mercoledì 28 novembre 2012

I giorni dell'ira

Di seguito il Vangelo di oggi, 29 novembre, giovedi della XXXIV settimana del T.O., con qualche testo di approfondimento.

Per un altro commento vedi anche:


24 Nov 2011
Adesso si fa sul serio. Di seguito il Vangelo di oggi, 24 novembre, giovedi della XXXIV settimana del T.O., con un commento e un testo dalla Tradizione. Il cuore di Dio freme di compassione! ...Il mistero del cuore di un Dio che ...



Il cuore di Dio freme di compassione! 
...Il mistero del cuore di un Dio che si commuove 
e riversa tutto il suo amore sull'umanità. 
Un amore misterioso, che ci viene rivelato 
come incommensurabile passione di Dio per l'uomo. 
Egli non si arrende dinanzi all'ingratitudine 
e nemmeno davanti al rifiuto del popolo che si è scelto; 
anzi, con infinita misericordia, 
invia nel mondo l'Unigenito suo Figlio 
perché prenda su di sé il destino dell'amore distrutto; 
perché, sconfiggendo il potere del male e della morte, 
possa restituire dignità di figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. 
Tutto questo a caro prezzo: 
il Figlio Unigenito del Padre si immola sulla croce: 
"Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine". 
Simbolo di tale amore che va oltre la morte 
è il suo fianco squarciato da una lancia. 

Benedetto XVI, Omelia del 19 giugno 2009






Dal Vangelo secondo Luca 21, 20-28

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano verso i monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia. In quei giorni guai alle donne che sono incinte e a quelle che allattano, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti.
Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».


Il commento

Ci aspettano “giorni di vendetta” dove esploderà l’ "ira”, lo zelo e l’amore geloso di Dio che non può rassegnarsi nel vedere i suoi figli inseguire idoli falsi e vani, incapaci di accogliere il Messia. Tutto ciò che Gesù profetizza e accadrà è il segno dell’amore di Dio che offre sino all'ultimo, in mille modi diversi, anche attraverso le drammatiche conseguenze dei peccati, l'occasione per riconoscere nel suo Figlio il Messia. Se proprio Gerusalemme, il luogo che Dio ha scelto per sua dimora, con il suo Tempio e le sue liturgie è incapace di accogliere il Signore, essa “sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti” e il "Popolo", purificato nell' "ira" ardente d'amore, saprà finalmente riconoscere il Messia. Allo stesso modo, se li abbiamo convertiti in idoli che ci impediscono di aprirci a Cristo, anche i luoghi che ci sono più cari e familiari, persino quelli che Dio aveva benedetto per incontrarsi con noi, saranno ridotti ad un cumulo di macerie “perché tutto ciò che il Padre ha scritto di noi si compia”, e ci convertiamo alla sua volontà. Per questo, quando in famiglia, sul lavoro, nella stessa nostra povera Chiesa, accadranno “tutte queste cose”, sarà importante comprendere l'urgenza del momento favorevole; “quando sono scosse le fondamenta” della vita, come il “giusto” del salmo che sa riconoscere la visita del Signore e per questo “fugge come un passero verso il monte” siamo chiamati anche noi a non indugiare nella conversione, e a non “tornare nella città” per rimettere insieme i cocci degli errori passati e salvare il salvabile. “In quei momenti”, infatti, prorompe la voce del Signore che ci ordina di “risuscitare”, secondo l’originale greco tradotto con “alzate gli occhi" e "sollevate il capo". La passione di Cristo che precede la risurrezione, viene a salvarci “sconvolgendo” addirittura il corso della natura con "segni nel sole, nella luna e nelle stelle", e segna amori, lavoro, studio con le stigmate del suo amore. Se si ode oggi nella nostra vita “il fragore del mare e dei flutti”, è il segno che Gesù viene “sulla nube” della sua shekinà a purificarci; con la “Gloria e la Potenza” della Croce gloriosa viene per “condurre prigioniero” il nostro uomo vecchio e farlo “cadere a fil di spada”: dalle ceneri della carne Egli saprà trarre un cuore capace di amare davvero. 

Così, mentre “gli uomini muoiono di paura” di fronte ai cataclismi, alle crisi economiche, alle malattie, alle conseguenze del peccato che ha voluto cancellare Dio, noi restiamo saldi nel suo amore. Dove il mondo vede morte e “calamità”, gli occhi dei cristiani sanno riconoscere la passione di Cristo nella passione del mondo. "Guarderanno a Colui che hanno trafitto": nella distruzione del mondo riconoscono impresse le piaghe del Signore. Siamo le avanguardie del Signore, i segni della sua gloriosa potenza: proprio dove tutto cade, il Signore ci “solleva” in una vita nuova. La missione profetica della Chiesa è sperare laddove tutti disperano, puntando il cielo mentre vi è “sulla terra angoscia di popoli in ansia”. Il sostantivo "synochē", tradotto con "angoscia", significa letteralmente "costrizione", e nella versione greca della Bibbia è usato a proposito di un "assedio". L'"aporia", tradotto con "ansia", rimanda a un passaggio impraticabile, una strada senza uscita: "l'aporia è la difficoltà irrisolvibile, l' impasse logica … nella quale la realtà che si mostra nell'esperienza entra in conflitto con la realtà mostrata dalla logica" (Dizionario filosofico). Quante volte la logica dei nostri ragionamenti entra in conflitto con l'evidenza amara della realtà! E così nel mondo, dove la logica di teorie politiche e sistemi ideologici non regge l'urto con il peccato che "costringe" la storia in un "assedio" mortale. Nell’aporia della vita siamo chiamati ad “alzare la testa” per mostrare ad ogni uomo la Verità che supera ogni contraddizione, perché tutte le assume nell'unica logica possibile, quella dell'amore che pone fine al male prendendolo su di sé per bruciarlo nell' "ira" di un cuore ardente di gelosia.

APPROFONDIMENTI

J. Ratzinger - Benedetto XVI. (Da "Gesù di Nazaret" Vol. II)

IL DISCORSO ESCATOLOGICO DI GESÙ

an Matteo, al termine dei « guai! » pronunciati
da Gesù contro gli scribi e farisei, quindi nel
contesto dei discorsi dopo l'ingresso a Gerusalemme,
ci trasmette una parola misteriosa di Gesù,
che in Luca ha trovato il suo posto durante il cammino
di Gesù verso la città santa: « Gerusalemme,
Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli
che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere
i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i
suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco:
la vostra casa vi sarà lasciata deserta...» (Mf
23,37s; cfr Le 13,34s). In queste frasi appare anzitutto
il profondo amore di Gesù verso Gerusalemme,
la sua lotta appassionata per il « sì » della città
santa al messaggio che Egli deve trasmettere e col
quale si colloca entro la grande linea degli araldi
di Dio nella precedente storia della salvezza.
L'immagine della chioccia protettrice e preoccupata
deriva dall'Antico Testamento: Dio « trovò
[il suo popolo] in una terra deserta... Lo circondò,
lo allevò; lo custodì come la pupilla del suo occhio.
Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che
vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,10s). Si aggiunge la
bella parola del Salmo 36,8: « Quanto è prezioso il
tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all'ombra
delle tue ali».


* * *

LA FINE DEL TEMPIO

Prima di rivolgere la nostra attenzione nuovamente
alle parole di Gesù, dobbiamo però gettare
uno sguardo sugli avvenimenti storici dell'anno
70. Con la cacciata del procuratore Gessio Floro e
la difesa efficace di fronte al contrattacco romano,
nel 66 era iniziata la guerra giudaica che, tuttavia,
non è stata soltanto una guerra dei Giudei contro i
Romani, ma in gran parte periodicamente anche
una guerra civile tra correnti giudaiche rivaleggianti
sotto la guida dei loro capi. Fu innanzitutto
questo a conferire alla battaglia per Gerusalemme
tutta la sua atrocità.
Eusebio di Cesarea (t ca. 339) e - con valutazioni
diverse - Epifanio di Salamina (+ 403) ci riferiscono
che, già prima dell'inizio dell'assedio di Gerusalemme,
i cristiani si sarebbero rifugiati nella
regione ad Est del Giordano, nella città di Pella.
Secondo Eusebio si decisero alla fuga dopo che ai
loro «responsabili» fu affidato mediante rivelazione
uno specifico ordine (cfr Hist. eccl. III, 5).
Epifanio, invece, scrive: «Cristo aveva loro detto
di abbandonare Gerusalemme e trasferirsi altrove,
perché la città sarebbe stata assediata » (Haer.
29,8). Di fatto leggiamo nel discorso escatologico
di Gesù un pressante invito alla fuga: «Quando
vedrete l'abominio della devastazione presente là
dove non è lecito ... allora quelli che si trovano
nella Giudea fuggano sui monti» (Me 13,14).
In quale vicenda o in quale realtà i cristiani vedessero
realizzato questo segno dell'« abominio
della devastazione» e decidessero la partenza,
non è precisabile. Ma c'erano, in quegli anni della
guerra giudaica, avvenimenti a sufficienza, che
potevano essere interpretati come questo segno
annunciato da Gesù, la cui formulazione verbale è
tratta dal Libro di Daniele (9,27; 11,31; 12,11), dove
indica la profanazione ellenistica del tempio. Questa
espressione simbolica, mutuata dalla storia di
Israele, in quanto annuncio dell'avvenire, consentiva
differenti interpretazioni. Così, il testo di Eusebio
può risultare certamente ragionevole nel
senso, per esempio, che membri ragguardevoli
della comunità paleocristiana « mediante una rivelazione
» riconobbero in un certo evento il segno
preannunciato e lo interpretarono come ordine di
iniziare immediatamente la fuga.
Alexander Mittelstaedt fa notare che nell'estate
66, accanto a Giuseppe ben Gorion, l'ex sommo
sacerdote Anna II fu scelto come stratega per condurre
la guerra - quell' Anna che poco prima, nell'anno
62 d. Cr., aveva decretato la condanna a
morte del «fratello del Signore», Giacomo, capo
della comunità giudeo-cristiana (Lukas als Historiker,
p. 68). Questa scelta poteva senz'altro essere
interpretata dai giudeo-cristiani come segnale per
la partenza, anche se questa certamente può costituire
soltanto una tra molte ipotesi. La fuga dei
giudeo-cristiani dimostra, comunque, ancora in
tutta evidenza il « no » dei cristiani alla interpretazione
zelota del messaggio biblico e della figura di
Gesù: la loro speranza è di natura diversa.
Torniamo allo svolgimento della guerra giudaica.
Vespasiano, che era stato incaricato dell'operazione
da Nerone, sospese tutte le azioni militari,
quando nel 68 fu annunciata la morte dell'imperatore.
Dopo un breve intermezzo, il 1° luglio 69 Vespasiano
stesso fu proclamato nuovo imperatore.
Affidò perciò l'incarico della conquista di Gerusalemme
al figlio Tito.
Questi, secondo Giuseppe Flavio, deve essere
arrivato davanti alla città santa presumibilmente
proprio nel periodo delle festività della Pasqua, il
14 del mese di Nisan, quindi nel 40° anniversario
della crocifissione di Gesù. Migliaia di pellegrini
affluivano a Gerusalemme. Giovanni di Gishala,
uno dei capi dell'insurrezione, in lotta tra loro, fece
penetrare di nascosto nel tempio combattenti
armati, travestiti da pellegrini, che lì iniziarono
una carneficina dei seguaci del suo rivale Eleazar
ben Simon, contaminando così un'altra volta il
santuario col sangue di innocenti (Mittelstaedt,
p. 72). Ciò tuttavia non era che una prima dimostrazione
delle crudeltà inimmaginabili, che in seguito
si sarebbero sviluppate con una brutalità
crescente, in cui il fanatismo degli uni e il furore
in espansione degli altri si sarebbero a vicenda incentivati.
Non dobbiamo qui trattare dei particolari della
conquista e della distruzione della città e del tempio.
Può tuttavia essere utile riportare il testo, in
cui Mittelstaedt riassume il decorso terribile del
dramma: « La fine del tempio si svolge in tre tappe:
dapprima c'è la sospensione del sacrificio regolare,
per la quale il santuario è ridotto ad una
fortezza; segue poi il dare alle fiamme che a sua
volta si svolge in tre tappe... E infine c'è lo smantellamento
delle rovine dopo la caduta della città.
Le distruzioni decisive... avvengono mediante il
fuoco; gli smantellamenti successivi erano ormai
soltanto uno strascico... Chi era sopravvissuto e
non era morto neppure a causa delle carestie o
delle epidemie, aveva la prospettiva del circo, della
miniera o della schiavitù» (pp. 84s).
Secondo Giuseppe Flavio, il numero dei morti
ammontava a 1.100.000 (De bello lud. VI 420). Orosio
(Hist. adv. pag. VII 9,7) e, similmente, Tacito (Hist.
V 13) parlano di 600.000 morti. Mittelstaedt è
dell'avviso che queste cifre siano esagerate e realisticamente
si dovrebbe supporre il numero di circa
80.000 morti (p. 83). Chi legge i rapporti interi e
prende coscienza della quantità di omicidi, massacri,
saccheggi, incendi, fame, vilipendi di cadavere
e distruzione dell'ambiente (disboscamento totale
in un cerchio di 18 km intorno alla città), può capire
che Gesù - riprendendo una parola del Libro di
Daniele (12,1) - commenti l'avvenimento dicendo:
« Quelli saranno giorni di tribolazione, quale non
vi
è mai stata dall'inizio della creazione, fatta da Dio,
fino ad ora, né mai più vi sarà » (Me 13,19).
In Daniele a questa parola di minaccia segue
una promessa: « In quel tempo sarà salvato il tuo
popolo, chiunque si troverà scritto nel libro »
(12,1). Anche nel discorso di Gesù, l'orrore non ha
l'ultima parola: i giorni saranno abbreviati e gli
eletti salvati. Dio lascia una misura grande - stragrande
secondo la nostra impressione - di libertà
al male e ai cattivi; ciononostante la storia non gli
sfugge dalle mani.
In tutto questo dramma, che purtroppo è solo un
esempio di tante altre tragedie della storia, c'è un
evento centrale per la storia della salvezza - evento
che significa un taglio netto dalle ampie conseguenze
anche per l'intera storia delle religioni e, in
genere, per quella dell'umanità: il 5 agosto dell'anno
70, « a causa della carestia e della mancanza di
materiale fu necessario sospendere il sacrificio
quotidiano
nel tempio » (Mittelstaedt, p. 78).
È vero che dopo la distruzione del tempio per
opera di Nabucodònosor nel 587 a. Cr. il fuoco sacrificale
era restato spento per 70 anni circa e una
seconda volta, tra gli anni 166 e 164 a. Cr., sotto il
dominatore ellenista Antioco IV, il tempio era stato
profanato e il ministero sacrificale all'unico Dio
era stato sostituito da sacrifici a Zeus. Ma in ambedue
i casi il tempio era risorto e il culto prescritto
dalla Torà era stato ripreso.
La distruzione dell'anno 70, invece, era definitiva:
i tentativi di una ricostruzione del tempio sotto
gli imperatori Adriano, durante l'insurrezione
di Bar Kochba (132-135 d. Cr.), e Giuliano (361)
fallirono. La rivolta di Bar Kochba ebbe anzi la
conseguenza che Adriano vietò al popolo ebreo
l'accesso al territorio di Gerusalemme e dintorni.
Al posto della città santa l'imperatore ne costruì
una nuova, che poi fu chiamata « Aelia Capitolina
», dove si celebrava il culto a Giove Capitolino.
« Solo l'imperatore Costantino, nel IV secolo, permise
ai giudei di visitare la città una volta l'anno
nella ricorrenza della distruzione di Gerusalemme
per far lutto presso il muro del tempio » (Gnilka,
Nazarener, p. 72).
Per il giudaismo, la cessazione del sacrificio, la
distruzione del tempio dovette essere uno shock tremendo.
Tempio e sacrificio stanno al centro della
Torà. Ora non c'era più nessuna espiazione nel
mondo, niente che potesse far da contrappeso al
suo crescente inquinamento in conseguenza del
male. E ancora: Dio, che su questo tempio aveva
posto il suo nome e quindi, in modo misterioso,
abitava in esso, ora aveva perso questa sua dimora
sulla terra. Dove era l'alleanza? Dove la promessa?
Una cosa è chiara: la Bibbia - l'Antico
Testamento
- doveva essere letta in un modo nuovo. Il giudaismo
dei sadducei, che era totalmente legato al tempio,
non è sopravvissuto a questa catastrofe, e
anche
Qumran, che in verità era in opposizione al tempio
erodiano, ma aspettava un tempio nuovo, è scomparso
dalla storia. Esistono due risposte a tale
situazione
- due modi di leggere in maniera nuova l'Antico
Testamento dopo l'anno 70: la lettura alla luce
di
Cristo, sulla base dei profeti, e la lettura rabbinica.
Delle correnti giudaiche del tempo di Gesù è
sopravvissuto solo il fariseismo, che nella scuola
rabbinica di Jamnia ha trovato un nuovo centro e
ha elaborato un modo particolare di leggere e di
interpretare, nell'epoca ormai priva del tempio,
l'Antico Testamento con la Torà come suo centro.
Solo a partire da quel momento parliamo di « giudaismo
»"nel senso proprio del termine, quale modo
di considerare e leggere il canone degli scritti
biblici come rivelazione di Dio senza il mondo
concreto del culto nel tempio. Questo culto non
esiste più. A tale riguardo, anche la fede di Israele
dopo l'anno 70 ha assunto una forma nuova.

Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo
come nostro compito il far sì che questi due modi
della nuova lettura degli scritti biblici - quella cristiana
e quella giudaica - entrino in dialogo tra loro,
per comprendere rettamente la volontà e la parola
di Dio.
In retrospettiva, Gregorio Nazianzeno (t 390 ca.)
ha cercato di stabilire, a partire dalla fine del tempio
gerosolimitano, una specie di periodizzazione
della storia delle religioni. Egli parla della pazienza
di Dio, che non impone all'uomo niente di incomprensibile:
Dio agisce come un buon pedagogo
o un medico. Lentamente abolisce certe usanze,
ne tollera altre e così porta l'uomo a fare progressi.
«Non è una cosa facile cambiare costumi
vigenti e da molto tempo venerati... Che cosa intendo
dire? Il primo Testamento sopprimeva gli
idoli, ma tollerava i sacrifici. Il secondo metteva fine
ai sacrifici, ma non proibiva la circoncisione.
Una volta accettata l'abolizione [di tale usanza],
[gli uomini] rinunciavano a ciò che era soltanto
tollerato» (cit. da Bärbel pp. 261/263). Nella visione
del Padre della Chiesa, anche i sacrifici, pur
previsti dalla Torà, appaiono come una cosa soltanto
tollerata - come una tappa nel percorso verso
il culto giusto - come qualcosa di provvisorio,
che durante il cammino doveva essere superato e
che Cristo ha superato.
Ma ora si pone decisamente la domanda: come ha
visto tutto ciò Gesù stesso? E come Egli è stato capito
dai cristiani? Non dobbiamo qui esaminare in
che misura i singoli dettagli del discorso
escatologico
di Gesù risalgano alla sua parola personale. Che
Egli abbia preannunciato la fine del tempio - e precisamente
la sua fine teologica, storico-salvifica - è
fuori dubbio. Questo confermano, accanto al discorso
escatologico, soprattutto il detto circa la casa
lasciata deserta, dal quale siamo partiti (cfr Mt
23,37s; Le 13,34s) e la parola dei falsi testimoni nel
processo a Gesù (cfr Mt 26,61; 27,40; Me 14,58;
15,29; At 6,14), che ritorna sotto la croce come parola
di scherno ed è riportata in Giovanni, come
parola
di Gesù stesso, nella versione giusta (cfr 2,19).
Gesù aveva amato il tempio come proprietà del
Padre (cfr Le 2,49) ed aveva gradito insegnare in
esso. Lo aveva difeso come casa di preghiera per
tutte le nazioni ed aveva cercato di prepararlo per
questo scopo. Ma Egli sapeva anche che l'epoca di
questo tempio era superata e che sarebbe arrivato
qualcosa di nuovo che era collegato con la sua
morte e risurrezione.
La Chiesa nascente doveva mettere insieme e
insieme leggere questi frammenti in gran parte
misteriosi delle parole di Gesù - le sue affermazioni
sul tempio e soprattutto sulla croce e sulla
risurrezione -, per riconoscere alla fine in tali
frammenti l'intero complesso di ciò che Gesù aveva
voluto esprimere. Ciò non era affatto un compito
facile, venne però affrontato a partire dalla
Pentecoste, e possiamo dire che nella teologia
paolina tutti gli elementi essenziali della nuova
sintesi erano stati trovati già prima della fine materiale
del tempio.
Sul rapporto della comunità primitiva col tempio,
gli Atti degli Apostoli ci dicono che « ogni giorno
erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando
il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e
semplicità di cuore » (2,46). Sono quindi menzionati
due luoghi di vita della Chiesa nascente: per
la predicazione e la preghiera ci si riunisce nel
tempio, che continua ad essere considerato ed accettato
come la casa della parola di Dio e della
preghiera; lo spezzare il pane - il nuovo centro
« cultuale » dell'esistenza dei fedeli - avviene invece
nelle case come luoghi dell'assemblea e della
comunione grazie al Signore risorto.
Anche se non si sono ancora esplicitamente
prese le distanze dai sacrifici secondo la Legge, si
delinea tuttavia ormai una distinzione essenziale.
Ciò che fino a quel momento erano stati i sacrifici,
viene sostituito dallo «spezzare il pane». Dietro
questa semplice parola, però, si nasconde l'accenno
all'eredità dell'ultima cena, alla comunione nel
corpo del Signore - alla sua morte e alla sua risurrezione.
Per la nuova sintesi teologica, che vede la fine storico-
salvifica del tempio realizzata, già prima della
distruzione materiale di esso, nella morte e risurrezione
di Gesù, emergono due grandi nomi:
Stefano e Paolo.
Stefano, nella comunità primitiva di Gerusalemme,
appartiene al gruppo degli « ellenisti », un
gruppo di giudeo-cristiani di lingua greca che, nel
loro modo nuovo di interpretare la Legge, prepararono
il cristianesimo paolino. Il grande discorso,
con cui Stefano, secondo il racconto degli Atti degli
Apostoli, cerca di illustrare la sua nuova visione
della
storia della salvezza, viene troncato nel punto
decisivo. Lo sdegno dei suoi avversari è già arrivato
all'estremo e si sfoga nella lapidazione dell'annunciatore.
Ma il vero punto del dissenso è espresso
in modo assolutamente chiaro nell'esposizione
dell'accusa presentata al sinedrio: « Lo abbiamo infatti
udito dichiarare che Gesù, questo Nazareno,
distruggerà questo luogo [cioè il tempio] e sovvertirà
le usanze che Mose ci ha tramandato » (At
6,14). Si tratta della parola di Gesù sulla fine del
tempio di pietra e sul nuovo tempio tutto diverso
- parola che Stefano ha fatto sua ed evidentemente
ha posto al centro della sua predicazione.
Anche se non possiamo ricostruire nei particolari
la visione teologica di santo Stefano, ne è tuttavia
chiaro il punto essenziale: è superata l'epoca
del tempio di pietra con il suo culto sacrificale.
Dio stesso, infatti, ha detto: « Il cielo è il mio trono
e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete
costruirmi? O quale sarà il luogo del mio riposo?
Non è forse la mia mano che ha creato tutte
queste cose? » (At 7,49s; cfr Is 66, ls).
Stefano conosce la critica dei profeti al culto.
Per lui, con Gesù il periodo del sacrificio nel tempio
è passato e con ciò anche l'epoca del tempio
stesso; ora le parole del profeta assumono la loro
piena ragione. È iniziato qualcosa di nuovo, in cui
si adempie ciò che, in realtà, è la cosa originaria.
La vita e il messaggio di santo Stefano sono rimasti
un frammento che s'interrompe improvvisa
mente con la lapidazione che, però, allo stesso
tempo porta a compimento la sua vita e il suo
messaggio: nella sua passione è diventato una cosa
sola con Cristo. Il processo come la morte assomigliano
alla passione di Gesù. Come il Signore
crocifisso prega anche lui: « Signore, non imputare
loro questo peccato! » (At 7,60). Ad un altro spettava
completare la visione teologica ed edificare
in base ad essa la Chiesa delle genti: a Paolo, che
come Saulo aveva approvato l'uccisione di Stefano
(cfr At 8,1).
Non è compito di questo libro tracciare le linee
fondamentali della teologia di Paolo o anche
soltantodella sua concezione del culto e del tempio. Qui
sitratta solo di sottolineare che la cristianità
nascente,molto prima della distruzione materiale del
tempio,era convinta che il ruolo di esso nella storia della
salvezzaera giunto al termine - come Gesù aveva
preannunciato con la parola sulla « casa lasciata
deserta» e con il discorso sul nuovo tempio.
La grande lotta di san Paolo nell'edificazione
della Chiesa delle genti, del cristianesimo «libero
dalla Legge », non si riferisce, per la verità, al tempio.
Il contrasto con i vari gruppi del giudeo-cristianesimo
gira intorno alle «consuetudini» di
fondo, in cui si esprimeva l'identità giudaica: la
circoncisione, il Sabato, le prescrizioni alimentari e
le norme di purezza. Mentre sulla questione della
necessità di queste « consuetudini » per raggiungere
la salvezza si svolse una lotta drammatica anche
tra i cristiani - lotta che alla fine portò all'arresto
dell'apostolo a Gerusalemme - stranamente non si
trova da nessuna parte la traccia di un conflitto sul
tempio e sulla necessità dei suoi sacrifici, e questo
nonostante il fatto che, secondo il racconto degli
Atti degli Apostoli, « anche una grande moltitudine
di sacerdoti aderiva alla fede » (6,7).
Paolo, tuttavia, non ha tralasciato questo problema:
al contrario, costituisce il centro del suo insegnamento
il messaggio che nella croce di Cristo
tutti i sacrifici sono portati a compimento, in Lui
si è realizzata l'intenzione di tutti i sacrifici - l'espiazione
- e così Gesù stesso ha preso il posto del
tempio, è Lui il nuovo tempio.
Basti un breve cenno. Il testo più importante si
trova nella Lettera ai Romani 3,23ss: « Tutti hanno
peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono
giustificati gratuitamente per la sua grazia, per
mezzo della redenzione in Cristo Gesù. È lui che
Dio ha stabilito apertamente come strumento di
espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue,
a manifestazione della sua giustizia per la remissione
dei peccati passati ».
La parola qui tradotta con « strumento di espiazione
», in greco suona «hilasterion», in ebraico
«kapporet». Così si chiamava il coperchio dell'arca
dell'alleanza. È il luogo sul quale, in una nube, appare
YHWH, il luogo della misteriosa presenza di
Dio. Nel giorno dell'Espiazione - lo Yom kippùr
(cfr Lev 16) - questo luogo sacro viene asperso con
il sangue del giovenco immolato come vittima di
espiazione, « la cui vita viene così offerta a Dio al
posto di quella degli uomini peccatori meritevoli
di morte » (Wilckens II 1, 235). L'idea di fondo è
che il sangue del sacrificio, nel quale sono stati
assorbiti tutti i peccati degli uomini, toccando la divinità
stessa viene purificato e così, mediante il
contatto con Dio, anche gli uomini rappresentati
da questo sangue vengono resi mondi: un pensiero,
questo, che nella sua grandezza e, insieme, nella
sua insufficienza è commovente, un pensiero
che non poteva rimanere l'ultima parola della storia
delle religioni, né l'ultima parola nella storia
della fede di Israele.
Se Paolo applica la parola hilasterion a Gesù, indicandolo
come il coperchio dell'arca dell'alleanza
e quindi come il luogo della presenza del Dio
vivente, allora l'intera teologia veterotestamentaria
del culto (e con essa le teologie del culto di tutta
la storia delle religioni) viene « abolita » ed insieme
innalzata ad un'elevatezza totalmente nuova.
Gesù stesso è la presenza del Dio vivente. In
Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto.
In Lui si realizza ciò che il rito del giorno dell'Espiazione
intendeva esprimere: nella donazione di
sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il
peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie
in esso. Accostarsi alla croce, entrare in comunione
con Cristo significa entrare nell'ambito della
trasformazione e dell'espiazione.
Tutto ciò per noi oggi è difficile da capire; nella
riflessione a riguardo dell'ultima cena e della
morte in croce di Gesù dovremo su ciò ampiamente
tornare e sforzarci di comprendere. Qui si è
trattato in fondo solo di mostrare che Paolo ha già
interamente previsto l'abolizione del tempio ed
introdotto la sua teologia sacrificale nella cristologia.
Per Paolo, nella crocifissione di Cristo il tempio con
il suo culto è « demolito »; al suo posto ora sta la
vivente arca dell'alleanza del Cristo crocifissoe risorto.
Se con Ulrich Wilckens possiamo supporre
che il passo di Romani 3,25 è una «formula
della fede dei giudeo-cristiani » (1/3, p. 182), allora
vediamo quanto presto questa convinzione fosse
già maturata nella cristianità - che cioè essa sapeva
fin dall'inizio questo: il Risorto è il nuovo tempio,
il vero luogo di contatto tra Dio e l'uomo. Per
questo, Wilckens può anche dire con ragione:
« Forse fin dall'inizio i cristiani semplicemente
non hanno partecipato al culto del tempio ... Pertanto
la distruzione del tempio nell'anno 70 d. Cr.,
per i cristiani non era un loro problema religioso »
(II/l,p. 31).
Così però si rende anche evidente che la grande
visione teologica della Lettera agli Ebrei sviluppa
soltanto nel particolare ciò che, in nucleo, è già
espresso in Paolo e che Paolo stesso, a sua volta,
aveva già incontrato, quanto al contenuto essenziale,
nella preesistente tradizione della Chiesa.
Vedremo più tardi che, a modo suo, la Preghiera
sacerdotale di Gesù reinterpreta nello stesso senso
lo svolgimento del grande giorno dell'Espiazione
e quindi il centro della teologia veterotestamentaria
della redenzione, considerandola compiuta
nella croce.

