venerdì 30 novembre 2012

Silvano Fausti: "La fine del tempo".

 Nei Vangeli di questi giorni e fino a tutta la prima parte dell'Avvento (17 dicembre) ascolteremo testi pieni di escatologia, di tensione verso il senso ultimo delle cose, di attesa della seconda venuta di Cristo. L'annuncio di questo tempo forte non può dunque prescindere dalla nostra riflessione sul ritorno glorioso del Signore. Un testo biblico che può aiutarci in tal senso è indubbiamente la Prima Lettera ai Tessalonicesi di Paolo, che è stata al centro dell'annuncio di Avvento che Kiko Arguello ha fatto quest'anno per tutti i fratelli del Cammino Neocatecumenale. A loro e a tutti quelli che vogliono entrare in questo Tempo con lo zelo per annunciare il Kerygma eterno dedico il libro che segue, di Silvano Fausti (*). Buon Avvento a tutti!


 


(*): Silvano Fausti, gesuita, dopo aver compiuto gli studi di filosofia e teologia con un dottorato sulla fenomenologia del linguaggio presso l’università di Münster in Germania, è stato docente di teologia. Pur lavorando part-time in vari continenti, da trent’anni vive in una cascina alla periferia di Milano (Villapizzone), con una comunità di gesuiti dediti al servizio della Parola e inserita in una comunità più ampia di famiglie aperte ai problemi dell’emarginazione. La sua ricerca coniuga esperienza di vita e riflessione rigorosa, esposizione precisa e linguaggio semplice, in un costante dialogo a tutto campo tra modernità e tradizione. È autore di numerosi libri, molti dei quali pubblicati da Àncora.

Artefici di una grande speranza

Nel quadro del tradizionale scambio di Delegazioni per le rispettive feste dei Santi Patroni, il 29 giugno a Roma per la celebrazione dei santi apostoli Pietro e Paolo e il 30 novembre a Istanbul per la celebrazione di sant’Andrea apostolo, il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha guidato quest’anno la delegazione della Santa Sede per la festa del Patriarcato Ecumenico.
Il porporato è stato accompagnato dal vescovo Brian Farrell, segretario del dicastero, e da monsignor Andrea Palmieri, sottosegretario. A Istanbul, si è unito alla delegazione il nunzio apostolico in Turchia, l’arcivescovo Antonio Lucibello. La delegazione della Santa Sede ha preso parte alla solenne divina liturgia presieduta da Sua Santità Bartolomeo i nella chiesa patriarcale del Fanar, e ha avuto un incontro con il Patriarca e conversazioni con la commissione sinodale incaricata delle relazioni con la Chiesa cattolica. Il cardinale Koch ha consegnato al Patriarca Ecumenico un messaggio autografo del Santo Padre — di cui ha dato pubblica lettura alla conclusione della divina liturgia — accompagnato da un dono. Il porporato ha inoltre incontrato i rappresentanti della comunità cattolica locale e si è intrattenuto in una conversazione con il comitato ecumenico del Vicariato apostolico della Chiesa cattolica d’Istanbul.
Questa la traduzione italiana del messaggio di Benedetto XVI.

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A Sua Santità Bartolomeo i
Arcivescovo di CostantinopoliPatriarca Ecumenico

«Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3, 17)

Animato da sentimenti di gioia profonda e di vicinanza fraterna, vorrei oggi fare mio questo auspicio, che san Paolo rivolge alla comunità cristiana di Efeso, per formularlo a lei, Santità, ai membri del Santo Sinodo, al clero e a tutti i fedeli, riuniti in questo giorno di festa per celebrare la grande solennità di sant’Andrea. Seguendo l’esempio dell’Apostolo, anche io, in quanto vostro fratello nella fede, «piego le ginocchia davanti al Padre» (Ef 3, 14), per chiedere che vi conceda «di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito» (Ef 3, 16) e di «conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 19).
Lo scambio di Delegazioni tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli, che si rinnova ogni anno in occasione delle rispettive feste patronali di sant’Andrea al Fanar e dei santi Pietro e Paolo a Roma, testimonia in modo concreto il legame di vicinanza fraterna che ci unisce. È una comunione profonda e reale, sebbene ancora imperfetta, che si fonda non su ragioni umane di cortesia e di convenienza, ma sulla fede comune nel Signore Gesù Cristo, il cui Vangelo di salvezza ci è pervenuto grazie alla predicazione e alla testimonianza degli apostoli, suggellato dal sangue del martirio. Potendo contare su questo solido fondamento, possiamo procedere insieme con fiducia nel cammino che conduce verso il ripristino della piena comunione. In questo cammino, grazie anche al sostegno assiduo e attivo di Vostra Santità, abbiamo compiuto tanti progressi, per i quali le sono molto riconoscente. Anche se la strada da percorrere può sembrare ancora lunga e difficile, la nostra intenzione di proseguire in questa direzione resta immutata, confortati dalla preghiera che nostro Signore Gesù Cristo ha rivolto al Padre: «siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda» (Gv 17, 21).
Santità, in questo momento desidero rinnovarle l’espressione della mia viva riconoscenza per le parole pronunciate al termine della celebrazione per il cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II e per l’apertura dell’Anno della fede, che si è tenuta a Roma a ottobre, parole mediante le quali lei ha saputo farsi interprete dei sentimenti di tutti i presenti. Conservo vivi ricordi della sua visita a Roma in quella circostanza, durante la quale abbiamo avuto l’opportunità di rinnovare i vincoli della nostra sincera e autentica amicizia. Questa amicizia sincera che è nata tra di noi, con una grande visione comune delle responsabilità alle quali siamo chiamati come cristiani e come pastori del gregge che Dio ci ha affidato, è motivo di grande speranza affinché si sviluppi una collaborazione sempre più intensa, nel compito urgente di rendere, con rinnovato vigore, testimonianza del messaggio evangelico al mondo contemporaneo. Ringrazio inoltre di tutto cuore lei, Santità, e il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico per aver voluto inviare un delegato fraterno affinché partecipasse all’Assemblea ordinaria generale del Sinodo de vescovi sul tema: «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». La sfida più urgente, sulla quale ci siamo sempre trovati in totale accordo con Vostra Santità, è oggi quella di come far giungere l’annuncio dell’amore misericordioso di Dio all’uomo del nostro tempo, così spesso distratto, più o meno incapace di una riflessione profonda sul senso stesso della sua esistenza, preso come tale a partire da progetti e da utopie che non possono che deluderlo. La Chiesa non ha altro messaggio oltre al «Vangelo di Dio» (Rm 1, 1) e non ha altro metodo oltre all’annuncio apostolico, sostenuto e garantito dalla testimonianza di santità della vita dei pastori e del popolo di Dio. Il Signore Gesù ci ha detto che «la messe è molta» (Lc 10, 2), e non possiamo accettare che vada perduta a causa delle nostre debolezze e delle nostre divisioni.
Santità, nella Divina liturgia odierna che avete celebrato in onore di sant’Andrea, patrono del Patriarcato ecumenico, avete pregato «per la pace nel mondo intero, per la prosperità delle sante Chiese di Dio e per l’unione di tutti». Con tutti i fratelli e le sorelle cattolici, mi unisco alla vostra preghiera. La piena comunione alla quale aspiriamo, è un dono che viene da Dio. A Lui, «che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi» (Ef 3, 20), rivolgiamo con fiducia la nostra supplica, per intercessione di sant’Andrea e di san Pietro, suo fratello.
Con questi sentimenti di sincero affetto in Cristo Signore, rinnovo i miei cordiali auguri e scambio con lei, Santità, un abbraccio fraterno.
Dal Vaticano, 23 novembre 2012

