lunedì 18 febbraio 2013

La fine del vecchio e l'inizio del nuovo




L’intervista di «Focus» al giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald, di cui abbiamo scritto nell’edizione di domenica, è stata pubblicata in Italia sul «Corriere della Sera» di oggi, 18 febbraio. L’autore dei tre libri dove sono raccolte due interviste al cardinale Ratzinger e una a Benedetto XVI sta preparando ora una biografia del Pontefice e per questo nel 2012 lo ha incontrato in estate e a dicembre. Rispondendo al settimanale tedesco Seewald tra l’altro ha ricordato che il Papa «veniva descritto come un persecutore mentre era un perseguitato, il capro espiatorio da chiamare in causa per ogni ingiustizia, il “grande inquisitore” per antonomasia, una definizione azzeccata quanto spacciare un gatto per un orso. Eppure nessuno l’ha mai sentito lamentarsi».
E ancora: «Mi colpivano la sua superiorità, il pensiero non al passo coi tempi ed ero in qualche modo sorpreso di udire risposte pertinenti ai problemi del nostro tempo, apparentemente quasi irrisolvibili, tratte dal grande tesoro di rivelazione, dall’ispirazione dei padri della Chiesa e dalle riflessioni di quel guardiano della fede che mi sedeva di fronte. Un pensatore radicale — questa era la mia impressione — e un credente radicale che tuttavia nella radicalità della sua fede non afferra la spada, ma un’altra arma molto più potente: la forza dell’umiltà, della semplicità e dell’amore. Joseph Ratzinger è l’uomo dei paradossi. Linguaggio sommesso, voce forte. Mitezza e rigore. Pensa in grande eppure presta attenzione al dettaglio. Incarna una nuova intelligenza nel riconoscere e rivelare i misteri della fede, è un teologo, ma difende la fede del popolo contro la religione dei professori, fredda come la cenere». 
Così, Benedetto XVI è descritto come uomo della tradizione che sa però «distinguere quello che è davvero eterno da quello che è valido solo per l’epoca in cui è emerso». E Seewald conclude così l’intervista: «Non è un caso che il Papa uscente abbia scelto il Mercoledì delle Ceneri per la sua ultima grande liturgia. Vedete, vuole dimostrare, era qui che vi volevo portare fin dall’inizio, questa è la via. Disintossicatevi, rasserenatevi, liberatevi dalla zavorra, non fatevi divorare dallo spirito del tempo, non perdete tempo, desecolarizzatevi! Dimagrire per aumentare di peso è il programma della Chiesa del futuro. Privarsi del grasso per guadagnare vitalità, freschezza spirituale, non da ultimo ispirazione e fascino. E bellezza, attrattiva, in fondo anche forza, per far fronte a un compito diventato tanto difficile. “Convertitevi”, così disse con le parole della Bibbia quando segnò la fronte di cardinali e abati con la cenere, “e credete al Vangelo”. “Lei è la fine del vecchio — chiesi al Papa nel nostro ultimo incontro — o l’inizio del nuovo?”. La sua risposta fu: “Entrambi”».
L'Osservatore Romano, 19 febbraio 2013.


* * *

Di seguito il testo dell'articolo di Seewald.  Dal "Corriere della Sera" di oggi, 18 febbraio.


