giovedì 22 novembre 2012

Ricominciare sempre dal Kèrygma

Di seguito il Vangelo di oggi 23 novembre (*), venerdi della XXXIII settimana del T.O.,, con un commento e qualche testo di approfondimento.

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 (*): Sulla memoria liturgica di san Colombano vedi in questo blog:

23 Nov 2011
Piazza San Pietro Mercoledì, 11 giugno 2008. San Colombano. Cari fratelli e sorelle,. oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l'irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un ...
 
26 Ago 2011
Dalle «Istruzioni» di san Colombano, abate (Istr. 13 su Cristo fonte di vita, 2-3; Opera, Dublino, 1957, 118-120) Dio è tutto per noi. Ascoltiamo, o fratelli, l'invito, con cui la Vita stessa, che è sorgente non solo di acqua viva, ma ...
 
24 Feb 2011
Dalle «Istruzioni» di san Colombano, abate (Istr. 1 sulla fede, 3-5; Opera, Dublino, 1957, pp. 62-66) Dio è dappertutto; egli è immenso e dovunque presente, secondo quanto egli ha detto di se stesso: Io sono un Dio vicino e ...



Come primo passo dell’evangelizzazione 
dobbiamo cercare di tenere desta la ricerca di Dio negli uomini...
 Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi 

aprire una sorta di “cortile dei gentili” 

dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio
senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, 
al cui servizio sta la vita interna della Chiesa.

Benedetto XVI

* * *

Credo che la rievangelizzazione dell’Occidente,
chiestaci con sacrosanta insistenza da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI,
non sia che questo:
non, innanzitutto, complesse dottrine, bensì il ricominciare dal kérygma,
dalla base su cui tutto si regge.
Tornare a proclamare un semplice e al contempo scandaloso:
Jesùs estì kyrios, Gesù è il Signore.

Vittorio Messori



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Lc 19,45-48

In quel tempo, Gesù entrato nel tempio, cominciò a scacciare i venditori, dicendo: "Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!".
Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.


IL COMMENTO

Il Signore si accende di zelo in quel luogo particolare che erano i cortili del Tempio, riservati a coloro che non avevano accesso diretto al Santo, al luogo separato, dove offrire il sacrificio. Nel parallelo del suo Vangelo, Marco è più dettagliato, riferendosi al solo Cortile dei gentili. Luca parla di cortili in generale, i luoghi per i piccoli, per gli ultimi, per quanti non potevano avere parte al culto. Si tratta quasi di un rovesciamento, ed è quello che percorre tutto il Vangelo: quei cortili costituiscono l'unica ragione d'essere del Tempio. Il Santo dei Santi esisteva per i pagani, per i peccatori! Per questo Gesù manda innanzi tutto i suoi discepoli alle pecore perdute della casa di Israele, per ricondurli alla loro identità, che è quella di segno di salvezza per le Nazioni. Così la Chiesa ha bisogno continuo di purificazione, di rinnovare la propria primogenitura. Così ciascuno di noi.

Scrive Benedetto XVI nel suo primo volume su Gesù di Nazaret: "che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio" (p. 73). Gesù ha abbattuto, nella sua carne crocifissa, "il muro di separazione che era frammezzo", l'inimicizia tra giudei e pagani. Lui ha dato compimento pieno alla volontà di Dio, che ogni uomo sia salvato. Il Tempio esisteva per mostrare che non c'è più giudeo né greco, né uomo né donna, né schiavo né libero, ma che tutti sono uno in Cristo Gesù. Non si tratta di comunismo di bassa lega. Niente ideologie. E' l'opera di Cristo, abbattere le barriere, il peccato che è innanzi tutto inimicizia con Dio, e poi divisione tra gli uomini. Per questo non vi saranno più due popoli, non vi saranno due ma uno solo, come, in Adamo ed Eva, Dio aveva mostrato l'immagine perfetta della sua volontà originaria e mai smentita. Anzi, dopo il peccato, durante tutta la storia della salvezza, Egli è andato compiendo la ricreazione di questa comunione, immagine della comunione che regna nella Trinità, nel cuore stesso di Dio. E' l'amore, sine glossa. L'amore che fonde ma non confonde, e fa dei due una carne sola: la cosa molto buona deturpata dal peccato, ha ritrovato la bellezza originaria in Cristo e la sua Chiesa. Le nozze messianiche con le quali si conclude la Rivelazione nel Libro dell'Apocalisse è la chiamata che Dio fa ad ogni uomo attraverso i suoi primogeniti, i figli della Chiesa. E' lo zelo incontenibile che scaturisce dall'amore geloso di Dio per ogni uomo. Per questo l'ira di Gesù si scatena sui venditori che avevano piantato i loro traffici nel luogo decisivo, sulla porta della fede, della salvezza e della vita.

E' l'ira santa che si avventa su ogni tentativo di fare della Chiesa un luogo di mercato, una spelonca di ladri. Di chi, come profetizzava Geremia, si fa forte dell'appartenenza al Popolo e di avere il Tempio, come un'assicurazione sulla vita, e la cui vita scorreva tra idolatria e adulterio. Ma l'appartenenza significa primogenitura di una moltitudine di popoliIsraele esiste per i popoli, esattamente come la Chiesa e come la vita di ciascuno di noiAppartenere a Cristo significa appartenere ad ogni uomo, perchè "Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito". Appartenere a Cristo e alla sua Chiesa significa essere tutto a tutti, come ha mostrato San Paolo, e poi San Francesco Saverio, e tutti gli apostoli che hanno sciolto la propria vita nell'annuncio del Vangelo, sino all'offerta del proprio sangue. La vita della Chiesa e di ogni discepolo di Cristo si identifica in questi cortili del Tempio, immagine e profezia della ferita del costato di Cristo, la porta del suo cuore dischiusa ad ogni uomo. 

E' nel cortile dei gentili che si compie la nostra vita, come quella della Chiesa. Scambiare e commerciare ciò che è gratuito è profanare il Tempio, il matrimonio, il lavoro, l'amicizia, il fidanzamento. Il matrimonio infatti è dato proprio come un cortile del Tempio, dove i piccoli, i pagani, immagini delle debolezze dell'altro, trovino il luogo dove incontrare la misericordia di Dio. Fare della debolezza dell'altro, dei suoi difetti e dei suoi peccati un luogo di mercato, una spelonca di ladri significa consegnare il Tempio alla distruzione, prendere in odio la primogenitura, e quindi la propria vita. Ricattare e prestare a usura affetto, stima, pazienza e addirittura il perdono, approfittando della fragilità dell'altro, è pervertire quanto Gesù ha amato e guardato con compassione e tenerezza. 

Abbiamo ridotto la Casa di Dio, la nostra vita, una spelonca di ladri; rubiamo le persone, le mettiamo sotto chiave perchè possano saziare il nostro cuore. Inganniamo, come ogni venditore di fumo. Anche quando urliamo ai quattro venti d'esser coerenti, di dire le cose in faccia, d'essere liberi, di fatto stiamo indossando l'ennesima maschera, quella del "puro", del "sincero sino alle estreme conseguenze". Maschera buona, di solito, quando le altre, quelle più luccicanti e ammalianti, non hanno funzionato a dovere. Anche quella di "chi non guarda in faccia a nessuno" è, spesso, una maschera che ci mettiamo, così, per identificarci e staccarci dalla massa informe dei proni ai piedi degli altri. Comunque maschere. Comunque carnevale. Comunque insegne luminose, cartelloni pubblicitari, spot ben lanciati nell'etere ad attirare l'attenzione su di noi. E far soldi, accumulare fascine d'affetto, di stima, "manager dei sentimenti" nella calca della "borsa dei sentimenti", sperando e travagliando perchè alla fine della giornata l'indice degli scambi mostri, finalmente, il segno "più". E soffriamo. Immensamente. Senza lo straccio di un solo bilancio in attivo. Sempre tutto in rosso. E sempre più soli. Già, la nostra solitudine di fronte all'invicibile gelosia di Dio, lo zelo del Figlio che irrompe nelle nostre esistenze e le stravolge, le purifica. Per questo in ogni giornata è nascosto l'imprevisto, un mal di testa, un tamponamento, un fallimento, un'incomprensione, qualcosa che, come un ago, fora il pallone gonfiato dai nostri sogni che è la nostra vita senza di Lui.