Benedetto XVI
L'Osservatore Romano 1° dicembre 2012

Ignorantia Christi non excusat




CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 30 novembre 2012 – C’è un angoscioso dilemma nel nostro tempo attuale che impedisce la piena realizzazione di una nuova Evangelizzazione: l’ignoranza religiosa.
È questa “uno dei più gravi problemi della nostra epoca”, nonché “uno degli ostacoli più forti alla missione pastorale” secondo quanto ha affermato Benedetto XVI nell’Udienza di stamane al terzo gruppo di vescovi della Conferenza Episcopale di Francia in visita ad limina.
È un’ignoranza generalizzata, ha denunciato il Papa, che tocca non solo il mondo laicista e secolarizzato, ma anche quello cattolico, andando ad inficiare lo stesso contenuto della fede. Questa ignoranza, ha spiegato, è “doppia”: si divide in “ignoranza della persona di Gesù Cristo e ignoranza della sublimità dei suoi insegnamenti, del loro valore universale e permanente nella ricerca del senso della vita e della felicità”.
Sono parole forti quelle del Pontefice, che non assumono però un tono di critica o di moralismo, ma assomigliano più al richiamo di un padre amorevole preoccupato per la vita dei suoi figli. “Questa ignoranza – ha dichiarato il Santo Padre - porta le nuove generazioni all'incapacità di comprendere la storia e di sentirsi eredi di questa tradizione che ha modellato la vita, la società, l'arte e la cultura europea”.
Per questo motivo, “assume un'urgenza speciale” la nuova Evangelizzazione in cui la Chiesa “è fermamente impegnata”. La Chiesa francese, in modo particolare, “ha una lunga lista di santi, dottori, martiri e confessori della fede”. “Voi siete gli eredi di una grande esperienza umana e di una ricchezza spirituale immensa – ha detto il Papa ai presuli –. Queste origini e questo passato glorioso ci permettono di nutrire una grande speranza riguardo alle sfide del terzo millennio, e di ascoltare le aspettative dell'umanità del nostro tempo, a cui solo Dio può dare una risposta soddisfacente”.
La nuova Evangelizzazione - ha proseguito – sarà, dunque, efficace “se coinvolge in profondità” la società a cui si rivolge, quindi le comunità, le parrocchie e, soprattutto, i laici.
I laici, assieme ai vescovi e ai sacerdoti, sono infatti “il volto del mondo nella Chiesa e allo stesso tempo il volto della Chiesa nel mondo” ha sottolineato il Pontefice, osservando che “i segni di vitalità e l'impegno dei laici nella società francese sono già una realtà incoraggiante”.
Nonostante ciò, Benedetto XVI non ha mancato di esortare i vescovi a non sottovalutare il calo del numero di vocazioni e ordinazioni nel proprio Paese. “La Chiesa in Europa e in Francia - ha avvertito - non può rimanere indifferente davanti alla diminuzione delle vocazioni e ordinazioni, e ad altri tipi di chiamata che Dio suscita nella Chiesa”.
In tal contesto, “urge mobilitare tutte le energie disponibili, affinché i giovani possano ascoltare la voce del Signore”. “Dio chiama chi vuole e quando vuole” ha ribadito il Papa, ricordando in particolare le famiglie e le comunità cristiane quali “terreno particolarmente fertile” per le vocazioni.
L’attenzione del Santo Padre si è poi concentrata sui giovani, “speranza e futuro della Chiesa e del mondo”, e sull'importanza di un'educazione cattolica. “Gli istituti cattolici - ha evidenziato - occupano il primo posto nel grande dialogo tra la fede e la cultura. Sono luoghi di apprendimento e di dialogo, come anche centri di ricerca che devono svilupparsi sempre di più ed essere sempre più ambiziosi”.
Il Papa ha, quindi, elogiato le iniziative di alcune diocesi francesi volte a promuovere la conoscenza della teologia tra i giovani studenti di altre discipline. “La teologia è una fonte di saggezza, di allegria e di meraviglia – ha confermato il Papa - che non si può limitare ai seminaristi, ai sacerdoti e alle persone consacrate”. Proposta a numerosi giovani e adulti li “conforterà nella loro fede e farà di loro, senza dubbi, degli apostoli audaci e convincenti”.
Il Santo Padre ha concluso il suo discorso parlando delle scuole cattoliche che hannno oggi “una responsabilità storica”. “È necessario trovare i cammini affinché la trasmissione della fede continui ad essere centrale nel loro progetto educativo – ha detto - L'educazione nei valori cristiani dà le chiavi della cultura del vostro Paese. Aprendosi alla speranza e alla libertà genuina, continuerà a dare dinamismo e creatività.” (S. Cernuzio)

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  Di seguito in traduzione italiana il discorso rivolto dal Santo Padre ai presuli d’Oltrealpe.

