venerdì 18 gennaio 2013

Quel che Dio esige da noi

(Andrea Palmieri, Sotto-Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozionedell’Unità dei Cristiani) Nel 2012 è proseguito il cammino di preparazione di una nuova sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme. L’ultima sessione plenaria della Commissione mista ha avuto luogo a Vienna nel 2010. Al termine della riunione, è stata accantonata l’idea di preparare un documento comune sul primato del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa del primo millennio, che avrebbe dovuto approfondire la riflessione sull’affermazione centrale del documento di Ravenna, Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità (2007), sulla necessità di un primato nella Chiesa anche a livello universale. Tale decisione è dovuta alle difficoltà nel giungere a interpretazioni condivise delle testimonianze storiche, soprattutto patristiche e canoniche, sulla tematica. Nella stessa sessione plenaria, i membri si sono impegnati a proseguire il lavoro della Commissione con la redazione di un nuovo testo sulla relazione teologica ed ecclesiologica tra primato e sinodalità. 
Seguendo le indicazioni della plenaria, è stato avviato il complesso iter di redazione del nuovo documento. Nel giugno del 2011, si è riunito a Rethymno, nell’isola di Creta, un gruppo di redazione, per preparare un testo da sottoporre all’esame del Comitato di coordinamento della Commissione mista. Lo studio del testo è iniziato durante una riunione tenutasi a Roma nel novembre del 2011, dove però non è stato possibile portare a compimento l’intero lavoro. Il Comitato di coordinamento della Commissione mista internazionale si è riunito nuovamente dal 19 al 23 novembre 2012, a Parigi, grazie alla generosa ospitalità offerta dal metropolita di Francia, Emmanuel Adamakis, del Patriarcato ecumenico. Alla riunione, che era co–presieduta dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e dal metropolita di Pergamo, Ioannis Zizioulas, del Patriarcato ecumenico, erano presenti sette membri cattolici, mentre da parte ortodossa partecipavano nove membri in rappresentanza del Patriarcato ecumenico, del Patriarcato greco ortodosso di Alessandria, del Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme, del Patriarcato di Mosca, del Patriarcato di Serbia, del Patriarcato di Romania, della Chiesa di Cipro e della Chiesa di Grecia. Dopo una lunga e accurata analisi del testo, il Comitato di coordinamento è giunto a un sostanziale consenso sul fatto che la bozza di documento, emendata in più punti, possa essere presentata a una prossima sessione plenaria della Commissione mista. Inoltre, trattandosi di un testo ancora provvisorio, i membri del Comitato sono stati unanimi nello stabilire che la bozza del documento resti sotto embargo fino a quando la Commissione non deciderà in merito alla sua pubblicazione. Nel corso della riunione di Parigi non è stato possibile, per motivi pratici, fissare date precise per la prossima sessione plenaria della Commissione mista, ma è stato proposto che tale riunione abbia luogo alla fine del 2013 o all’inizio del 2014. 
La conclusione del processo di redazione del testo sulla relazione tra primato e sinodalità, nella vita della Chiesa a livello locale, regionale e universale, rappresenta un risultato certamente positivo, che si spera possa offrire un quadro teologico e ecclesiologico per affrontare in seguito la spinosa questione della modalità dell’esercizio del primato del vescovo di Roma a livello universale quando la piena comunione tra le Chiese di Oriente e di Occidente sarà finalmente ristabilita. La preparazione di questo testo ha richiesto un lungo e complesso lavoro in quanto, attraverso una franca presentazione delle proprie posizioni e un vivace confronto mirato a chiarire i punti essenziali, si è cercato di far emergere quanto è possibile affermare insieme, cattolici e ortodossi, sul delicato tema in oggetto, seguendo la metodologia che la Commissione mista internazionale si è data sin dalla sua istituzione nel 1980, piuttosto che limitarsi a esporre in modo comparativo le differenze che ancora ci separano. Questa scelta metodologica ha presupposto uno sforzo, per così dire, teologicamente creativo, per trovare, senza tradire in alcun modo la dottrina di fede, nuovi modi di esporre insieme il patrimonio tradizionale della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa, superando le contrapposizioni polemiche e apologetiche che nel corso dei secoli si sono sviluppate da entrambe le parti.
