguate normative deve essere associata una paziente e costante opera di formazione della mentalità e delle coscienze. In tutto ciò è importante rafforzare e sviluppare i rapporti di intesa e di cooperazione tra realtà ecclesiali e istituzionali che sono a servizio dello sviluppo integrale della persona umana. Nella visione cristiana, l’impegno sociale e umanitario trae forza dalla fedeltà al Vangelo, con la consapevolezza che «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (Gaudium et spes, 41).
Cari fratelli e sorelle migranti, questa Giornata Mondiale vi aiuti a rinnovare la fiducia e la speranza nel Signore che sta sempre accanto a noi! Non perdete l’occasione di incontrarLo e di riconoscere il suo volto nei gesti di bontà che ricevete nel vostro pellegrinaggio migratorio. Rallegratevi poiché il Signore vi è vicino e, insieme con Lui, potrete superare ostacoli e difficoltà, facendo tesoro delle testimonianze di apertura e di accoglienza che molti vi offrono. Infatti, «la vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata» (Enc. Spe salvi, 49).
Affido ciascuno di voi alla Beata Vergine Maria, segno di sicura speranza e di consolazione, «stella del cammino», che con la sua materna presenza ci è vicina in ogni momento della vita, e a tutti imparto con affetto la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 12 ottobre 2012
BENEDICTUS PP. XVI

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  • INTERVENTO DEL CARD. ANTONIO MARIA VEGLIÒ Sono lieto e onorato di presentare oggi il Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI sul tema "Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza" in occasione della celebrazione annuale della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che, a livello ecclesiale, avrà luogo il prossimo 13 gennaio 2013. Questo Messaggio pontificio mette in luce la realtà delle migrazioni economiche e di quelle forzate, alle quali dedichiamo i nostri due interventi, per illustrare il pensiero del Santo Padre riguardo all’intero fenomeno.
    Inaugurando l’Anno della Fede due settimane fa, la Chiesa ha fatto memoria del 50° anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. È stato un importante passo nel Suo cammino, dove si è confermato che "la Chiesa cammina insieme con l’umanità intera" (Gaudium et Spes, n. 40) in tutto ciò che l’uomo sperimenta ogni giorno. In realtà, come ha notato il Santo Padre, questa verità ha trovato continuamente eco nel Magistero della Chiesa e anche oggi spinge l’intera comunità ecclesiale a promuovere "lo sviluppo integrale dell’uomo" (Caritas in veritate, 11), che si riferisce "anche ai milioni di uomini e donne che, per diverse ragioni, vivono l’esperienza della migrazione" (Messaggio 2013).
    Infatti, oggi, il fenomeno migratorio impressiona per il vasto numero di persone che coinvolge. Basta dare uno sguardo, per esempio, al Rapporto Mondiale del 2011 sulle Migrazioni dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) nel quale troviamo una stima di circa 214 milioni di migranti internazionali, cioè il 3% della popolazione mondiale – in aumento rispetto al 2005 (nonostante gli effetti della crisi mondiale), quando il calcolo raggiungeva i 191 milioni. Oltre ai migranti internazionali, lo stesso rapporto stima che il numero di quelli interni nel 2010 sia stato di circa 740 milioni di persone. Se sommiamo le due cifre, rileviamo che circa un miliardo di esseri umani, cioè un settimo della popolazione globale, sperimenta oggi la sorte migratoria. È questa vasta moltitudine di gente che, trovandosi in una situazione di "disperazione di un futuro impossibile da costruire" e di "desiderio di una vita migliore", si sente spinta a cominciare il suo viaggio, anzi, il suo pellegrinaggio di fede e di speranza, così spesso alimentato dalla "profonda fiducia che Dio non abbandona le sue creature" (Messaggio 2013).