Ma noi siamo Suoi, Lui ha consegnato la Sua vita per questi "zombi" sperduti nel mondo che siamo, vomitati dall'infernale macchina del commercio di affetti e sentimenti. Siamo del Signore, nonostante tutto. Anzi proprio perchè soli, perduti, stanchi e feriti, siamo suoi, le sue braccia distese, ora per noi. La sua casa, la sua famiglia, il suo luogo, il suo riposo, la sua gioia, il suo tempio siamo noi. Lui ci ha raccolti forse addirittura lontani dal Tempio, neanche dentro il cortile dei gentili. I suoi occhi folli d'amore hanno intercettato, nel nostro dimenarci tra peccati e dolori, un cortile più grande, il cui perimetro abbraccia la nostra esistenza intera. Il suo amore ci ha aperto il passaggio al Santo dei santi, al suo cuore, il luogo dove sperimentare che la vita non è un affannato e tragico commercio. La nostra vita è stare con Lui, in Lui amare, donare e non rubare e accaparrare, in Lui perderci per essere persi in ogni "altro" che si appresta alla porta della nostra casa, la sua casa.

Lo zelo del Signore per noi riassume il Suo amore per ciascun uomo. Noi, la nostra vita fa parte della vita più grande della Chiesa, la sua casaladdove ha fissato l'appuntamento di salvezza per tutti i popoli. Dentro ad ogni evento della nostra vita vi è dunque il disegno di salvezza di Dio. Purifica noi per salvare il mondo. Caccia dalle nostre vite la paccottiglia che impedisce la liturgia di lode pensata per le nostre vite. Scaccia i demoni, secondo il verbo originale del vangelo identico a quello "tecnico" utilizzato negli esorcismi. Il Signore scaccia dal nostro cuore il traffico malefico innescato dal demonio, che, in cambio di una felicità avvelenata, ci ha sempre richiesto l'anima. Il Signore ci fa santi, ci "esorcizza" e "purifica" proprio attraverso gli inconvenienti, i dolori, le sofferenze. La Croce ci fa veri, cioè suoi, per attirare e salvare tutti quelli che ancora non lo sono, o meglio, che ancora non sanno di esserlo. Amore infinito per noi, amore infinito per tutti

Così con la Chiesa. Le difficoltà, le persecuzioni, la Croce la rendono bella, scacciano i mercanti di anime dal Tempio e la rinnovano perchè sia un cortile dove accogliere ogni uomo. A questo proposito Benedetto XVI ha detto: "Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta la ricerca di Dio negli uomini; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli. Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentiliche sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto”. Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa" (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, Dicembre 2009). E Gesù continuerà sempre a scacciare i demoni che tentano di annidarsi nella Chiesa per rendere impossibile l'aggancio. Chi non annuncia il Vangelo riduce la Chiesa ad una spelonca di ladri che rubano i tesori di Grazia, la Parola e l'amore di Dio offerti ad essa per agganciare gli uomini. Moralismi, potere, prestigio, denari, parole vane, slogan e progetti mondani sono i mattoni che riedificano il muro abbattuto dal Signore. Ma Lui tornerà ogni giorno a distruggerlo, per l'amore immenso che ha per ogni uomo. Gesù dopo la purificazione del Tempio vi insegna e il Popolo pende dalle sue labbra, avendo incontrato la Verità che il loro cuore cercava. Ma i notabili, i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire. Si avvicinava la purificazione definitiva. E così per la Chiesa, e ciascuno di noi: non ci si può sedere, mai; se così fosse, ci trasformeremmo di nuovo e in un baleno, in avidi mercanti. Per questo, come già accaduto ad Israele insediatosi nella Terra Promessa, vi sarà sempre qualcuno a minacciarci, a voler far perire Cristo e la sua Chiesa. Perchè l'autenticità della Chiesa, come quella del Tempio, risiede nel divenire, giorno dopo giorno, un cortile dove gli uomini possano agganciarsi a Dio! Così la nostra vita è un "gancio" offerto ad ogni uomo, e tutto di noi è indispensabile perchè lo diventi davvero. Ed il gancio è stato e sarà sempre, sino alla consumazione dei secoli, l'annuncio che Gesù Cristo è il Signore, che ha vinto il peccato e la morte, salvezza gratuita offerta ad ogni uomo. 

Che il Signore ci conceda oggi e ogni giorno occhi di fede per vedere, in ogni evento della nostra vita l'incarnazione della sua mano distesa verso i poveri, i deboli, i peccatori. Ogni istante delle nostre esistenze è santo, parte della Storia di salvezza che cerca ogni uomo. Perchè Dio sia tutto in tutti.

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Giovanni Taulero (circa 1300-1361), domenicano a Strasburgo 
Discorsi, 69

« Ogni giorno insegnava nel Tempio »

Il nostro Signore in persona ci insegna quello che dobbiamo fare affinché il nostro intimo diventi una casa di preghiera. Infatti l'uomo è veramente un tempio consacrato a Dio. In primo luogo dobbiamo cacciarne i venditori, cioè le immagini e le rappresentazioni dei beni creati, e tutto quanto vi sia di soddisfacimento nelle creature e di godimento della volontà propria. Poi occorre lavare il tempio con le lacrime per purificarlo. Tutti i templi non sono santi per il solo fatto di essere delle dimore abitabili; occorre che Dio li renda santi.

Il tempio di cui si tratta qui è l'amabile tempio di Dio, in cui Dio si rivela in verità quando abbiamo fatto piazza pulita. Come Dio avrebbe potuto eleggere la sua dimora nell'anima prima che questa avesse avuto il minimo pensiero di Dio? Non sarebbe forse imgombra da tante altre cose?


APPROFONDIMENTI


J. Ratzinger - Benedetto XVI. La Purificazione del Tempio. Da "Gesù di Nazaret" Seconda Parte.


Marco ci racconta che Gesù dopo questa accoglienza andò nel tempio, guardò ogni cosa attorno e, essendo ormai tardi, si recò a Befania, dove alloggiava durante quella settimana. Il giorno dopo entrò di nuovo nel tempio e cominciò a cacciare fuori quelli che vendevano e quelli che compravano; « rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe» (11,5).

Gesù giustifica questo suo agire con una parola del profeta Isaia che Egli integra con una parola di
Geremia: « La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri» (Me 11,17; cfr Is 56,7; Ger 7,11). Che cosa ha fatto Gesù? Che cosa intendeva dire?