Sarà innanzitutto la Commissione mista internazionale nella sua prossima plenaria a valutare se tale passo è stato adeguatamente realizzato nella bozza di documento che sarà presa in esame in quella sede. Da questo punto di vista, non mancano oggettivamente difficoltà, non solo perché permane una certa diversità nell’approccio alla tematica in oggetto tra cattolici e ortodossi, ma anche perché esistono diversi punti di vista sulla questione all’interno delle stesse delegazioni. 
Un forte incoraggiamento a proseguire il dialogo tra cattolici e ortodossi è stato espresso da Papa Benedetto XVI nel suo messaggio al Patriarca ecumenico Bartolomeo, trasmesso da una delegazione ufficiale della Santa Sede in occasione della festa di sant’Andrea apostolo, patrono del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, celebrata lo scorso 30 novembre al Fanar in Istanbul. Il Santo Padre, consapevole dei progressi finora compiuti ma anche delle difficoltà tutt’ora esistenti, ha ribadito l’importanza di procedere insieme con fiducia nel cammino che conduce al ristabilimento della piena comunione: «In questo cammino, grazie anche al sostegno assiduo e attivo di Vostra Santità, abbiamo compiuto tanti progressi, per i quali le sono molto riconoscente. Anche se la strada da percorrere può sembrare ancora lunga e difficile, la nostra intenzione di proseguire in questa direzione resta immutata, confortati dalla preghiera che nostro Signore Gesù Cristo ha rivolto al Padre: “siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda” (Giovanni, 17, 21)”».
Un motivo di grande speranza per ulteriori progressi in questo dialogo viene, inoltre, dai recenti sviluppi relativi alla prossima convocazione del grande sinodo pan-ortodosso. A questo proposito, il Patriarca ecumenico, nel discorso rivolto alla delegazione della Santa Sede al termine della celebrazione della festa di Sant’Andrea, più sopra ricordata, così si esprimeva: «La nostra santa Chiesa ortodossa si trova nella lieta posizione di poter annunciare che i preparativi per il suo santo e grande sinodo sono stati quasi completati, sono nelle fasi finali e presto verrà convocato. Si pronuncerà, tra le altre cose, sulle questioni del dialogo tra l’ortodossia e le altre Chiese, e prenderà decisioni adeguate nell’unità e nell’autenticità, al fine di procedere verso l’unità di fede nella comunione dello Spirito Santo». 
Quanto è stato realizzato nel corso del 2012 acquista particolare senso alla luce del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II che, come è noto, ricorreva lo scorso 11 ottobre. Il Vaticano II, infatti, ha dato inizio a un periodo nuovo nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa e in tal modo ha aperto la strada all’istituzione della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico. Significativamente, Papa Benedetto XVI, salutando i membri della delegazione del Patriarcato ecumenico giunti a Roma per partecipare alle celebrazioni in onore dei santi Pietro e Paolo, patroni della città e della Chiesa di Roma, lo scorso 29 giugno, affermava: «È proprio in concomitanza con questo concilio, al quale, come ben sapete, erano presenti alcuni rappresentanti del Patriarcato ecumenico in qualità di delegati fraterni, che ebbe inizio una nuova importante fase delle relazioni tra le nostre Chiese. Vogliamo lodare il Signore innanzitutto per la riscoperta della profonda fraternità che ci lega, e anche per il cammino percorso in questi anni dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, con l’auspicio che anche nella fase attuale si possano fare dei progressi». Un segno particolarmente eloquente della profondità delle relazioni che legano la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa è stata sicuramente la presenza del Patriarca ecumenico Bartolomeo accanto a Papa Benedetto XVI sul sagrato della basilica di San Pietro in Vaticano durante la celebrazione eucaristica, la mattina dell’11 ottobre 2012, in occasione della commemorazione del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II e dell’inizio dell’Anno della fede. Nel saluto che il Patriarca ecumenico rivolgeva al Santo Padre e a tutti i presenti, prima della conclusione della messa, tra le altre cose egli osservava che «nel corso degli ultimi cinque decenni, le conquiste raggiunte da questa assemblea sono state varie. Abbiamo contemplato il rinnovamento dello spirito e il “ritorno alle origini” attraverso lo studio liturgico, la ricerca biblica e la dottrina patristica. Abbiamo apprezzato lo sforzo graduale di liberarsi dalla rigida limitazione accademica all’apertura del dialogo ecumenico che ha condotto alle reciproche abrogazioni delle scomuniche, lo scambio di auguri, la restituzione delle reliquie, l’inizio di dialoghi importanti e le visite reciproche nelle nostre rispettive sedi». L’impegno profuso, nel corso dell’anno che da poco si è concluso, per il proseguimento del prezioso lavoro della Commissione mista internazionale può essere considerato, dunque, come un piccolo passo in avanti nel lungo viaggio verso la piena comunione visibile tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Anche se la strada appare non priva di ostacoli, dobbiamo rallegrarci del fatto che questo cammino continua. La constatazione della sincera disponibilità dei cattolici e degli ortodossi di proseguire in questa direzione e la profonda fiducia nell’opera della grazia che agisce nella nostra storia permettono di mantenere viva anche oggi la speranza, coltivata dai padri conciliari, «che, tolta la parete che divide la Chiesa occidentale dall’orientale, si avrà finalmente una sola dimora solidamente fondata sulla pietra angolare, Cristo Gesù, il quale di entrambe farà una cosa sola» (Unitatis redintegratio, n. 18).