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Signor cardinale, cari fratelli nell’episcopato,
Conservo sempre vivo il ricordo del mio viaggio apostolico in Francia in occasione delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario delle apparizioni a Lourdes dell’Immacolata Concezione. Siete l’ultimo dei tre gruppi di vescovi di Francia venuti in visita ad limina. La ringrazio, eminenza, per le sue cordiali parole. Rivolgendomi a quanti vi hanno preceduto, ho aperto una sorta di trittico la cui indispensabile predella potrebbe essere il discorso che vi ho rivolto a Lourdes nel 2008. L’esame di questo insieme inscindibile vi sarà certamente utile e guiderà le vostre riflessioni.
Voi siete responsabili di regioni in cui la fede cristiana si è radicata molto presto e ha recato frutti ammirevoli. Regioni legate a nomi illustri che si sono adoperati tanto per il radicamento e la crescita del Regno di Dio in questo mondo: martiri come Potino e Blandina, grandi teologi come Ireneo e Vincenzo di Lérins, maestri della spiritualità cristiana come Bruno, Bernardo, Francesco di Sales e tanti altri. La Chiesa in Francia s’iscrive in una lunga stirpe di santi, dottori, martiri e confessori della fede. Siete gli eredi di una grande esperienza umana e di un’immensa ricchezza spirituale, che, senza alcun dubbio, sono quindi per voi fonte d’ispirazione nella vostra missione di pastori.
Queste origini e questo passato glorioso, sempre presenti nel nostro pensiero e tanto cari al nostro spirito, ci permettono di nutrire una grande speranza, insieme salda e audace, al momento di raccogliere le sfide del terzo millennio e di ascoltare le aspettative degli uomini della nostra epoca, alle quali Dio solo può dare una risposta soddisfacente. La Buona Novella che abbiamo il compito di annunciare agli uomini di tutti i tempi, di tutte le lingue e di tutte le culture, si può riassumere in poche parole: Dio, creatore dell’uomo, in suo figlio Gesù ci fa conoscere il suo amore per l’umanità: «Dio è amore» (cfr. i Gv), Egli vuole la felicità delle sue creature, di tutti i suoi figli. La costituzione pastorale Gaudium et spes (cfr. n. 10) ha affrontato le questioni chiave dell’esistenza umana, sul senso della vita e della morte, del male, della malattia e della sofferenza, così presenti nel nostro mondo. Ha ricordato che, nella sua bontà paterna, Dio ha voluto dare delle risposte a tutti questi interrogativi e che Cristo ha fondato la sua Chiesa affinché tutti gli uomini potessero conoscerle. Perciò uno dei problemi più seri della nostra epoca è quello dell’ignoranza pratica religiosa in cui vivono molti uomini e donne, compresi alcuni fedeli cattolici (cfr. esortazione apostolica Christifideles laici, capitolo v).
Per questo motivo la nuova evangelizzazione, nella quale la Chiesa si è risolutamente impegnata dal concilio Vaticano II e della quale il motu proprio Ubicumque et semper ha delineato le principali modalità, si presenta con un’urgenza particolare, come hanno sottolineato i padri del Sinodo che si è da poco concluso. Essa chiede a tutti i cristiani di rendere ragione della speranza che è in loro (cfr. 1 Pt 3, 15), consapevole che uno degli ostacoli più temibili della nostra missione pastorale è l’ignoranza del contenuto della fede. Si tratta in realtà di una duplice ignoranza: un disconoscimento della persona di Gesù Cristo e un’ignoranza della sublimità dei suoi insegnamenti, del loro valore universale e permanente nella ricerca del senso della vita e della felicità. Questa ignoranza provoca inoltre nelle nuove generazioni l’incapacità di comprendere la storia e di sentirsi eredi di questa tradizione che ha modellato la vita, la società, l’arte e la cultura europee.
Nell’attuale Anno della fede, la Congregazione per la Dottrina della Fede, nella nota del 6 gennaio 2012, ha dato le indicazioni pastorali auspicabili per mobilitare tutte le energie della Chiesa, l’azione dei suoi pastori e dei suoi fedeli, al fine di animare in profondità la società. È lo Spirito Santo che, «con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova» (Lumen gentium, 4). Questa nota ricorda che «ogni iniziativa per l’Anno della fede vuole favorire la gioiosa riscoperta e la rinnovata testimonianza della fede. Le indicazioni qui offerte hanno lo scopo di invitare tutti i membri della Chiesa ad impegnarsi perché quest’Anno sia occasione privilegiata per condividere quello che il cristiano ha di più caro: Cristo Gesù, Redentore dell’uomo, Re dell’Universo, “autore e perfezionatore della fede” (Eb 12, 2)». Il Sinodo dei vescovi ha proposto di recente a tutti e a ognuno i mezzi per condurre a buon fine questa missione. L’esempio del nostro divino Maestro è sempre il fondamento di tutta la nostra riflessione e della nostra azione. Preghiera e azione, questi sono i mezzi che il nostro Salvatore ci chiede ancora e sempre di utilizzare.
La nuova evangelizzazione sarà efficace se coinvolgerà a fondo le comunità e le parrocchie. I segni di vitalità e l’impegno dei fedeli laici nella società francese sono già una realtà incoraggiante. Molti sono stati in passato gli impegni dei laici; penso a Pauline-Marie Jaricot, della cui morte abbiamo celebrato il centocinquantesimo anniversario, e alla sua opera per la diffusione della fede, così determinante per le missioni cattoliche nel XIX e XX secolo. I laici, con i loro vescovi e i sacerdoti, sono protagonisti nella vita della Chiesa e nella sua missione di evangelizzazione. In diversi suoi documenti (Lumen gentium, Apostolicam actuositatem, tra gli altri), il concilio Vaticano II ha sottolineato la specificità della loro missione: permeare le realtà umane dello spirito del Vangelo. I laici sono il volto del mondo nella Chiesa e allo stesso tempo il volto della Chiesa nel mondo. Conosco il valore e la qualità del multiforme apostolato dei laici, uomini e donne. Unisco la mia voce alla vostra per esprimere loro i miei sentimenti di stima.
La Chiesa in Europa e in Francia non può restare indifferente dinanzi alla diminuzione delle vocazioni e delle ordinazioni sacerdotali, e neppure degli altri tipi di chiamate che Dio suscita nella Chiesa. È urgente mobilitare tutte le energie disponibili, affinché i giovani possano ascoltare la voce del Signore. Dio chiama chi vuole e quando vuole. Tuttavia, le famiglie cristiane e le comunità ferventi restano terreni particolarmente favorevoli. Queste famiglie, queste comunità e questi giovani sono dunque al centro di ogni iniziativa di evangelizzazione, malgrado un contesto culturale e sociale segnato dal relativismo e dall’edonismo.
Essendo i giovani la speranza e il futuro della Chiesa e del mondo, non voglio tralasciare di menzionare l’importanza dell’educazione cattolica. Questa svolge un compito ammirevole, spesso difficile, reso possibile dall’instancabile dedizione dei formatori: sacerdoti, persone consacrate o laici. Al di là del sapere trasmesso, la testimonianza di vita dei formatori deve permettere ai giovani di assimilare i valori umani e cristiani al fine di tendere alla ricerca e all’amore del vero e del bello (cfr. Gaudium et spes, 15). Continuate a incoraggiarli e ad aprire loro nuove prospettive affinché beneficino anche dell’evangelizzazione. Gli istituti cattolici sono chiaramente al primo posto nel grande dialogo tra la fede e la cultura. L’amore per la verità che irradiano è di per sé evangelizzatore. Sono ambiti d’insegnamento e di dialogo, e anche centri di ricerca, che devono essere sempre più sviluppati, più ambiziosi. Conosco bene il contributo che la Chiesa in Francia ha apportato alla cultura cristiana. So della vostra attenzione — e vi incoraggio in tal senso — a coltivare il rigore accademico e a tessere legami più intensi di comunicazione e di collaborazione con università di altri Paesi, sia perché beneficino degli ambiti in cui eccellete, sia perché impariate da loro, al fine di servire sempre meglio la Chiesa, la società, l’intero uomo. Sottolineo con gratitudine le iniziative prese in alcune vostre diocesi per favorire l’iniziazione teologica di giovani studenti di discipline profane. La teologia è una fonte di sapienza, di gioia, di meraviglia che non può essere riservata solo ai seminaristi, ai sacerdoti e alle persone consacrate. Proposta a numerosi giovani e adulti, essa li conforterà nella fede e farà di loro, senza alcun dubbio, apostoli audaci e convincenti. È dunque una prospettiva che potrebbe essere ampiamente proposta agli istituti superiori di teologia, come espressione della dimensione intrinsecamente missionaria della teologia e come servizio della cultura nel suo significato più profondo.
Quanto alle scuole cattoliche che hanno modellato la vita cristiana e culturale del vostro Paese, esse hanno oggi una responsabilità storica. Ambito di trasmissione del sapere e di formazione della persona, di accoglienza incondizionata e di apprendimento della vita in comune, godono spesso di un meritato prestigio. È necessario trovare i percorsi affinché la trasmissione della fede resti al centro del loro progetto educativo. La nuova evangelizzazione passa per queste scuole e per la multiforme opera dell’educazione cattolica che sottende numerose iniziative e movimenti, per la qual cosa la Chiesa è riconoscente. L’educazione ai valori cristiani è la chiave della cultura del vostro Paese. Aprendo alla speranza e alla libertà autentica, essa continuerà ad apportarle dinamismo e creatività. L’ardore conferito alla nuova evangelizzazione sarà il nostro contributo migliore allo sviluppo della società umana e la risposta migliore alle sfide di ogni tipo che tutti devono affrontare in questo inizio del terzo millennio. Cari fratelli nell’episcopato, affido voi, come pure il vostro lavoro pastorale e l’insieme delle comunità che vi sono state affidate, alla sollecitudine materna della Vergine Maria che vi accompagnerà nella vostra missione nel corso degli anni a venire! E come ho affermato prima di lasciare la Francia nel 2008: «Da Roma vi resterò vicino e quando sosterò davanti alla riproduzione della Grotta di Lourdes, che da oltre un secolo si trova nei Giardini Vaticani, penserò a voi. Che Dio vi benedica!».