* * *

Il Tempo dei pagani

Una lettura o un ascolto superficiali del discorso
escatologico di Gesù suscitano facilmente l'impressione che,
dal punto di vista cronologico, Gesù
abbia collegato la fine di Gerusalemme immediatamente
con la fine del mondo, in particolare
quando si legge in Matteo: « Subito dopo la tribolazione
di quei giorni, il sole si oscurerà... Allora
comparirà in cielo il segno del Figlio dell'uomo...
» (24,29s). Questa concatenazione cronologicamente
diretta tra la fine di Gerusalemme e la fine
del mondo intero sembra confermarsi anche
maggiormente, quando, qualche versetto più
avanti, si trovano le parole: « In verità vi dico: non
passerà questa generazione prima che tutto questo
avvenga...» (24,34).
A prima vista sembra che solo Luca abbia attenuato
questo collegamento. In lui si legge: « Cadranno
a fil di spada e saranno condotti prigionieri
in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata
dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti
» (21,24). Tra la distruzione di Gerusalemme
e la fine del mondo si introducono « i tempi dei
pagani ». E stato rimproverato a Luca di aver con
ciò spostato l'asse cronologico dei Vangeli e del
messaggio originario di Gesù, di aver trasformato
la fine dei tempi nel tempo intermedio, inventando
così il tempo della Chiesa come nuova fase della
storia della salvezza. Ma guardando con attenzione,
si scopre che questi « tempi dei pagani »,
con parole diverse e in un altro punto del discorso
di Gesù, sono annunciati anche in Matteo e in
Marco.
In Matteo troviamo la seguente parola del Signore:
« Questo vangelo del Regno sarà annunziato
in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza
a tutti i popoli; e allora verrà la fine»
(24,14). In Marco si legge: «Ma prima [della fine] è
necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le
nazioni» (13,10).
Questo ci dimostra innanzitutto che bisogna essere
molto cauti con i collegamenti all'interno di
questo discorso di Gesù; il discorso è stato composto
con singoli pezzi tramandati, che non costituiscono
semplicemente uno svolgimento lineare, ma
sono da leggere come se stessero uno nell'altro.
Torneremo in modo più dettagliato, nel corso del
terzo sottocapitolo («Profezia e apocalisse...»), su
questo problema redazionale, che è di grande importanza
per la giusta comprensione del testo.
Dal punto di vista contenutistico si rende evidente
che tutti e tre i sinottici sanno qualcosa di
un tempo dei pagani: la fine del mondo può arrivare
solo quando il Vangelo sarà stato portato a
tutti i popoli. Il tempo dei pagani - il tempo della
Chiesa dei popoli del mondo - non è un'invenzione
di san Luca; è patrimonio comune della tradizione
di tutti i Vangeli.
A questo punto incontriamo di nuovo il collegamento
tra la tradizione dei Vangeli e i motivi fondamentali
della teologia paolina. Se Gesù nel discorso
escatologico dice che prima deve essere
annuncialo il Vangelo alle nazioni e solo dopo
può arrivare la fine, troviamo in Paolo l'affermazione
praticamente identica nella Lettera ai Romani:
« L'ostinazione di una parte d'Israele ein atto
fino a quando non sono entrate tutte quante le
genti. Allora tutto Israele sarà salvato...»
(11,25s). La totalità dei pagani e l'intero Israele:
in questa formula appare l'universalismo della
divina volontà di salvezza. Nel nostro contesto,
però, è importante che anche Paolo sappia del
tempo dei pagani che si svolge adesso e deve essere
compiuto, affinché il piano di Dio raggiunga
il suo scopo.
Il fatto che la cristianità primitiva non potesse
farsi un'idea cronologicamente adatta della durata
di questi «kairoi» (tempi) dei pagani, immaginandoli
sicuramente piuttosto brevi, è in fin dei conti
secondario. L'essenziale sta nell'affermazione fondamentale
e nel preannuncio di un tale tempo,
che dai discepoli, senza calcoli sulla sua durata,
doveva essere ed è stato interpretato innanzitutto
come un compito: realizzare ora ciò che è stato annunciato
e richiesto, portare cioè il Vangelo a tutte
le genti.
L'instancabilità con cui Paolo era in cammino
verso i popoli, per portare a tutti il messaggio, per
adempiere il compito possibilmente ancora durante
la sua vita - questa instancabilità, appunto,
si spiega soltanto con la sua consapevolezza del
significato storico ed escatologico dell'annuncio:
«Una necessità mi si impone: guai a me se non
annuncio il Vangelo! » (1 Cor 9,16).
In questo senso l'urgenza dell'evangelizzazione
nella generazione apostolica è motivata non tanto
dalla questione circa la necessità della conoscenza
del Vangelo per la salvezza individuale di ogni
singolo, quanto piuttosto da questa grande concezione
della storia: affinché il mondo raggiunga la
sua meta, il Vangelo deve arrivare a tutti i popoli.
In alcuni periodi della storia, la percezione di questa
urgenza si è assai indebolita, ma si è poi anche
sempre riaccesa, suscitando un nuovo dinamismo
nell'evangelizzazione.
A questo riguardo, c'è sempre sullo sfondo anche
la questione circa la missione di Israele. Vediamo
oggi con sconcerto quanti malintesi gravidi
di conseguenze abbiano, in proposito, pesato sui
secoli. Una nuova riflessione, tuttavia, può riconoscere
che in tutti gli offuscamenti sono sempre riscontrabili
awii di una giusta comprensione.
Vorrei qui far riferimento a ciò che Bernardo di
Chiaravalle riguardo a questo punto ha consigliato
al suo discepolo Papa Eugenio III. Egli ricorda
al Papa che gli è stata affidata la cura non solo dei
cristiani: « Tu sei debitore anche verso gli infedeli,
i giudei, i greci e i pagani» (De cons. 111/1,2). Tuttavia,
subito dopo si corregge precisando: « Ammetto
che, per quanto riguarda i Giudei, sei scusato
dal tempo; per loro è stato stabilito un determinato
momento, che non si può anticipare. Devono
precedere i pagani nella loro totalità. Ma che cosa
dici circa i pagani stessi?... Che cosa avevano in
mente i tuoi predecessori per... interrompere l'evangelizzazione,
mentre è ancora diffusa l'incredulità?
Per quale motivo ... la parola che corre veloce
si è fermata?...» (111/1,3).
Hildegard Brem commenta questo passo così:
«Facendo seguito a Romani 11,25, la Chiesa non
deve preoccuparsi della conversione dei Giudei,
perché occorre aspettare il momento stabilito da
Dio " quando la totalità dei gentili avrà raggiunto
la salvezza" (Km 11,25). Al contrario, i Giudei sono
essi stessi una predica vivente, alla quale la
Chiesa deve rimandare, perché richiamano alla
mente la passione di Cristo » (Winkler I, p. 834).
Il preannuncio del tempo dei pagani e il compito
da ciò derivante è un punto centrale del messaggio
escatologico di Gesù. Il compito particolare
dell'evangelizzazione dei pagani, che Paolo ha ricevuto
dal Risorto, è saldamente ancorato al messaggio
dato da Gesù ai discepoli prima della sua
passione. Il tempo dei pagani - « il tempo della
Chiesa » - che, come abbiamo visto, è stato tramandato
in tutti i Vangeli, costituisce un elemento
essenziale del messaggio escatologico di Gesù.