L'Osservatore Romano, 19 gennaio 2013.


L’ecumenismo sta facendo grandi passi avanti, grazie anche a un pontefice come Benedetto XVI, che sta riformando la Chiesa in assoluta coerenza con l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Lo afferma monsignor Bruno Forte, teologo di fama internazionale, grande fautore ed esperto di ecumenismo.
In qualità di arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Forte si è recato nei giorni scorsi in visita ad limina dal Santo Padre, assieme agli altri vescovi dell’Abruzzo e del Molise. Durante il suo breve soggiorno romano, ZENIT ha incontrato e intervistato il teologo, cogliendo l’occasione per riflettere sui temi dell’ecumenismo, alla vigilia della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio).
Eccellenza, qual è lo stato di salute dell’ecumenismo a 50 anni dal Concilio Vaticano II?
Mons. Forte: Il beato Giovanni XIII, nel suo discorso d’apertura del Concilio (11 ottobre 2012), sottolineando quanto fosse importante vincere la sfiducia e guardare con fede all’azione di Dio nella storia, evidenziava come priorità del Concilio l’unità dei battezzati. Naturalmente l’unità tra tutti i cristiani non è realizzabile se alla base non c’è una profonda unità con Dio. In un certo senso l’ecumenismo non è la conversione da una chiesa all’altra ma la conversione di tutti i battezzati a Cristo.
Vedo poi una profonda continuità tra il Magistero di Benedetto XVI e l’insegnamento del Concilio. Ritengo che questo papa sia un riformatore e che lo sia proprio nel punto fondamentale proposto del Concilio, cioè la fede. Egli chiama la Chiesa a rinnovarsi non in un “aggiustamento di struttura” ma in un ritorno a Cristo, affermandone il primato assoluto e vivendo nella sequela e nella testimonianza di Lui. Quanto più la Chiesa realizzerà questo programma, tanto più potremmo dire che il cammino ecumenico crescerà.
Una seconda considerazione riguarda le differenze tra le chiese: se a volte il frutto dei dialoghi non è stato - come qualcuno, forse un po’ ingenuamente si aspettava - un immediato processo di riunificazione o comunque di forte riavvicinamento, è anche perché la riflessione sulla verità porta anche a conoscere le differenze. Naturalmente, alla luce dello spirito e della fede, le differenze non vanno riconosciute semplicemente per fissarle come elementi insuperabili ma per comprendere se, nonostante le differenze stesse, che vanno viste con estrema lucidità e chiarezza, non ci sia una sorgente di unità più profonda che, anche a livello dottrinale, può essere scoperta.
Quanto è stato fatto, in particolare, nel dialogo con le chiese ortodosse?
Mons. Forte: La Commissione Mista per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, di cui sono membro, ha prodotto nel 2007 il Documento di Ravenna dove per la prima volta tutte le autocefalie ortodosse hanno riconosciuto che il principio fondamentale dell’ecclesiologia orientale espresso nei Canoni degli Apostoli al n°21 (perché ci sia Chiesa occorre un primo e un capo). Questo principio, che le chiese ortodosse hanno sempre applicato a livello di Chiesa locale (alla base c’è il vescovo, poi il metropolita, infine, al vertice, il patriarca), è stato applicato anche a livello universale. C’è bisogno di un primo e di un capo a livello universale, che possa essere voce di tutta la Chiesa, e questo primo capo - lo riconoscono anche i fratelli ortodossi - non può che essere il vescovo di Roma, perché Roma è la prima della “pentarchia”, cioè delle cinque grandi chiese patriarcali del mondo antico. Sebbene talora questo dialogo abbia avuto dei contraccolpi alla base – alcune comunità ortodosse hanno accusato i loro patriarchi di essere troppo accondiscendenti verso Roma – si tratta di un cammino di grande e reciproco ascolto e di ascolto di Dio ed è la carità che deve sostenere l’impegno ecumenico.