Globalizzare l'umano


ROMA, venerdì, 30 novembre 2012 - Di seguito il testo dell'intervento pronunciato questa mattina dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, in apertura dell’XI Forum del progetto culturale, in programma fino al 1° dicembre a Roma sul tema: “Processi di mondializzazione, opportunità per i cattolici italiani”. 
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1. Il Forum del Progetto culturale, celebrando il suo quindicesimo anniversario, intende rivolgere quest’anno la sua attenzione ai processi di mondializzazione da tempo in atto, considerando la loro genesi e la loro presente configurazione. Lo intende fare considerando questi processi non già come il prodotto di anonime forze impersonali, di strutture indipendenti dal volere umano, bensì come un’“opportunità” che gli uomini sono chiamati a cogliere, al fine di orientare il loro agire verso il bene comune.
Come in altri casi, infatti, si tratta di fenomeni che debbono essere valutati non solo tenendo conto dei rischi che comportano ma, anche e soprattutto, mettendo in evidenza quanto di positivo può essere riscontrato in essi. Desidero in apertura salutare con animo grato S.E. il Card. Camillo Ruini, Ideatore e Presidente del Progetto Culturale della CEI, il Comitato e tutti i Collaboratori, per la passione e l’intelligenza che hanno speso in questi anni di ricerca e produzione culturale.
In questo Forum si parlerà sia dei processi della mondializzazione, sia di quello specifico della globalizzazione. Nella riflessione contemporanea si tende di solito a distinguere fra i due concetti. Alcuni autori, come ad esempio la sociologa Saskia Sassen, intendono con il termine “mondializzazione” quello sviluppo storico che ha condotto al progressivo imporsi di un’economia mondiale e di sistemi politici che tendono ad estendersi a livello globale.
Spesso questo concetto viene inteso come se fosse un processo ineluttabile. Invece quello di “globalizzazione” è un termine che si diffonde tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta dello scorso secolo, e che esprime il modo in cui vengono a configurarsi gli sviluppi della mondializzazione, soprattutto in seguito all’enorme incremento e alla capillare diffusione delle nuove tecnologie.
Si tratta comunque – per contenuti e modalità - di fenomeni che hanno una fondamentale incidenza sugli uomini e sui diversi ambiti della loro vita. Il modo in cui verrà sviluppata all’interno di questo Forum la riflessione su tali questioni e sulle loro conseguenze è quello, ormai sperimentato, della riflessione attenta e documentata, nonché del libero dibattito.
Il punto di partenza proposto per tale approfondimento è offerto da quanto il Sommo Pontefice scrive nella Lettera Enciclica Caritas in Veritate quando parla, nel n. 42, della necessità di “vivere ed orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione”. È questa infatti l’ispirazione etica e culturale che anima il cattolicesimo riguardo a tali fenomeni ed è questa l’indicazione del modo in cui i cattolici possono interagire con essi.
2. Va sottolineato, anzitutto, che la mondializzazione è un fenomeno che la Chiesa cattolica conosce bene. Lo conosceva già quando non veniva chiamato in questo modo, e non si configurava nelle specifiche forme, oggi predominanti, della globalizzazione. La Chiesa infatti, proprio in quanto Chiesa cattolica, è comunità universale, e lo è non solo per il fatto che è presente in ogni parte della Terra. Non si tratta, infatti, di prendere atto solo di un dato statistico, che vede un incremento continuo  sulla scena mondiale, ma è in causa innanzitutto un dato qualitativo che costituisce la stessa natura della Chiesa, e cioè la missione che ha ricevuto da Cristo.
Il compito della Chiesa, infatti, è di annunciare e di testimoniare la salvezza e quindi l’unità del genere umano in Cristo. Come ricorda ad esempio il Servo di Dio Giovanni Paolo II (nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2000), l’umanità, per quanto divisa, “per quanto segnata dal peccato, dall’odio e dalla violenza, […] è chiamata da Dio a formare un’unica famiglia” (n. 2).
Ecco perché, a partire da questo mandato, l’impegno della Chiesa è stato e dev’essere compiuto “in vista della meta di fare dell’umanità una sola famiglia, fondata sui valori della giustizia, dell’equità, della solidarietà” (n. 5). È in questo  orizzonte che l’esperienza della mondializzazione e gli attuali processi della globalizzazione possono offrire agli uomini straordinarie e promettenti opportunità.
In sintesi, la Chiesa, proprio in quanto cattolica, è per sua stessa natura protesa a un’azione globale e globalizzante: essa è chiamata alla missione di comunicare la Buona Novella al mondo intero. È appunto per questa ragione che, anche nel contemporaneo contesto globalizzato, i cattolici possono trovare nella dottrina e nella tradizione quei riferimenti precisi che consentono loro un sicuro orientamento.
3. Tuttavia nello scenario attuale il termine “globalizzazione”, così come pure quello di “mondializzazione”, vengono ad assumere molteplici significati e a caratterizzarsi per una complessità di articolazioni in precedenza sconosciute. Questi significati sono dovuti in buona parte ai diversi ambiti in cui tali processi possono trovare la loro realizzazione.
Si tratta in primo luogo dell’ambito economico, all’interno del quale  si manifestano nel modo più evidente. Ma alla stessa griglia concettuale vengono ricondotte, come sue specifiche applicazioni, anche molte dinamiche oggi in atto nel contesto sociale: soprattutto quelle collegate ai grandi processi migratori. Forme di globalizzazione possono poi essere riscontrate sia nella dimensione della cultura, con l’imporsi di modi di pensare e di idee che hanno ormai diffusione universale, sia nella sfera della comunicazione, dato che viviamo in un’epoca nella quale le notizie possono essere condivise in tempo reale nella maggior parte del mondo.
Bisogna essere attenti, però, a non accogliere in maniera acritica alcune concezioni inadeguate che hanno favorito, in tempi recenti, la nascita di una vera e propria “ideologia” della globalizzazione. Non si deve ritenere, lo ripeto, che essa sia un destino ineluttabile nei cui confronti non vi può essere possibilità d’interazione e d’indirizzo da parte degli uomini. E ugualmente è scorretto pensare questi fenomeni come il risultato di una automatica applicazione alle differenti situazioni locali di norme uniformi, che molto spesso non corrispondono ad esigenze condivise, ma sono l’espressione di una mentalità dominante.
Tale lettura della globalizzazione, che pure è stata proposta soprattutto all’interno del dibattito nordamericano, si è rivelata in alcuni casi non aderente dal punto di vista scientifico e pericolosa sul piano pratico.
È scorretta perché, anche se in ambito economico, culturale, comunicativo o sociale è possibile riscontrare processi simili in varie parti del mondo, questo fatto non ha come risultato una omogeneizzazione di gusti, abitudini, modi di pensare. Semmai, ciò che è possibile verificare è un processo di adattamento di alcuni modelli occidentali alle concrete situazioni e alle specifiche tradizioni con le quali tali modelli si trovano di volta in volta a interagire. Per questo motivo già da alcuni anni, a indicare tale complesso adattamento, invece che di globalizzazione si preferisce parlare di “glocalizzazione”.
Con questo neologismo s’intende il risultato di una progressiva e faticosa applicazione di criteri diffusi globalmente alle differenti realtà locali, applicazione che spesso comporta una modifica anche significativa degli stessi criteri applicati.
Inoltre tale lettura unilaterale dei processi di globalizzazione può essere pericolosa perché potrebbe giustificare una forma d’imposizione, a volte anche violenta, del globale sul locale. In questo caso si verificherebbe un vero e grave fraintendimento di ciò che l’umanità, grazie soprattutto all’elaborazione del pensiero cristiano, ha stabilito essere realmente universale: la dignità della persona, la salvaguardia della sua libertà, il rispetto della vita in ogni suo momento.
Con un uso ideologico dei processi di globalizzazione, invece, ciò che è a fondamento di ogni comportamento umano, e che per questo può essere da tutti condiviso, rischierebbe di trasformarsi in qualcosa d’imposto, e perciò avvertito come estraneo al proprio essere e alla propria storia. Non stupiscono dunque le reazioni di rigetto, a volte altrettanto violente. L’ultimo decennio della storia del mondo sta a insegnarlo.
4. Va detto con chiarezza che questa è una concezione errata del progresso umano e del suo sviluppo globale, e va ribadito che “l’utile” di una parte dell’umanità non può essere considerato il criterio per stabilire ciò che è bene per tutti. La globalizzazione, infatti, dev’essere regolamentata secondo giustizia, evitando che essa si configuri come l’espressione d’interessi particolari imposti universalmente. Si tratta invero di globalizzare l’umano: cioè di far emergere la creaturalità di tutti e di ciascuno, fatto che costituisce il fondamento di ciò che davvero può essere detto universale.
Il Magistero della Chiesa cattolica afferma tutto questo in modo estremamente chiaro e argomentato, soprattutto nei documenti degli ultimi cinquant’anni. Penso anzitutto alla Lettera Enciclica di Paolo VI Populorum progressio. In essa il Sommo Pontefice chiedeva di configurare un modello di economia di mercato capace d’includere, almeno tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente quelli più attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti avessero “qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisse un ostacolo allo sviluppo degli altri” (PP, n. 44).
E dunque, anche se non poteva prevedere i sorprendenti esiti della mondializzazione che abbiamo sotto gli occhi, il Papa ne individuava lucidamente gli aspetti problematici, soprattutto dal punto di vista degli squilibri economici che era in grado di provocare, e proponeva una formula – quella di un mondo nel quale il progresso degli uni non costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri – capace di fornire un orientamento morale nel rapporto fra i popoli.
Sulla stessa linea si è mosso in molti suoi interventi il beato Giovanni Paolo II: lo abbiamo già visto dalla precedente citazione di un suo discorso. Egli sottolinea con forza, ad esempio nella Lettera enciclica Centesimus annus, il fatto che non bisogna assolutizzare l’economia, dal momento che essa “è solo un aspetto ed una dimensione della complessa attività umana”.
Ciò significa, nello specifico, che “la libertà economica è solo un elemento della libertà umana. Quando quella si rende autonoma, quando cioè l’uomo è visto più come un produttore o un consumatore di beni che come un soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la persona umana e finisce con l’alienarla ed opprimerla” (CA, n. 39).
È ciò che avviene ogni qual volta la persona si trova presa, e anzi soffocata, tra i due poli dello Stato totalitario e del mercato. Tale alternativa è sbagliata perché dimentica “che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo Stato, poiché possiede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire” (CA, n. 49).
Oggi, certamente ci troviamo in una situazione nella quale la contrapposizione tra i due blocchi, a cui alludevano queste parole, è ormai superata. Ma non è certo venuta meno l’esigenza di salvaguardare il bene comune a livello globale. E soprattutto in maniera sempre più urgente emerge la necessità di fornire un fondamento antropologico in grado di giustificare quella “globalizzazione della solidarietà” che Giovanni Paolo II auspicava.
È questo il modo in cui il nostro tema è affrontato nella Caritas in veritate. La globalizzazione, in questa Enciclica, costituisce una vera e propria sfida etica. L’etica, a sua volta, è guidata e orientata dalla carità. Infatti, come viene detto, “solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene” (CV, n. 9).
Comprendere questo significa cambiare prospettiva. “I processi della globalizzazione, considerati a partire da tale concezione dell’essere umano, diventano occasioni, luoghi in cui si può realizzare il suo agire buono. Non solo nel caso più evidente di ciò che riguarda la globalizzazione economica, ma per tutti gli aspetti e le dimensioni in cui quanto è realizzato da una parte dell’umanità viene messo al servizio di tutti. La stessa economia, infatti, non può prescindere dalla gratuità” (CV, n. 39). Lo stesso orientamento che spinge alla condivisione deve animare i processi all’opera in ambito sociale, culturale, comunicativo.
5. In conclusione, gli sviluppi della mondializzazione e l’attuale fase della globalizzazione non possono affatto essere considerati l’esito di un percorso storico che l’uomo può solamente subire e rispetto al quale non ha responsabilità. Essi devono invece essere pensati e assunti all’interno di una dimensione etica. Riguardano cioè l’azione libera dell’uomo. E  possono essere considerati un’opportunità nella misura in cui essi chiamano a un agire buono.
Ma alla base di questa dimensione etica, e proprio allo scopo di dare a essa fondamento e motivazione, è presente una concezione antropologica ben precisa. Si tratta di quell’autentico patrimonio dell’Occidente che viene proposto all’ecumene e riscoperto sempre di nuovo. Si tratta di ciò che la dottrina cattolica ha elaborato nel corso della sua tradizione. È l’idea dell’uomo come colui che solo nella relazione con Dio trova salvaguardata la sua dignità e che, proprio a partire da qui, vede giustificata la fraternità universale e ogni apertura moralmente responsabile alla vita.
Lo ribadisce in maniera molto precisa Papa Benedetto XVI, ancora nella Caritas in veritate. Con le sue parole, così come ho iniziato, voglio concludere:  “La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall’unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria” (CV, n. 42). Mi auguro che le parole del Sommo Pontefice possano aiutare il proficuo sviluppo della vostra riflessione.