Nella letteratura esegetica si possono individuare tre grandi linee di interpretazione, che dobbiamo
brevemente considerare. C'è innanzitutto la tesi, secondo cui la purificazione del tempio non significava un attacco contro il tempio come tale, ma colpiva solo gli abusi. Certo, i commercianti erano autorizzati dall'autorità giudaica, che ne traeva un grande profitto. In questo senso l'agire dei cambiamonete e dei commercianti di bestiame era legittimo entro le norme in vigore; era anche comprensibile che per le monete
romane in uso, che a motivo dell'immagine dell'imperatore dovevano essere considerate idolatriche, si provvedesse al loro cambio nella valuta del tempio proprio entro l'ampio cortile dei gentili e lì si vendessero anche gli animali da sacrificare. Ma, secondo l'impostazione architettonica del tempio, questa mescolanza tra tempio ed affari non corrispondeva alla destinazione del cortile dei gentili. Con il suo agire Gesù attaccava l'ordine in vigore disposto dall'aristocrazia del tempio, ma non violava la Legge e i Profeti - al contrario: contro una prassi profondamente corrotta, diventata «diritto», Egli rivendicava il diritto essenziale e vero,
il diritto divino di Israele. Solo così si spiega perchè non siano intervenute né le guardie del tempio, né la coorte romana presente nella fortezza Antonia. Le autorità del tempio si limitarono a porre a Gesù la domanda circa la sua legittimazione per una tale azione. In questo senso è giusta la tesi, motivata minuziosamente soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del tempio. Se però da ciò si volesse trarre la conclusione che Gesù «appare come un semplice riformatore che difende i precetti giudaici di santità» (così
Eduard Schweizer; cit. secondo Pesch, Markusevangelium II, p. 200), non si valuterebbe bene il vero significato dell'avvenimento. Le parole di Gesù dimostrano che la sua rivendicazione andava più nel profondo, proprio anche perché col suo agire intendeva dare compimento alla Legge e ai Profeti. Arriviamo così ad una seconda spiegazione, in contrasto con la prima - l'interpretazione politico- rivoluzionaria dell'evento. Già nell'Illuminismo c'erano stati tentativi di interpretare Gesù come rivoluzionario politico. Ma solo l'opera di Robert Eisler, Iesous basileus ou basileusas, pubblicata in due volumi (Heidelberg 1929/30), ha cercato di dimostrare coerentemente sulla base dell'insieme dei dati neotestamentari che «Gesù sarebbe stato un rivoluzionario politico di impronta apocalittica: avendo suscitato a Gerusalemme un'insurrezione, Egli sarebbe stato arrestato e giustiziato dai Romani » (così Hengel, War Jesus Revolutionär?, p.7). Il libro fece enorme sensazione, ma nella situazione particolare degli anni trenta non esercitò ancora un effetto durevole. Solo negli anni sessanta si formò il clima spirituale e politico in cui una tale visione poteva sviluppare una forza esplosiva. Fu allora Samuel George Frederick Brandon, nella sua opera Jesus and the Zeaìots (New York 1967), a dare all'interpretazione di Gesù come rivoluzionario politico un'apparente legittimazione scientifica. Con ciò Gesù veniva collocato nella linea del movimento zelota, che vedeva il suo fondamento biblico nel sacerdote Pineas, un nipote di Aronne: Pineas aveva trafitto con la lancia un Israelita che si era messo con una donna idolatra. Ora era visto come modello degli «zelanti» per la legge, per il culto rivolto unicamente a Dio (cfr Num 25). La sua origine concreta il movimento zelota la individuava nell'iniziativa del padre dei fratelli Maccabei, Mattatia, il quale, di fronte al tentativo di uniformare Israele totalmente al modello della cultura unitaria ellenistica, privandolo con ciò anche della sua identità religiosa, aveva affermato: «Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1 Macc 2,22). Questa parola avviò l'insurrezione contro la dittatura ellenistica. Mattatia mise in atto la sua parola: uccise l'uomo che, seguendo i decreti delle autorità ellenistiche, voleva pubblicamente sacrificare agli idoli:
«Ciò vedendo, Mattatia arse di zelo ... Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull'altare ... Egli agiva per zelo
verso la legge» (1 Macc 2,24ss). D'allora in poi, la parola «zelo» (in greco: zélos) fu la parola guida per
esprimere la disponibilità ad impegnarsi con la forza in favore della fede d'Israele, a difendere il diritto e la libertà di Israele per mezzo della violenza. Secondo la tesi di Eisler e di Brandon, Gesù sarebbe da collocare in questa linea dello «zelos» degli zeloti - una tesi che negli anni sessanta ha suscitato un'onda di teologie politiche e di teologie della rivoluzione. Come prova centrale di questa teoria si adduce ora la purificazione del tempio, che sarebbe stata evidentemente un atto di violenza, perché senza violenza non avrebbe neppure
potuto svolgersi, sebbene gli evangelisti abbiano cercato di nasconderlo. Anche il saluto rivolto a Gesù quale figlio di Davide ed instauratore del regno davidico sarebbe stato un atto politico e la crocifissione di Gesù da parte dei Romani sotto l'accusa di «re dei Giudei» dimostrerebbe pienamente che Egli sarebbe stato un rivoluzionario - uno zelota - e come tale sarebbe stato giustiziato. Nel frattempo si è calmata l'onda delle teologie della rivoluzione che, in base ad un Gesù interpretato come zelota, avevano cercato di legittimare la
violenza come mezzo per instaurare un mondo migliore - il « Regno ». I risultati terribili di una violenza motivata religiosamente stanno in modo troppo drastico davanti agli occhi di tutti noi. La violenza non instaura il regno di Dio, il regno dell'umanesimo. È, al contrario, uno strumento preferito dall'anticristo - per quanto possa essere motivata in chiave religioso-idealistica. Non serve all'umanesimo, bensì alla disumanità.

Ma ora, qual è la verità riguardo a Gesù? Era forse uno zelota? La purificazione del tempio era forse l'inizio di una rivoluzione politica? L'intera attività e il messaggio di Gesù - a partire dalle tentazioni nel deserto, dal suo battesimo nel Giordano, dal discorso della montagna fino alla parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25) ed alla sua risposta alla professione di fede di Pietro - vi si oppongono decisamente, come abbiamo visto nella Prima Parte di quest'opera. No, il sovvertimento violento, l'uccisione di altri nel nome di Dio non corrispondeva al suo modo di essere. Il suo « zelo » per il regno di Dio era del tutto diverso. Non sappiamo che cosa precisamente immaginavano i pellegrini quando, nell'« intronizzazione » di Gesù, parlavano del «regno che viene, del nostro padre Davide». Ma ciò che Gesù stesso pensava e intendeva, lo ha reso assai evidente con i suoi gesti e con le parole profetiche, nel cui contesto Egli poneva se stesso. Certo, ai tempi di Davide l'asino era stato l'espressione della sua regalità e, sulla scia di questa tradizione, Zaccaria presenta il nuovo re della pace che cavalca un asino quando entra nella città santa. Ma già ai tempi di Zaccaria, e ancor più in quelli di Gesù, il cavallo era diventato l'espressione del potere e dei potenti, mentre l'asino era l'animale dei poveri e quindi l'immagine di una regalità ben diversa. È vero che Zaccaria annuncia un regno « da mare a mare». Ma proprio con ciò egli abbandona il quadro nazionale ed indica una nuova universalità, in cui il mondo trova la pace di Dio e, nell'adorazione dell'unico Dio, è unito al di là di tutte le frontiere. In quel regno di cui il profeta parla, gli archi da guerra sono spezzati. Ciò che in lui è ancora una visione misteriosa, la cui configurazione concreta, scrutata nel suo giungere da lontano, non poteva essere percepita distintamente, si chiarisce lentamente nell'operare di Gesù; tuttavia, solo dopo la risurrezione e nel cammino del Vangelo
verso i pagani, può prendere pian piano la propria forma. Ma anche nel momento dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme, la connessione con la profezia tardiva, nella quale Gesù inseriva il suo agire, dava al suo gesto un orientamento che contrastava radicalmente con l'interpretazione zelota. In Zaccaria Gesù non aveva trovato soltanto l'immagine del re della pace che arriva sull'asino, ma anche la visione del pastore ucciso che mediante la sua morte porta la salvezza, e ancora l'immagine del trafitto al quale tutti avrebbero rivolto lo sguardo. L'altra grande cornice di riferimento, entro la quale Egli vedeva il suo operare, era la visione del servo sofferente di YHWH, che servendo offre la vita per i molti e porta così la salvezza (cfr Is 52,13-53,12). Questa profezia tardiva è la chiave d'interpretazione con la quale Gesù apre l'Antico Testamento; a partire da essa Egli stesso diventa poi, dopo la Pasqua, la chiave per leggere in modo nuovo la Legge e i Profeti. Veniamo ora alle parole interpretative con cui Gesù stesso spiega il gesto della purificazione del
tempio. Atteniamoci anzitutto a Marco con cui Matteo e Luca, a prescindere da piccole varianti, coincidono.