    "Fede e speranza, dunque, riempiono spesso il bagaglio di coloro che emigrano" (Messaggio 2103). Il Santo Padre ricorre a una metafora che, oltre ad offrirci una bella immagine su cui riflettere, esprime anche un aspetto fondamentale del cammino dell’homo viator. I migranti, nel loro pellegrinaggio esistenziale verso un futuro migliore, portano con sé sentimenti di fede e di speranza, anche se non si rendono ancora conto di ciò che stanno cercando esattamente. Dire che tentano di trovare solo un miglioramento alla loro situazione economica o sociale significherebbe semplificare troppo la realtà. In verità, nell’intimo del cuore, essi "nutrono la fiducia di trovare accoglienza, di ottenere un aiuto solidale e di trovarsi a contatto con persone che, comprendendo il disagio e la tragedia dei propri simili, e anche riconoscendo i valori e le risorse di cui sono portatori, siano disposte a condividere umanità e risorse materiali con chi è bisognoso e svantaggiato" (Messaggio 2013). Il miglioramento della qualità della loro vita è legato intrinsecamente a coloro che incontrano nelle nuove realtà in cui vengono accolti. È vero che non tutti i migranti – anche se hanno profonda fiducia che, nel migrare, Dio sarà accanto a loro –considerano il loro viaggio come un andare verso Dio e, dunque, un movimento animato dalla fede. Tuttavia, in un certo modo, è proprio nelle persone che non conoscono ancora che possono scoprire Dio stesso che tende la mano verso di loro, soprattutto nei Paesi d’antica tradizione cristiana, dove possono sperimentare la genuina bontà di molte realtà ecclesiali, che li accolgono e li aiutano.
    In effetti, proprio qui, nel vasto contesto delle migrazioni di molteplici appartenenze, la Chiesa è anche chiamata a svolgere la sua materna sollecitudine senza distinzione. Nel Suo Messaggio, il Santo Padre rileva due canali di attività, che non corrono paralleli, ma in complementarietà.
    Da una parte, quello più tangibile – e diciamo più facilmente notato a livello mediatico – che si concretizza negli "interventi di soccorso per risolvere le numerose emergenze, con generosa dedizione di singoli e di gruppi (...) in collaborazione con tutte le persone di buona volontà" (Messaggio 2013). Quest’attenzione è quella più immediata, quella che presenta un’emergenza ed esige una pronta risposta. A questo fa riferimento il Santo Padre già nella Sua prima enciclica, quando commenta la parabola del Buon Samaritano, dove il concetto di "prossimo" non riguarda più solo i connazionali e gli amici, ma "chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. – dice il Santo Padre – Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all'espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui e ora" (Deus caritas est, 15). I mezzi di comunicazione sociale, che voi qui rappresentate, sempre più spesso sono attenti a mostrare con immagini e a raccontare fatti di cronaca di migranti e rifugiati che hanno bisogno di aiuto adesso. Esiste una differenza, senza dubbio, tra il vedere e il fare, e ridurre le distanze è uno dei compiti della Chiesa, a cui fa "riscontro" quella fiducia che i migranti nutrono nel loro pellegrinaggio di fede e di speranza.
    Dall’altra parte, il Santo Padre fa notare l’importanza di una seconda direttrice, quella più impegnativa e meno "mediatica", poiché spesso richiede anche un cambiamento di mentalità: "La Chiesa non trascura di evidenziare gli aspetti positivi, le buone potenzialità e le risorse di cui le migrazioni sono portatrici" (Messaggio 2013). In questa espressione della sollecitudine della Chiesa prende corpo tutta la sua attività nel favorire e accompagnare l’inserimento integrale dei migranti nel loro nuovo contesto socio-culturale. Non è solo questione dell’accettazione della presenza straniera da parte della società di accoglienza, ma è soprattutto un processo (spesso lungo e delicato) che richiede anche mutua comprensione. Insieme alle difficoltà che la realtà migratoria comporta, i migranti così possono sperimentare anche la bontà e la solidarietà che, a loro volta, li spinge – scrive il Papa – a "contribuire al benessere dei Paesi di arrivo con le loro competenze professionali, il loro patrimonio socio-culturale e, spesso, anche con la loro testimonianza di fede" (Messaggio 2013).
    Una volta tracciato questo quadro di riferimento, nel suo Messaggio il Santo Padre rivolge un particolare pensiero anche alla dimensione religiosa, che la Chiesa non dovrebbe mai trascurare. Proprio a questa dimensione la Chiesa è stata chiamata, dalla sua natura e dalla sua missione, a prestare particolare attenzione. Non è un’esortazione solo ai fedeli cattolici, per i quali ciò si esprime, tra l’altro, "nel realizzare nuove strutture pastorali e valorizzare i diversi riti, fino alla piena partecipazione alla vita della comunità ecclesiale locale", ma anche a tutti coloro che credono in Gesù Cristo, chiamati al "dialogo ecumenico e alla cura delle nuove comunità" (Messaggio 2013).