* * *

PROFEZIA E APOCALISSE NEL DISCORSO ESCATOLOGICO
Prima di dedicarci a quella che, nel senso più
stretto, è la parte apocalittica del discorso di Gesù,
cerchiamo di raggiungere una visione d'insieme
di tutto ciò che finora abbiamo incontrato.
Come prima cosa troviamo l'annuncio della distruzione
del tempio e, in Luca esplicitamente, anche
della distruzione di Gerusalemme. Si è, tuttavia,
reso evidente che il nucleo del preannuncio di
Gesù non ha di mira le azioni esteriori della guerra
e della distruzione, ma la fine nel senso storicosalvifico
del tempio, che diventa la « casa lasciata
deserta »: cessa di essere il luogo della presenza di
Dio e dell'espiazione per Israele, anzi per il mondo.
È passato il tempo dei sacrifici secondo la legge
di Mose.
Abbiamo visto che la Chiesa nascente, molto
prima della fine materiale del tempio, era consapevole
di questa profonda svolta della storia; con
tutte le discussioni difficili su ciò che dei costumi
giudaici avrebbe dovuto essere conservato e dichiarato
obbligatorio anche per i pagani, su questo
punto ovviamente non c'era alcun dissenso:
con la croce di Cristo l'epoca dei sacrifici era giunta
a termine.
Inoltre abbiamo visto che fa parte del nucleo del
messaggio escatologico di Gesù l'annuncio di un
tempo dei gentili, durante il quale il Vangelo deve
essere portato in tutto il mondo e a tutti gli
uomini: solo dopo, la storia può raggiungere la
sua meta.
Nel frattempo Israele conserva la propria missione.
Sta nelle mani di Dio, che al tempo giusto lo
salverà «interamente», quando il numero dei pagani
sarà completo. E ovvio e neppure sorprendente
che non si potesse calcolare la durata storica
di questo periodo. Si rese invece sempre più chiaro
che l'evangelizzazione dei pagani ora era diventato
il compito per eccellenza dei discepoli - soprattutto
grazie all'incarico particolare che Paolo sapeva
aver assunto come peso e grazia insieme.
In base a ciò si capisce ora anche che questo
«tempo dei pagani» non è ancora vero tempo
messianico nel senso delle grandi promesse di salvezza,
ma, appunto, sempre tempo di questa storia
e delle sue sofferenze e, tuttavia,
in modo nuovo anche tempo di speranza: « La notte è avanzata,
il giorno è vicino » (Km 13,12).
Mi sembra ovvio che alcune parabole di Gesù -
la parabola della rete con i pesci buoni e cattivi
(Mt 13,47-50), la parabola della zizzania nel campo
(Mt 13,24-39) - parlino di questo tempo della
Chiesa. Nella pura prospettiva dell'escatologia
immediata non danno alcun senso.
Come tema secondario abbiamo trovato l'invito
rivolto ai cristiani di fuggire da Gerusalemme
nel momento di una non meglio specificata profanazione
del tempio. La storicità di questa fuga
nella città transgiordana di Pella non può essere
seriamente messa in dubbio. Questo dettaglio
per noi piuttosto marginale ha, tuttavia, un significato
teologico da non sottovalutare: il non
partecipare alla difesa armata del tempio, a
quell'impresa che rese lo stesso luogo sacro una
fortezza e uno scenario di crudeli azioni militari,
corrispondeva esattamente alla linea adottata
da Geremia durante l'assedio di Gerusalemme
da parte dei Babilonesi (cfr ad es. Ger 7,1-15;
38,14-28).
Joachim Gnilka fa però notare soprattutto la
connessione di questo atteggiamento con il nucleo
del messaggio di Gesù: «È altamente improbabile
che i credenti in Cristo residenti a Gerusalemme
partecipassero alla guerra. Il cristianesimo palestinese
ha tramandato il discorso della montagna.
Essi quindi devono aver conosciuto i comandamenti
di Gesù circa l'amore per i nemici e la rinuncia
alla violenza. Sappiamo, inoltre, che non
presero parte alla rivolta ai tempi dell'imperatore
Adriano...» (Nazarener, p. 69).
Un altro elemento essenziale del discorso escatologico
di Gesù è l'avvertimento contro gli pseudomessia
e contro le fantasticherie apocalittiche. Con
ciò si collega l'invito alla sobrietà e alla vigilanza,
che Gesù ha sviluppato ulteriormente in alcune
parabole, particolarmente in quella delle vergini
sagge e delle vergini stolte (Mt 25,1-13), come anche
nelle parole sul portiere vigilante (cfr Me
13,33-36). Proprio queste parole dimostrano chiaramente
che cosa s'intenda con l'espressione « vigilanza
»: non un uscire dal presente, uno speculare
sul futuro, un dimenticare il compito attuale
- tuffai contrario, vigilanza significa fare qui e ora
la cosa giusta, come si dovrebbe compierla sotto
gli occhi di Dio.
Matteo e Luca trasmettono la parabola del servo
che, constatando il ritardo del ritorno del padrone,
ora, sotto l'impressione della sua assenza,
erge se stesso a padrone, percuote i servi e le serve
e si dà alla baldoria. Il servo buono, invece, rimane
servo, sa di dover rendere conto. Egli dà a ciascuno
ciò che gli spetta e riceve lode dal padrone
perché agisce così: il praticare la giustizia è la vera
vigilanza (cfr Mt 24,45-51; Le 12,41-46). Essere vigilanti
significa: sapersi ora sotto gli occhi di Dio
ed agire come si suole fare sotto i suoi occhi.
Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, in modo
drastico e concreto Paolo ha spiegato ai destinatari
in che cosa consista la vigilanza: « Quando eravamo
presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola:
chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita
disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione.
A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo,
ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando
con tranquillità» (3,10ss).
Un ulteriore elemento importante del discorso
escatologico di Gesù è l'accenno alle future persecuzioni
dei suoi. Anche qui è presupposto il tempo
dei pagani, perché il Signore non dice soltanto
che i suoi discepoli verranno consegnati a tribunali
ed a sinagoghe, ma che verranno portati anche
davanti a governatori e re (cfr Me 13,9): l'annuncio
del Vangelo starà sempre sotto il segno della croce
- è ciò che i discepoli di Gesù in ogni generazione
devono imparare nuovamente. La croce è e resta il
segno del « Figlio dell'uomo »: la verità e l'amore,
nella lotta contro la menzogna e la violenza, non
hanno altra arma, in fin dei conti, che la testimonianza
della sofferenza.
Veniamo ora alla parte propriamente apocalittica
del discorso escatologico di Gesù: all'annuncio
della fine del mondo, del ritorno del Figlio dell'uomo
e del Giudizio universale (cfr Me 13,24-27).
Colpisce il fatto che questo testo in gran parte
sia intessuto di parole dell'Antico Testamento, in
particolare dal Libro di Daniele, ma anche da Ezechiele,
Isaia e da altri brani della Scrittura. Questi
testi, per parte loro, stanno in collegamento vicendevole:
in situazioni difficili, immagini antiche
vengono reinterpretate ed ulteriormente sviluppa
te; all'interno dello stesso Libro di Daniele si può
osservare un tale processo di rilettura delle medesime
parole nel proseguimento della storia. Gesù
si introduce in questo processo della «relecture», e
in base a ciò si può anche capire che la comunità
dei fedeli - come abbiamo già accennato brevemente
- a sua volta leggesse le parole di Gesù attualizzandole
secondo le proprie situazioni nuove,
naturalmente in modo da conservare il messaggio
di fondo. Il fatto, però, che Gesù non con
parole sue illustri le cose future, ma con antiche
parole profetiche le annunci in modo nuovo, ha
un significato più profondo.
Dapprima dobbiamo tuttavia far attenzione a
ciò che costituisce la novità: il futuro Figlio dell'uomo,
di cui Daniele (cfr 7,13s) aveva parlato
senza potergli dare caratteristiche personali, è ora
identico con il Figlio dell'uomo che adesso sta
parlando ai discepoli. Le antiche parole apocalittiche
ottengono un centro personalistico: nel loro
centro entra la persona stessa di Gesù, che connette
intimamente il presente vissuto con il futuro
misterioso. Il vero « avvenimento » è la persona in
cui, nonostante il passare del tempo, resta realmente
il presente. In questa persona l'avvenire è
ora presente. Il futuro, in fin dei conti, non ci
porrà in una situazione diversa da quella che
nell'incontro con Gesù è già realizzata.
Così, mediante il centrare le immagini cosmiche
in una persona, in una persona attualmente
presente e conosciuta, il contesto cosmico diventa
secondario e anche la questione cronologica perde
di importanza: la persona «è» nello svolgimento
delle cose fisicamente misurabili, ha un suo « tempo
» proprio, « rimane ».
Questa relativizzazione dell'elemento cosmico,
o meglio: la sua centratura nella sfera personale, si
mostra con particolare chiarezza nella parola finale
della parte apocalittica: « Il cielo e la terra passeranno,
ma le mie parole non passeranno » (Me
13,31). La parola, quasi un nulla a confronto col
potere enorme dell'immenso cosmo materiale, un
soffio del momento nella grandezza silenziosa
dell'universo - la parola è più reale e più durevole
che l'intero mondo materiale. E la realtà vera ed
affidabile: il terreno solido sul quale possiamo appoggiarci
e che regge anche nell'oscurarsi del sole
e nel crollo del firmamento. Gli elementi cosmici
passano; la parola di Gesù è il vero « firmamento
», sotto il quale l'uomo può stare e restare.
Questa centratura personalistica, anzi, questa trasformazione
delle visioni apocalittiche, che tuttavia
corrisponde all'orientamento interiore delle
immagini veterotestamentarie, è la vera specificità
nelle parole di Gesù sulla fine del mondo: è ciò
che al riguardo conta.
In base a questo possiamo anche capire il significato
del fatto che Gesù non descrive la fine del
mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti dell'Antico
Testamento. Il parlare dell'avvenire con
parole del passato sottrae questo discorso ad ogni
connessione cronologica. Non si tratta di una nuova
formulazione della descrizione dell'avvenire,
come sarebbe da aspettarsi da veggenti, ma si tratta
di inserire la visione dell'avvenire nella parola
di Dio ormai donata, la cui stabilità, da un lato, e
le cui aperte potenzialità, dall'altro, in questo modo
si rendono evidenti. Diventa chiaro che la parola
di Dio di allora illumina il futuro nel suo significato
essenziale. Non dà, però, una descrizione
dell'avvenire, ma ci mostra soltanto oggi la via
giusta per ora e per domani.
Le parole apocalittiche di Gesù non hanno nulla
a che fare con la chiaroveggenza. Esse vogliono
proprio distoglierci dalla curiosità superficiale per
le cose visibili (cfr Le 17,20) e condurci all'essenziale:
alla vita sul fondamento della parola di Dio,
che Gesù ci dona; all'incontro con Lui, la Parola
vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei
vivi e dei morti.

*  *  *

Tito e la distruzione di Gerusalemme. Video











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Giuseppe Ricciotti. La distruzione di Gerusalemme dell'anno 70



LA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME DELL’ANNO 70

La distruzione che Tito fece di Gerusalemme è nell'antichità uno degli avvenimenti più tragici in sé e più ricchi di conseguenze storiche. Nel campo religioso la distruzione dell'unico “tempio” ebraico sembrò segnare visibilmente il distacco definitivo del cristianesimo dall'ebraismo; nel campo politico, la dispersione della nazione ebraica nell'Impero romano e fuori di esso iniziò quelle vicende che si sono prolungate fino ad oggi, come dimostrano anche i fatti della Palestina di questi ultimi anni.

L'ingerenza diretta di Roma in Palestina era cominciata già alla morte di Erode il Grande (anno 750 di Roma, 4 a.C.) e andò sempre più aumentando, man mano che scomparivano i figli ed eredi di Erode; alla fine tutta la regione passò sotto il governo diretto di Roma, rappresentata sul posto da un procurator residente a Cesarea marittima.

Il governo dei procuratori fu, a seconda delle persone, talvolta buono o anche ottimo, talvolta pessimo specialmente negli ultimi tempi quando l’insofferenza dei governati aumentava sempre più; ma nel complesso le condizioni del paese non peggiorarono in confronto con i tempi del governo tirannico di Erode il Grande, tanto più che il nome di Roma era una garanzia di protezione e sicurezza di fronte alle popolazioni circonvicine. Anche sotto l'aspetto religioso Roma, secondo il suo solito, portò reverenza ai riti e costumanze locali, anche nelle manifestazioni più strane per un Romano e più imbarazzanti per un governatore: alcune gravi violazioni a questa reverenza, come ai tempi dello squilibrato Caligola o del tracotante Ponzio Pilato, furono subito sconfessate e riparate.