Dopo l'atto della purificazione Gesù, ci riferisce Marco, «insegnava». L'essenziale di questo «insegnamento», l'evangelista lo vede riassunto nella parola di Gesù: « Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto un covo di ladri» (11,17). In questa sintesi della «dottrina» di Gesù sul tempio - come abbiamo già visto - sono fuse insieme due parole profetiche. C'è innanzitutto la visione universalistica del profeta Isaia (56,7) di un futuro, in cui nella casa di Dio tutte le nazioni adorano il Signore come l'unico Dio. Nella struttura del tempio il grandissimo cortile dei gentili, in cui la scena si svolge, è lo spazio aperto, che invita tutto il mondo a pregarvi l'unico Dio. L'azione di Gesù sottolinea questa apertura interiore dell'attesa, che nella fede di Israele era viva. Anche se Gesù limita il suo operare consapevolmente a Israele, è tuttavia sempre mosso dalla tendenza universalistica di aprire Israele in modo che tutti nel Dio di questo popolo possano riconoscere l'unico Dio comune a tutto il
mondo. Alla domanda che cosa Gesù abbia veramente portato agli uomini, nella Prima Parte avevamo risposto che Egli ha portato Dio alle genti (cfr p. 67). Secondo la sua parola, nella purificazione del tempio si tratta proprio di questa intenzione fondamentale: togliere ciò che è contrario alla comune conoscenza ed adorazione di Dio - aprire quindi lo spazio alla comune adorazione.

Nella stessa direzione orienta una piccola vicenda che Giovanni riferisce circa la «Domenica delle Palme». Con ciò, tuttavia, dobbiamo tener presente che, secondo Giovanni, la purificazione del tempio si svolse durante la prima Pasqua di Gesù, all'inizio della sua attività pubblica. I sinottici invece - come abbiamo già visto - raccontano solo di un'unica Pasqua di Gesù e così la purificazione del tempio cade necessariamente negli ultimi giorni di tutta la sua attività. Mentre fino a poco tempo addietro l'esegesi partiva prevalentemente dalla tesi che la datazione di san Giovanni fosse « teologica » e non esatta nel senso biografico-cronologico, oggi si vedono sempre più chiaramente le ragioni che militano per una datazione esatta anche dal punto
di vista cronologico del quarto evangelista che, nonostante tutta la penetrazione teologica della materia, qui come anche altrove si rivela informato assai precisamente sui tempi, i luoghi e gli svolgimenti. Ma non dobbiamo qui entrare in questa discussione, in definitiva secondaria. Fermiamoci semplicemente ad esaminare quella piccola vicenda che, in Giovanni, non è connessa con la purificazione del tempio, ma chiarisce ulteriormente il suo intrinseco significato. L'evangelista riferisce che tra i pellegrini c'erano anche alcuni Greci «che erano saliti per il culto durante la fest » (Gv 12,20). Questi Greci si avvicinano a «Filippo, che era di Betsàida di Galilea » e gli chiedono: «Signore, vogliamo vedere Gesù» 12,21). Nell'uomo col nome greco proveniente dalla Galilea semi-pagana vedono ovviamente un mediatore che può aprire loro l'accesso a Gesù. Questa parola dei Greci: «Signore, vogliamo vedere Gesù », ci ricorda in qualche maniera la visione che san Paolo ebbe del Macèdone, che gli disse: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At 16,9). Il Vangelo continua raccontando che Filippo ne parla ad Andrea e tutti e due espongono la richiesta a Gesù. Come spesso accade nel Vangelo di Giovanni, Gesù risponde in modo misterioso e, sul momento, enigmatico: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,23s). Alla richiesta di un incontro da parte di un gruppo di pellegrini greci, Gesù risponde con una profezia della passione, in cui interpreta la sua morte imminente come «glorificazione» - una glorificazione che si dimostra nella grande fecondità. Che significa questo? Non un incontro immediato ed esterno tra Gesù e i Greci è ciò che conta. Ci sarà un altro incontro che andrà molto più nel profondo. Sì, i Greci lo «vedranno»: verrà da loro attraverso la croce. Egli verrà come chicco di grano morto e porterà frutto tra di loro. Essi vedranno la sua «gloria»: nel Gesù crocifisso troveranno il vero Dio, di cui nei loro miti e nella loro filosofia erano alla ricerca. L'universalità, di cui parla la profezia di Isaia (cfr 56,7), viene messa nella luce della croce: a partire dalla croce, l'unico Dio si rende riconoscibilealle nazioni; nel Figlio conosceranno il Padre e, in questo modo, l'unico Dio che si è rivelato nel roveto ardente.

Ritorniamo alla purificazione del tempio. Lì la promessa universalistica di Isaia è collegata con quella parola di Geremia: Avete reso la mia casa un covo di ladri (cfr 7,11). Torneremo ancora brevemente alla battaglia del profeta Geremia a riguardo ed in favore del tempio nel contesto della spiegazione del discorso escatologico di Gesù. Anticipiamo qui l'essenziale: Geremia s'impegna appassionatamente per l'unità tra culto e vita nella giustizia davanti a Dio; egli lotta contro una politicizzazione della fede, secondo la quale Dio dovrebbe in ogni caso difendere il suo tempio per non perdere il culto. Un tempio, però, che è diventato un «covo di ladri», non ha la protezione di Dio. Nella connessione tra culto e affari, che Gesù combatte, Egli ovviamente vede nuovamente realizzata la situazione dei tempi di Geremia. In questo senso, la sua parola come il suo gesto sono un avvertimento nel quale, sulla base di Geremia, si poteva percepire anche l'allusione alla distruzione di questo tempio. Ma come Geremia, così anche Gesù non è il distruttore del tempio: ambedue indicano con la loro passione chi e che cosa distruggerà realmente il tempio. Questa spiegazione della purificazione del tempio diventa ancora più chiara alla luce di una parola di Gesù, che in questo contesto è trasmessa solo da Giovanni, ma che in modo deformato si trova anche sulle labbra di falsi testimoni durante il processo a Gesù, secondo la relazione di Matteo e Marco. Non c'è dubbio che una tale parola risalga a Gesù stesso ed è altrettanto ovvio che essa vada collocata nel contesto della purificazione del tempio. In Marco, il falso testimone dice di Gesù che Egli avrebbe dichiarato: «Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d'uomo» (14,58). Il «testimone», con ciò, è forse molto vicino alla parola di Gesù, sbaglia però in un punto
decisivo: non è Gesù a distruggere il tempio; lo abbandonano alla distruzione coloro che lo rendono un covo di ladri, come era avvenuto ai tempi di Geremia. In Giovanni, la vera parola di Gesù suona così: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,19). Con questa parola Gesù rispondeva ad una richiesta da parte dell'autorità giudaica di un segno col quale desse prova della sua legittimazione ad un atto quale la purificazione del tempio. Il suo «segno» è la croce e la risurrezione. La croce e la risurrezione lo legittimano come Colui che instaura il culto giusto. Gesù si giustifica mediante la sua passione - il segno di Giona, che Egli dà a Israele e al mondo. Ma la parola va ancora più in profondità. A ragione Giovanni dice che i discepoli compresero la parola in tutta la sua profondità solo facendone memoria dopo la risurrezione - facendone memoria nella luce dello Spirito Santo come comunità dei discepoli, come Chiesa. Il rifiuto di Gesù, la sua crocifissione, significa allo stesso tempo la fine di questo tempio. L'epoca del tempio è passata. Arriva un nuovo culto in un tempio non costruito da uomini. Questo tempio è il suo corpo - il Risorto che raduna i popoli e li unisce nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue. Egli stesso è il nuovo tempio dell'umanità. La crocifissione di Gesù è al contempo la distruzione dell'antico tempio. Con la sua risurrezione inizia un nuovo modo di venerare Dio, non
più su questo o quell'altro monte, ma « in spirito e verità» (Gv4,23).