    Faccio notare che il Messaggio per la Giornata Mondiale viene presentato a breve distanza dal viaggio del Papa in Libano, durante il quale egli ha firmato l’Esortazione Apostolica Post - sinodale, Ecclesia in Medio Oriente. Così, in modo molto concreto, il nostro sguardo può rivolgersi particolarmente ai Paesi del Medio Oriente, dove la presenza dei migranti cristiani, tra credenti di altre religioni, ha un ruolo significativo nel creare l’identità così particolare di quella regione. Dice il Papa nella sua Esortazione: "Gli uni sono responsabili degli altri davanti a Dio. È importante dunque che i dirigenti politici e i responsabili religiosi comprendano questa realtà e evitino una politica (...) che tenderebbe verso un Medio Oriente monocromo che non rifletterebbe per niente la sua ricca realtà umana e storica" (Ecclesia in Medio Oriente, 31). La mutua responsabilità e la collaborazione, in questa situazione specifica, possono permettere a tutti di vivere "arricchendosi con la diversità delle tradizioni spirituali, pur rimanendo in contatto con le comunità cristiane d’origine" (ibidem, 34). E quindi, la migrazione diventa anche occasione d’interscambio per le nazioni che accolgono i migranti. Ciò vale non solo per il Medio Oriente, ma anche per il mondo intero. Il fenomeno migratorio obbliga al confronto con differenti stili di vita e diverse culture, stimolando la costruzione di nuovi rapporti.
    A questo proposito, il Pew Research Centre, nel suo rapporto Faith on the Move del 2012, mette in relazione i flussi migratori con la fede professata dai migranti. Il rapporto individua dieci Paesi che hanno "accolto" il maggior numero di migranti negli ultimi anni, che sono gli Stati Uniti d’America, la Federazione Russa, la Germania, l’Arabia Saudita, il Canada, la Francia, il Regno Unito, la Spagna, l’India e l’Ucraina. (I dettagli di questo rapporto potete trovarli sulla copia cartacea di questo mio intervento.) Al primo posto in questo elenco vi sono gli Stati Uniti d’America, un Paese costruito dai vari flussi migratori, che oggi ospita circa 43 milioni di cittadini stranieri. Essi rappresentano il 13,5% della popolazione nazionale e, tra questi, ben 32 milioni sono cristiani, in maggioranza provenienti dal Messico. Questi numeri mostrano le potenziali risorse religiose che portano con sé i migranti e, allo stesso tempo, rivelano le aspettative che essi nutrono nei confronti delle comunità cristiane che li accolgono.
    Questo mette in luce, da una parte, il punto di vista della società che accoglie, della quale il Santo Padre ricorda che "ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune" (Messaggio 2013). Lo Stato, infatti, ha il dovere di promuovere condizioni di vita tali da permettere ai suoi cittadini di vivere in condizioni dignitose. Ma tale regolamentazione deve tenere conto del rispetto della dignità di ogni persona umana.
    E così, emerge anche il punto di vista dell’individuo e della sua famiglia. Nello spirito della Gaudium et Spes, il Papa ricorda che ogni persona ha il diritto a emigrare – un diritto iscritto tra quelli fondamentali per ogni essere umano. Ma oltre e prima di questo, "va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra" (Messaggio 2013). Quello di vivere nella propria patria è un diritto primario, che "diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione" (Messaggio 2013).
    Le migrazioni, poi, sono anche un cammino che comprende diritti e doveri: un’"attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa", ma anche un’"attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono" (Messaggio 2013). Si tratta di un itinerario di integrazione in cui non si devono trascurare gli orientamenti peculiari della pastorale migratoria. I migranti, anzitutto, godono come tutti dell’intangibile dignità della persona umana, che va rispettata tutelandone i diritti, che vanno di pari passo con i doveri, che a tutti spetta di compiere per il bene comune. Anche l’accoglienza e la solidarietà sono punti cardini in questo. Integrare non significa solo trovare una casa e un nuovo lavoro al migrante. Significa molto di più: trovare il proprio posto nella comunità, diventare membri effettivi della società di arrivo senza però omologarsi ad un mondo che, non essendo quello del migrante, risulterebbe di fatto culturalmente e spiritualmente vuoto.
