mercoledì 30 gennaio 2013

Degno della fiamma che ci consuma

Di seguito il Vangelo di oggi, 31 gennaio, giovedi della III settimana del T.O., con un commento.



Siate uomo, Pietro.
Siate degno della fiamma che vi consuma.
E se bisogna essere divorati,
sia ciò su un candelabro d'oro
come il Cero Pasquale in mezzo al coro
per la gloria di tutta la Chiesa
Paul Claudel, "L'Annuncio a Maria"






Dal Vangelo secondo Marco 4,21-25.
Diceva loro: «Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O piuttosto per metterla sul lucerniere? Non c'è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per intendere, intenda!». Diceva loro: «Fate attenzione a quello che udite: Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi; anzi vi sarà dato di più. Poiché a chi ha, sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha». 


Il commento

Per amore Dio si è fatto carne, ha vinto la morte e il peccato, e ha scelto un manipolo di uomini per inviarli ad annunciare il Kerygma, la Notizia della loro liberazione. Ha chiamato gli Apostoli innanzi tutto perché stessero con Lui, gli amici intimi ai quali, come ad Abramo “confidare i misteri del regno di Dio”; la Scrittura, infatti, profetizzava già questa amicizia tra Dio e i suoi eletti: "Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico" (Isaia 41,8). Gli Apostoli sono la discendenza di Abramo, chiamati come lui a dare origine ad una storia di salvezza per tutte le genti. Ma ora Dio ha carne e ossa, un volto, due occhi, una voce, è accanto a loro a parlare del Cielo, del Padre, dell'amore infinito che si compirà sul Golgota. E' Gesù che, giorno dopo giorno, con parole e segni, educa e forma nella fede i suoi Apostoli, la sua Chiesa. Esattamente come continua a fare da secoli, scegliendo dal mondo quelli che Egli vuole, per plasmarli nell'incontro profondo ed esistenziale con Lui, per conoscere intimamente il “tutto ciò” di cui essi sarannotestimoni (cfr Lc 24,48), la fiamma che arde nella “lampada”: "tutto ciò vuole dire innanzitutto la Croce e la Risurrezione; i discepoli hanno visto la crocifissione del Signore, vedono il Risorto e così cominciano a capire tutte le Scritture che parlano del mistero della Passione e del dono della Risurrezione.Tutto ciò è il mistero di Cristo, attraverso il quale – questo è il punto essenziale - conosciamo il volto di Dio". Ma "come possiamo noi essere testimoni di tutto ciò? Possiamo essere testimoni solo conoscendo Cristo, solo se lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro personale con Cristo. Incontrandolo realmente nella nostra vita di fede diventiamo testimoni e possiamo così contribuire alla novità del mondo, alla vita eterna" (Benedetto XVI). E’ Cristo dunque la lucerna portata, "che viene sul lucerniere”, secondo l'originale greco. E' Cristo che viene nei suoi Apostoli, risorto e vivo nella sua Chiesa: "Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini" (Lumen Gentium). Il Vangelo odierno rivela il desiderio di Cristo per gli Apostoli di ogni tempo, anche per noi. Non siamo stati chiamati nella Chiesa per vedere risolti i problemi; Dio non ha moltiplicato segni e prodigi d'amore e misericordia perché li “nascondessimo sotto il moggio”. I talenti del suo Spirito, le opere che Lui ha compiuto e sta compiendo in noi e nella sua Chiesa, sono per essere poste sul candeliere, uno spettacolo per il mondo. “Nessun segreto sarà tenuto nascosto”, il nostro Dna è lo stesso di Cristo, ed una vita vissuta contro la sua natura diviene immediatamente uno scandalo: un cristiano che vive come un pagano è la caricatura più ridicola che il mondo abbia visto. Come i preti che si infilano giacca e cravatta per compromettersi col mondo, mentre tutto di loro ne svela inesorabilmente l'identità.