Come stanno allora le cose circa lo «zelos» di Gesù? Riguardo a questa domanda, Giovanni - proprio nel contesto della purificazione del tempio - ci ha donato una parola preziosa che costituisce una risposta precisa ed approfondita alla domanda stessa. Egli ci dice che, in occasione della purificazione del tempio, i discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà» (2,17). È questa una parola tratta dal grande Salmo 69 riguardante la passione. A causa della sua vita conforme alla parola di Dio, l'orante è spinto nell'isolamento; la parola diventa per lui una fonte di sofferenza recatagli da quelli che lo circondano e lo odiano. «Salvami, o Dio, l'acqua mi giunge alla gola... Per te io sopporto l'insulto... mi divora lo zelo per la tua casa ...» {Sai 69,2.8.10). Nel giusto sofferente il ricordo dei discepoli ha riconosciuto Gesù: lo zelo per la casa di Dio lo porta alla passione, alla croce. È questa la svolta fondamentale che Gesù ha dato al tema dello zelo. Ha trasformato nello zelo della croce lo «zelo» che voleva servire Dio mediante la violenza. Così Egli ha eretto definitivamente il criterio per il vero zelo - lo zelo dell'amore che si dona. Secondo questo zelo il cristiano deve orientarsi; in ciò sta la risposta autentica alla questione circa lo «zelotismo » di Gesù.

Questa interpretazione trova la sua conferma nuovamente nei due piccoli episodi con cui Matteo conclude il racconto della purificazione del tempio. «Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì» (21,14). Al commercio di animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatriceEssa è la vera purificazione del tempio. Gesù non viene come distruttore; non viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti ai margini della propria vita ed ai margini della società. Egli mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell'amore. In piena armonia con tutto ciò sta poi anche il
comportamento dei fanciulli i quali ripetono l'acclamazione dell'osanna che i grandi gli rifiutano (cfr Mt 21,15). Da questi « piccoli » Gli verrà sempre la lode (cfr Sal 8,3) - da coloro che sono in grado di vedere con un cuore puro e semplice e che sono aperti alla sua bontà. Così in queste due piccole vicende si preannunzia il nuovo tempio che Egli è venuto a costruire.


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Tornare a proclamare un semplice e al contempo scandaloso: Jesùs estì kyrios, Gesù è il Signore, di Vittorio Messori


Il Credo, la verità e la ragionevolezza. Quell'araldo e l' annuncio dei primi cristiani


* Versione integrale dell'intervento di V. Messori al convegno dei Nuovi Evangelizzatori (pubblicato in versione più ridotta nel Corriere della Sera del 17/10/2011)

Il tempo assegnatoci è ristretto. Meglio così, siamo chiamati ad imitare la secchezza, la volontà di sintesi dei Vangeli. Dobbiamo tornare alla consapevolezza che ciò in cui crediamo, ciò da cui tutto il resto deriva, è racchiuso (così ci insegna san Paolo) in tre sole parole: <>. Da qui la conseguenza: << Dunque, Gesù è il Cristo annunciato dai profeti e atteso da Israele>>. E’ ciò che i primi cristiani chiamavano il kérygma, cioè il grido dell’araldo che –per strade e piazze– annunciava al popolo le novità urgenti, quelle che tutti dovevano sapere.
Credo che la rievangelizzazione dell’Occidente, chiestaci con sacrosanta insistenza da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, non sia che questo: non, innanzitutto, complesse dottrine, bensì il ricominciare dal kérygma, dalla base su cui tutto si regge . Tornare a proclamare un semplice e al contempo scandaloso: Jesùs estì kyrios, Gesù è il Signore.


Non tutti, certo, si fermeranno ad ascoltarci. E chi lo farà, ci opporrà subito: << Sono venti secoli che ce lo ripetete. Ma quali ragioni ci portate? Siamo uomini moderni, abituati alla critica: perché dovremmo ancora credere che quell’oscuro ebreo finito in croce duemila anni fa sia il Signore, il Figlio di Dio, Dio egli stesso? Perché lui e non i tanti altri che annunciano un altro Dio? Ma, prima ancora, portateci prove credibili che un Dio, quale che sia, esiste davvero>>. Una replica legittima. In fondo, fu quella stessa in cui incappò Paolo, quando << si mise ad annunciare Gesù in mezzo all’Areòpago>> e gli chiesero ragione dello scandalo e della follia che annunciava.
Il rapporto tra la fede e la ragione. La fede che va, certo, al di là della ragione, ma che non la contraddice. Ecco il nostro problema, ecco il problema di sempre, ma di cui molti, nella Chiesa stessa, non sembrano consapevoli. Mi si permetta allora di rifarmi, per quanto vale, alla mia esperienza. Forse, nel suo piccolo, può essere esemplare. Famiglia di anticlericali emiliani, 18 anni di studi, a Torino, tutti in scuole laiche, dove regnava un rigoroso agnosticismo. Dio non lo si affermava ma neanche lo si negava: semplicemente, non era un problema di cui occuparsi in classe. All’università, alla facoltà di Scienze Politiche, divenni l’allievo prediletto dei grandi maestri del laicismo italiano, con i quali feci anche la tesi di laurea. Anche qui non vigeva l’ateismo -considerato volgare perché religione esso stesso, seppure al contrario- ma dominava una radicale indifferenza: poiché la ragione, il solo strumento di cui disponiamo, non è in grado di risolvere il problema, perché perdere tempo e fatica a discutere se Dio esista o no e se sia quello adorato in una o nell’altra religione?

Proprio mentre scrivevo la tesi di laurea, senza che lo cercassi o lo aspettassi incappai in un incontro, che fu anche uno scontro, con quel Mistero del Cristo che sino ad allora avevo respinto senza nemmeno esaminarlo, tanto mi sembrava inammissibile. Fu un’ avventura spirituale imprevista e sconvolgente, delle cui conseguenze ancora vivo, ma che solo da poco mi sono deciso a tentare di descrivere in un libro. Io non volevo diventare cristiano, meno che mai cattolico, ma ne fui costretto da un’evidenza interiore alla quale non potei sfuggire. Ebbene, passati i primi tempi, quelli dello stordimento di chi ha visto spalancarsi una dimensione inimmaginabile, ecco subito i dubbi e i problemi. Ero stato allevato nel culto di una ragione che diventava razionalismo, dunque cominciai a domandarmi: <>.

Il fatto è che la fede è una realtà soprannaturale che si incarna in un uomo concreto, dunque ha bisogno di conferme della ragione; è il credere che, per essere umano, deve apparirci ragionevole; è la scommessa su Gesù che deve apparire fondata. Quanto a me, per arrendermi alla dimensione inedita che mi pervadeva, avevo bisogno di un sostegno: quello, per dirlo chiaro, di una apologetica adeguata. Cominciai a chiedere aiuto a quei miei nuovi compagni, a quei cattolici che fino ad allora mi erano estranei. Ma erano gli anni in cui il Concilio finiva, nella Chiesa era un ribollire di risse ed alterchi; eppure, come scopersi con rammarico, erano dispute tutte interne, clericali. Ci si affrontava sull’organizzazione della istituzione ecclesiale, sul ruolo del papa, dei vescovi, dei preti, dei laici, delle donne, della liturgia. Nessuno parlava di fede né meno che mai delle sue ragioni, la si dava come un dato, scontato, acquisito, mentre si battagliava per quale dovessero essere, per il cattolico, l’etica, l’impegno politico, sociale, economico, culturale. Ma queste non erano che conseguenze di una causa prima, il sì alla verità del Credo, che nessuno si occupava di esaminare e verificare. Anzi, chi avesse voluto farlo sarebbe stato squalificato con termini come “apologeta“, “apologetico“ che erano divenuti come un insulto, un marchio di anacronismo e di integralismo.
Ebbene, non trovando gli strumenti che cercavo, decisi (con l’imprudenza e l’impazienza del neofita) di farmeli da solo. Questi clericali –preti e laici– avevano nascosto l’apologetica? Ebbene, avrei cercato di disseppellirla: per me innanzitutto, per poi offrirla ad altri. Fu così che, dopo una lunga ricerca, osai pubblicare trecento pagine dal titolo “Ipotesi su Gesù“ , dove cercavo di applicare la ricerca storica e archeologica , nonché il buon senso estraneo alle ideologie del momento, alle origini stesse di una Fede che non è una dottrina ma una Persona. Alla diffidenza con cui quel libretto fu accolto da certa intellighenzia clericale fece contrasto lo straordinario successo popolare, nel mondo intero. Successo che, del resto, ha accolto molti degli altri libri che mi fu dato di pubblicare: tutti scritti per cercare di rispondere alle domande di credibilità, di ragionevolezza della fede.