    Scrive il Santo Padre: "In tutto ciò è importante rafforzare e sviluppare i rapporti di intesa e di cooperazione tra realtà ecclesiali e istituzionali che sono a servizio dello sviluppo integrale della persona umana" (Messaggio 2013). La Chiesa ha un ruolo importante nel processo della integrazione. Essa risponde ponendo l’accento sulla centralità e sulla dignità della persona con la raccomandazione a tutelare le minoranze, valorizzando le loro culture, il contributo delle migrazioni alla pacificazione universale, la dimensione ecclesiale e missionaria del fenomeno migratorio, l’importanza del dialogo e del confronto all’interno della società civile, della comunità ecclesiale e tra le diverse confessioni e religioni. Del resto, nei suoi interventi sulla problematica umana, sociale e religiosa dell’emigrazione, la Chiesa non manca di dare a questo fenomeno, oggi sempre più in evidenza, una singolare impronta, caratterizzata da forte carattere umanista, oltre che cristiano.
    Il Papa conclude il suo Messaggio riprendendo una metafora dell’enciclica Spe salvi: "La vita è come un viaggio sul mare della storia (...) nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente" (Spe salvi, 49). Questa allegoria si applica anche a tante persone che, con passione e generosità, operano a fianco di milioni di persone in mobilità. Esse sono diventate "luci vicine" che offrono "orientamento per la traversata" (Messaggio 2013). Concludendo, desidero esprimere sentimenti di stima, apprezzamento e sincera gratitudine verso tutti coloro che si impegnano nella pastorale dei migranti. Grazie a loro la Chiesa guarda, ascolta, rispetta e condivide con ogni migrante tutti i passaggi fondamentali della vita, rinnovando il suo impegno a farsi sempre più "esperta in umanità", come disse Paolo VI, citato nel presente Messaggio.
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    NOTA
    Da un lato, il periodo dal 2010 al 2011, è stato segnato da un lento ricupero economico dalla crisi mondiale. Dall’altro, ancora si sentono i suoi effetti, ma le risultanti tendenze sono sentite più a livello regionale e locale che mondiale. Si nota che alcune nazioni di destinazione hanno adeguato i loro programmi migratori sia in previsione di una riduzione della domanda dei lavoratori migranti sia semplicemente per proteggere i loro mercati di lavoro. Le preoccupazioni riguardo alle rimesse notevolmente ridotte si sono rivelate, per gran parte, senza fondamento1.
    I flussi migratori verso i Paesi sviluppati sono rallentati durante la crisi e negli anni seguenti. Per esempio, il numero dei migranti entrati negli Stati Uniti d’America è diminuito da 1.130.818 persone nel 2009 a 1.042.625 nel 2010; nel Regno Unito, il numero calato da 505.000 nel 2008 a 470.000 nel 2009; la situazione in Spagna è caratterizzata da una diminuzione da 692.228 persone entrate nel 2008 al 469.342 nel 2009, mentre in Svezia vi è stata una diminuzione da 83.763 nel 2009 a 79.036 nel 2010; in Nuova Zelanda, da 63.910 nel 2008 a 57.618 nel 20102.
    Tuttavia, non ci sono state notevoli inversioni dei movimenti migratori e il numero dei migranti internazionali è rimasto fondamentalmente immutato: nel 2010 il numero dei migranti internazionali nel mondo è stimato a circa 214 milioni persone, un aumento rispetto ai 191 milioni del 20053. Questa cifra è pari al 3% della popolazione totale mondiale. Inoltre, se si stima che il numero dei migranti interni è pari a 740 milioni persone, questo significa che circa un miliardo di esseri umani (cioè, un settimo della popolazione globale) è costituita da migranti4.