All’inizio del suo pontificato, Benedetto XVI era stato visto come un papa che avrebbe frenato il dialogo ecumenico. I risultati di questi anni sembrano però dimostrare l’esatto contrario…
Mons. Forte: Innanzitutto dobbiamo sottolineare il rapporto profondo del magistero di Benedetto XVI con il Concilio Vaticano II. Egli, che del Concilio fu consulente teologico, ha ribadito più volte, che il Vaticano II – come disse anche il beato Giovanni Paolo II - resta la “bussola del nostro tempo”. È un papa che vuole rilanciare il Vaticano II ma vuole farlo nel modo giusto, cioè non in una superficiale contrapposizione tra “rottura” e “continuità”, quasi come se il Vaticano II fosse un elemento di lacerazione e rottura con la grande tradizione cattolica. Egli vuole invece evidenziare come, nel Vaticano II, lo spirito ha agito nella Chiesa, perché, nella fedeltà alla sua identità e al suo principio, che è il Cristo vivente, la Chiesa possa rinnovarsi e annunciare il Vangelo in modo comprensibile ed efficace per le donne e gli uomini di oggi. In questo spirito anche la causa dell’unità dei cristiani, è fatta propria da papa Benedetto in modo convinto, come dimostrano tutte le iniziative di questi anni di pontificato e tutte le occasioni in cui egli ha affermato che l’ecumenismo non è solo un’attività tra le altre ma una dimensione fondamentale della vita della Chiesa. Più che pensare, allora, come qualcuno vorrebbe suggerire, ad una sorta di cambiamento rispetto alle intuizioni del Concilio in campo ecumenico, il Papa rappresenta un approfondimento, che è qualcosa di ben diverso. Si tratta cioè di accogliere le grandi acquisizioni del Concilio e di portarle alla loro radice più profonda che è, appunto, una visione trinitaria della Chiesa, una visione che nella Trinità trova la sua origine. Così come nella Trinità, tre sono uno, pur essendo ognuno se stesso, così nella Chiesa c’è un’unità profonda nella Chiesa cattolica che si realizza nella varietà profonda delle chiese particolari, ovvero la dimensione storica di quest’unico mysterium ecclesiae.
Non bisogna avere la fretta di compiere passi compromissori ma bisogna avere la fiducia e la speranza di un cammino che porti alla piena realizzazione del disegno di Dio. In questa ottica il magistero di Benedetto XVI può essere colto in tutto il suo potenziale di profondità e di ricchezza nella continuità con il messaggio del Vaticano II.

Strumenti come l’ordinariato, scelto dal Santo Padre per il reintegro dei fedeli anglicani, potranno essere utili anche per altre comunità acattoliche?
Mons. Forte: Alla base di questo c’è un’intuizione di Giovanni Paolo II che, nella Ut unum sint, si era dichiarato disposto a rivedere l’esercizio del primato, perché potesse essere accolto da battezzati di altre tradizioni cristiane. L’idea è che bisogna distinguere tra un contenuto di verità teologica di unità della Chiesa, affidato al vescovo di Roma, e le modalità del suo esercizio, che possono essere naturalmente diversificate come l’esperienza storica dimostra.