Il nostro ultimo incontro risale a ben dieci settimane fa. Il Papa mi aveva accolto nel Palazzo
Apostolico per proseguire i nostri colloqui finalizzati al lavoro sulla sua biografia. L'udito era
calato; l'occhio sinistro non vedeva più; il corpo smagrito, tanto che i sarti facevano fatica a tenere il
passo con nuovi abiti. È diventato molto delicato, ancora più amabile e umile, del tutto riservato.
Non appare malato, ma la stanchezza che si era impossessata di tutta la sua persona, corpo e anima,
non si poteva più ignorare.
Abbiamo parlato di quando ha disertato dall'esercito di Hitler; del suo rapporto con i genitori; dei
dischi su cui imparava le lingue; degli anni fondamentali sul «Mons doctus», il monte dei dotti di
Freising dove da 1.000 anni l'élite spirituale del Paese viene introdotta ai misteri della fede. Qui
aveva tenuto le sue primissime prediche davanti a un pubblico di scolari, da parroco aveva assistito
gli studenti e nel freddo confessionale del Duomo aveva dato ascolto alle pene della gente.
Ad agosto, durante un colloquio a Castel Gandolfo, durato un'ora e mezzo, gli avevo chiesto quanto
lo avesse colpito l'affare Vatileaks. «Non mi lascio andare a una sorta di disperazione o di dolore
universale — mi ha risposto — semplicemente mi appare incomprensibile. Anche considerando la
persona (Paolo Gabriele, ndr), non capisco cosa ci si possa aspettare. Non riesco a penetrare la sua
psicologia». Sosteneva tuttavia che l'evento non gli aveva fatto perdere la bussola né gli aveva fatto
sentire la stanchezza del suo ruolo, «perché può sempre accadere». L'importante per lui era che
nell'elaborazione del caso «in Vaticano sia garantita l'indipendenza della giustizia, che il monarca
non dica: adesso me ne occupo io!».
Mai lo avevo visto così esausto, così prostrato. Con le ultime forze rimaste aveva portato a termine
il terzo volume della sua opera su Gesù, «il mio ultimo libro», come mi ha detto con sguardo triste
al momento dei saluti. Joseph Ratzinger è un uomo incrollabile, una persona capace sempre di
riprendersi rapidamente. Mentre due anni addietro, malgrado i primi disturbi dell'età, appariva
ancora agile, quasi giovanile, ora percepiva ogni nuovo raccoglitore che approdava sulla sua
scrivania da parte della Segreteria di Stato come un colpo.
«Cosa ci si deve ancora aspettare da Sua Santità, dal Suo pontificato?», gli ho chiesto.
«Da me? Da me non molto. Sono un uomo anziano e le forze mi abbandonano. Penso che basti ciò
che ho fatto». Pensa di ritirarsi? «Dipende da cosa mi imporranno le mie energie fisiche». Lo stesso
mese ha scritto a uno dei suoi dottorandi che il successivo incontro sarebbe stato l'ultimo. Pioveva a
Roma, nel novembre del 1992, quando ci incontrammo per la prima volta nel Palazzo della
Congregazione per la dottrina della fede. La stretta di mano non era di quelle che ti spezzano le dita,
la voce piuttosto insolita per un «panzerkardinal», mite, delicata. Mi piaceva come parlava delle
questioni piccole, e soprattutto delle grandi; quando metteva in discussione il nostro concetto di
progresso e chiedeva di riflettere se davvero si potesse misurare la felicità dell'uomo in base al
prodotto interno lordo.
Gli anni lo avevano messo a dura prova. Veniva descritto come un persecutore mentre era un
perseguitato, il capro espiatorio da chiamare in causa per ogni ingiustizia, il «grande inquisitore»
per antonomasia, una definizione azzeccata quanto spacciare un gatto per un orso. Eppure nessuno
l'ha mai sentito lamentarsi. Nessuno ha sentito uscire dalla sua bocca una cattiva parola, un
commento negativo su altre persone, nemmeno su Hans Küng. Quattro anni dopo abbiamo trascorso
insieme molte giornate, per parlare del progetto di un libro sulla fede, la Chiesa, il celibato e
l'insonnia. Il mio interlocutore non camminava in giro per la stanza, come fanno abitualmente i
professori. Non c'era in lui la minima traccia di vanità, né di presunzione. Mi colpivano la sua
superiorità, il pensiero non al passo coi tempi ed ero in qualche modo sorpreso di udire risposte
pertinenti ai problemi del nostro tempo, apparentemente quasi irrisolvibili, tratte dal grande tesoro
di rivelazione, dall'ispirazione dei padri della Chiesa e dalle riflessioni di quel guardiano della fede