    Tra i primi dieci Paesi di origine dei migranti internazionali, il Messico è il primo con 12.930.000 persone emigrate. Nelle statistiche, il Paese nord-americano è seguito dall’India (11.810.000 persone) e dalla Federazione Russa (11.260.000). La Cina, il Bangladesh e l’Ucraina seguono nell’elenco, in riferimento al numero di emigranti, con cifre rispettivamente pari a 8.440.000, 6.480.000 e 6.450.000 persone emigrate. Il settimo posto spetta ai territori palestinesi con 5.740.000 milioni di migranti, poiché le statistiche delle Nazioni Unite elencano come migranti non soltanto i rifugiati Palestinesi, ma anche i loro discendenti. Gli ultimi posti spettano al Regno Unito con 5.010.000, alle Filippine con 4.630.000 e al Pakistan con 4.480.0005.
    Come detto già sopra, nel 2011, dal Messico sono emigrate più di 12.000.000 di persone, un numero pari al 10,4% della popolazione totale. I Paesi di destinazione, oltre agli Stati Uniti, vi sono Canada (49.925), Spagna (23.587), Germania (9.583), Bolivia (7.733), Regno Unito (5.738) e Costa Rica (5.500)6.
    L’elenco dei primi dieci Paesi di destinazione include al primo posto gli Stati Uniti d’America con 42.810.000 persone, seguito da Federazione Russa (12.270.000), Germania (10.760.000), Arabia Saudita (7.290.000) e Canada (7.200.000). È notevole che gli Stati Uniti ospitano immigrati quattro volte di più che Russia, Germania, Arabia Saudita e Canada insieme. Gli ultimi cinque posti nell’elenco sono occupati da quattro Paesi europei, cioè Francia (6.680.000), Regno Unito (6.450.000), Spagna (6.380.000) e Ucraina (5.260.000), mentre l’India è al nono posto con 5.440.000 ingressi. Sommando tutte queste cifre, le dieci nazioni preferite come destinazione ospitano circa 110 milioni di migranti, un numero superiore al 50% dei migranti internazionali nel mondo7.
    Nel 2010, gli Stati Uniti d’America ospitavano circa 43 milioni di cittadini stranieri, che rappresentano il 13,5% della popolazione nazionale8. Di questi, quasi un terzo è costituito da messicani (11.746.539 – 29.4% della popolazione migratoria), il gruppo più numeroso nel Paese. Seguono tre nazioni asiatiche: India (1.796.467 – 4.5%), Filippine (1.766.501 – 4.4%) e Cina (1.604.373 – 4%). Il Vietnam è provenienza di 1.243.785 persone e El Salvador di 1.207.128. Cuba, invece, è Paese di origine di 1.112.064 immigrati, mentre la Corea lo è per 1.086.945 persone9.
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    1  Fonte: International Organization for Migration, World Migration Report 2011, p. xviii.
    2
    Fonte: International Organization for Migration, World Migration Report 2011, p. 49.
    3
    Fonte: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division: http://esa.un.org/migration (dati del 2012.10.13).
    4
     Fonte: International Organization for Migration, World Migration Report 2011, p. 49.
    5
     Fonte: Pew Research Centre, Faith on the Move (2012), p. 23; ibidem, p. 52-53.
    6
    Fonte: Instituto de los Mexicanos en el Exteriór, http://www.ime.gob.mx (dati del 2012.10.15).
    7
    Pew Research Centre, Faith on the Move (2012), p. 23.
    8
    Fonte: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division: http://esa.un.org/migration (dati del 2012.10.13).
    9
    Fonte: Pew Hispanic Centre, Statistical Portrait of the Foreign-born Population in the United States 2010, Table 5
     [01391-01.01] [Testo originale: Italiano]

  • INTERVENTO DI S.E. MONS. JOSEPH KALATHIPARAMBIL
     Il Messaggio che stiamo presentando è particolarmente attento al fenomeno delle migrazioni forzate. Il riferimento è a rifugiati e richiedenti asilo, che affrontano le loro situazioni con notevole coraggio, intraprendenza e creatività, nonostante le avversità che sono accadute nella loro vita. Essi desiderano con tutto il cuore un futuro aperto al cambiamento e a nuove opportunità, fiduciosi di potere ricostruire la propria storia. La fede e la speranza "riempiono spesso il bagaglio" di queste persone, e la Chiesa evidenzia "gli aspetti positivi, le buone potenzialità e le risorse di cui le migrazioni sono portatrici".