La dittatura dell' ipocrisia.


ROMA, venerdì, 30 novembre 2012 - Uno dei mezzi più usati dai regimi dittatoriali per controllare e indottrinare le masse è sempre stato quello di distruggere le parole, svuotandole del loro più autentico significato.
Conosciamo già, con tristezza, l'orribile linguaggio che in questi ultimi anni ha cercato di mascherare l'orrore della soppressione del bambino del grembo materno.
Il Concilio Vaticano II definisce l'aborto: un “delitto abominevole”. Eppure, in questi anni, si è preferito utilizzare un termine neutro: “interruzione volontaria di gravidanza”. Dovremmo chiederci, con sincerità: che cosa si interrompe con l'aborto? Una gravidanza o una vita umana? Sicuramente una vita umana. 
Una maternità interrotta ferisce gravemente i cuori delle persone coinvolte. La banalità del male genera altrettante vittime. Gandhi diceva: “Mi sembra chiaro come la luce del giorno che l'aborto è un crimine”. Ma si preferisce nascondere questa drammatica realtà con un linguaggio fumoso e fuorviante.
Del resto, il bambino non ancora nato non è neppure considerato una vita umana. Per definirlo viene spesso utilizzata un'altra parola ipocrita: “prodotto del concepimento”. La fantasia dei distruttori delle parole, a quanto pare, non conosce il senso del ridicolo.
Tra i modi più efficaci per cogliere i mutamenti del mondo che ci circonda c’è sicuramente quello di analizzare le parole che vengono usate nella vita quotidiana. Ogni linguaggio, infatti, rappresenta lo specchio perfetto del proprio tempo. Riesce a riprodurre, fedelmente, gli aspetti positivi o negativi dell’epoca a cui appartiene.
Molti vocaboli e modi di dire, entrati nell'uso comune dei giovani, rappresentano il segnale d’allarme di un'epoca in cui sembra trionfare la non-cultura del non-impegno. Certe parole sono il frutto del non-pensiero imperante, che vorrebbe cancellare il concetto di “sforzo” dalla sfera dei rapporti con gli altri.
Oggi il campo più devastato dall’imperante non-cultura del non-impegno è sicuramente quello dei rapporti umani. Lo si comprende dal modo in cui sono cambiate, in peggio, le parole che riguardano la sfera affettiva. 
I sentimenti sembrano bruciarsi rapidamente. Tante canzoni, trasmissioni televisive, riviste per ragazzi parlano d'amore. Ma di quale amore si tratta? Che tipo di valore viene attribuito a questo termine? Troppo spesso, purtroppo, tutto si riduce ad una pura e banale manifestazione del proprio egoismo.
Amare qualcuno significa, sicuramente, impegnarsi. Significa anche, e soprattutto, saper vedere l'altro come un essere umano. Non come un oggetto da usare, gettandolo via quando non serve più.
Il desiderio d'amare e di essere amati nasce, troppo spesso, per colmare un vuoto o per soddisfare un proprio bisogno. Ma poi, quando è necessario fare sul serio, impegnarsi, sacrificarsi, cominciano i problemi. C’è una tendenza a fuggire e a non assumersi le proprie responsabilità.
Per accorgersene, basta riflettere su un modo di dire che viene utilizzato per definire i legami amorosi. Due persone che si amano, secondo il linguaggio comune, vivono "una storia".
Questa parola, di per sé, rappresenta già un inganno. La "storia", infatti, ha sempre un inizio ed una fine. Quindi, lascia intravedere l’idea di un rapporto incerto, pessimista, non duraturo, limitato ad un periodo di tempo. E’ qualcosa che, prima o poi, terminerà.
Un altro grave problema è quello della mancanza di progettualità. La non-cultura del non-impegno sta contribuendo a far scomparire il termine "fidanzato", che viene sostituito dal più generico "ragazzo". Ormai non si dice quasi più che due persone sono "fidanzate". Si dice, banalmente, che "stanno insieme". E quindi, ci si limita a prendere atto di una situazione ovvia.
E’ vero che due persone che si amano “stanno insieme”, ma questa espressione nasconde un inganno. Al contrario del “fidanzamento”, comunica un senso di immobilità, di stasi, esclude totalmente la prospettiva di uno sguardo verso il futuro. 
La massima espressione del non-impegno è rappresentata da una parola inglese utilizzata sempre più spesso in televisione e nelle riviste per ragazzi: il "partner". E’ una parola fredda, anonima, insignificante, che riassume alla perfezione il nulla più assoluto e la mancanza di progettualità di certi rapporti di oggi.
Che cosa si può fare per cambiare questa tendenza? Un primo passo potrebbe essere proprio quello di educare i giovani a ritrovare il più autentico significato delle parole, mettendo da parte i termini fumosi ed equivoci.
Basta con i "partner"! Basta con le "storie"!, Basta con le “interruzioni di gravidanza” e con i “prodotti del concepimento”! I distruttori delle parole non vinceranno! Al piatto del conformismo di certi linguaggi ingannevoli bisogna contrapporre la gioia della speranza, della scommessa sull’altro, dell'impegno quotidiano per un amore teso verso le vette dell’infinito. (C. Climati)

Avviso di restauri nel "Cortile dei Gentili"

ROMA, 30 novembre 2012 – Quando alla vigilia di Natale del 2009 Benedetto XVI lanciò l'idea del "Cortile dei gentili", ne disse subito la finalità: tener desta la ricerca di Dio tra agnostici o atei, come "primo passo" della loro evangelizzazione.

Ma il papa non ne stabilì le modalità d'esecuzione. Affidò la messa in opera dell'idea al presidente del pontificio consiglio della cultura, l'arcivescovo e poi cardinale Gianfranco Ravasi, valente e sperimentato creatore di eventi culturali.

Ravasi esordì a Parigi il 24 e 25 marzo 2010, organizzando un incontro che ebbe un notevole impatto. Lo stesso Benedetto XVI vi prese parte con un videomessaggio rivolto ai giovani riuniti sul sagrato di Notre Dame.