Tuttavia il fuoco covava sotto la cenere, ed era un fuoco nazionalistico-religioso. Fin da quando fu compiuto il primo censimento della regione, che doveva fornire la base amministrativa al nuovo governo romano, avvennero gravissimi disordini per opera specialmente di Giuda il Galileo: questi insorti si opponevano al censimento sia per una ragione politica, perché la loro nazione doveva godere di un'assoluta indipendenza, sia per una ragione religiosa, perché la nazione sacra del Dio Jahvé “non riconosceva padroni mortali dopo Dio”[1], mentre il censimento eseguito dai Romani dimostrava la sudditanza a questi pagani. Per allora la sollevazione di Giuda il Galileo fu domata a viva forza dai Romani, Giuda finì ucciso e i suoi seguaci si dispersero; ma la vittoria fu solo superficiale, perché il fuoco della rivolta seguitò a bruciare, nascostamente o apertamente, per più d'un secolo fino ad Adriano. La massima parte degli insorti seguiva la corrente dei Farisei, che insisteva sulla minuziosa osservanza della Legge ebraica, a differenza della corrente dei Sadducei ch'era di tipo liberale; ma dopo il fallimento della insurrezione i debellati non abbandonarono la partita, bensì costituirono in seno al Fariseismo un nuovo raggruppamento che mirava soprattutto all'azione: fu il raggruppamento degli Zeloti, ossia zelatori pratici, attivi, della causa religioso-nazionalista. A quale scopo (pensavano essi) enunziare vasti programmi d'integrità nazionale e di purità religiosa, se tutto poi si esauriva in discussioni astratte e si curvava il dorso a pagani stranieri?


[1] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 118.




LA CONGIURA DEI SICARI

Ma una nuova sollevazione in massa non aveva alcuna probabilità di riuscire, perché la potenza di Roma era troppo forte; e allora si ricorse all'iniziativa privata, all'azione individuale, ma sostenuta dalla organizzazione occulta. Così fu intessuta una vasta congiura che si estese più o meno su tutta la Giudea, accendendo sempre più negli animi le speranze messianico-nazionaliste. Perciò anche, più tardi, al nome di Zeloti ne fu sostituito un altro che indicava con fierezza la maniera oramai scelta per attuare il programma; era la maniera classica del congiurato che, preparato con cura un dato colpo e assistito da compagni dissimulati, agiva servendosi di quel pugnale corto e ricurvo che gli oppressori Romani chiamavano “sica”: quindi, in un secondo tempo, questi Zeloti si chiamarono Sicari. Un dato giorno lo Zelota si mescolava nella folla accorsa tempio di Gerusalemme per qualche solenne festa, e incontrata la predestinata vittima la spacciava con un colpo di sica; accorrevano certi premurosi circostanti per soccorrere il ferito e acciuffare il feritore, ma costui era improvvisamente scomparso; se però quei premurosi fossero stati perquisiti, si sarebbe trovato che pure essi portavano nascosta sotto le vesti la sica[1]. Un'altra volta il colpo era fatto contro l'impiegato o l'ufficiale Romano che passava per la strada, un altro giorno contro il Giudeo favorevole ai Romani, e così di seguito; non di rado si facevano spedizioni su larga scala, e un gruppo di Sicari piombava improvvisamente su una carovana o un villaggio, dove si trovassero persone sgradite, uccideva, depredava, incendiava, e poi, scompariva nella circostante steppa.

Si pensi a questo stato di cose prolungatosi per vari decenni, circa dal 10 al 66 dopo Cristo, e si immaginerà quali fossero le condizioni della Giudea in quel tempo. Si aggiunga che i procuratori romani che governarono negli ultimi tempi furono sempre più indegni del loro ufficio: salvo un paio di onorevoli eccezioni, essi assumevano la carica col proposito di tiranneggiare ed arricchirsi. D'altra parte, fra le plebi si diffondevano continuamente idee messianiche crasse e materialesche, che rendevano ansiosa l'aspettativa di una redenzione di tipo politico: il Messia, già annunziato dagli antichi profeti ebrei, non poteva più tardare in mezzo a quel cumulo di calamità che si erano aggravate sulla nazione eletta. Il grande Promesso sarebbe apparso proprio allora, mentre la nazione si trovava nel baratro delle sue umiliazioni, e l'avrebbe risollevata sbaragliando i nemici di lei e collocandola al vertice di tutte le stirpi umane. Ecco il sogno radioso contemplato in quegli anni da Zeloti e Sicari, i quali con tutto l'animo si sforzavano per farlo diventare realtà.

Come si vede subito, questo sfondo era da vera tragedia storica. Caparbietà e rapacità da parte dei governanti Romani: esaltazione visionaria e anche parossistica da parte delle plebi; bastava un'occasione che facesse sprizzare la scintilla fatale e producesse lo scoppio di questa polveriera. Sotto i procuratori Antonio Felice (anni 52-60), Albino (62-64), e Gessio Floro (66), la tensione giunse al colmo, finché nel maggio dell'anno 66 avvenne la conflagrazione.

Le prime vampate della rivolta si manifestarono a Cesarea, e subito si propagarono a Gerusalemme. Gli Zeloti occuparono i quartieri bassi della città e il munitissimo tempio, mentre al di fuori s'impadronirono dell'inespugnabile fortezza di Masada. La città divenne un campo di lotte fra gli insorti e i moderati, che ancora speravano in un ristabilimento dell'ordine; ma nell'agosto gl'insorti divennero praticamente padroni della situazione. Molti cittadini si allontanarono dalla città rifugiandosi in luoghi circonvicini; gli Zeloti si dettero a incendiare e fare stragi, di cui una delle prime vittime fu il sommo sacerdote Anania. Oramai nella Giudea e regioni confinanti dilagavano violenze e stragi; la quale situazione è riassunta dallo storico contemporaneo con queste parole: “Si vedevano città piene di cadaveri insepolti, vecchi morti gittati insieme con bambini, donne non protette da riparo al loro pudore, e tutta la provincia piena di miserie indicibili”[2].

A questo punto entrò in scena Cestio Gallo, che era legato romano in Siria ma aveva anche l'alta sorveglianza sulla Giudea Mobilitata la legione XII “Fulminata” con altre truppe ausiliarie, egli mosse contro Gerusalemme, ma appena cominciato l'investimento della città del lato settentrionale egli abbandono le operazioni e si ritirò: la ragione di questa inaspettata decisione non ci è nota, ma probabilmente fu dovuta al fatto che il generale romano s'avvide che le sue truppe, che non superavano i 30.000 armati, erano del tutto inadeguate all'impresa. Dippiù, la ritirata dei Romani fu disastrosa, perché gli imbaldanziti insorti si dettero ad inseguire gl'invasori, e alla stretta di Beh-horon inflissero loro perdite assai gravi di uomini e specialmente di materiali. Questo fatto aprì gli occhi anche a colui che allora stava alla suprema direzione dell'Impero, cioè a Nerone.

L'imperatore si trovava allora in Acaia, a deliziare i Greci con le sue buffonate epiche ed esibizioni istrioniche nelle varie città. La notizia dell'insurrezione della Giudea lo costrinse a provvedere al minaccioso avvenimento; e bisogna dire che in quell'occasione fu abile. Egli aveva al suo seguito un generale che non s'intendeva affatto di eroi e di poesia, al punto che una volta si era addormentato sonoramente mentre Nerone declamava i suoi versi; ma era un esperto condottiero, che aveva dato ottime prove in Germania e in Britannia. Si chiamava Tito Flavio Vespasiano, e mostrava una faccia da placido contadino della Sabina, dove era nato vicino a Rieti. Nerone inviò lui nella Giudea, per riparare ai guai successi e anche per levarsi dai piedi quell'uomo che là in quell'ambiente epico sembrava una stonatura.

Trasferitosi ad Antiochia in Siria, Vespasiano cominciò col preparare accuratamente il suo esercito, perché sapeva che una delle cause della sconfitta di Cestio Gallo era stata l'indisciplina della sua legione XII “Fulminata”; scartò quindi questa legione, e mobilitò la legione X “Fretensis” con la V “Macedonica”, inoltre inviò suo figlio Tito in Egitto per mobilitarvi la XV “Apollinaris”. A questo nerbo principale, si aggiunsero molte coorti di ausiliari, sei “ali” di cavalleria, e altre truppe offerte da piccoli re circonvicini amici dei Romani. Era un totale di circa 60.000 armati. Il concentramento di tutto l'esercito e il congiungimento con le forze condotte da Tito avvenne a Tolemaide, porto marittimo sui confini della Galilea. Era la primavera dell'anno 67; da questa data cominciò la vera campagna della Giudea, sotto il comando supremo di Vespasiano.

[1] Guerra giudaica, II, 254 ss.

[2] Guerra giudaica, II, 465.




DISCORDIE FRA I GIUDEI

Da parte loro anche gli insorti si andavano preparando alla resistenza, sia a nord nella Galilea sia a sud in Gerusalemme. Ma nelle masse e specialmente nei dirigenti non c'era concordia, perché se parecchi estremisti volevano la lotta a fondo, molti altri moderati, forse più numerosi, miravano sempre alla possibilità di un componimento con i Romani. Fin dal principio venne in prima linea quel Giuseppe chiamatosi più tardi Flavio Giuseppe, che ci ha tramandato la storia particolareggiata di tutti gli avvenimenti nella sua Guerra giudaica. Ambizioso che voleva tenere il piede in due staffe, era non del tutto favorevole agli insorti ma neppure ostile ad essi; poiché poco prima aveva visitato Roma e aveva visto da vicino la potenza militare di cui disponeva quella dominatrice del mondo, egli non s'illudeva sulla conclusione di tutta la guerra: sarebbe stata una rovina per la sua nazione. Ad ogni modo le circostanze prevalsero su lui, e da principio accettò dagli insorti il comando della Galilea, che avrebbe sostenuto per prima l'urto delle legioni romane: ma appena avvenuto l'urto, con quell'esito disastroso che era prevedibile, egli abbandonò la partita.

Giunto sui luoghi di suo comando, Giuseppe si dette da fare, fortificando luoghi, addestrando armati, e in breve ebbe a sua disposizione circa 60.000 uomini, che però erano male armati e peggio addestrati. Subito sorse contro di lui un capobanda, astuto e violento, mosso in gran parte da gelosia contro Giuseppe; si chiamava Giovanni figlio di Levi, ma è passato alla storia sotto il nome di Giovanni di Ghischala, borgata della Galilea, dov'era nato. Da questo momento fino alla catastrofe finale Giuseppe e Giovanni di Ghischala furono accaniti avversari, indebolendo quella compattezza che era necessaria per tener fronte ai Romani.

Ma neppure a Gerusalemme c'era concordia. Qui dirigeva Giuseppe figlio di Gurion insieme con l'ex-sommo sacerdote Anano; ma anche qui avvenne una scissione; i rivoluzionari estremisti si raggrupparono attorno a un certo Simone Bar-Ghiora, che si dette a devastare con le sue bande il territorio a nord di Gerusalemme, finché ne fu espulso dagli armati inviatigli contro da Anano: allora egli si ritirò nella surricordata fortezza di Masada, da dove irradiava le sue incursioni nei luoghi deserti circostanti.



CONQUISTA DELLA GALILEA

Preso il comando di tutto l'esercito, Vespasiano iniziò le operazioni entrando nella Galilea, dove comandava Giuseppe: gli armati di costui, adunati a Sefforis, appena comparvero i Romani si sbandarono: i più si rifugiarono a Jotapata situata vicino a Cana di Galilea (quella delle nozze evangeliche) già fatta fortificare da Giuseppe. Chiesti inutilmente rinforzi a Gerusalemme, anche Giuseppe si rifugiò a Jotapata ai principi di maggio del 67. Il posto era in posizione assai favorevole e agguerrito, e poteva opporre una lunga resistenza, ma il giorno appresso vi giunse Vespasiano con tutto l'esercito e bloccò la fortezza.