    Di fatto, sono ancora molti coloro che, anche oggi, sono costretti a lasciare i loro luoghi familiari, dove affondano le loro radici e dove sono sepolti i loro cari. Essi devono abbandonare le loro terre a causa delle innumerevoli violazioni dei diritti umani, e della crudeltà di sanguinosi conflitti. Penso, ad esempio, alla situazione in Siria, nel Mali e nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’80% delle vittime sono i civili. La fuga da queste tragedie prende diverse vie. Alcuni, ad esempio, devono camminare per settimane intere prima di varcare la frontiera di un Paese africano orientale. Purtroppo, durante questi esodi, non è raro che una madre perda uno o più figli, a causa di privazioni o stremati dalle fatiche, come è successo in Sudan. Altre persone arrivano a bordo di canotti e ricevono generosamente asilo nello Yemen. Altri ancora si nascondono nei camion e in altri mezzi di trasporto per raggiungere l'Europa dall'Afghanistan. Così, uomini, donne e bambini, molte volte minori non accompagnati, cercano di salvare la propria vita. A questo riguardo, il Santo Padre definisce in modo esplicito questa forma di migrazione «"un calvario" per la sopravvivenza».
    Dove andranno a finire queste persone in fuga, non lo sanno neanche loro. Il loro destino è ancora incerto. Alcuni sono accolti in campi profughi, come quello di Kakuma, in Kenya, che ha raggiunto una popolazione di 100 000 rifugiati grazie alla benevolenza della comunità internazionale e alle scorte di cibo. Tra questi, molti sono rimasti nel campo anche 20 anni e i loro figli, nati e cresciuti in quell’ambiente, non conoscono altra realtà. Vi sono, poi, coloro che sono costretti a vivere in contesti urbani nuovi e precari, dove solo con difficoltà vengono individuati e aiutati da organizzazioni umanitarie internazionali, come avviene in Sud Africa, in Giordania e in Libano. Vivono in ambienti angusti, lottano per sopravvivere, in continua competizione con i nativi alla ricerca di un posto di lavoro o di un piccolo guadagno. A questo si aggiunge l’estrema difficoltà di ricevere le cure mediche di base e l’educazione scolastica.
    A volte, invece, i rifugiati fanno ricorso ai contrabbandieri di persone per raggiungere la loro meta. Il loro destino può tuttavia peggiorare quando a destinazione i suddetti contrabbandieri diventano trafficanti di persone e sfruttano le loro vittime in diversi modi, come ad esempio nel lavoro forzato e nello sfruttamento sessuale. Nell’Unione Europea, queste situazioni sono il segno che diventa sempre più difficile poter chiedere asilo, specialmente da quando in alcuni Paesi sono state introdotte misure restrittive per ostacolare l’accesso al territorio (mi riferisco ai requisiti per i visti, alle sanzioni applicabili ai vettori, alla lista di "safe Countries of origin"). Queste limitazioni hanno incentivato le attività dei contrabbandieri, dei trafficanti, e pericolose traversate in mare che hanno visto sparire fra le onde già troppe vite umane.
    Tutto ciò avviene nonostante gli obblighi della comunità internazionale circa la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, nel rispetto della dichiarazione e dello spirito dei diritti umani, dei diritti del rifugiato e del diritto internazionale umanitario. Innanzitutto vi è l’accesso alla richiesta di asilo. Esso comprende anche elementi primari come il cibo, l’alloggio, il vestiario e le cure mediche, ma anche il diritto al lavoro e alla libera circolazione. Non si sottolinea mai abbastanza che i richiedenti asilo si trovano nella situazione di dover affrontare viaggi fuori dalle loro frontiere ed è loro diritto non possedere validi documenti di viaggio o d’identità.
    Tutto questo è il fondamento di un processo di integrazione che avrà successo solo se rifugiati e richiedenti asilo avranno lo spazio e la possibilità di far parte, a pieno titolo, dei processi sociali della società di accoglienza. Naturalmente, ciò significa riconoscere le risorse che i rifugiati possono offrire per contribuire alla vita sociale, economica, culturale e civile della società, con le loro abilità e competenze. Inoltre, ciò richiede che essi siano in grado di manifestare i loro punti di vista e di essere coinvolti nei processi decisionali. Questo conduce alla capacità del singolo di prendersi cura di se stesso e della propria famiglia con dignità, di soddisfare tutte le esigenze essenziali e di condurre una vita piena nella società. Ciò promuove un futuro comune per tutti i residenti in un Paese e come il Santo Padre afferma nel suo Messaggio: "L’autentica integrazione [promuove] una società dove tutti siano membri attivi e responsabili ciascuno del benessere dell’altro, generosi nell’assicurare apporti originali, con pieno diritto di cittadinanza e partecipazione ai medesimi diritti e doveri".