Nei successivi appuntamenti, però, il papa rimase in silenzio. Il "Cortile dei gentili" proseguì con una sequenza serrata di incontri, in diversi paesi. Con un crescendo culminato il 5 e 6 ottobre di quest'anno ad Assisi, con un cast di partecipanti record, a cominciare dal presidente della repubblica italiana, Giorgio Napolitano, agnostico di formazione marxista.

A questo crescendo è corrisposto, però, un calo di interesse generale e di risonanza nei media.

Un calo comprensibile. Il fatto che dei non credenti prendessero la parola in un incontro promosso dalla Santa Sede non era più una notizia. E non era una notizia nemmeno il fatto che ciascuno vi esponesse la rispettiva visione del mondo, peraltro già risaputa, alla pari con gli altri, in una sorta di "quadri di un'esposizione".

A dispetto della suggestione di ciascun evento e dell'ammirazione che esso riscuoteva tra i partecipanti, il "Cortile dei gentili" rischiava di non produrre più nulla di nuovo e di significativo, sul versante dell'evangelizzazione. 

Se una novità infatti c'è stata, nell'ultimo suo incontro tenuto 1l 16 e 17 novembre in Portogallo, essa è venuta da fuori e dall'alto.

Per la prima volta nella storia del "Cortile dei gentili" – a parte il caso particolare di  Parigi –, Benedetto XVI ha inviato ai partecipanti un proprio messaggio.

Un messaggio nel quale egli ha voluto riportare l'iniziativa alla sua finalità originaria: quella di parlare di Dio a chi ne è lontano, risvegliando le domande che avvicinino a Dio "almeno come Sconosciuto".

Nel messaggio, chiaramente scritto di suo pugno, Benedetto XVI ha preso avvio dal tema principale del "Cortile dei gentili" portoghese: "l'aspirazione comune di affermare il valore della vita umana".

Ma subito ha argomentato che la vita di ogni persona, tanto più se amata, non può non "chiamare in causa Dio".

E ha proseguito:

"Il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere 'come se Dio esistesse'. Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita".

Nel concludere, Benedetto XVI ha citato una riga del messaggio rivolto dal concilio Vaticano II agli uomini di pensiero e di scienza:

"Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri".

E ha aggiunto lapidariamente:

"Questi sono lo spirito e la ragion d’essere del Cortile dei gentili".

L'indubbia rettifica impressa al "Cortile dei gentili" da Benedetto XVI con questo messaggio non è stata rimarcata dai media, nemmeno da quelli cattolici e più attenti.

Ma il cardinale Ravasi l'ha sicuramente registrata e sottoscritta. Lo si è capito anche da questo passaggio del bilancio del "Cortile" portoghese pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 23 novembre:

"A Guimarães, il pubblico ha sollevato una questione: la sacralità della vita presuppone qualcosa che ci trascende. Come possiamo conoscere Dio? È stato cioè toccato l’obiettivo per il quale il 'Cortile dei gentili' è stato pensato: esprimere l’inquietudine riguardo a Dio. Tema vasto e complesso sul quale, ha detto il cardinale Ravasi, il 'Cortile dei gentili' tornerà in maniera più approfondita nei prossimi incontri".

Ai prossimi incontri la verifica della svolta.

Intanto, Benedetto XVI ha affidato al cardinale Ravasi, che è anche rinomato biblista, l'onore di presentare ai media di tutto il mondo il terzo tomo della sua opera su Gesù, quella dedicata ai Vangeli dell'infanzia. Segno della fiducia che continua a riporrre in lui.

E a sua volta Ravasi ha dato inizio, su "L'Osservatore Romano", a una serie di articoli sull'incontro/scontro tra la fede e l'incredulità nella cultura contemporanea, come apporto all'Anno della fede indetto dal papa.

Nel primo di questi articoli, il 28 novembre, il cardinale ha sprigionato la sua eccezionale padronanza della letteratura, delle arti e delle scienze, con una lussureggiante fioritura di autori citati. Nell'ordine: Aleksandr Blok, Franz Kafka, Emile Cioran, Jean Cocteau, Rudolf Bultmann, Blaise Pascal, Jan Dobraczynski, Robert Musil, Ludwig Wittgenstein, Luis de León, David Hume, Anatole France, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Alberto Moravia, Augusto Del Noce, Jacques Prévert, Eugenio Montale, Johann Wolfgang von Goethe.

In mezza pagina di giornale una ventina di autori, quasi tutti non credenti eppure tutti rivelatisi "vulnerabili" alle domande su Dio.

Ma torniamo a Benedetto XVI e al suo poco noto ma importante messaggio all'ultimo "Cortile dei gentili". Tutto da leggere.
(S. Magister)

__________



"COME IN EDIFICI DI CEMENTO SENZA FINESTRE..."

di Benedetto XVI



Cari amici, 

con viva gratitudine e con affetto, saluto tutti i partecipanti al "Cortile dei gentili", che s’inaugura in Portogallo il 16 e 17 novembre 2012 e che riunisce credenti e non credenti attorno all’aspirazione comune di affermare il valore della vita umana sulla crescente ondata della cultura della morte.

In realtà, la consapevolezza della sacralità della vita che ci è stata affidata, non come qualcosa di cui si possa disporre liberamente, ma come un dono da custodire fedelmente, appartiene all’eredità morale dell’umanità. "Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cfr. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine" (Enciclica "Evangelium vitae", n. 2). Non siamo un prodotto casuale dell’evoluzione, ma ognuno di noi è frutto di un pensiero di Dio: siamo amati da Lui. 

Però, se la ragione può cogliere questo valore della vita, perché chiamare in causa Dio? Rispondo citando un’esperienza umana. La morte della persona amata è, per chi l’ama, l’evento più assurdo che si possa immaginare: lei è incondizionatamente degna di vivere, è buono e bello che esista (l’essere, il bene, il bello, come direbbe un metafisico, si equivalgono trascendentalmente). Parimenti, la morte di questa stessa persona appare, agli occhi di chi non ama, come un evento naturale, logico (non assurdo). Chi ha ragione? Colui che ama ("la morte di questa persona è assurda") o colui che non ama ("la morte di questa persona è logica")?

La prima posizione è difendibile solo se ogni persona è amata da un Potere infinito; e questo è il motivo per cui è stato necessario appellarsi a Dio. Di fatto, chi ama non vuole che la persona amata muoia; e, se potesse, lo impedirebbe sempre. Se potesse... L’amore finito è impotente; l’Amore infinito è onnipotente. Ebbene, è questa la certezza che la Chiesa annuncia: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3, 16). Sì! Dio ama ogni persona che, perciò, è incondizionatamente degna di vivere. "Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita". (Enciclica "Evangelium vitae", n. 25). 

Nell’epoca moderna, l’uomo ha però voluto sottrarsi allo sguardo creatore e redentore del Padre (cfr. Gv 4, 14), fondandosi su se stesso e non sul Potere divino. Quasi come succede negli edifici di cemento armato senza finestre, dove è l’uomo che provvede all’areazione e alla luce; e, ugualmente, persino in un tale mondo auto-costruito, si attinge alle "risorse" di Dio, che sono trasformate in nostri prodotti. Che dire allora? È necessario riaprire le finestre, vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, e imparare a usare tutto ciò in modo giusto.

Di fatto, il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere "come se Dio esistesse". Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita. Colui che si apre a Dio non si allontana dal mondo e dagli uomini, ma trova fratelli: in Dio cadono i nostri muri di separazione, siamo tutti fratelli, facciamo parte gli uni degli altri.

Amici miei, vorrei concludere con queste parole del concilio Vaticano II agli uomini di pensiero e di scienza: "Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri" (Messaggio, 8 dicembre 1965). Questi sono lo spirito e la ragion d’essere del "Cortile dei gentili". A voi impegnati in diversi modi in questa significativa iniziativa, esprimo il mio sostegno e rivolgo il mio più sentito incoraggiamento. Il mio affetto e la mia benedizione vi accompagnino oggi e in futuro.