I Giudei, che in campo aperto opponevano scarsa resistenza, valevano enormemente di più nella difesa di posti fortificati. Là a Jotapata dettero magnifiche prove, tanto che Vespasiano, pur avendo fretta di invadere la regione, fu trattenuto ben 47 giorni dalla resistenza della fortezza. Jotapata stava inerpicata su uno scosceso colle, ed era accessibile solo dal lato settentrionale; dippiù era recinta di salde mura e di torri, e provvista abbondantemente di vettovaglie. I primi assalti mossi dai Romani furono respinti; allora Vespasiano cominciò un metodico assedio, ricorrendo a tutti gli accorgimenti dell'arte poliorcetica in cui i legionari Romani erano espertissimi. Furono innalzati di fronte alle mura vari bastioni, costituiti da strati di travi incrociate e sovrapposte; sopra o a fianco ad essi vennero collocate le macchine balistiche, che lanciavano a grande distanza grosse pietre, e furono messi in funzione gli arieti, ossia quelle enormi travi che con la testa metallica cozzavano sulle mura e finivano per demolirle. Da parte loro gli assediati non rimanevano inoperosi; per quanto potevano, impedivano i lavori dei Romani lanciando proietti d'ogni genere, e con frequenti sortite tentavano d'incendiare le costruzioni nemiche: miravano specialmente a quelle torri mobili di legno, che venivano spinte su ruote verso le mura, in maniera che i legionari collocati sulle torri combattevano a pari altezza con gli assediati. Spesso i Giudei riuscivano nei loro intenti, incendiando bastioni e torri; una volta anche Vespasiano, che assisteva sempre da vicino i legionari, fu ferito a un piede da una freccia.



Sorpresi da tanta tenacia i Romani intensificarono i lavori, ricostruirono le opere distrutte, ripresero il bersagliamento e la demolizione delle difese con maggiore assiduità. L'esercito Romano era dotato di 160 grosse macchine da lancio (baliste. scorpioni, catapulte), oltre ad arcieri, frombolieri, sagittari, specialmente arabi e siri. Le macchine più grosse scagliavano pietre pesanti fino ad un talento (all'ingrosso 50 chili) che raggiungevano la distanza di circa due stadi (circa 300 metri); le altre lanciavano frecce e giavellotti di varia grandezza: questa pioggia di proiettili impediva praticamente ogni difesa da parte degli assediati, paralizzando anche il loro coraggio. Ad un giudeo che stava sulle mura vicino a Giuseppe, un macigno di balista asportò nettamente la testa, proiettandola giù nel burrone a qualche centinaio di metri di distanza; una donna incinta che usciva di casa fu squarciata da un proiettile, e il bambino fu scagliato distante mezzo stadio. Frattanto gli arieti romani, battendo incessantemente il muro in basso, stavano per farlo crollare; allora Giuseppe, per neutralizzare l'imminente breccia, fece costruire al di dentro un altro muro che avrebbe impedito l'assalto dal di fuori, e insieme rafforzò la protezione del vecchio muro. Attacchi e contrattacchi si susseguivano; alle precedenti maniere di difesa gli assediati aggiunsero anche il lancio di olio bollente sui legionari, quando si avvicinavano alle brecce per l'assalto.

Durante queste vicende si ribellò Japha, una borgata non lontana da Jotapata. Per domarla Vespasiano inviò con un forte distaccamento Traiano, comandante la legione X e padre del futuro imperatore omonimo. La borgata fu distrutta, e quasi tutti gli abitanti uccisi. Lo stesso avvenne a grossi accentramenti di Samaritani del monte Garizim.

Intanto i lavori contro Jotapata progredivano, e la città era praticamente chiusa da terrapieni e circondata da macchine balistiche; oltre a ciò gli assediati, dopo 47 giorni d'incessanti fatiche, erano estenuati e non resistevano più. Un disertore passato ai Romani riferì che le sentinelle, sull'albeggiare, per la stanchezza cadevano addormentate e quindi mancava ogni sorveglianza; allora Vespasiano, assicuratosi della sincerità dell'informatore, predispose l'assalto per uno dei giorni seguenti. Avvicinatisi al muro quand'era ancora buio, Tito e pochi ardimentosi s'inerpicarono sul muro, uccisero le sentinelle trovate addormentate, e favoriti da una densa nebbia mattutina s'inoltrarono negli angusti vicoli della città, man mano che altri legionari seguivano i primi. Quando cominciò a farsi chiaro, la città e la roccaforte centrale erano già occupate dai Romani, mentre i difensori ancora dormivano. Dei cittadini fu fatta strage, e poi la città fu rasa al suolo.

Giuseppe, che si era rifugiato insieme con altri in una caverna, fu ricercato per ordine di Vespasiano e infine scoperto. Che cosa avvenne, è narrato da lui in una stentata pagina che ha tutto l'aspetto di essere una pudibonda invenzione per dissimulare il suo voltafaccia: certo è che egli passò disertore ai Romani, e rimase poi sempre a fianco di Vespasiano e di Tito, come prigioniero di riguardo. Si era ai principii di luglio.

Accelerando i tempi, Vespasiano conquistò rapidamente il resto della Galilea, per avere le spalle sicure prima di spingersi al sud contro Gerusalemme. Espugnò poi la fortezza di Gamala e l'altra sul monte Tabor, ove avvennero grandi stragi. Ghischala, la roccaforte di Giovanni, si arrese pacificamente dopo la fuga di costui, e perciò si salvò dalla distruzione.

Nell'autunno dell'anno 67 tutta la Galilea era domata, e la strada verso Gerusalemme non aveva più sbarramenti. Secondo l'uso di quei tempi, Vespasiano provvide agli alloggi per l'esercito, dovendo sospendere le operazioni durante l'inverno; inviò le legioni V e XV a svernare a Cesarea marittima, e la legione X a Scitopoli: questa linea diretta Cesarea-Scitopoli divideva in due parti la Giudea, cosicché Vespasiano situato al centro poteva sorvegliarla agevolmente.

In campo avversario, a Gerusalemme, non c'era ancora compattezza, nonostante che gli affari della guerra avessero preso chiaramente una brutta piega. Fra il partito sadduceo-aristocratico avverso alla guerra, e quello degli Zeloti fautori di essa, la scissione si allargava sempre più; coloro che crescevano in potenza erano naturalmente gli Zeloti, i quali accusavano i capi del partito opposto come responsabili delle perdite fino allora subite. L'arrivo a Gerusalemme di Giovanni di Ghischala, scampato con numerose bande dei suoi scherani dalla Galilea, rese onnipotenti gli Zeloti, che passarono subito ai fatti.


Vespasiano




LE STRAGI IN GERUSALEMME

Furono imprigionate o uccise le persone più in vista del partito sadduceo, e arbitrariamente si sostituirono anche coloro che occupavano le più alte cariche del tempio ebraico. Alcuni esponenti dell'aristocrazia sacerdotale organizzarono una certa resistenza, appoggiandosi agli elementi moderati ch'erano ancora forti nella città. Allora i rivoluzionari Zeloti si videro in pericolo, essendo in minoranza numerica di fronte ai moderati, e per riottenere la preponderanza chiamarono in città i selvaggi abitanti dell'Idumea, dove aveva dominato il feroce Eleazaro figlio di Anania. Riusciti a stento a penetrare di notte in città, gli Idumei cominciarono un metodico macello prima attorno al tempio ebraico, e poi in tutta la città. “Il di fuori del tempio”, dice Flavio Giuseppe[1], “tutto allagato di sangue, e allo spuntare del giorno vi si trovarono 8500 morti;... appresso Zeloti e Idumei gettatisi sul popolo, come su una mandra di animali immondi, ne fecero strage”[2].



Le vittime d'età giovanile appartenenti al ceto sadduceo-aristocratico furono 12.000, in questa prima ondata di terrore; ma poi furono istituiti regolari tribunali per togliere di mezzo, con pretesti di ogni genere, le persone destinate a scomparire. Molti cittadini, perciò, potendo si davano alla fuga recando notizie di questi fatti anche a Vespasiano; il quale aspettò tranquillamente che le varie fazioni nemiche continuassero a indebolirsi dilaniandosi tra di loro con la guerra civile. A un certo punto perfino gli Idumei furono nauseati da tali scempi, e abbandonata Gerusalemme si ritirarono nella loro regione; dentro la città rimasero padroni assoluti gli Zeloti. Ma al di fuori rimase anche Vespasiano, che frattanto con metodiche incursioni andava restringendo il cerchio dentro cui chiudere Gerusalemme, e lasciava nei vari posti distaccamenti delle sue truppe: il risultato di queste operazioni strategiche fu che, nella primavera inoltrata, Gerusalemme rimase circoscritta alla larga da una catena di posti fortificati romani.


[1] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, IV, 313.

[2] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, IV, 326.



IL TRONO DEI CESARI OSCILLA

A questo punto (anno 68) gli avvenimenti della Giudea si complicarono con le tragiche vicende di tutto l'Impero. Il 9 giugno morì Nerone, e cessato con lui il prestigio della famiglia Giulio-Claudia cominciò il franamento nell'autorità imperiale e l'arrembaggio al trono dei Cesari. Pretendenti si fecero avanti da varie regioni dell'Impero: Vindice dalla Gallia, Galba dalla Spagna, Vitellio dalla Germania, Otone a Roma: ogni pretendente si appoggiava su truppe dipendenti da lui. In questo sconquasso generale non era opportuno per Vespasiano portare avanti le operazioni militari della Giudea; oltre tutto, egli non sapeva da chi dovesse ricevere ordini, giacché in soli dieci mesi figurarono come successori di Cesare tre imperatori, che finirono uccisi. E così le legioni della Giudea rimasero inoperose per circa un anno, dal giugno del 68 al giugno del 69; inoperose strategicamente, ma anche politicamente, perché a differenza delle altre legioni disperse nel resto dell'Impero esse non presentarono alcun candidato al seggio imperiale.

Ma anche fra gl'insorti della Giudea c'era rivalità non meno che fra i legionari di Roma. Dentro Gerusalemme dominava Giovanni di Ghischala con gli Zeloti, suoi partigiani: per costoro lo stato di guerra era incentivo a ogni sregolatezza perché entrando nelle case private depredavano, uccidevano, violentavano donne, si vestivano essi stessi da donna profumandosi e imbellettandosi, e facevano altre cose che è facile immaginare. I cittadini che subivano tali violenze tentarono liberarsene servendosi di un partito rivale, e chiamarono in città quel Simone Bar-Ghiora che stava annidato con í suoi briganti nella fortezza di Masada; ma il rimedio aumentò il male. Nell'aprile del 69 Simone entrò in Gerusalemme, ma gli Zeloti di Giovanni fecero resistenza asserragliandosi nel munitissimo tempio ebraico, che resistette facilmente agli assalti di Simone; e così la città rimase divisa fra i due gruppi di Simone e di Giovanni, battaglianti fra loro. E neppure bastò; nel gruppo di Giovanni si produsse un'altra scissione, perché molti suoi seguaci si staccarono da lui mettendosi al seguito del sacerdote Eleazaro. Costoro occuparono la parte più interna e più alta del tempio, dove si difendevano facilmente dagli assalti di Giovanni che stava più in basso; a sua volta Giovanni, che era ben fornito di macchine da lancio, bersagliava con proietti d'ogni genere il settore occupato da Eleazaro facendovi molte vittime anche fra i non combattenti.

Il servizio liturgico, infatti, continuava anche in questo stato di cose, con la tenacia mostrata altre volte dagli Ebrei. Gíovanni lasciava passare i pellegrini che dalla Giudea e da fuori venivano nel tempio a fare sacrifici, sebbene li perquisisse accuratamente prima dell'ingresso; ma anche quand'erano occupati nei sacrifici, arrivavano spesso dal basso i proietti lanciati dalle baliste e catapulte di Giovanni e facevano strage. Con i cadaveri dei paesani si mescolavano quelli degli stranieri, e con quelli dei sacerdoti quelli dei laici; dappertutto il sangue degli uccisi formava lago dentro i divini recinti[1]. Oltre allo scempio di vite umane si faceva scempio di vettovaglie, giacché in questi attacchi e contrattacchi andarono perdute enormi provviste di frumento ed altre cibarie, che finivano incendiate o disperse. Si sarebbe detto che gli insorti di Gerusalemme non si avvedevano che la vera lotta con i Romani ancora non era cominciata, o almeno che essi intendessero renderla più dura e rovinosa a se stessi sperperando combattenti e vettovaglie.

In queste condizioni si giunse alla fine del giugno dell'anno 69. Vespasiano, che sorvegliava strategicamente da vicino Gerusalemme, da lontano sorvegliava anche le vicende politiche dell'Impero, e accortamente era intervenuto per indirizzarle in suo proprio favore. Mediante Tiberio Alessandro, un ex-giudeo già procuratore romano della Giudea, egli guadagnò alla propria causa le legioni romane dell'Egitto, che il 1° luglio del 69 proclamarono imperatore Vespasiano, e così si unirono con quelle della Giudea comandate da Vespasiano stesso. Il governatore della Siria, Licinio Muciano, intervenne apertamente e fece riconoscere Vespasiano in tutto l'Oriente: da questo momento egli ebbe causa vinta.