Questo interesse è stata la conferma di ciò di cui sono stato sempre consapevole : non può esserci -oggi meno che mai- un riannuncio della fede se, al contempo, non se ne mostra la ragionevolezza. Non si incide sulla società o sulla cultura riproponendo la prospettiva evangelica, se non si affronta prima il problema di Cristo e della verità del suo vangelo. I problemi con cui oggi i cattolici devono confrontarsi hanno una radice spesso inconfessata eppure drammatica : la caduta della fede, la riduzione di Gesù a un maestro di morale, del Nuovo Testamento a oscuro pastiche di giudaismo e di paganesimo, del miracolo a mito, della speranza escatologica a impegno secolare. Ben prima di ogni riforma istituzionale e di ogni predica morale o sociale, dobbiamo ritrovare il Credo, quello che recitiamo nella Messa, nel senso pieno. Ma come ritrovare questo Credo se ben pochi ci mostrano le ragioni per farlo? Quanti, nella Chiesa, ci aiutano a rassicurarci che il cristiano non è, come è stato detto di recente, “semplicemente un cretino“? Anche per questo potrà essere davvero prezioso questo Pontificio Consiglio che il Santo Padre ha voluto creare ed affidare a mons .Rino Fisichella, non a caso specialista di teologia fondamentale, il nome alternativo dell’apologetica. Il primo passo per una nuova evangelizzazione, comunque, è semplice e al contempo impegnativo. Prendere, cioè, sul serio l’esortazione di Pietro ad essere <>. Con chiarezza e decisione e al contempo, come ci ammonisce lo stesso Pietro, <>.

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Il Cortile dei gentili nel tempio di Gerusalemme.


Il Cortile dei gentili nel tempio di Gerusalemme, di Gianfranco Ravasi


Vorremmo innanzitutto spiegare il simbolo usato dal Papa, una locuzione non a tutti perspicua, anche se a molti è noto che il vocabolo "gentili" designa nel linguaggio ecclesiastico i non-ebrei, ossia i pagani che si erano accostati al cristianesimo: il termine deriva dal latino gens nel senso di nazionalità straniera in opposizione al populus Romanus (in ebraico erano i goj/gojim, presenti 561 volte nell'Antico Testamento; in greco èthnos/èthne, un vocabolo che risuona ben 162 volte nel Nuovo Testamento).
È risaputo quanto san Paolo si sia battuto per aprire a costoro le porte della nuova fede, senza costringerli a passare previamente attraverso la circoncisione e, quindi, l'ebraizzazione, come alcuni esponenti della comunità cristiana delle origini (i giudeo-cristiani) esigevano. Ma il "Cortile dei Gentili" quale realtà evoca?

Dobbiamo a questo proposito riferirci alla planimetria del tempio di Gerusalemme, soprattutto nella tipologia offerta dall'imponente edificio voluto dal re Erode a partire dall'anno 20 prima dell'era cristiana e distrutto nell'anno 70 dalle armate romane di Tito. Là, infatti, oltre alle aree riservate alle donne, agli israeliti, ai sacerdoti e al santuario propriamente detto, si apriva uno spazio al quale potevano accedere appunto i pagani in visita a Gerusalemme. Era, questo, il "Cortile dei Gentili", un'aulè in greco a cui forse fa cenno il libro dell'Apocalisse quando nella misurazione simbolica del tempio imposta a Giovanni si dichiara: "Il cortile (aulè) esterno del tempio lascialo da parte e non misurarlo perché è stato consegnato ai gentili (èthnè) che calpesteranno la città santa" (11, 2).
La prova concreta dell'esistenza di questo recinto speciale è in una lapide di 60 centimetri per 90 con un'iscrizione greca, scoperta nel 1871 dall'archeologo francese Charles Simon Clermont-Ganneau e ora conservata al Museo archeologico di Istanbul (un'altra targa simile, ma solo frammentaria, è stata rinvenuta nel 1953). In essa si legge un divieto analogo alle segnalazioni attuali con l'avviso di "pericolo di morte" o di "zona militare" invalicabile: "Nessuno straniero (alloghenès) penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda l'area sacra (hieròn). Chi venisse sorpreso (in flagrante) sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà".
Lo storico giudeo filoromano Giuseppe Flavio, testimone delle vicende della Terra Santa del primo secolo, nella sua opera Antichità giudaiche conferma questa testimonianza parlando di due cortili: il primo era quello dei gentili, separato dal secondo - quello degli ebrei - "da pochi gradini e da una balaustra di pietra ove c'era un'iscrizione che proibiva l'ingresso agli stranieri sotto pena di morte" (xv, 417). Nell'altro suo scritto più celebre, La guerra giudaica, lo stesso storico annotava: "Chi attraversava quell'area per raggiungere il secondo cortile lo trovava circondato da una balaustra di pietra, alta tre cubiti e finemente lavorata. Su di essa, a intervalli uguali, erano collocate lapidi che ricordavano le leggi di purità - per l'accesso al tempio - alcune in lingua greca, altre in latino, perché nessuno straniero entrasse nel luogo santo" (v, 193-194). È curioso notare che, a quanto si evince dal dettato del divieto, la pena capitale era automatica, senza regolare processo ma con una sorta di linciaggio affidato alla folla ebraica.
Qualcosa del genere è evocato in connessione col rischio corso da san Paolo proprio nel tempio di Gerusalemme: la massa dei fedeli tenta di ucciderlo perché sospettato di "aver introdotto greci nel tempio, profanando il luogo santo". Infatti, era stato visto poco prima in compagnia di un pagano, tale Trofimo di Efeso, attirando su di sé il sospetto di averlo condotto oltre il "Cortile dei Gentili", nell'area sacra off limits per i pagani (si legga il passo degli Atti degli Apostoli, 21, 27-32). Sarà, comunque, proprio l'apostolo a infliggere un duro colpo a questa concezione così aspramente "separatista" quando, scrivendo ai cristiani di Efeso, dichiarerà che Cristo è venuto ad "abbattere il muro di separazione che divideva" ebrei e gentili, "per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, riconciliando tutti e due in un solo corpo" (Efesini, 2, 14-16). Quel simbolo di apartheid e di separatezza sacrale che era il muro del "Cortile dei Gentili" è, quindi, cancellato da Cristo che desidera eliminare le barriere per un incontro nell'armonia tra i due popoli.

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Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo, di Raniero Cantalamessa


"Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo"
Omelia del Predicatore della Casa Pontificia
p. Raniero Cantalamessa O.F.M. Cap.



Giovanni Paolo II ha presieduto nel pomeriggio del 10 aprile 1998, Venerdì Santo, nella Basilica di san Pietro la Celebrazione della Passione del Signore.
Al termine della Liturgia della Parola, il Predicatore della Casa Pontificia, Padre Raniero Cantalamessa, ha tenuto questa omelia il cui testo è stato pubblicata da "L’Osservatore Romano" Domenica 12 Aprile 1998.

Nella sua lettera apostolica Tertio Millennio adveniente, che, come stella cometa, sta guidando la Chiesa cattolica verso il Giubileo del duemila, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha scritto: "È giusto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli... Essa non può varcare le soglie del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi" (n. 33).

Tra questi peccati assume un rilievo particolare quello commesso nei confronti del popolo ebraico. A conclusione del Simposio che si è tenuto in Vaticano dal 30 ottobre al 1° novembre dell’anno scorso sui cristiani e l’antisemitismo, il Papa affermava: "Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico e alla sua pretesa colpevolezza, generando sentimenti di ostilità verso questo popolo. Essi hanno contribuito ad addormentare le coscienze, di modo che, quando si è scatenata sull’Europa l’ondata delle persecuzioni ispirate da un antisemitismo pagano... la resistenza spirituale di molti non è stata quella che l’umanità era in diritto di aspettarsi da parte dei discepoli di Cristo" (Discorso rivolto ai partecipanti al Simposio il 31 ottobre 1997).