Ci può essere uno spirito di unità che ha fatto maturare la Chiesa latina e ci può essere uno spirito di unità come quello che lega le Chiese orientali cattoliche e la Santa Sede. Inoltre ci potranno essere altre modalità come queste ultime forme sperimentali dell’ordinariato per gli anglicani. Esso sta avendo qualche segnale di accoglienza anche se non nei numeri che forse astrattamente si potevano pensare; attenzione, però, questo non vuol dire che l’intuizione non sia felice: significa, invece, che molti anglicani, che sono di fatto entrati nella Chiesa cattolica, tra cui tantissimi sacerdoti, vogliono vivere questa piena comunione con Roma, sentendosi a tutti gli effetti cattolici. Dunque la formula dell’ordinariato potrà valere per quegli anglicani che sono particolarmente legati allo specifico della tradizione anglicana nella liturgia, nella forma della preghiera, senza per questo compromettere la piena comunione dottrinale e pastorale con la Chiesa di Roma. Dobbiamo quindi essere aperti ad una pluralità di possibilità, cioè ad una comunione che si realizzi, come per gli anglicani, in una semplice e piena comunione con la Chiesa cattolica, senza rinnegare il bene ricevuto nella comunione anglicana ma portando questo bene a pieno compimento nella Chiesa cattolica. Potranno esserci anglicani che vorranno trovare una comunione con Roma che passi attraverso un visibile mantenimento di alcuni elementi caratteristici della loro identità e tradizione. Benedetto XVI, con le sue scelte, ha dimostrato di essere aperto a tutte le possibilità, sostenendole e incoraggiandole perché si realizzi la preghiera di Gesù per l’unità di tutti i cristiani.
Come si spiegano i “successi ecumenici” di Benedetto XVI?
Mons. Forte: Il Papa, rispondendo a questa domanda, direbbe che se ci sono dei successi, questi sono unicamente opera dello Spirito Santo e che ciò che si è raggiunto è probabilmente ancora troppo poco rispetto a ciò che il Signore si aspetta dalla sua Chiesa. Questa è una delle sue caratteristiche di uomo di fede che vede le cose nell’orizzonte ultimo e non esalta mai troppo i traguardi raggiunti nel penultimo. In altre parole c’è ancora tanto da fare. L’ecumenismo è ancora una grande promessa e una grande chiamata, per certi aspetti anche una grande sfida. La tentazione peggiore sarebbe quella dello scoraggiamento, di pensare che questa unità non possa mai essere raggiunta. Su questo il Papa chiama a reagire con una grande fiducia nell’opera di Dio e nella sua volontà. La tentazione opposta potrebbe essere quella di affrettare a tutti i costi l’unità con passi che potrebbero essere giustificati più dall’irenismo che non dall’obbedienza alla verità. Su questo il magistero di Benedetto XVI ci mette in guardia: non si potrà costruire l’unità se non nella verità. D’altra parte, la verità cristiana è inseparabile dalla verità, quindi unità-verità-carità sono i tre poli di un unico cammino che vanno tenuti insieme.
Che valore ha, invece, il tentativo di riconciliazione con la Fraternità San Pio X?
Mons. Forte: Anche su questo papa Benedetto ha dimostrato grande carità e grande apertura. La Sommorum Pontificum e le sue norme applicative rendono possibile a chi, in maniera aperta alla pienezza cattolica, voglia vivere quello che è stato il patrimonio liturgico del passato. Personalmente sono convinto che la liturgia del Vaticano II sia davvero ricca e “tradizionale”, quindi non comprendo come mai queste nostalgie possano nascere; tuttavia ci sono e il Papa ha dimostrato grande rispetto ed accoglienza. C’è però un punto irrinunciabile con cui la comunità fondata da mons. Lefevre dovrà misurarsi: l’accettazione piena e convinta del Concilio Vaticano II nei suoi contenuti dottrinali. Il rifiuto del Concilio non è il rifiuto di un singolo momento della vita della Chiesa: la sua accettazione è parte integrante dell’accettazione della Chiesa Cattolica nel suo complesso.
Come va vissuto il dialogo ecumenico a livello diocesano e parrocchiale?
Mons. Forte: L’ecumenismo è certamente entrato nella Chiesa Cattolica come una dimensione irrinunciabile. Naturalmente ogni comunità lo vive in modo differente: ci sono chiese che devono confrontarsi quotidianamente con ortodossi o evangelici sul loro territorio ed altre che vivono di meno questa realtà. Ci sono comunque dei principi base che vanno seguiti da tutti. La Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, ad esempio, andrebbe sempre più valorizzata, a mio avviso. Anche nella pastorale giovanile e per gli adulti e nelle catechesi va attribuita sempre più importanza alla preghiera per l’unità.