BENEDICTUS PP XVI

Dal Vaticano, 13 novembre 2012

Il Papa e twitter


Il 3 dicembre Benedetto XVI apre il suo account Twitter. Perchè? Che senso ha? E’ solamente espressione di un desiderio di “modernità” o c’è molto di più?
Oggi i messaggi di senso non possono essere semplicemente trasmessi, devo essere condivisi. Questo è il significato della comunicazione ai nostri giorni, al tempo dei network sociali. La Chiesa lo sa da tempo, dalle origini: è la “testimonianza” la forma privilegiata di “trasmissione” della fede. I messaggi di senso oggi passano attraverso i social networks che sono veri e propri “luoghi di senso”, dove la gente condivide la vita, i desideri migliori e peggiori, le domande e le risposte… La prova consiste nel fatto che ormai molti leader religiosi sono su Twitter. E anche la lista di vescovi e cardinali che hanno un account Twitter è lunga e importante.
E’ dunque normale che il Papa abbia un account che faccia riferimento a lui. In fondo il 3 dicembre 2012 si connette idealmente al 12 febbraio 1931, quando Pio XI lanciava il suo primo messaggio via radio. Già allora Pio XI parlava di una la tecnologia messa a servizio delle relazioni e non della mera propaganda. E un messaggio inviato via Twitter può essere retwittato, commentato… entra in un giro di relazione, di condivisione, di riflessione..
Ma a leggere bene il messaggio del Papa per la 46a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali si nota un passaggio chiave: “sono da considerare con interesse le varie forme di siti, applicazioni e reti sociali che possono aiutare l’uomo di oggi a [...] trovare spazi di silenzio, occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio”. Senza citare nessuna piattaforma o applicazione particolare, il Papa continuava dicendo che  “Nell’essenzialità di brevi messaggi, spesso non più lunghi di un versetto biblico si possono esprimere pensieri profondi se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità”. Come non pensare a Twitter?
Ecco la domanda: come essere concisi senza cadere nel puro minimalismo quando si comunica? Certamente è necessario cogliere l’essenziale e di dirlo con parole precise.
Se viste in questa prospettiva possiamo considerare, ad esempio, le antifone ai Salmi come condensati essenziali di contenuti profondi che a volte neanche ampi trattati riescono a esaurire. E così anche le litanie e le giaculatorie che da sempre accompagnano la preghiera dei credenti. Pensiamo alle iniziative che periodicamente attingono un versetto evangelico per concentrare l’attenzione del cristiano su tutto il Vangelo, ma a partire da un punto preciso.
«Non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose interiormente», scriveva sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali (n. 2). Ed è lo stesso santo a invitare a una preghiera capace di «contemplare il significato di ogni parola della preghiera» (n. 249)
La tradizione spirituale cristiana dunque indica una strada affinché la comunicazione via Twitter non si esaurisca in una sorta di impoverimento della complessità umana. Questa strada consiste nel coniugare sapienza e precisione per cui l’espressione sintetica non va a detrimento della profondità e della lentezza dell’assimilazione, ma anzi fornisce l’aggancio per una meditazione più affilata e densa.
La presenza del Papa su Twitter può avere dunque un effetto collaterale ma importantissimo: ricordare a Twitter la sua “vocazione” più alta: una comunicazione che faccia della brevità il sinonimo di densità ed efficacia.

giovedì 29 novembre 2012

30 novembre: sant'Andrea apostolo

Su sant'Andrea apostolo vedi anche:


30 Nov 2011
Andrea, dal bel nome greco (Andreas = Virile), appare un uomo generoso, pronto, aperto, entusiasta. Era figlio di Giona di Betsaida (Mt 16,17), fratello minore di Pietro. Fu discepolo di Giovanni Battista, presso il quale ...






Dal Vangelo secondo Mt 4,18-22 

In quel tempo, mentre camminava lungo il mare di Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: Seguitemi, vi faròpescatori di uomini. Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.
Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono.

Il commento

Sono tante le "reti" con le quali ogni giorno cerchiamo di guadagnarci da vivere. Le gettiamo sperando di pescare unbranco di amici, di quelli che ci potrebbero saziare d'affetto, stima e comprensione. Ma, troppo spesso, ne restiamo impigliati. La rete, non si chiama così quel pozzo senza fondo che, attraverso lo schermo di un computer, ci afferra nell'illusione d'essere in contatto col mondo intero e di farci un mondo di amici che ci seguano? Internet, la rete, una piroetta virtuale che sfiora la realtà senza viverla, anche se dicono che ci fanno le rivoluzioni. Social networks, chat, video e notizie, sono le maglie di una rete che rapisce il cuore, sottrae il tempo, evapora i profili, scolora le relazioni in una menzogna travestita di vuota pienezza. Giovani e meno giovani come pesci indifesi, pescati e sottratti all'acqua autentica della volontà divina. Sempre connessi, è il mantra ripetuto ovunque, perché la rete ci insegue con il wi-fi che si insinua nei computer di casa, nei portatili, nei tablet e negli smartphone, sempre più piccoli, sempre più veloci, sempre con noi. Sempre connessi per dimenticare d'essere disconnessi dal vero, dal bello e dal buono,l'essenziale che ci fa vivi, felici e realizzati. Sempre connessi eppure profondamente soli, con il cuore che navigalontano da Cristo, l'unico Link autentico che connette alla vita piena che non si corrompe, come tralci staccati dalla vite. Viviamo, soprattutto i più giovani, definiti ormai come i "nativi digitali", nell'illusione che basti un click per parlare, relazionarsi, forse anche amare; un secondo e i desideri sembrano realizzarsi, e tutto il mondo, cose e persone, giungono a portata di mano; immagini e parole prese nella rete, spesso con la violenza della curiosità e della concupiscenza, senza renderci conto d'essere stati "pescati" noi per primi per consumare sempre di più, sempre peggio, accendendo nella carne una compulsione insaziabile che confonde la realtà con il sogno ed esige da essa l'impossibile. Tutto in un clik, dimenticando la fatica e il sudore dell'amore autentico, il sacrificio del donarsi, i chiodi che trafiggono il link eterno, l'amore che non può essere che crocifisso.

Il mondo di internet  è, come il mare di Galilea con le sue barche e le sue reti, la metafora della nostra vita affondata nella spirale che ci irretisce mentre ci sforziamo di irretire, come quando buttiamo ore ed energie a sporcare occhi, cuore e mente davanti ad un PC. Non a caso i siti in assoluto più visitati sono quelli pornografici... Ma, nel fondo di tutto questo "gettare reti e riassettarle", si cela un unico desiderio, il grido strozzato in gola al termine di giornate avare di pesce e di gioia. Non può nulla neanche nostro "padre"; come quello di Andrea, è sempre lì, accanto a noi, a ricordarci la nostra storia, il passato che, spesso, è un peso che ci distrugge. Ma Gesù "cammina" anche oggi sulle rive del "mare" nel quale cerchiamo vita e felicità. Gesù passa e la sua voce mette a tacere ogni altra voce, il suo sguardo fulmina lo schermo del computer, e il suo amore ci attira irresistibilmente a seguirlo, strappandoci dalle maglie della rete. Come accadde ad Andrea, spinto da quelle parole che erano calamite, a "lasciare barca, reti e padre" per "seguire" senza indugio il Signore. Lasciare e seguire, perché è Lui che il cuore di ogni uomo desidera ardentemente, magari cercandolo maldestramente su Google; solo nelle sue parole, infatti, c'è una forza così dirompente da cambiare la vita nello spazio di un istante. Gesù "vede" Andrea, Giacomo, Simone, Giovanni, e li riconosce: sono i suoi "fratelli",  "chiamati" come Lui ad essere "pescatori di uomini". L'incontro con il Signore e la sua sequela, infatti, portano a compimento la vita di ciascuno. Andrea e gli altri "erano pescatori" e per questo "gettavano le reti in mare"; chiamandoli a seguirlo, Gesù li ha riportati alla vocazione originaria, trasfigurando ogni aspetto della loro esistenza: hanno continuato ad essere pescatori ma nella libertà di chi, pescando, "getta" non piùuna rete per saziare i propri appetiti, ma la sua stessa vita per la salvezza degli "uomini". Il Signore "chiama" anche noi oggi per  trasfigurarci, e volgere all'amore la nostra vita; per seguirlo e imparare a offrire tutto quello che abbiamo messo al servizio della carne, nell'amore che cerca la felicità dell'altro, "lasciando" le reti sulla barca, come un computer abbandonato e disconnesso.