Prima di trasferirsi a Roma per prender possesso del trono dei Cesari, Vespasiano si recò ad Alessandria, ove dette incarico a suo figlio Tito di portare a termine la guerra della Giudea. Tito prese molto a cuore l'incarico, proponendosi di assolverlo in breve tempo, e si mise immediatamente all'opera. Mentre Vespasiano si tratteneva ancora alcuni mesi ad Alessandria, suo figlio si recò per via di terra a Cesarea per predisporre l'assalto finale contro Gerusalemme. Rinforzò egli l'esercito già impiegato dal padre, unendo alle tre legioni e alle altre truppe di lui la disgraziata legione XII “Fulminata”, che nel frattempo era stata rinnovata; incorporò anche molte truppe ausiliarie offerte da re alleati, raggiungendo un totale di circa 80.000 armati: quindi ordinò il concentramento di tutto l'esercito attorno a Gerusalemme.

Era l'anno 70, ai primi del mese Nisan (marzo-aprile), in cui cadeva la Pasqua ebraica. Le strade erano già affollate da pellegrini ebrei, che dalla Giudea e dall'estero si recavano a Gerusalemme per celebrarvi la festività. L'affluenza di quelle centinaia di migliaia di pellegrini non fu disturbata dai legionari, perché era tutta gente non adatta ai combattimenti ma adattissima a rendere difficile la resistenza della città. Giunto nei sobborghi, Tito volle fare una rapida ricognizione delle mura settentrionali, e con una scorta di 600 cavalieri si spinse fino agli avamposti nemici. Fu un'imprudenza, perché assalito furiosamente si salvò a stento, e dovette combattere egli stesso personalmente sebbene si trovasse privo di elmo e di corazza.

Poco dopo avvenne un'altra minaccia. Le legioni XII e XV si erano già accampate a nord della città, e dietro ad esse anche la V legione, quando dalla strada di Gerico giunse la X legione che doveva prendere posizione sul Monte degli Olivi; senonché, mentre disponeva gli accampamenti, fu assalita con impeto dai Giudei e messa in serio pericolo: accorse Tito e, combattendo anche questa volta personalmente, riuscì a ricacciare gli assalitori giù nella valle del Cedron.

Pure in queste distrette, la faziosità partigiana che divideva i tre gruppi di combattenti giudei non cedette. Proprio nel giorno di Pasqua, quando l'enorme ressa dei pellegrini rendeva assai difficile riconoscere le persone, Giovanni di Ghischala fece travestire da pellegrini un gran numero dei suoi partigiani, che così poterono penetrare indisturbati nel settore più interno del tempio, quello occupato dai partigiani di Eleazaro: entrati che furono, estrassero le armi nascoste sotto le vesti, e così s'impadronirono di tutto quel settore. Perciò rimasero, in città solo gli affiliati alle due bande di Giovanni di Ghischala e di Simone Bar-Ghiora. Tuttavia poco più tardi, al vedere che Tito restringeva sempre più il cerchio racchiudente la città e metteva in funzione le macchine balistiche, anche le due fazioni superstiti si conciliarono e fecero fronte unico contro i Romani.

Vari tentativi fatti da Tito per indurre gli assediati ad una resa pacifica, caddero nel vuoto: quando, per ordine di Tito, si avvicinava alle mura per parlamentare il disertore (Flavio) Giuseppe, era accolto dai difensori con valanghe d'insulti e maledizioni.

Visto che non c'era nulla da sperare per un componimento, Tito fece avvicinare anche più gli accampamenti alle mura e ordinò di abbattere tutti gli alberi all'intorno, in modo di avere il terreno spianato per mettere in azione le macchine d'assedio. Subito appresso cominciò il bersagliamento. Le catapulte scagliavano grosse frecce; le baliste proiettavano grossi macigni, anche di mezzo quintale l'uno. I difensori delle mura erano spazzati via da quella grandine esiziale; ma presto impararono ad evitare i proietti, specialmente quando erano di gran mole: in questi casi il biancore della pietra e il rombo della sua traiettoria lo segnalavano alle vedette che stavano sulle mura, e queste davano l'avviso gridando con frase semitica: “Arriva il figlio!”, cosicché tutti correvano a ripararsi, avendone quasi sempre il tempo. Ma i Romani s'accorsero di ciò, e allora tinsero di nero i sassi delle baliste, che perciò non si distinsero più e ricominciarono a fare strage fra i difensori delle mura.

Nello stesso tempo gli arieti romani battevano in basso contro tre punti del muro terzo della città, che era il più esterno e saldissimo, per aprirvi brecce; ma dopo alcuni giorni gli assediati fecero un'improvvisa sortita, e riuscirono ad incendiare parte delle opere romane. Accorse Tito con rinforzi, uccise di sua mano dodici degli assalitori e respinse gli altri; per proteggere poi stabilmente il lavoro degli arieti, fece costruire tre alte torri di legno, più elevate del muro, e gli arieti ricominciarono a percuotere. Dopo quindici giorni di martellamento. l'ariete più potente che avevano i Romani e che era chiamato “Nikon” (vittorioso), aprì una breccia, e subito i Romani si precipitarono dentro dilagando nel quartiere di Bezetha, ch'era il più settentrionale della città. Si era ai principii di maggio.

Sperando sempre in una resa degli assediati, Tito intensificò gli assalti e dopo cinque giorni aprì una breccia anche nel muro secondo, ch'era più interno; non volle però allargare molto il passaggio, per non danneggiare troppo il complesso monumentale. Questo riguardo usato verso i Giudei fu dannoso, perché gli assediati contrattaccarono subito, respinsero parte dei Romani fuori della nuova breccia e parte ne rinchiusero dentro la città. Intervenne prontamente Tito con rinforzi, e riuscì a liberare i legionari rimasti rinchiusi; dopo altri quattro giorni di lotta, divenne nuovamente padrone del muro secondo. Seguì una breve sosta nelle operazioni, perché Tito volle fare una grande parata militare, per impressionare i Giudei e insieme distribuire la paga ai legionari; gli assediati accorsero in folla e dall'alto delle mura assistettero curiosi alla parata, ma quanto ad arrendersi non vi fu alcun accenno. Perciò furono riprese le operazioni, con l'intenzione questa volta di andare fino in fondo.

Adesso gli obiettivi dei Romani erano la conquista dell'agguerritissima fortezza Antonia, che proteggeva dal nord il tempio ebraico, e l'invasione dei quartieri alti della città. Contro questi obiettivi Tito fece costruire verso la metà di maggio quattro grossi bastioni di legname, due contro l'Antonia e due contro la città alta, presidiati ciascuno da una legione. Senonché, mentre i quattro bastioni erano tuttora in costruzione, i Giudei ricorsero alle contromisure. Sotto i bastioni contro l'Antonia, Giovanni di Ghischala scavò gallerie sotterranee, tenute frattanto in piedi da armature di legno; Simone Bar-Ghiora preparò un assalto a fondo contro i bastioni che minacciavano la città alta. Quando tutti i bastioni furono terminati e cominciarono a battere le antistanti mura, Giovanni dette fuoco alle armature che sostenevano le sue gallerie, cosicché crollò il terreno sovrastante insieme con i bastioni; dal canto suo Simone assalì con materie incendiarie gli altri bastioni, e riuscì a bruciarli e distruggerli. Questa perdita fu assai grave per i Romani perché, oltre il resto, il legname difettava e tutti i luoghi circonvicini erano già stati denudati di alberi.



[1] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V, 18.



LA FAME

Il compito dei Romani diventava sempre più arduo; ma in aiuto di Tito intervenne una circostanza nuova, alla quale del resto egli aveva già pensato. La città, come si è visto, rigurgitava di pellegrini affluitivi per la Pasqua ebraica e rimasti chiusi dall'assedio; ora, tutta questa moltitudine di stranieri aveva portato con sé vettovaglie per pochi giorni confidando di rimanere brevemente in città, come al solito, e di trovarvi le cibarie ordinarie: e invece, data l'affluenza, le provviste in poco tempo mancarono del tutto e la fame divenne generale e irrimediabile. Molti pellegrini tentarono di allontanarsi dalla città, vendevano ciò che avevano, ingoiavano le poche monete d'oro ricavate, e fuggivano occultamente per la campagna o presso i Romani; poi con quelle monete, riottenute poco dopo per le vie naturali, si procuravano cibi fuori della cinta d'assedio. Altri, nottetempo, strisciando perlustravano la zona antistante alle mura fino agli avamposti romani, raccoglievano ogni minimo rifiuto di cibo sfuggito ai cani randagi ed agli sciacalli, e se riuscivano a scampare dalle frecce dei legionari rientravano rapidamente in città. Tito sapeva tutto ciò, e per intimidire gli assediati ordinò di crocifiggere dirimpetto alle mura tutti quelli che ne uscivano spinti della fame; ne furono crocifissi più di cinquecento al giorno, ma i capi dei rivoltosi risposero con la già ricordata distruzione dei quattro bastioni romani. Allora Tito, per non esporre i legionari a ulteriori perdite, e insieme per sbarrare la via a quanti uscissero per foraggiare, sottopose al consiglio di guerra la proposta di costruire tutt'intorno alla città un muro di circonvallazione, posto fuori del tiro degli assediati, che impedisse ogni minimo passaggio. La proposta, approvata dagli alti comandanti, fu subito eseguita: per i legionari, lungamente esercitati in tal genere di lavori, non era un'impresa di straordinaria difficoltà. Distesesi a catena, le legioni in soli tre giorni costruirono un muro alto 3 metri e lungo 39 stadi (più di 7 chilometri); partiva esso dal lato occidentale della città, dove Tito aveva messo il suo personale accampamento, e scendendo verso il sud piegava poi nella valle della Geenna, risaliva quindi a nord sul monte degli Olivi, puntando infine verso ovest si ricongiungeva attraverso il quartiere di Bezetha al suo punto di partenza. Lungo il percorso erano collocate 13 ridotte fortificate, con presidii armati. Al cominciare della notte, Tito in persona ispezionava tutte le ridotte; sulla metà della notte passava a ispezionare il già ricordato Tiberio Alessandro, che adesso fungeva da preside del consiglio di guerra; sul far del mattino passavano i comandanti delle legioni. Le ridotte erano munite di torrette per segnalazioni luminose durante la notte, e così erano in continuo collegamento fra loro.


L'AGONIA DI GERUSALEMME

Appena cominciò a funzionare, il muro di circonvallazione sembrò annunziare la condanna a morte di tutti gli assediati: la morte di fame. Dentro la città i non combattenti non trovavano assolutamente nulla da mangiare, essendo stato tutto distrutto negli scontri fra le varie fazioni giudaiche o consumato dai pellegrini affluiti per la festività pasquale. Dal di fuori non giungeva più neanche un filo d'erba; al di dentro i capi degli Zeloti frugavano dappertutto per scovare ogni cosa che potesse servire da cibo per i combattenti delle mura; i non combattenti erano abbandonati alla loro sorte, e le loro case venivano perquisite continuamente nell'illusione di scoprire cibi nascosti. Per un pugno di orzo marcito si pagarono enormi ricchezze; piccole quantità di fieno vecchio triturato raggiunsero il prezzo di quattro mine ateniesi; quando mancarono anche queste cose, si cominciò a masticare il cuoio degli scudi e dei calzari e a ingoiare cose immonde ritrovate nelle fogne.

E intanto davanti al muro di circonvallazione si infittivano sempre più i pali dei crocifissi: a un certo punto mancò legno per le croci e terreno adatto dove piantarle; i brutali legionari, poi, si divertivano dall'alto del loro muro a mostrare agli estenuati difensori della città gli abbondanti cibi che essi ricevevano puntualmente dall'intendenza militare. Tuttavia dopo alquanto tempo si trascurò la norma di crocifiggere i foraggiatori randagi, e si giunse anche ad elargire loro qualche nutrimento; ma quasi sempre ne seguiva la morte, a causa dell'avidità con cui quei cibi erano trangugiati. Un fatto assai grave per i transfughi giudei avvenne un giorno in cui i mercenari arabi e siri, in servizio presso le legioni, s'avvidero che un transfuga ricuperava le monete d'oro ingoiate poco prima, secondo l'astuzia che già vedemmo. A questa scoperta si diffuse la voce che i fuggiaschi partivano da Gerusalemme col ventre pieno d'oro: subito i mercenari in servizio legionario si dettero a squarciare il ventre a quanti si avvicinavano alla circonvallazione, sperando di ritrovarvi tesori, e in una sola notte furono uccisi in tal modo 2000 Giudei. Quando Tito seppe il fatto. fece circondare dalla cavalleria i mercenari colpevoli, col proposito di metterli a morte; ma trovò ch'erano in così gran numero da non poterli giustiziare senza indebolire l'organizzazione romana. Impartì allora ordini severissimi affinché non s ripetesse il delitto, e i legionari denunziassero gli eventuali colpevoli; ma il delitto continuò, sebbene con maggiore accortezza, e così molti Giudei già pronti a disertare abbandonarono l'idea.