Nella mia diocesi di Chieti-Vasto, essendoci numerosi ortodossi, ho aderito ad una richiesta del metropolita Dervos, a seguito della quale ho affidato una chiesa a un parroco ortodosso. In una comunità avventista, il pastore è venuto ad accogliermi con un’attenzione e un amore commoventi, invitandomi poi a parlare alla loro facoltà teologica a Firenze, sulla Parola di Dio. A livello di vissuto, le esperienze ecumeniche sono molto serene: lo stesso vale per le comunità valdesi che da secoli sono in mezzo a noi.
C’è solo qualche comunità fondamentalista come i testimoni di Geova, con i quali non è possibile alcun dialogo perché non lo vogliono e lo fuggono, specie se hanno davanti persone con una buona formazione cristiana. In quel caso è la maturazione della vita cristiana che deve essere più eloquente di ogni parola. Vedo, ad esempio, che in alcune parrocchie si assiste al ritorno di molti ex testimoni di Geova o alla loro conversione tout court. Quando, in occasione di un corso prematrimoniale, ho chiesto a degli ex testimoni di Geova come mai fossero tornati, la riposta è stata: “perché nella Chiesa sentiamo liberi”. Il Dio cristiano non è un Dio che ci spaventa o che ci impone la sua volontà ma è un Dio che ci chiama con vincoli d’amore e questo ci dà molta gioia.
Qual è il significato profondo del tema della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani di quest’anno?
Mons. Forte: Quest’anno il tema della preghiera per l’unità dei cristiani è basato su una frase dal libro del profeta Michea: Quel che Dio esige da noi (Mi 6,6-8). Il fondamento di questa riflessione, scelta da una commissione mista di cattolici, ortodossi e protestanti è la volontà di realizzare quello che il Signore vuole per noi. Tre sono le indicazioni fondamentali: la prima è l’indicazione della pietà, il Signore chiede misericordia ai suoi. La pietà è quell’atteggiamento profondo di abbandono in Dio ed affidamento al suo assoluto primato. Michea chiede di riconoscere questo primato del Signore come sorgente e riferimento di tutte le nostre scelte. Questo punto è l’idea fondamentale su cui insiste tanto il Pontefice. In Michea l’affidamento alla misericordia è il segno della ricerca continua di misurarsi sulla volontà di Dio.
In secondo luogo c’è la giustizia. Come mostrano i commenti ecumenici, la giustizia viene intesa anche nella sua dimensione fortemente sociale. Vengono riconosciuti i diritti dei poveri e dei deboli. Spesso una cooperazione a servizio dei poveri e finalizzata ad una giustizia più forte è possibile, dove non si possa portare avanti una comunione dottrinale, perché mancano gli strumenti.
Infine l’umiltà: non siamo noi i protagonisti dell’unità ma essa viene da Dio e ciò che viene chiesto a noi è soprattutto invocare l’opera di Dio. Credo che senza umiltà non sarà mai possibile realizzare l’unità che il Signore ci chiede. Ecco perché il testo di Michea diventa un’importante programma ecumenico, soprattutto in un’epoca in cui alcuni parlano di “inverno ecumenico”, quando invece bisognerebbe guardare con occhi di fede, perché, alla vigilia della primavera, il seme sta morendo per dare il suo frutto.

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Durante il suo breve soggiorno a Roma, dove parteciperà alla Plenaria del Pontificio consiglio Cor Unum, monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca, è stato raggiunto da ZENIT per un’intervista sui temi dell’ecumenismo e della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, che si apre oggi.
Eccellenza, in quali circostanze è avvenuta la sua nomina ad arcivescovo di Mosca?
Mons. Pezzi: Mi trovavo in missione a Mosca ormai da 4 anni, dopo aver svolto la mia missione in Siberia per 5 anni. Era il 2007 ed ero stato nominato da un anno Rettore del Seminario Cattolico a San Pietroburgo.
Cosa significa per un italiano guidare la più importante diocesi del più grande paese ortodosso?
Mons. Pezzi: Per me è stato accogliere umilmente la richiesta del Papa Benedetto XVI. Nella mia vita ho imparato che a rispondere di sì a Dio non si sbaglia mai. In questo senso cambiano le circostanze della vita, ma la cosa importante è rispondere sì a Cristo quando chiama. La Russia è veramente un grande Paese ed effettivamente la religione più diffusa è il cristianesimo ortodosso. Per me, italiano di origine e di storia, è stata anzitutto una umile disponibilità al Mistero di Dio. Quando venni nominato vescovo cattolico a Mosca, un giovane cattolico mi chiese se, come italiano e come cattolico, non mi sentivo straniero. Ed io gli risposi che con Gesù Cristo non mi sentivo straniero. E che senza Cristo sarei stato estraneo anche a me stesso. In questi anni cerco di non dimenticare questa verità.