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APPROFONDIMENTI



Immigrati: ricchezza per la Nuova Evangelizzazione


L’immigrazione un fenomeno “antico quanto l’uomo”, che interpella positivamente la Chiesa: lo hanno ricordato mons. Rino Fischella, presidente del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione e mons. Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, nell’ambito dell’Incontro dei direttori nazionali della pastorale dei migranti delle Conferenza episcopali d’Europa, che si concluso oggi a Roma. Il servizio di Roberta Gisotti:

“Da quando esiste”, l’uomo “ha sempre migrato. E i problemi non sono mai mancati”, ha premesso l’arcivescovo Fisichella, indicando tre aspetti di una storia che si ripete. Come nel passato, anche oggi tanti sacerdoti “hanno lasciato le loro case per seguire tanti immigrati in diversi Paesi europei”. Milioni di cristiani dall’Est europeo, dall’America Latina e dalle Filippine, in maggioranza cattolici, sono giunti in questi decenni in Europa, negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. “Una ricchezza – ha sottolineato il presule – per la nuova evangelizzazione”, a fronte di una società oggi “spesso impietosa” che “tende ad inghiottire in un vortice di indifferenza i nuovi immigrati, impedendo loro di conservare la fede e le loro tradizioni”. “Non può essere cosi”, ha ammonito mons. Fisichella, invitando le comunità cristiane ad “essere aperte ed accoglienti”, anche verso le masse di immigrati di altre religioni. “Nel rispetto dovuto a tutti e nella prudenza delle situazioni”, - ha indicato - “i nuovi evangelizzatori non possono esimersi dall’incontrare anche quanti non condividono la fede cristiana”. E “se l’annuncio a volte non sarà recepito ciò non significa che non si possano trovare condivisioni di valori per la promozione della vita, della sua dignità e della salvaguardia del Creato”.

“In Europa la nuova evangelizzazione non può prescindere da oltre 35 milioni di persone arrivate da altri Paesi, tra i quali almeno 8 milioni di cattolici”, ha aggiunto mons. Perego, chiedendo particolare attenzione alle “nuove fragilità e povertà” “in tempo di crisi economica”. "Precarietà" e "irregolarità lavorativa" - ha sottolineato - chiedono in Italia di regolamentare i flussi migratori, “una prospettiva nuova, che chiede anche un cambiamento legislativo, ma soprattutto chiede la consapevolezza che non possono esistere situazioni riconosciute di illegalità e di sfruttamento lavorativo, limbi dove non è riconosciuta la cittadinanza e la tutela, dove si alimentano mafie e corruzione, sfruttamento a danno del sistema Paese, oltre che degli stessi immigrati”. Sul piano dei diritti, mons. Perego ha ribadito l’importanza di garantire i ricongiungimenti familiari, di tutelare 8 mila minori che arrivano in Italia ogni anno senza famiglia e di accostare le coppie miste, sempre più numerose, che all’80% non sono unite da alcuna celebrazione religiosa o civile. Tra le problematiche più urgenti, mons. Perego ha indicato: la prostituzione di 50 mila donne di 60 nazionalità; l’aumento di disturbi psichici, specie tra adolescenti e donne; gli aborti tra le immigrate (40 mila su un totale 120 mila); la crescita dell’abbandono scolastico dei bambini; gli stranieri morti tragicamente in Italia, che non vengono rimpatriati per mancanza di risorse, e sono sepolti in fosse comuni nei grandi cimiteri”.

Uno dei temi forti sviluppati nell'incontro è stato quello della "pastorale di comunione per una rinnovata evangelizzazione". Tema su cui è intervenuto anche padre Fabio Baggio, direttore del Simi, Scalabrini International Migration Institute, intervistato da Adriana Masotti:

R. - Pastorale di comunione, innanzitutto, è un termine che ormai è entrato nel nostro linguaggio quotidiano, soprattutto a livello di teologia pastorale: nelle riflessioni di tante persone, in tanti Paesi, in particolare anche nella nostra Europa cattolica, dove molte Chiese locali si interrogano sui fenomeni che riguardano la comunione. Una comunione che è all’interno della Chiesa e che viene, in molte occasioni, anche sfidata da situazioni concrete di divisioni o da situazioni semplicemente di nuovi arrivati che bussano alla porta. Tra questi, ovviamente, ci sono anche i migranti.

D. – Comunione intesa come fraternità, come unità…

R. - Esattamente. Una fraternità che è molto di più di quella che la rivoluzione francese voleva proporci; una fraternità che ci viene come monito e richiamo “Ut Unum Sint” – “affinché siano uno” - direttamente dal nostro fondatore: Cristo che ci richiama, appunto, a vivere come una sola cosa, una sola persona e mette come modello “come Io ed il Padre siamo uno”. In questa unità fondamentale, che rispetta la diversità, ma che vive una profonda comunione - anzi, si riscopre realizzata nella comunione della diversità - troviamo il modello a cui ispirarci come cristiani e vivere anche le nostre relazioni inter ecclesiali. 

D. - In che modo, allora, si declina questa pastorale di comunione nell’ambito del fenomeno migratorio?

R. - Se noi puntiamo ad un discorso di comunione nella diversità, riconoscendo che il nostro modello è un modello trinitario, una comunione nella diversità proprio per definizione - tre persone ed una sola natura, in cui nessuna delle tre persone mai si perde, ma vive riaffermata nell’amore e nella propria diversità – questo ci spinge a vivere l’incontro con l’altro e con il diverso come una realizzazione di questa comunione. Nell’altro, troviamo l’altro con la “A” maiuscola, cioè Dio presente nel fratello e nella sorella diversi, migranti che bussano alla nostra porta. 

D. - Ci sono già alcune linee, alcuni orientamenti concreti con cui, appunto, realizzare questa visione…

R. - In questo momento siamo alla ricerca di una riflessione teologica che ci guidi e ci porti poi a dare dei contenuti a quelle azioni che, da sempre, la Chiesa ha intravisto come azioni di comunione: la ricerca dell’altro, la ricerca del diverso, la ricerca di Dio presente nell’altro, l’accoglienza. Un’accoglienza che va oltre i confini, che si realizza non solamente con quelli che direttamente bussano alla porta, ma con le loro famiglie, con le loro comunità che rimangono in patria. Una fraternità che si trasforma poi in solidarietà, ben conoscendo le ragioni per le quali queste persone si muovono: siano essi rifugiati, profughi, migranti per ragioni economiche. Questa solidarietà che si spinge oltre le frontiere e diventa transnazionale, in questo senso, e che diventa un bellissimo gesto di comunione interecclesiale, oltre le frontiere; alla ricerca proprio di questa collaborazione, per la crescita del Regno di Dio in tutto il mondo.

D. - Nel suo intervento all’incontro, il card. Vegliò ha raccomandato un approccio realistico al fenomeno migratorio…

R. - Sono perfettamente d’accordo con il cardinale. Penso che abbia indovinato una delle piste più importanti per la riflessione: riguarda proprio un’apertura che deve essere sempre conscia di quello che si offre e non deve mai promettere più di quello che può offrire. Un’accoglienza sempre generosa, sempre molto più in là di quelli che possono essere i calcoli economicistici di quello che io posso offrire. Però, anche nella generosità c’è una responsabilità fondamentale, che ci fa vivere in un mondo reale che è ancora marcato - e non lo possiamo trasformare in questo momento - dalle frontiere degli Stati-nazione, ma che al tempo stesso, sulla base del messaggio cristiano, deve essere sempre promotore di un’accoglienza responsabile, che sa quello che può regalare, quello che può donare e offrire agli altri e che ricerca sempre il bene altrui. Ad esempio, a livello di parrocchia e di diocesi, io punterei innanzitutto su un discorso di con-cittadinanza, partendo proprio da un periodo di presenza sul territorio, una cittadinanza che è fatta di diritti e di doveri. Per cui, chiunque passa per questo territorio, chiunque risiede per un tempo in questo territorio, diventa cittadino di diritto di questa parrocchia, cioè la comunità si struttura proprio come una comunità accogliente, nei confronti di chi arriva. A quel punto, ovviamente, non basta rimanere chiusi nelle sagrestie, bisogna andare incontro a chi, molte volte, non parla la lingua e invitare a partecipare, offrire gli spazi adeguati, che possano al tempo stesso salvare e far crescere le diversità, nella costruzione di questa comunione di cui parlavamo.
Fonte: Radio Vaticana