L'interno della città andava prendendo sempre più l'aspetto d'un cimitero, come la descrive il testimonio Giuseppe. Le case erano piene di morti o di moribondi; si ritrovavano lungo strade e vicoli cadaveri ad ogni passo; i giovani e i ragazzi più robusti si aggiravano a stento da casa a casa come fantasmi traballanti e gonfi, e cadevano improvvisamente morti. Nessuno provvedeva alla rimozione dei cadaveri, sia perché mancavano le forze, sia perché la fame aveva spento ogni affetto umano. Su tutta la città, morta o morente, incombeva un silenzio di tomba.

Eppure, un giorno avvenne un fatto la cui notizia commosse per qualche ora quella città di spettri. Alcuni Zeloti in giro d'ispezione, passando per un vicolo, sentirono un profumo di arrosto che usciva da una casa. Sbalorditi da quell'incredibile odore, irruppero dentro; trovarono una donna ancora viva, e minacciarono di scannarla all'istante se non consegnava la vivanda fiutata. La donna presentò il cibo che si era preparato. Era il suo stesso bambino lattante, che ella impazzita dalla fame aveva ucciso di sua mano, e poi arrostito, e infine aveva mangiato per metà, riservandone il resto per un altro giorno.

La tragica madre era una certa Maria, di ricca famiglia di Beth-Ezob in Transgiordania, che venuta a Gerusalemme per la Pasqua vi era rimasta chiusa dentro dall'assedio. L'orrida notizia si sparse per la città, e giunse anche di là dalle mura, ai Romani e a Tito. Il generale romano, invocando Dio a testimonio, protestò che l'inaudito misfatto ricadeva sugli ostinati insorti, a cui egli inutilmente aveva offerto più volte la resa, e giurò che avrebbe vendicato tanta infamia con la rovina della città. Il ricordo dell'episodio si trasmise per secoli, e anche Dante lo accenna col truce verso: “Quando Maria nel figlio dié di becco”.[1]

A un certo punto gli stessi privilegiati combattenti non ebbero più nulla da mangiare, e allora consumarono le provviste sacre di olio e di vino depositate nel tempio ebraico, che da tempi antichissimi erano rispettate con arcana venerazione Mancavano anche uomini capaci di reggersi in piedi per qualunque prestazione; perciò si semplificarono i servizi a cominciare da quello più importante di tutti, cioè lo sgombero dei cadaveri sparsi per la città. Da allora i morti furono gettati nei burroni che fiancheggiavano le mura, che quindi diventarono un carnaio pestilenziale e un pantano di marciume. In meno di tre mesi, da una sola porta della città, furono gettati fuori 115.880 cadaveri.

Ma oramai si era alla fine. Per accelerarla, Tito fece costruire nuove opere, cioè quattro enormi bastioni tutti contro la zona del tempio ebraico; fu un lavoro immane perché, essendo già state disboscate le vicinanze di Gerusalemme, i legionari dovettero provvedersi del legname a più di sedici chilometri di distanza, lavorando continuamente per ventun giorni. Sortite fatte dagli assediati, per incendiare i bastioni appena finiti, furono respinte dall'accresciuta vigilanza dei Romani: alla loro volta furono respinti dagli assediati alcuni tentativi romani di dare la scalata alle mura della fortezza Antonia, attraverso le brecce aperte dagli arieti. Ma il giorno 5 del mese Panemos (luglio) un nuovo tentativo riuscì; un manipolo di assalitori, sul far della notte, sorprese le sentinelle e le uccise, e così penetrò nella fortezza. Le trombe romane dettero il segnale dell'assalto generale, accorse Tito con legionari scelti e impegnò una lotta furibonda che durò lunghe ore: i Romani ebbero gravi perdite, ma alla fine rimasero padroni dell'Antonia e di là misero in fuga i Giudei verso il sottostante tempio.

Tito, incalzando, ordinò di demolire l'Antonia per avere via libera verso il tempio, dove i Giudei avevano concentrato le loro ultime resistenze. Ai 17 del mese Panemos avvenne un fatto di lugubre importanza per l'ebraismo di tutto il mondo: quel giorno non si celebrò più il sacrificio perenne, che da secoli si celebrava ogni giorno immancabilmente. La ragione di tale cessazione fu, come dice Flavio Giuseppe, la “mancanza di uomini”, cioè dei ministri ebraici incaricati del sacrificio.

Demolita l'Antonia, il tempio rimase scoperto e diventò l'obiettivo degli assalti romani. Il pericolo della sua distruzione era evidente, e invece Tito intendeva salvarlo, anche perché era un monumento d'importanza singolare in tutto il mondo. Ripetuti inviti per indurre i Giudei alla resa ottennero solo la diserzione di pochi combattenti, fra cui vari sacerdoti ebrei; così pure non raggiunsero lo scopo alcuni attacchi dei legionari, sebbene preparati accuratamente. Ancora una volta bisognò ricorrere alle solite opere di demolizione mediante gli arieti. Senonché quel muro settentrionale del tempio, costruito pochi decenni prima da Erode il Grande, era saldissimo, perché costruito con enormi macigni bene squadrati e riconnessi l'un l'altro: i più potenti arieti non riuscivano a scuoterlo. Anche una scalata dei Romani, sebbene raggiungesse la cima del muro e vi piantasse i vessilli, si concluse con gravi perdite: un furioso contrattacco dei Giudei ributtò abbasso alcuni legionari, altri ne uccise, e i gloriosi vessilli rimasero in potere dei Giudei. A Tito non restò altro mezzo che ricorrere al fuoco. Per aprirsi il varco attraverso le porte metalliche, fu accumulata addosso ai battenti gran quantità di materiale incendiario; appiccato il fuoco, si sprigionarono alte fiamme, i metalli si fusero, i battenti crollarono, e l'incendio si propagò oltre, nel portico interno del tempio.

La vista delle fiamme atterrì i difensori, i quali per una persuasione superstiziosa ritenevano che il loro sacro recinto sarebbe rimasto immune da tanta sventura; vedendo crollare a loro persuasione, rimasero come paralizzati non facendo nulla per estinguere l'incendio o reagire. Aperto ormai l'accesso, Tito dette ordine di spegnere le fiamme e di sgomberare il passaggio per l'imminente assalto delle legioni.

Tutto crollava, salvo la tenacia dei difensori, ormai sorretti soltanto dalla forza della disperazione. Il 9 del mese Loos (5 agosto) Tito tenne consiglio di guerra per stabilire la sorte da far subire al tempio quando fosse espugnato, come si prevedeva fra breve; alcuni del consiglio sostennero che dovesse esser trattato come semplice fortezza, perché i Giudei avevano profanato il suo carattere sacro, e quindi doveva essere distrutto; invece altri, compreso Tito, espressero il parere che doveva essere salvato, nonostante l'impiego bellico che i Giudei ne avevano fatto. Questo secondo criterio prevalse, e conforme ad esso venne predisposto l'assalto. Il giorno appresso (6 agosto) avvenne la catastrofe massima per l'ebraismo di tutti i secoli.

[1] Dante Alighieri, Purgatorio, XXIII, 30



L'INCENDIO DEL TEMPIO EBRAICO

Nella mattinata di quel giorno le posizioni dei due belligeranti erano le seguenti. Dei tre “atrii” del tempio, tutti all'aria aperta, i Romani si erano impadroniti del più esterno, chiamato “atrio dei Gentili”; inoltre, l'incendio delle porte aveva aperto l'accesso all'“atrio interno” che non offriva sbarramenti intermedi di grande importanza: in fondo a questo “atrio interno” si ergeva il “santuario”, il luogo più sacro di tutta la terra e dimora del dio Jahvé, secondo la fede ebraica. Restava da occupare, più che da conquistare, lo spazio che andava dalle porte incendiate fino al “santuario”.

In quella mattinata i legionari erano ancora impegnati a spegnere gli avanzi dell'incendio, che si era propagato all'“atrio interno”. Un improvviso assalto dei Giudei, proveniente dal lato orientale, impegnò seriamente le forze romane che presidiavano quel settore; ma, accorso Tito con rinforzi, i Giudei furono respinti dopo tre ore di attacchi e contrattacchi. Quietato quel settore, Tito si ritirò nella sua tenda per riposarsi. Poco dopo i Giudei rinnovarono l'assalto, dirigendolo questa volta contro i legionari occupati a spegnere i rimasugli dell'incendio. Anche questa volta furono respinti, ma per di più furono inseguiti dai Romani attraverso lo spazio vuoto. fino al “santuario”: questo inseguimento disordinato e rabbioso fu la causa immediata della catastrofe. In quella corsa confusa, mentre i legionari lanciavano addosso ai fuggiaschi quanto capitava loro fra mano compresi i tizzoni dell'incendio, un romano, come narra Flavio Giuseppe,[1] di sua iniziativa afferra un tizzone ardente e sollevato da un compagno lo lancia dentro una finestra la quale immetteva nelle stanze che attorniavano il “santuario” dal lato settentrionale. Quelle stanze erano costruite di legno vecchio, e forse contenevano materie infiammabili destinate agli olocausti del tempio. Caduto il tizzone ivi, nella temperatura del torrido agosto, le scintille sprizzate fecero subito divampare l'incendio. Il fervore della mischia impedì da principio di badare all'incendio: poco dopo, quando si tentò di domarlo, era troppo tardi.

Il bagliore delle fiamme e i messi urgenti inviati a Tito, lo fecero accorrere sul posto insieme con alti ufficiali. Ordinò egli di domare l'incendio, ma i suoi comandi o non furono uditi nella confusione, o espressamente furono trascurati dai soldati, perché di solito le fiamme significavano la vittoria e l'inizio del saccheggio. A quella vista accorsero le legioni unendosi con i soldati già sul posto, e quella massa travolgente invase il “santuari” con tale veemenza che i legionari si schiacciavano fra loro sulle porte. Gli accorsi, mentre propagavano a bella posta l'incendio, cominciarono anche a fare strage dei Giudei che non erano riusciti a fuggire. Attorno al grande “altare degli olocausti”, che sorgeva nel mezzo, si formarono ben presto mucchi di cadaveri.

In quella bolgia infernale Tito si convinse che non poteva imporre alcuna disciplina. Egli riuscì a penetrare, con alcuni comandanti, nell'interno del “santuario” quando ancora non era stato raggiunto dall'incendio; là tentò ancora una volta di trattenere la furia dei legionari e il propagarsi delle fiamme ma tutto fu inutile; i suoi ordini non erano ascoltati, e le bastonate da lui largamente inflitte non facevano alcun effetto su quelle belve furiose. Un momento in cui egli si voltò, per impedire ad alcuni soldati di entrare, un legionario dall'altra parte lanciò del fuoco dentro al “santo dei santi”, che era la parte più interna e più sacra del “santuario”. Tutto era perduto.

Da più di un secolo nessun uomo di stirpe non ebraica era penetrato nel “santo dei santi”; ciò era avvenuto l'ultima volta nell'anno 63 a.C., quando Pompeo Magno aveva conquistato Gerusalemme sotto il consolato di Marco Tullio Cicerone. In quell'occasione Pompeo volle vedere personalmente quali misteriosi oggetti si trovassero in quel luogo celebratissimo in tutto il mondo: fra l'altro si raccontava che in quel geloso adito si adorasse un nume con la testa d'asino, che è quanto più tardi si raccontò dei cristiani. E invece, entrato che fu, Pompeo non vi trovò assolutamente nulla. Era, infatti, il tempio di un Dio immateriale.

Ciò che avvenne dopo l'incendio del tempio, non è che una triste storia di stragi e di rovine. Degli arredi del tempio che si poterono salvare, i più importanti furono il candelabro d'oro a sette bracci e la tavola d'oro dei “pani di proposizione”; essi comparvero nel trionfo celebrato nel 71 a Roma da Vespasiano e Tito, e ancora oggi si vedono raffigurati nell'arco trionfale di Tito eretto sulla Via Sacra.

[1] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI 252