che mi sedeva di fronte. Un pensatore radicale — questa era la mia impressione — e un credente
radicale che tuttavia nella radicalità della sua fede non afferra la spada, ma un'altra arma molto più
potente: la forza dell'umiltà, della semplicità e dell'amore.
Joseph Ratzinger è l'uomo dei paradossi. Linguaggio sommesso, voce forte. Mitezza e rigore. Pensa
in grande eppure presta attenzione al dettaglio. Incarna una nuova intelligenza nel riconoscere e
rivelare i misteri della fede, è un teologo, ma difende la fede del popolo contro la religione dei
professori, fredda come la cenere.
Così come egli stesso è equilibrato, così insegnava; con la leggerezza che gli era propria, con la sua
eleganza, la sua capacità di penetrazione che rende leggero ciò che è serio, senza privarlo del
mistero e senza banalizzare la sacralità. Un pensatore che prega, per il quale i misteri di Cristo
rappresentano la realtà determinante della creazione e della storia del mondo, un amante dell'uomo
che alla domanda, quante strade portino a Dio, non ha dovuto riflettere a lungo per rispondere:
«Tante quanti sono gli uomini».
È il piccolo Papa che con la matita ha scritto grandi opere. Nessuno prima di lui, il massimo teologo
tedesco di tutti i tempi, ha lasciato al popolo di Dio durante il suo Pontificato un'opera altrettanto
imponente su Gesù né ha redatto una cristologia. I critici sostengono che la sua elezione sia stata
una scelta sbagliata. La verità è che non c'era un'altra scelta. Ratzinger non ha mai cercato il potere.
Si è sottratto al gioco degli intrighi in Vaticano. Conduceva da sempre la vita modesta di un
monaco, il lusso gli era estraneo e un ambiente con un comfort superiore allo stretto necessario gli
era completamente indifferente.
Ma restiamo alle presunte piccole cose, spesso molto più eloquenti delle grandi dichiarazioni, dei
congressi e dei programmi. Mi piaceva il suo stile pontificale; che il suo primo atto sia stata una
lettera alla Comunità ebraica; che abbia tolto la tiara dallo stemma, simbolo anche del potere terreno
della Chiesa; che ai sinodi vescovili chiedesse di parlare anche agli ospiti di altre religioni — anche
questa una novità.
Con Benedetto XVI per la prima volta l'uomo al vertice ha preso parte al dibattito, senza parlare
dall'alto verso il basso, bensì introducendo quella collegialità per la quale si era battuto nel Concilio.
Correggetemi, diceva, quando presentava il suo libro su Gesù che non voleva annunciare come un
dogma o apporvi il sigillo della massima autorità. L'abolizione del baciamano è stata la più difficile
da attuare. Una volta ha preso per un braccio un ex studente che si inchinava per baciare l'anello,
dicendogli: «Comportiamoci normalmente». Tante prime volte. Per la prima volta un Papa visita
una sinagoga tedesca (e successivamente più sinagoghe nel mondo di tutti i papi prima di lui messi
assieme). Per la prima volta un Papa visita il monastero di Martin Lutero, un atto storico senza
eguali.
Ratzinger è un uomo della tradizione, si affida volentieri a ciò che è consolidato, ma sa distinguere
quello che è davvero eterno da quello che è valido solo per l'epoca da cui è emerso. E se necessario,
come nel caso della messa tridentina, aggiunge il vecchio al nuovo, poiché insieme non riducono lo
spazio liturgico, bensì lo ampliano.
Non ha fatto tutto giusto, ma ha ammesso gli errori, anche quelli (come lo scandalo Williamson) di
cui non aveva alcuna responsabilità. Di nessun fallimento ha sofferto di più che di quello dei suoi
preti, anche se da prefetto aveva già avviato tutte le misure che consentivano di scoprire i terribili
abusi e punire i colpevoli.
Benedetto XVI se ne va, ma la sua eredità resta. Il successore di questo umilissimo Papa dell'era
moderna seguirà le sue orme. Sarà uno con un altro carisma, un proprio stile, ma con la stessa
missione: non incentivare le forze centrifughe, ma coloro che tengono insieme il patrimonio della
fede, che restano coraggiosi, annunciano un messaggio e fanno una testimonianza autentica. Non è
un caso che il Papa uscente abbia scelto il Mercoledì delle Ceneri per la sua ultima grande liturgia.
Vedete, vuole dimostrare, era qui che vi volevo portare fin dall'inizio, questa è la via.
Disintossicatevi, rasserenatevi, liberatevi dalla zavorra, non fatevi divorare dallo spirito del tempo,
non perdete tempo, desecolarizzatevi! Dimagrire per aumentare di peso è il programma della Chiesa
del futuro. Privarsi del grasso per guadagnare vitalità, freschezza spirituale, non da ultimo
ispirazione e fascino. E bellezza, attrattiva, in fondo anche forza, per far fronte a un compito
diventato tanto difficile. «Convertitevi», così disse con le parole della Bibbia quando segnò la fronte
di cardinali e abati con la cenere, «e credete al Vangelo».
«Lei è la fine del vecchio — chiesi al Papa nel nostro ultimo incontro — o l'inizio del nuovo?». La
sua risposta fu: «Entrambi».
(Traduzione di Franca Elegante)