Da tempo sono stati messi in chiaro i fondamenti teologici che permettono questa coraggiosa assunzione di responsabilità, senza intaccare minimamente la nostra fede nella Chiesa, per se stessa, (cfr Lumen Gentium 8: la Chiesa <>).

Ma in queste richieste di perdono da parte della Chiesa c’è un significato anche teologico che non deve passare inosservato. Quando la Chiesa si assume la responsabilità delle colpe dei suoi membri, compie l’atto forse più bello che possa fare sulla terra: scagiona Dio, proclama: Dio è innocente, anaitios o Theos, Dio non ci ha colpa; siamo noi che abbiamo peccato. Dice col profeta: <> (Bar 1,15).

Il Venerdì Santo è stato, lungo i secoli, il terreno di cultura privilegiato dell’incomprensione e ostilità verso gli ebrei. È giusto dunque che dal Venerdì Santo parta l’opera di riconciliazione e di <>. S. Paolo ci dà questa interpretazione dell’evento della croce: <> (Ef 2,14-18). I <>, si sa, sono i Giudei e i pagani.

Questa visione profetica dell’Apostolo è stata fortemente oscurata nei fatti. Fu proprio nel corso di un’omelia tenuta un <> in Asia Minore, nel II secolo (ne abbiamo letto un brano nella Liturgia delle ore di ieri) che fu lanciata, per la prima volta, da Melitone di Sardi l’accusa indiscriminata di deicidio nei confronti degli Ebrei: <> (Sulla Pasqua, 73-96: SCh 123, pp.102-116).

È nel contesto di questa polemica antigiudaica, che viene formandosi, già in Melitone, il genere degli Improperia, o Rimproveri, entrato più tardi anche nella liturgia latina dell’adorazione della croce. Si elencano uno ad uno i benefici di Dio per Israele e a ognuno si oppone l’ingratitudine del popolo. <>.

È vero che in questo ed altri testi simili bisogna fare una larga parte alla retorica, in particolare al genere della diatriba allora in voga. Ma il seme era gettato e lascerà il suo segno nella liturgia (si pensi al famoso aggettivo usato nella preghiera per gli ebrei e ora soppresso), nell’arte e nello stesso folclore, contribuendo a diffondere lo stereotipo negativo dell’Ebreo.

L’icona bizantina della crocifissione quasi sempre mostra ai lati della croce di Cristo due figure femminili. In alcuni casi, tutte e due sono rivolte verso la croce, ma più spesso una guarda la croce, l’altra le volta le spalle, o è addirittura spinta da un angelo ad allontanarsi dalla croce. Sono la Chiesa e la Sinagoga. Si è persa di vista l’affermazione di Paolo che Cristo è morto sulla croce per unire le due realtà, non per dividerle.

Tutto ciò, come notava il Santo Padre, ha reso meno vigilanti i cristiani quando, nel nostro secolo, si è scatenato contro gli ebrei il furore nazista. Ha favorito, insomma, indirettamente, la Shoah, l’Olocausto. Ma già ben prima di questo epilogo fatale, la polemica è servita a giustificare molteplici vessazioni e ha causato al popolo ebraico non poca sofferenza da parte delle popolazioni cristiane e delle stesse istituzioni della Chiesa.

Ma vengo alla cosa che mi sembra più urgente chiarire. In occasione al recente dibattito seguito alla pubblicazione del documento del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani <>, un autorevole uomo di cultura ha formulato un giudizio radicale su tutta la questione: <>.

L’unico rimedio - prosegue l’autore - sarebbe <>. Siccome, però, non si può chiedere ai cristiani di fare questo (e sarebbe anzi una perdita se lo facessero), non resta che coltivare ognuno le proprie radici religiose, in spirito di tolleranza, tendendo a quei valori universali che sono al di là di ogni religione e che tutte le accomuna (P. Citati, <>, in <>, 18 marzo 1998).

Un discorso, come si vede, di grande pacatezza. Ma a me sembra di scorgere in esso un equivoco fondamentale. Paolo non considera <> solo quello dei Patriarchi, ma quello di tutta l’umanità prima di Cristo. <> (Rm 3,1-2).

Come si può accusare Paolo di non riconoscere in Abramo il <>, se proprio per questo egli è definito da lui <>? (cfr Rm 4,16). Molta confusione, a proposito di S. Paolo, deriva dall’aver scambiato per polemica <>, quella che è, in realtà, polemica contro <>.


D’altra parte, le cose, del resto, che Paolo e Giovanni dicono degli ebrei sono un niente, in confronto a quello che dicono dei pagani. Essi sono definiti <> (Ef 2,11). La stessa <> dell’Apocalisse, sede della Bestia e del Dragone, sappiamo che non è da identificarsi primariamente con Gerusalemme, ma con la Roma pagana, la città <> (Ap 17,9).


La risposta giusta al problema sollevato, credo sia nelle parole del Papa ricordate sopra: "Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico>>. L’antisemitismo non nasce da fedeltà alle Scritture cristiane, ma da infedeltà ad esse. In questo senso, la situazione nuova che si è creata nel dialogo tra ebrei e cristiani si rivela utile per capire meglio le stesse nostre Scritture. È anch’essa un segno dei tempi. E vediamo in che senso.


Rifacciamoci alla più antica formulazione del mistero pasquale, al kerigma. Esso non menziona mai gli ebrei come causa della morte di Cristo, ma <>: <> (Rm 4,25; 1Cor 15,3). Gli stessi simboli di fede, che pure fanno il nome di Ponzio Pilato, mai menzionano gli Ebrei, parlando della crocifissione e morte di Cristo.


Certo, alcuni capi giudei hanno svolto un ruolo attivo nella condanna di Gesù. Ce lo ha ricordato il racconto della passione che abbiamo appena ascoltato. Ma sono state cause materiali. Nella misura in cui si insiste su queste circostanze concrete, dando loro un valore teologico, oltre che storico, si perde di vista la portata universale e cosmica della morte di Cristo. Si banalizza il dramma della redenzione, facendone il risultato di circostanze contingenti. <> (1 Gv 2,2). Di tutto il mondo: anche di chi non lo sa, o non lo crede!


Un altro fatto viene dimenticato nella polemica contro gli Ebrei: essi hanno agito per ignoranza (anche se questo non vuole dire senza colpa). Lo dice Cristo sulla croce: <> (Lc 23,34). <>, dice Pietro dopo la Pentecoste (At 3,17; cfr At 13,27). <>, dice Paolo (1Cor 2,8).


Vogliamo dunque continuare a parlare di deicidio? Facciamolo pure, dal momento che un deicidio, secondo le Scritture e la nostra dogmatica, c’è stato. Ma sappiamo che a commetterlo non sono stati solo gli ebrei: siamo stati tutti noi.


Ma se <> non sono nel Nuovo Testamento, dove sono? Come e quando si è prodotta la frattura? Io credo che non sia difficile scoprirlo. Gesù, gli apostoli, il diacono Stefano (cfr At 7) hanno polemizzato contro i capi giudei, usando, a volte, toni durissimi. Ma con che animo lo facevano? Gesù, quando annunciava la distruzione di Gerusalemme, piangeva, come sulla morte dell’amico Lazzaro. Stefano moriva gridando: <>.


Paolo, il principale imputato in tutta questa vicenda, arriva a dire parole che vanno venire i brividi: <> (Rm 9,1-3). Paolo, per il quale Cristo è <> (<>), accetterebbe di essere separato da lui, scomunicato, se questo potesse servire a fare accettare il Messia dai suoi consanguinei secondo la carne!