    Tuttavia, sappiamo bene che ciò richiede grandi sforzi e adattamento da parte dello Stato, del pubblico in generale e del singolo individuo, guidati da un atteggiamento aperto di ospitalità. Tale atteggiamento è fondamentale e dovrebbe iniziare fin dal loro arrivo. I primi incontri sono determinanti per stabilire se i nuovi arrivati possono entrare o meno a far parte della società. Per questo, sono necessarie politiche adeguate per il loro benessere e la garanzia dei loro diritti. C’è bisogno anche di un atteggiamento socievole e disponibile da parte del grande pubblico con piccoli gesti di attenzione nei loro riguardi (un sorriso, un saluto, una chiacchierata, un invito a partecipare alle attività di tutti i giorni) che aiuteranno i rifugiati e i richiedenti asilo a sentirsi più accolti e faciliteranno il processo di inclusione nella società. In breve, una testimonianza di vicinanza delle persone nei loro confronti.
    I rifugiati devono anche adattarsi al loro nuovo ambiente, a volte totalmente diverso da quello a cui erano abituati. Ciò avrà i suoi effetti su di loro e li cambierà. Tuttavia questo incontro di diverse culture avrà anche conseguenze sul Paese di accoglienza e sui suoi abitanti e trasformerà la loro cultura, come risultato di un processo bilaterale di reciproco incontro.
    La Chiesa non manca di essere presente fra i richiedenti asilo e i rifugiati. L’accoglienza e l’ospitalità sono un'importante espressione del Vangelo. Esse sono caratteristiche fondamentali del ministero pastorale, che non è tanto un compito, quanto un modo di vivere e di condividere. Il prossimo è considerato come una persona e non un numero, un caso, o un carico di lavoro.
    Anche il Messaggio del Santo Padre allude alle "varie realtà" ecclesiali che promuovono programmi di sostegno e l’accesso completo alla parità dei diritti nella vita civile. Vi sono programmi per gli alloggi, l’istruzione e l’accesso al mercato del lavoro, oltre ai servizi di consulenza, programmi di assistenza legale e sostegno per le associazioni di immigrati. Naturalmente, vengono sviluppate strutture pastorali adatte. La speranza, il coraggio, l’amore e la creatività sono necessari per ripristinare le vite di coloro che sono stati forzati allo sradicamento.
    La presenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati ha anche conseguenze sulla Chiesa e i suoi fedeli. Nel rispondere ai bisogni e alla dignità di coloro che sono costretti ad abbandonare la propria casa, è importante testimoniare insieme un profondo impegno per rendere presente il Regno di Dio. Ciò potrebbe essere realizzato attraverso un’azione comune e la cooperazione con tutti. Gli uni e gli altri si avvicineranno e si rinnoverà il servizio in risposta alle sfide della sofferenza. Passi tradizionali e innovativi sono necessari per consentire alla Chiesa di far fronte a questa sfida d’amore cristiano.
    Infine, è importante ricordare che i rifugiati e i richiedenti asilo hanno un grande potenziale per testimoniare ed evangelizzare. Essi possono essere fonte di ispirazione per esprimere nuovamente la fede. Con le loro pratiche culturali e religiose e per il modo in cui vivono ed esprimono la religione, essi sono in grado di arricchire le società che li accolgono. A volte con più calore, con stili più espressivi, o anche più convincenti.
    La migrazione è un pellegrinaggio, una ricerca dell'individuo, della società e della Chiesa. Vorrei concludere citando l’appello che il Santo Padre fa nel Messaggio: "Nella visione cristiana, l'impegno sociale e umanitario trae forza dalla fedeltà al Vangelo, con la consapevolezza che «chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (Gaudium et spes, 41)".