Non possiamo continuare a fuggire come Giona, perché sono le cellule che abbiamo ricevuto, la Grazia infinita di una vita salvata e riscattata, a testimoniare per noi. Certo, passiamo e passeremo per molte crisi, la paura e il richiamo del mondo sono forti. Così come "la stanchezza e il disincanto, la routine e il disinteresse, e, soprattutto, la mancanza di gioia e speranza" (Paolo VI). Come Giona siamo spesso perfino invidiosi dell'amore di Dio, perché esso contrasta con i nostri criteri carnali. Allora, come Giona, dovremo entrare mille volte nel ventre della balena, e restare in quel buio di angoscia, per sperimentare, sempre più profondamente, che la fuga, la tiepidezza e il compromesso spalancano sempre le fauci del fallimento e della solitudine. Scenderemo ancora fin sull'orlo del baratro per sperimentarvi la Grazia della misericordia, la risurrezione delle nostre esistenze che ci catapulteranno, più maturi e consapevoli, nell'ineludibilità della missione a cui siamo stati destinati. Per giungere alla certezza d'essere chiamati davvero ad essere il riflesso splendente della Luce di Cristo. Scriveva Sant'Ambrogio della Chiesa: “fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine - splende non di propria luce, ma di quella di Cristo”. Per questo Gesù ci ammonisce a ben “guardare” la Parola che ascoltiamo, secondo l'originale greco tradotto con "fate bene attenzione". Ed è un verbo legato all’esperienza della risurrezione, usato nel Vangelo per definire l'esperienza visiva dei discepoli dinnanzi a Cristo risorto. Guardare Cristo, fissarlo, contemplarlo “senza misura”, per lasciarsi immergere nella sua luce vittoriosa. “Misurare” bene l'amore significa rendersi conto che non v'è misura per misurarlo, e sperimentare nella propria debolezza, come la luna, tra i crateri affettivi e le fasi dell'umore, la sorpresa di una Luce che non ha inizio né fine, e che aumenta e ci viene “data” sempre più: «La Chiesa prende il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Davvero sei felice tu, o luna, che hai meritato un segno così grande!» (Sant'Ambrogio). Siamo dunque chiamati ad “avere” questo amore, ad essere ricolmi della sua Luce. Chi non ha Cristo, non ha nulla, e vedrà evaporare nel nulla anche ciò che crede di possedere. Sarebbe stolto, infatti, avere un tesoro e nasconderlo, essere avvolti dal buio e, possedendo una “lampada”, metterla sotto il moggio o sotto il letto. Eppure è una stoltezza diffusa. Nella parabola dei talenti Gesù definisce malvagio il servo che, per paura, ha nascosto il talento. Si tratta della malvagità pensata nel cuore, che scaturisce dall'ignoranza di Lui, del suo amore, della sua missione. E' la condizione del mondo, affogato nell'oscurità del suo Principe: non può comprendere le parabole, i misteri del Regno che in esse vi sono celati perché sia svelato il cuore di chi le ascolta. Quando è semplice e umiliato nella propria debolezza che fa urgente il bisogno di salvezza e libertà, esso riesce a intercettare l’amore che le parabole annunciano, riconoscendo in esse la profezia del Messia. Coloro, invece, che, orgogliosi e schiavi della propria presunta giustizia, “misurano” con avarizia l’amore di Dio, non possono accettare la sua gratuità, “guardano, ma non vedono, ascoltano, ma non intendono”, perché significherebbe accettare i propri limiti: si mettono “fuori” dal raggio della Grazia, e si vedono “tolti” il “perdono e la conversione” che, gratuitamente, “hanno” già ricevuto da Gesù. Così tutti quelli che ascoltano senza “guardare” intensamente Cristo per accogliere la sua vittoria sul peccato, sono “misurati con la stessa misura con la quale misurano”: non si tratta di durezza e severità, ma dell’estremo atto d’amore con il quale Dio cerca di scuoterli perché riconoscano la propria stolta durezza di cuore e si aprano alla sua misericordia. Ma noi siamo chiamati anche oggi a fissare Cristo per rimanere “dentro” il suo amore, a essere crocifissi con Lui ogni giorno sul “candelabro” della storia che ci attende; spesso sembra che gli eventi e le persone che ci crocifiggono ci assorbano al punto di toglierci la vita: è vero, per essi perdiamo la vita della carne, ma, come il roveto ardente dal quale Mosè ha ascoltato la Parola, la Croce ci brucia senza consumarci, e ci chiama inviandoci nella missione più urgente. Così ogni evento, difficoltà, sofferenza, angoscia che incontriamo nel fluire dei giorni, costituiscono la Croce benedetta dove vivere l'intimità con Cristo, il candelabro prezioso sul quale risplende il suo amore; in esso viviamo la vita di un Altro, per non essere "evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti o ansiosi", bensì "ministri del Vangelo la cui vita irradii fervore e che abbiano per primi ricevuto in loro stessi la gioia di Cristo" (Paolo VI): la gioia di “guardare” con gli occhi della fede e scoprire che tutto è santo, e “ascoltare” l’infinita misura del suo amore nei sussurri della storia.