Questi uomini parlavano dall’interno del popolo ebraico, sentendosi solidali con esso, appartenenti alla stessa realtà religiosa e umana. Potevano dire: <>. Quando si ama si può parlare anche così. I profeti, Mosè stesso, erano stati forse meno severi nei confronti di Israele? A volte lo erano stati assai di più! E’ da essi che sono mutuate le espressioni più severe del Nuovo Testamento. Gli stessi <>, dove hanno la loro fonte ultima, se non nel genere letterario del processo sacrale (il rib) che Dio intenta, nell’Antico Testamento, nei confronti del suo popolo? (cfr Dt 32; Michea 6, 3-4; i Salmi 77 e 105).


Ma forse che gli Ebrei si sono sentiti offesi da Mosè e dai profeti e li hanno accusati , per questo, di antisemitismo? Sanno bene che, all’occorrenza, Mosè è pronto a farsi radiare lui stesso dal libro della vita, piuttosto che salvarsi da solo, senza il suo popolo. In fondo, non è diverso di quello che avviene anche tra noi. Dante Alighieri rivolge agli italiani invettive tali che, se uno straniero si azzardasse a farne propria una minima parte, ne faremmo una tragedia. Da lui le accettiamo; sentiamo che è dei nostri, che parla con amore, non con disprezzo.


Cosa è successo, invece, nel passaggio dalla primitiva Chiesa Giudeo-cristiana alla Chiesa dei gentili? I gentili hanno raccolto la polemica di Gesù e degli apostoli contro il giudaismo, ma non il loro amore per i Giudei! La polemica si è trasmessa, l’amore no. Quando parleranno dell’avvenuta distruzione di Gerusalemme, i Padri della Chiesa non lo fanno piangendo. Tutt’altro!


La radice del problema è tutta qui: mancanza d’amore, cioè infedeltà al precetto centrale del Vangelo: Noi cristiani abbiamo continuato a lagnarci fino alla vigilia della Shoah, dell’odio anticristiano degli Ebrei, della loro opposizione alla diffusione del Vangelo (ciò che, specie agli inizi, fu certamente vero), ma non ci accorgevamo della trave che c’era nel nostro cuore!


Non si tratta di fare un processo sommario al passato. <>. Si riteneva infatti unanimemente, allora, che i diritti della verità venissero prima di quelli della persona.


Non si tratta dunque di intentare un processo al passato. E tuttavia, prosegue la lettera del Papa, <> (TMA, 35). (Quando la Chiesa parla dei suoi <>, sappiamo che include in essi anche i suoi <>!).


Quando io parlo della colpa contro i fratelli Ebrei, non penso solo a quella degli altri, delle generazioni che mi hanno preceduto. Penso anche alla mia. Ricorderò sempre il momento in cui iniziò la mia conversione su questo punto. Ero sull’aereo di ritorno dal mio primo viaggio in Terra Santa. Leggevo la Bibbia e mi cadde sotto gli occhi la frase della Lettera agli Efesini: <> (Ef 5,29). Capii che essa si applica anche al rapporto di Gesù con il suo popolo. E di colpo i miei pregiudizi, se non proprio ostilità, nei confronti degli Ebrei, assorbiti insensibilmente negli anni di formazione, mi apparvero una offesa recata a Gesù stesso.


Egli ha assunto tutto di noi, eccetto il peccato. Ma l’amore della propria patria e la solidarietà con la propria gente non è un peccato, è un valore. Dunque, in forza della stessa incarnazione, Gesù - chiamiamolo ormai con il suo nome ebraico Yeshua - ama il popolo d’Israele. Di un amore così forte e puro quale nessun patriota al mondo ha mai avuto per la sua patria. Il peccato contro gli ebrei è anche un peccato contro l’umanità di Cristo.


Ho capito che dovevo convertirmi a Israele, <>, come lo chiama l’Apostolo, che non coincide necessariamente e in tutto con l’Israele politico, anche se non si può neppure separare da esso. Ho capito che questo amore non è una minaccia per nessun altro popolo, non forma alleanze e blocchi contro nessuno, perché Gesù ci ha insegnato che il nostro cuore cristiano deve aprirsi all’universalità e aiutare Israele stesso a farlo. <> (cfr Rm 3,29).


Questo mi ha reso particolarmente cara la figura di Edith Stein, questa nuova Rebecca che ha portato nel suo grembo due nazioni e due popoli in lotta tra loro, la Chiesa e la Sinagoga, e le ha riconciliate, versando il suo sangue per l’una e per l’altra. Edith Stein è il modello del nuovo amore cristiano per Israele, che trova in Gesù di Nazareth, non un ostacolo, ma il suo più grande incentivo. <>.


Sentire scorrere nelle proprie vene lo stesso sangue di Cristo, la riempiva di commozione e di fierezza.


Sono diventate celebri le parole da lei scritte alle prime avvisaglie della persecuzione nazista contro gli Ebrei: <>. Quando lei e sua sorella Rosa escono dalla porta della clausura tra due gendarmi, per essere deportate ad Auschwitz, qualcuno dei presenti vede Edith stringere forte la mano della sorella e sussurrarle: <>.


Ma abbiamo un modello più grande di Edith Stein, Maria - chiamiamo anche lei con il suo bel nome ebraico Miriam - , la Madre di Gesù. Ella è <> anche in questo. Modello di una Chiesa non ancora macchiata di alcuna colpa contro Israele, non sfiorata da alcuna ostilità. I sentimenti di Maria verso il suo popolo sono espressi nel Magnificat:


<
ricordandosi della sua misericordia.
Come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza per sempre>>.


<>: stessa commozione di appartenere al popolo dell’alleanza. << Alla sua discendenza per sempre>>: stessa certezza, come in Paolo, della irrevocabilità della promessa fatta a Israele.






Ritorniamo, per finire, al passo della lettera agli Efesini. Il muro di inimicizia, abbattuto sulla croce, si è riformato e ispessito nei secoli. Dobbiamo abbatterlo di nuovo, mediante il pentimento e la richiesta di perdono a Dio e ai fratelli Ebrei. Bisogna che i gesti e le parole di riconciliazione posti ai vertici della Chiesa non restino nei documenti, ma arrivino al cuore di tutti i battezzati. Solo per questo ho osato parlarne qui. Un tempo, in occasione di grandi missioni, si faceva il falò delle vanità. Noi, in questo Venerdì Santo, facciamo il falò delle ostilità. <>. In noi stessi, non negli altri!


Quando, quando si realizzerà il desiderio di Gesù di riunire i figli del suo popolo, come la chioccia raccoglie sotto le ali i suoi pulcini? Noi cristiani possiamo affrettare o ritardare il giorno in cui, per le strade di Gerusalemme, si griderà di nuovo, come il giorno delle Palme: <> (cfr Lc 13,34-35; 19, 38). Il giorno in cui Gesù di Nazareth potrà essere riconosciuto dal suo popolo, se non ancora il Messia atteso e il Figlio di Dio come da noi, almeno come uno dei suoi grandi profeti.


Quest’anno, per una rara coincidenza, la Pasqua ebraica cade alla stessa data della nostra. Celebriamo insieme, in questo giorno, il memoriale della salvezza. La Pasqua è il segno visibile e istituzionale della continuità tra Israele e la Chiesa.


C’è un testo che gli Ebrei recitavano - e recitano tuttora - durante il Seder pasquale. Melitone di Sardi lo ha fatto suo e lo ha introdotto nella liturgia cristiana, proprio nel brano dell’omelia che abbiamo letto ieri (segno che, nonostante la polemica verbale, c’era ancora, a quel tempo, una notevole conoscenza e osmosi tra le due comunità). Lo recitiamo insieme, in questo giorno, noi e loro, in spirito di comune lode e ringraziamento a Dio:


Egli ci ha fatti passare:
dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia,
dal lutto alla festa,
dalle tenebre alla luce,
dalla servitù alla redenzione


(Pesachim X, 5; cfr Melitone, Sulla Pasqua, 68;
SCh 123, pp. 96-98).


Aggiungiamo:
Ci ha fatti passare dall’ostilità alla amicizia.
Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo.
Possiamo prepararci a varcare, riconciliati, la soglia del nuovo millennio.