La Russia post-comunista è un ricettacolo di contraddizioni. Tra le realtà più desolanti figurano la corruzione, l’alcolismo e, soprattutto, il crollo demografico. Per contro si registra una rinascita religiosa dopo anni di persecuzione comunista. Quest’ultimo elemento è riscontrabile nella sua esperienza pastorale?
Mons. Pezzi: La rinascita religiosa è senz’altro una caratteristica della Russia post-comunista. Direi che essa si manifesta soprattutto come domanda ultima di senso per la vita e per la morte, è domanda di senso per andare al lavoro, per impegnarsi a studiare. Questa profonda domanda di senso riguarda i rapporti che si creano, riguarda il fare una famiglia, generare dei figli. Insomma, riguarda tutto il destino che un uomo non può eludere. Mi permetterei di dire che più di tutto mi stupisce nelle persone che incontro, soprattutto nei giovani, il fatto che nessuna situazione può eliminare la dimensione di attesa, di promessa che è ogni vita umana. A questa attesa può rispondere solo Cristo, il destino dell’uomo fattosi uomo.

Come affronta Lei, nella sua pastorale quotidiana, il dialogo con gli ortodossi?
Mons. Pezzi: Non è possibile eludere il dialogo con il cristianesimo ortodosso. Esso è presente nella mia preghiera, nella mia offerta quotidiana, nella mia missione, nell’incontro con le persone. Certo, ciò non significa parlare solo di questo, agire solo per questo, ma esso è sempre presente nel mio cuore. Poi certamente ci sono le belle opportunità di incontro con ortodossi vescovi, sacerdoti, laici. Devo dire che la dominante di questi incontri, la testimonianza, è sempre sullo sfondo. La testimonianza è la forza più grande del fedele cristiano: un uomo entusiasta, lieto e grato per la sua fede diviene, a Dio piacendo, un fattore di conversione a Cristo.

Nell’agenda del suo pontificato, Papa Benedetto XVI riserva un ruolo di primo piano all’ecumenismo. Che risultati ha avuto, a suo avviso, in ambito ortodosso?

Mons. Pezzi: Penso che la passione per l’unità sia uno dei tratti più commoventi del pontificato di Papa Benedetto XVI. Personalmente mi ha toccato fin dal principio. E ricordo con particolare commozione la celebrazione del Vespro durante il Sinodo dei Vescovi del 2008 assieme al Patriarca Ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli in cui il Papa domandò: “ma se abbiamo gli stessi padri, perché non possiamo essere fratelli?”. In ambito ortodosso russo la passione per Cristo di questo Papa è toccante e particolarmente considerata. Basterebbe ricordare alcuni dei messaggi che il Papa e il Patriarca Cirillo si sono scambiati in questi ultimi anni.
È in corso la Settimana della Preghiera per l’Unità dei Cristiani. Come vivrà questi giorni?
Mons. Pezzi: Mi trovo a Roma solo per qualche giorno perché invitato dal Cardinale Robert Sarah a partecipare ai lavori della Plenaria del Pontificio Consiglio Cor Unum. In Russia avremo diverse iniziative durante questa settimana proprio per sottolineare l’importanza della preghiera per l’unità dei cristiani. Penso che l’idea fondamentale di questo anno sia stata ben individuata recentemente dal Cardinale Koch, quando ha parlato di ecumenismo, unità dei cristiani non come una illusione, ma come una promessa, ciò per cui Cristo ha pregato negli ultimi momenti della Sua vita terrena, nel Suo ultimo incontro con i Suoi, prima di essere preso e messo in Croce. Anche noi, perciò, dobbiamo domandare il dono dell’unità. Personalmente parteciperò a due momenti di preghiera, cui si uniranno altri fratelli cristiani, lunedì 21 a Mosca e giovedì 24 a San Pietroburgo. Come mi diceva un amico in questi giorni, riportando le parole di un grande padre spirituale: “le grandi opere si fanno in ginocchio”. Grazie di ciò che anche voi fate e offrite per l’unità dei cristiani.(L. Marcolivio)
Fonte: Zenit